Cosa sta succedendo nelle carceri? di Associazione Yairaiha Onlus osservatoriorepressione.info, 30 giugno 2019 Le rivolte nelle carceri di tutta Italia delle ultime settimane, da Poggioreale a Voghera, da Palermo a Rieti, da Agrigento a L’Aquila a Velletri, rappresentano la cartina di tornasole di un sistema malato che è giunto a un punto di non ritorno. Quasi 61.000 persone ammassate in meno di 50.000 posti regolamentari e la chiusura di qualsiasi prospettiva alternativa al carcere, sono dati allarmanti e destinati a crescere. In realtà questi dati non rispecchiano un aumento dei reati, nettamente in calo negli ultimi 10 anni, ma scelte politiche precise da un lato mentre, dall’altro, denunciano la farraginosità della macchina giudiziaria e il carattere classista dell’istituzione carceraria. Le leggi varate negli ultimi 30 anni in materia di stupefacenti, contraffazione di marchi e immigrazione, hanno determinato la criminalizzazione di marginalità sociali che, scientemente, sono stati oggetto alternativamente di campagne mediatiche mostrificatorie, determinando paura e allarme nella società. I 3/4 della popolazione attualmente detenuta è costituita da assuntori e “spacciatori” di sostanze stupefacenti, autoctoni e migranti, provenienti prevalentemente dai quartieri periferici delle città e dai ceti sociali medio-bassi, ladruncoli e scippatori, parcheggiatori e ambulanti “abusivi”, malati psichici, prostitute. Un’operazione chirurgica che ha selezionato i destinatari, tenendo le sirene allarmistiche, e di conseguenza anche la criminalizzazione e la repressione, ben lontane dai trasgressori appartenenti alle classi più agiate. Per intenderci: il cocainomane col suv viene percepito differentemente dall’assuntore con l’utilitaria, così come l’espediente di sopravvivenza è reato, mentre la finanza criminale è “creativa”. A differente condizione economica corrisponde una differente percezione sociale ed anche la pretesa punitiva nei confronti dei soggetti più agiati viene mitigata a partire dalla tutela della privacy. Difficilmente troveremo su Mario Rossi i titoloni di giornale riservati a Ciro Esposito, e difficilmente troveremo Mario Rossi tra i 61.000 destinatari delle patrie galere. Ci chiediamo anche cosa succederà con il regionalismo differenziato se verrà approvato. Se già oggi non si può negare l’esistenza di una correlazione tra questione meridionale e politiche penitenziarie (basti pensare “all’area 416bis” e alle percentuali di meridionali tra la composizione della popolazione detenuta pari ad oltre il 70% dei detenuti italiani, mente è il 100% delle sezioni di Alta sicurezza), con il regionalismo differenziato la gestione del Sud sarà demandata verosimilmente alla sola amministrazione penitenziaria. L’estensione continua del concetto di “condotta penalmente rilevante” mira (da sempre) a criminalizzare e reprimere un corpo sociale ben determinato che, in parte, non riesce ad avere i mezzi per soddisfare i bisogni primari per cui è costretto a ricorrere ad espedienti per sopravvivere mentre, un’altra parte, “approfitta” delle abitudini di quella larga, e trasversale, parte di società che fa regolarmente uso di sostanze stupefacenti. Un corpo sociale vittima, prima ancora che reo, della condizione di marginalità cui l’attuale sistema politico ed economico lo ha relegato, delegando al carcere il contenimento di questa “eccedenza” che mal si incastra nell’Italia bellissima favoleggiata dagli abili mercanti, di ieri e di oggi, improvvisatisi statisti, che hanno trasformato lo Stato in azienda prima e bancarella poi. Uno Stato ridotto a vetrina, ormai decadente, di un corpo politico e di una società che il senso dello stato, dell’equità, dell’umanità e della giustizia sociale ha smarrito. E nelle galere stanno esplodendo tutte le contraddizioni socio-politiche che all’interno della società fanno fatica a trovare il minimo comune multiplo. Esplodono su restrizioni e privazioni che narrano tutta l’ipocrisia dei Rossi “clienti, compari e complici” degli Esposito. In altri tempi si sarebbe scritto a fiumi su questa “soggettività di classe” in rivolta nelle carceri, si sarebbe analizzata la composizione variegata e meticcia rivendicante la propria alterità rispetto al potere costituito. Eppure le parole d’ordine non sono cambiate: Sante Notarnicola ci ricorda che se oggi nelle carceri c’è il fornellino nelle celle, e ci fu la riforma Gozzini, il merito va riconosciuto alle lotte che tra gli anni 70 e 80 attraversarono le carceri di tutta Italia. In quegli anni la composizione era variegata più che meticcia e l’incontro in carcere tra i prigionieri comuni e quelli politici determinò una presa di coscienza della condizione soggettiva anche tra i detenuti comuni, ed innescò una serie di rivendicazioni che, dal momento che non si riusciva a abbattere il carcere, individuato quale pilastro fondamentale del sistema capitalista, migliorassero le condizioni di vivibilità all’interno dello stesso. Negli ultimi venti anni c’è stata una torsione autoritaria, dentro e fuori le carceri, inversamente proporzionale allo smantellamento del welfare. Gli esempi richiamati in apertura rappresentano gli obbrobri giuridici macroscopici di un legiferare ossessivo-compulsivo teso a mantenere in attivo la fabbrica penale. Punire e incarcerare coloro i quali sono stati resi poveri, esclusi, emarginati assolve a molteplici funzioni: tenere in piedi il sistema penale e carcerario, offrire alla società capri espiatori utili a sedare le insicurezze sociali e nascondere dalla vista dei moderni signorotti i pezzenti, i reietti. E, infine, il capolavoro: offrire manodopera a costo basso o nullo alle imprese e alle multinazionali. Le ultime riforme in materia di lavoro penitenziario e ammortizzatori sociali hanno cancellato buona parte dei diritti del detenuto/lavoratore. Nel 2018 sono state adeguate le c.d. “mercedi”, ferme dal 1994 ma, se da un lato hanno adeguato i salari, dall’altro hanno innalzato le spese di mantenimento e ridotto le ore contrattualizzate retribuite. Prendiamo ad esempio i c.d. “piantoni” (ma questo, in diversa misura, vale anche per le altre mansioni di lavoro intramurario), cioè i detenuti che prestano assistenza ai detenuti disabili, hanno un contratto di 1 ora al giorno ma assistono il disabile/concellino, altre 23 h su 24 a titolo di umanità gratuita. Per quanto concerne gli accordi dell’amministrazione penitenziaria con società ed imprese esterne, l’ultimo esempio, in ordine temporale, è dato dal “Programma 2121”, su cui l’azienda Plus Value, partner del Progetto Mind - Milano Innovation District per la riqualificazione dell’area dell’Expo 2015 assieme al Ministero di Giustizia a alla multinazionale di sviluppo immobiliare Lendlease, che ha avviato la valutazione dell’impatto socio-economico e delle ricadute che il programma avrà. Il progetto prevede l’impiego di manodopera detenuta e i detenuti avranno sì un contratto, ma la retribuzione andrà all’amministrazione penitenziaria ad “estinzione del debito” che il detenuto ha nei confronti dello Stato. Attraverso l’inserimento del meccanismo premiale in vece della retribuzione nel rapporto di lavoro si (re)introduce la pratica del lavoro forzato. Si è gradualmente tornati quindi, alla funzione che le carceri ebbero nel periodo pre e post rivoluzione industriale: contenere, disciplinare e sfruttare le marginalità che lo sviluppo della società capitalistica aveva prodotto. Ieri erano i contadini che in massa abbandonavano le campagne col miraggio della fabbrica che, esattamente come le bestie da soma, venivano selezionati mentre i più deboli venivano scartati. E gli scarti vennero marginalizzati prima e criminalizzati poi. Esattamente come è avvenuto con i meridionali dall’Unità d’Italia in poi e come avviene oggi con i migranti. I detenuti che oggi si stanno ribellando contro l’istituzione carceraria sono quelle stesse eccedenze al sistema e alla società capitalistiche che rivendicano prepotentemente spazi vitali e diritti: salute, acqua, vitto congruo, affetti. E accanto alle rivendicazioni ci chiedono il senso di questo carcere, a cosa serve? A chi? Certamente non a loro che, nella migliore delle ipotesi, usciranno come sono entrati o, nella peggiore e più probabile, saranno incattiviti da anni di segregazione fine a se stessa ma molto utile all’industria penale. Riforma della giustizia. Per giudici e pm si può rispolverare il ddl Leone-Pera di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 30 giugno 2019 Nel marasma del cortocircuito giustizia-politica, la riforma della giustizia sembra un passaggio ineludibile, nonostante i tanti tentativi falliti. Impresa ai limiti dell’impossibile in questo Parlamento, anche se un gruppo di volenterosi sta portando avanti una legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere. Ma quando ci saranno le condizioni politiche per un’organica riforma della giustizia, il legislatore potrebbe riprendere un ddl del 1998 con primi firmatari Leone, ex presidente della Repubblica, e Pera. Un ddl molto scarno che punta al cuore del problema ricordando che la Costituzione prevede una differenza di status fra giudici e pm: mentre i giudici sono soggetti solo alla legge e godono direttamente delle garanzie di inamovibilità e di distinzione solo per funzioni, il pm gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Fu questa la soluzione a cui giunse l’Assemblea costituente dopo un confronto anche aspro tra chi (lo stesso Leone) sosteneva la tesi dell’appartenenza del pm “al potere esclusivo” e chi invece voleva l’inclusione del pm nel potere giudiziario, con tutte le garanzie previste per i giudici. La tesi che prevalse fu quella di attribuire al pm uno status tale da non pregiudicarne la posizione di parte pubblica nel processo di rito accusatorio, che sarebbe arrivato solo 40 anni dopo con la riforma Vassalli ma che era già presente nel dibattito di allora. La Carta, quindi, marcò nettamente la distinzione tra le figure di giudice e pm, ma vennero entrambe inquadrate all’interno della magistratura ordinaria per garantirne l’indipendenza, restando così preclusa ogni possibilità di sottoporre tanto la magistratura ordinaria nel complesso, quanto i singoli uffici del pm al controllo del potere esecutivo. Quando, nel 1989, si passò dal sistema inquisitorio al rito accusatorio, furono eliminati i casi di cumulo di funzioni giudicanti e requirenti in capo alla stessa persona e fu ridisegnato il ruolo processuale dei giudici e dei pm, separandoli in modo netto. Nel rito accusatorio, la posizione istituzionale del giudice “super partes” è infatti lontana anni luce da quella del pm, che pure dovrebbe essere imparziale prima dell’avvio delle indagini in forza dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma nel processo diventa necessariamente “parte”, in quanto portatore dell’interesse punitivo dello Stato. Il ddl Leone-Pera proponeva di separare nettamente il ruolo del pm da quello del giudice, anche per rispettare il principio della parità delle parti nel processo e quello della pienezza del diritto di difesa, che sono le premesse fondamentali per il “giusto processo” previsto dalla Costituzione. “Parità” deve significare equidistanza: “L’accusa, che è parte, è pari alla difesa, che è l’altra parte, se e solo se l’una e l’altra parte sono ugualmente distanti dal giudice, che è terzo e sopra le parti”. E non c’è dubbio che questa equidistanza venga turbata dall’appartenenza dei giudici e dei pubblici ministeri allo stesso ruolo e alla stessa carriera. Il problema non è l’imparzialità del giudice, ma la sua effettiva terzietà, che riguarda il ruolo istituzionale ricoperto. Quindi, un giudice che appartiene allo stesso ruolo del pm può essere certo imparziale, ma non potrà mai essere terzo. Per garantire il diritto pieno alla difesa, dopo un quarto di secolo che ha visto l’affermarsi della gogna mediatico-giudiziaria, la separazione delle carriere è davvero l’ultima spiaggia della giustizia. Minori, giustizia da riformare di Luciano Moia Avvenire, 30 giugno 2019 Il caso di Reggio Emilia mette in luce le carenze di un sistema che deve tornare a essere “dignitoso”. La prima urgenza è sapere quanti sono i bambini allontanati da casa, ma un registro non esiste. Dopo il caso Reggio Emilia l’obiettivo, condiviso da tutti gli esperti, è chiaro: restituire dignità alla giustizia per i bambini. E, per essere dignitosa, la giustizia dev’essere tempestiva. Se arriva in ritardo - come troppo spesso avviene oggi - non è più tale, proprio perché, per un bambino sottratto ai genitori, ogni giorno in più può essere determinante. Si può rimediare? Sì, le proposte non mancano. Ma sulle modalità per attuarle il dibattito è aperto. Mentre vanno definendosi i particolari dell’inchiesta che per il momento ha portato a 6 arresti e 17 indagati tra psicoterapeuti, assistenti sociali e amministratori pubblici, vanno anche emergendo i tanti collegamenti con quanto accaduto oltre vent’anni fa a Finale Emilia e ci si chiede come sia possibile il ripetersi nello stesso luogo e con molti degli stessi protagonisti negativi di allora, vergognosi episodi in fotocopia. Ma quanto capitato in Emilia, non bisogna dimenticarlo, succede anche in tante altre parti d’Italia, con casi di allontanamento coatto di bambini e ragazzi dai contorni spesso problematici. E questi allontanamenti - che spesso diventano incursioni delle forze dell’ordine con scene drammatiche di disperazione e di panico - presentano spesso motivazioni tutt’altro che trasparenti. Ma quanti sono in Italia i bambini allontanati da casa per disposizione dei magistrati minorili? Non lo sappiamo, visto che non esiste un registro nazionale. Di conseguenza non sappiamo neppure quanti sono quelli che rientrano in famiglia. Sui numeri del resto la confusione è totale. Sappiamo che complessivamente nel nostro Paese vivono fuori dalle famiglie d’origine circa 35mila minori, di cui 2lmila nelle varie comunità e 14mila in affido familiare. Ma il conteggio è solo una stima che tiene conto dei dati che arrivano da tre diversi enti (procure minorili, Garante per l’infanzia, ministero del Lavoro e delle politiche sociali). E sono dati diversi. Rosanna Fanelli, avvocato, portavoce dell’associazione 15 maggio e del gruppo nascente “Toghe pulite per i bambini” che raggruppa anche decine di genitori separati vittime dell’alienazione parentale, ha le idee chiare: “La giustizia minorile non funziona perché il ruolo del magistrato viene “esternalizzato” a figure estranee e al processo, cioè ai consulenti, agli psicologi, agli altri esperti”. La maggior parte dei terapeuti per i bambini è naturalmente affidabile e collaudata, ma come si fa a saperlo? “Impossibile - riprende Fanelli - visto che non esiste un albo dei consulenti peri bambini. Così spesso vengono nominati esperti che hanno competenze come criminologi o psichiatri sociali. Ma questo è assurdo. Per valutare le conseguenze di un incidente stradale si chiama un traumatologo, non un oculista”. Poi esiste il problema dei conflitti di interesse. Secondo il diritto minorile, il giudizio su un caso viene emesso da una camera di consiglio composta da un presidente e da un giudice relatore (togati) oltre a due giudici onorari con altre competenze (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri). Ora, è vero che c’è una disposizione del Csm che vieta a un giudice onorario incarichi, anche a titolo gratuito, all’interno di strutture d’accoglienza e comunità educative. Ma capita talvolta - ed è capitato - che un giudice onorario svolga poi, in un altro caso, anche funzioni di “ctu” (consulenza tecnica d’ufficio). La “ctu” è la perizia che il giudice (togato) ordina, per esempio, allo scopo di valutare l’equilibrio psicologico di un minore o di un genitore. “Ma questo - riprende l’esperta - è inaccettabile. Giudice onorario e “ctu” dovrebbero soggiacere alle stesse condizioni di incompatibilità e mantenere una posizione di terzietà”. Non solo, proprio per garantire la massima trasparenza delle funzioni, i terapeuti incaricati di effettuare una consulenza su un minore, dovrebbero essere obbligati da una legge specifica a disporre di un’assicurazione professionale. “Questo perché - conclude Fanelli - l’assicurazione offre alle famiglie una tutela sul piano risarcitorio e garantisce una sorta di “selezione naturale”. Dopo due o tre perizie contestate con relativo risarcimento versato, quel terapeuta non troverà più alcuna assicurazione disponibile a coprire il danno”. Patrizia Micai, avvocato, da vent’anni impegnata sul fronte della tutela dei minori - ha assistito proprio le famiglie coinvolte nel caso dei presunti pedofili della Bassa Modenese - sottolinea l’opportunità di rivedere gli interventi degli assistenti sociali. In particolare si concentra sulle modalità in cui vengono realizzate le relazioni che dovranno poi essere utilizzate dai tribunali per avviare il procedimento giudiziario. “L’interrogatorio dei minori - spiega - dovrebbe essere videoregistrato per garantire la massima trasparenza. Purtroppo non esistono disposizioni precise su come dev’ essere realizzata una relazione, a parte la Carta di Noto, che comunque non è ritenuto vincolante”. Altra grave lacuna è la mancanza del diritto al contraddittorio paritetico. “Per i minori non esiste il diritto alla difesa, peraltro sancito dall’articolo 111 della Costituzione - osserva ancora Micai - eppure per questa violazione continua l’Italia è stata più volte condannata dagli organismi europei. Un buco normativo che, anche alla luce dell’inchiesta di questi giorni, non è più tollerabile”. Così, le battaglie legali che si accendono dopo l’allontanamento di un minore dalla sua famiglia si presentano subito impari, perché di fronte alla relazione di un assistente sociale - che è considerato “pubblico ufficiale” - i genitori partono con un handicap pressoché incolmabile. Ma le legge tace su tanti altri punti. Come devono essere nominati i periti? Con quali criteri sceglie il giudice? La nomina è fiduciaria, quindi ognuno si organizza come meglio crede e questo lascia sempre un margine di dubbio. Ecco perché anche qui serve una modifica normativa, con elenchi convalidati e una commissione, argomenta l’esperta, che va ad accertare preparazione e curricula. Altro capitolo spinoso quello dei costi. Secondo Micai sarebbe anche necessario uniformare ciò che le amministrazioni pubbliche spendono per l’ospitalità dei minori nelle comunità, cifra che oggi varia da regione a regione. Con quali criteri si può puntare il dito contro il presunto “business dei minori” oppure, al contrario, affermare che le comunità sopravvivono appena, se non esistono dati condivisi a livello nazionale? Tutto complesso ma drammaticamente urgente. Ma se non si interviene, domani potremmo inutilmente stupirci e indignarci per un nuovo caso Reggio Emilia. Lombardia: il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari è ancora bloccato stopopg.it, 30 giugno 2019 Chiudere l’ex Opg di Castiglione delle Stiviere, potenziare nel territorio i servizi per la salute mentale di comunità. Come annunciato al termine della Conferenza nazionale per la Salute Mentale, l’Osservatorio nazionale Stop Opg” il 1 luglio 2019 sarà in visita, con la “Campagna Salute Mentale”, all’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, rimasto aperto con quasi 160 persone ancora internate in 8 Rems, tutte concentrate negli spazi del vecchio manicomio giudiziario. La sopravvivenza dell’ex Opg è una scelta della Regione Lombardia, che contraddice clamorosamente la Riforma per il superamento dei manicomi giudiziari e la stessa riforma Basaglia. La visita dell’Osservatorio, dunque, è stata organizzata - oltre che come occasione per un incontro e un dialogo con le persone internate e gli operatori della struttura - per rilanciare la vertenza per il superamento definitivo degli Opg, avviando subito un percorso per la chiusura in tempi certi della mega struttura di Castiglione, ovviamente salvaguardando i livelli occupazionali e i diritti dei lavoratori, che sappiamo essere impegnati a garantire il servizio anche in condizioni difficili. Come è accaduto in altre Regioni, anche in Lombardia va costruita l’alternativa, rispettando la legge 81/2014 che ha previsto non solo la chiusura degli Opg ma la costruzione di un modello di salute mentale di comunità: con l’adozione di misure di sicurezza in prevalenza non detentive nei confronti dei “folli rei”, con l’attuazione di Progetti Terapeutico Riabilitativi Individuali nella rete dei servizi di salute mentale del territorio, con l’eventuale apertura di poche Rems (la Lombardia prevede il 50% dei posti per abitante in più rispetto alla media nazionale) comunque diffuse nel territorio, parte integrante dei Servizi di salute mentale e sempre da considerarsi come extrema ratio. Per questo, dopo la visita del 1 luglio a Castiglione, ci sarà a settembre un secondo appuntamento a Milano per discutere come innovare il vecchio modello lombardo verso un sistema di salute mentale fondato sull’inclusione sociale e il rispetto dei diritti di ogni persona, nel segno della Campagna Salute Mentale Lombardia. Toscana: il Garante dei detenuti “entro ottobre le nuove cucine a Sollicciano e Livorno” gonews.it, 30 giugno 2019 Le prime aperture e le prese di posizione a sostegno danno forza all’iniziativa di protesta del garante toscano dei detenuti. Franco Corleone riprenderà il digiuno la prossima settimana, da martedì 2 a giovedì 4 luglio, metterà di nuovo in pratica l’iniziativa con la quale intende ottenere risultati tangibili per migliorare le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri toscane. Sollicciano, Livorno, la sezione femminile dell’istituto di Pisa, il teatro nel carcere di Volterra, queste alcune delle questioni più urgenti sul tavolo. “Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone, assicura che l’attivazione della seconda cucina a Sollicciano sarà fatta entro il mese di ottobre, finalmente una risposta che ha il sapore della credibilità”, commenta Corleone “Mi preoccupa che ancora non sia stata contrattualizzata la fornitura di gas per l’alimentazione - osserva -. Insisto nel chiedere il giorno dell’inaugurazione della cucina, con un pranzo o una cena aperto a detenuti e società civile”. Per quanto riguarda la cucina nel padiglione alta sicurezza di Livorno, “viene assicurata l’attivazione entro il mese di ottobre. Anche in questo caso penso sia doveroso fissare il giorno preciso della festa”, fa sapere ancora il garante regionale. “I lavori nella sezione femminile del carcere di Pisa per l’adeguamento a standard di civiltà e dignità dei servizi igienici, dovrebbe essere ultimata per la seconda metà di luglio. In questo caso suggerisco la data del rientro delle donne trasferite a Firenze, Perugia e altre carceri d’Italia per il 20 settembre 2019. Per quanto riguarda la destinazione del Gozzini a istituto femminile, ancora silenzio”. Resta aperta la questione del teatro di Volterra: “Vi sono importanti novità: la vicepresidente regionale e assessore alla cultura, Monica Barni, e l’assessore alla cultura del Comune di Volterra, Dario Danti, hanno avuto significativi colloqui con la Sovrintendenza ai beni architettonici di Pisa, e la valutazione che emerge è di una disponibilità a favorire una soluzione, individuando caratteristiche che non impattino sulla Fortezza. Mi auguro che questa disponibilità venga tradotta rapidamente in un progetto, per evitare la perdita del finanziamento”. Il garante ha ricevuto la comunicazione che l’assessore Danti visiterà il carcere di Volterra martedì 9 luglio e incontrerà il Sovrintendente di Pisa, Andrea Muzzi, venerdì 12 luglio. Dopo i primi passi incoraggianti e di fronte a tutte le mancanze ancora da superare, spiega Corleone, “il 2, 3, 4 luglio replicherò il digiuno, richiedendo anche informazioni puntuali sull’apertura della sezione trattamentale a Lucca e impegni definitivi per il funzionamento del Polo Universitario a Prato, Pisa e San Gimignano”. Napoli: Poggioreale, un altro suicidio in cella di Viviana Lanza Il Mattino, 30 giugno 2019 Un detenuto di trentotto anni si e tolto la vita nel padiglione “Napoli”: i detenuti tentano la rivolta, subito sedata. Morire di carcere, è accaduto ancora. Mezz’ora dopo le tre della notte, tra venerdì e ieri, nel padiglione Napoli. Un detenuto, Ciro M., originario del borgo Sant’Antonio Abate, è stato ritrovato senza vita all’interno della sua cella. Impiccato. Alla notizia della morte c’è stato un principio di rivolta tra i detenuti del padiglione, presto rientrata. Il “Napoli” è uno dei reparti più storici del carcere di Poggioreale, è una sezione in cui vengono dirottati i recidivi, quindi quei detenuti che sono già stati in cella in passato, e gli immigrati finiti in carcere per la prima volta. La scorsa notte in quel padiglione si è registrato un suicidio, ancora uno come sottolineano avvocati e operatori del settore che tornano a chiedere l’intervento delle istituzioni. Ciro aveva 38 anni e il carcere lo aveva già conosciuto. Divideva la cella con il cognato. Questo, all’apparenza, avrebbe dovuto ridurre il senso di solitudine ma chi può dirlo. Ciro si è impiccato di notte. E per lui non c’è stata possibilità di soccorso. Quando lo hanno scoperto era già troppo tardi. Gli agenti della penitenziaria hanno allertato i soccorsi ma non c’è stato nulla da fare se non registrare il nuovo caso di suicidio che va ad allungare l’elenco di decessi all’interno di un carcere che “dovrebbe essere abbattuto per farne un museo del crimine, come è stato per Alcatraz” come auspica Pietro Ioia, presidente dell’associazione ex Detenuti organizzati napoletani. Il padiglione Napoli è tra i più vecchi della già antica struttura. È una di quelle sezioni che andrebbero ristrutturate come si è pensato di fare per il padiglione Salerno, la sezione in cui, alcuni giorni fa è scoppiata una rivolta ad opera di 220 detenuti per il mancato ricovero di un 26enne di Melito che aveva la febbre alta da giorni. A breve inizieranno lavori di ristrutturazione in quell’ala del carcere ma la protesta delle scorse settimane riporta alla ribalta la questione sovraffollamento, un’emergenza per la quale il 9 luglio prossimo ci sarà astensione degli avvocati proclamata dall’Unione Camere penali e che è al centro di iniziative della Camera penale di Napoli guidata dall’avvocato Ermanno Carnevale e dell’associazione “Il carcere possibile Onlus” che ha scritto a Sergio Mattarella. “Dal 2018 a oggi sono stati 87 i suicidi e più di mille sono stati sventati dall’intervento degli agenti - spiega il presidente della Onlus, l’avvocato Anna Maria Ziccardi - Il sovraffollamento è tornato a livelli vicini a quelli antecedenti la nota sentenza di condanna per trattamenti inumani subita dal nostro Paese, che invoca il rispetto della legge ma deroga a principi a presidio dei diritti di ogni persona”. Tre suicidi solo nelle ultime settimane, 23 dall’inizio dell’anno, e dal 2010 sei casi nel Padiglione Napoli. “Non si può morire di carcere” dice il Garante campano per i detenuti Samuele Ciambriello evidenziando come i suicidi siano sempre più diffusi al di sotto dei 40 anni. Genova: lavori di pubblica utilità per i detenuti, domani arriva il ministro Bonafede genovatoday.it, 30 giugno 2019 Si chiama “Mi riscatto per Genova” il progetto che nasce da un accordo tra il ministero della Giustizia e il Comune di Genova insieme ad altre istituzioni e per cui lunedì 1 luglio, a Genova, arriverà il ministro Alfonso Buonafede. I detenuti nelle carceri genovesi di Marassi e Pontedecimo potranno essere impegnati in lavori di pubblica utilità nei quartieri cittadini, dalla pulizia dei parchi alla sistemazione dei rivi e torrenti per arginare il rischio di esondazioni. Questa novità rientra nello schema di accordo quadro approvato a maggio dalla giunta comunale di Genova e che coinvolge appunto il ministero della Giustizia, il tribunale di sorveglianza di Genova, la Cassa delle ammende e Autostrade per l’Italia e che regolamenterà il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Altre città, prima di Genova, hanno già sperimentato un progetto di questo tipo: Milano, Napoli, Roma, Torino, Pescara e Palermo. Duplice l’obbiettivo: da un lato l’inclusione sociale dall’altro il passaggio alla comunità di legalità e rispetto di norme e regole. Sarà l’unità organizzativa Valorizzazione del volontariato - area servizi alla comunità del Comune la struttura di riferimento per la realizzazione dei progetti. Il progetto, fondato sull’attività di “lavoro volontario e gratuito” per persone in stato di detenzione che possono usufruire dei benefici previsti dalla normativa in materia, non comporterà alcun onere a carico del bilancio comunale. L’Aquila: carcere di Preturo, il Garante visita la sezione femminile Il Centro, 30 giugno 2019 A seguito di una segnalazione da parte di detenute che si trovano in sciopero della fame, il Garante nazionale ha visitato la sezione femminile di alta sicurezza 2 della Casa circondariale di Preturo. La sezione ospita in tutto quattro donne, tre delle quali sono imputate per reati di matrice anarchico insurrezionalista e stanno attuando lo sciopero della fame. La delegazione del Garante nazionale, guidata dal presidente, Mauro Palma, ha avuto modo di parlare con le quattro donne, di consultare la relativa documentazione e di verificare le modalità con cui la protesta viene seguita dall’amministrazione del carcere. Nei prossimi giorni il Garante nazionale invierà un breve rapporto, “contenente le proprie valutazioni unitamente ad eventuali raccomandazioni, all’Amministrazione penitenziaria - si legge in una nota. La sezione femminile di AS2 si trova all’esterno dell’Istituto dell’Aquila, dove ci sono detenute in regime speciale ex articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, l’unico reparto per donne con questo trattamento. Nei giorni scorsi ci sono state manifestazioni di protesta all’Aquila da parte di gruppi anarchici contro il 41 bis e per solidarizzare con le tre detenute. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): produzioni agricole in carcere, nasce una filiera nuovairpinia.it, 30 giugno 2019 Inaugurata all’interno del penitenziario la “Cantina dei Sapori”. Avviata la produzione di erbe officinali e di confetture ricavate dai frutti raccolti all’interno del perimetro detentivo. Saranno commercializzate con l’etichetta “Dolcezze normanne” nel circuito penitenziario italiano. Nel circuito anche origano, salvia, menta e rosmarino con l’etichetta “Erbe libere”. La Direttrice Giulia Magliulo: progetto in continuità con il mio predecessore che offre una opportunità di rieducazione e reinserimento del detenuto. Produzioni agricole in carcere organizzate in una vera e propria filiera a Sant’Angelo dei Lombardi, dove i detenuti impiegati in una filiera dal vino alle erbe officinali, alle marmellate. “Nuove opportunità formative nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, dove, su input della Direttrice, Giulia Magliulo, sono state introdotte nuove lavorazioni nel tenimento agricolo”, si annuncia dal penitenziario altirpino. “È stata avviata la produzione di erbe officinali e di confetture ricavate dai frutti raccolti all’interno del perimetro detentivo”. In particolare, “le marmellate, commercializzate con l’etichetta ‘Dolcezze normannè, in ossequio alla storia antica del territorio irpino, sono destinate al circuito penitenziario italiano”. E lo stesso “avverrà con la produzione di origano, salvia, menta e rosmarino, a cui è stato assegnata l’etichetta “Erbe libere”, e ad altre erbe, come la lavanda, che invece, raccolte in appositi sacchetti, anche questi realizzati sempre tra le mura del carcere, serviranno come profumatori”. Emblematico in questo caso, anche il nome scelto per questo prodotto: “Profumi di Libertà”, si fa notare. Il progetto delle produzioni agricole in carcere punta evidentemente a garantire un percorso rieducativo e correzionale ai detenuti, finalizzato all’avviamento al lavoro. Si offre alla popolazione carceraria l’opportunità di migliorare le condizioni in cui sconta una pena, garantendo l’acquisizione di un mestiere per quanto queste persone riacquisteranno la libertà. Il progetto prosegue l’intuizione del precedente direttore, scomparso prematuramente. La direttrice Magliulo spiega le circostanze in cui è maturato questo programma: “Fin dal mio arrivo a Sant’Angelo ho ritenuto di inserirmi nel solco progettuale già tracciato da chi mi ha preceduto alla guida della Casa di reclusione, cercando di dare nuovo impulso alle già note produzioni di vino e miele, che danno prestigio all’Istituto”. L’iniziativa è stata presentata nel corso di un incontro con il personale del carcere santangiolese, che ha accolto il progetto con larga soddisfazione, fa sapere la Direzione carceraria. Si è trattato di un incontro “servito ad inaugurare anche la “Cantina dei Sapori”, una sala di esposizione e degustazione dei tanti prodotti creati e commercializzati nella Casa di reclusione santangiolese”. È “la sede immaginata per prima dal compianto direttore Massimiliano Forgione, la cui realizzazione fu bruscamente interrotta dalla morte del dirigente”, ha ricordato Giovanni Salvati, commissario coordinatore con funzioni di comandante, che assieme alla Direttrice Magliulo ha tagliato il nastro. A queste nuove produzioni del tenimento agricolo sovrintenderà l’assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, Donato Festa, che nel corso della presentazione ha fatto da guida agli ospiti presenti. “Insomma, il carcere altirpino si distingue sempre più nel panorama penitenziario italiano come un luogo dove i detenuti possono lavorare e imparare un mestiere che potranno spendere quando avranno saldato il loro debito con la società”. Era questa la filosofia gestionale del Direttore Forgione e questa è anche l’impronta che Giulia Magliulo ha voluto dare alla sua direzione. Massa Marittima (Gr): “Al di là delle sbarre”, nasce l’orto dei detenuti farodiroma.it, 30 giugno 2019 La trasmissione “A Sua Immagine” di Rai Uno dedica questa mattina un servizio alla parrocchia Cristo Re di Valpiana, in Maremma. che si è aggiudicata uno dei premi del concorso Tuttixtutti con un progetto che si propone di potenziare la struttura dell’orto parrocchiale mediante la costruzione di due serre, l’acquisto di un motocoltivatore e il rinnovo degli attrezzi. “Al di là delle sbarre”, si rivolge ai detenuti del carcere di Massa Marittima, inseriti in un programma di collaborazione con la parrocchia, e alla Mensa della Caritas che usufruisce di una parte della produzione. La collaborazione con il carcere è stata avviata da alcuni anni e i detenuti, principalmente impegnati nella coltivazione dell’orto, partecipano anche ad alcune attività parrocchiali nella logica dell’inclusione sociale. In virtù degli ottimi risultati ottenuti la parrocchia ha deciso di ampliare il terreno coltivabile, chiedendo in comodato d’uso gratuito un nuovo spazio. “Siamo rimasti colpiti dalla fantasia e dallo spirito d’iniziativa delle parrocchie che hanno aderito al bando nazionale presentando progetti di utilità sociale validi e molto interessanti a sostegno delle più diverse situazioni di disagio e fatica emergenti dal territorio in cui si trovano”, afferma Matteo Calabresi, responsabile del Servizio Promozione Sostegno Economico della Chiesa cattolica, sottolineando come “anche quest’anno potremo dare una mano alle parrocchie vincitrici contribuendo alla realizzazione delle iniziative proposte, come nel caso del progetto presentato dalla Parrocchia Santi Pietro e Paolo di Catania, vincitrice del primo premio dell’edizione 2018, che intende realizzare una casa d’accoglienza per nuclei familiari in difficoltà o, tra le altre proposte, contribuendo all’avviamento del Multiservice solidale per offrire strumenti professionali nella forma del prestito d’uso, pensato dalla Parrocchia Sacro Cuore in Soria di Pesaro che si è aggiudicata il 2° premio, e all’articolato progetto di accoglienza, 3° classificato, ideato dalla parrocchia Santa Maria della Fiducia di Roma, rivolto a persone senza fissa dimora e a famiglie in stato di disagio che, grazie al sostegno della comunità parrocchiale, potranno sentirsi finalmente a casa”. Vercelli: gli “ospiti” di Billiemme fanno la colletta per i detenuti in Africa vercellioggi.it, 30 giugno 2019 Valeria Climaco, la Comunità di S. Egidio e “Il Folle Pretesto” organizzano un incontro memorabile. Ci sono parole a tal punto seducenti, non solo convincenti, che cadono come uno spartiacque. Un po’ come capitò a quel giovane ricco, tutto contento di riuscire finalmente a parlare con il Messia:” Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”. 21 Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, vai, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze”. (Matteo, 16, 20 - 22). Fulminato da un avverbio. Poi. Prima vendi tutto e dallo ai poveri, e dopo vieni e seguimi. Difficile anche battere il mea culpa sul petto degli altri. Così, anche la Comunità di Sant’Egidio si è sforzata di coniare un’espressione che si ponesse come segno di contraddizione. Eccola: nessuno è così povero, da non poter aiutare un altro ancora più povero. E qui vanno decisamente sul pesante, perché ci tolgono anche l’alibi della crisi, dei tempi difficili, e di tutte le cose vere e sacrosante, ma che non sono abbastanza per farci dire: sono forse io il custode di mio fratello? Espediente retorico messo lì per ricordarci che, quando vi si ricorre, è come se vi fosse, da qualche parte, un fratello che fosse già stato ucciso. Dunque oggi, in questa festa dei Santi Pietro e Paolo, che di prigione ne sapevano qualcosa, alla Casa Circondariale di Vercelli, è l’occasione per conoscere un altro tassello del mosaico di barbarie di cui siamo ( noi uomini ) capaci. L’iniziativa è della Comunità di Sant’Egidio, con il contributo di quell’infaticabile Centrocampista che è Valeria Climaco, responsabile delle attività educative di Billiemme. Hanno organizzato un momento di festa, con l’esibizione (gratuita) de “Il Folle Pretesto”, la band vercellese “specializzata” nello studio e divulgazione della musica di Freddie Marcury. Ma il concerto è una scusa. Perché il motivo per cui ci siamo trovati è un altro. Si parla della vita nelle carceri in Africa. Che la Comunità di S. Egidio è andata a verificare di persona. Stanzoni dove sono detenute tutte insieme anche settanta persone, giovani, meno giovani, responsabili di vari reati, senza distinzione. Dormono per terra, quando va bene su una stuoia. Mangiano se e quando i familiari portano loro qualcosa, altrimenti tozzi di pane: quando va bene. Acqua, quella che c’è e così una delle iniziative più concrete della Comunità di S.Egidio è quella di portare depuratori o finanziare la realizzazione di pozzi con tanto di autoclave. Ma poi c’è la sorpresa. I detenuti, specie i più giovani e che provengono da famiglie povere, quando hanno scontato tutta le pena, spesso restano dentro. Perché? Perché l’Ordinamento di quei Paesi attribuisce alla parte pecuniaria della condanna (i soldi della “multa”) lo stesso “peso” sanzionatorio di quella detentiva. Così, se è arrivato il “fine pena”, cioè si è scontata tutta la pena, ma non si hanno i 100 - 200 euro (l’equivalente, che là sono tanti soldi) per la multa, si continua a stare dentro per settimane e mesi, finché qualcuno non li trova per te. Perciò, l’iniziativa di oggi: raccogliere qualche spicciolo, tra coloro che sono nella carceri italiane, per “riscattare” ragazzi che continuano a stare in prigione in Africa. Liberiamo i detenuti. Non è vietato aderire anche a chi detenuto non sia, perché nessuno è così povero, da non poter aiutare un altro, ancora più povero di lui. Spoleto (Pg): scacchi dietro le sbarre, i detenuti si preparano ad un torneo internazionale rgunotizie.it, 30 giugno 2019 Passi da gigante per il progetto “scacchi dietro le sbarre”: il torneo tra detenuti della casa circondariale di Maiano di Spoleto - tenutosi lo scorso anno e promosso dal tecnico Coni e istruttore Fide Mirko Trasciatti - dopo essersi spinto Oltreoceano in un match live con detenuti di Chicago, allarga i suoi orizzonti ed organizza un torneo internazionale. Sono 8 i paesi partecipanti - Armenia, Bielorussia, Brasile, Inghilterra, Italia, Spagna, Russia, Usa - che il 5 e il 6 agosto prossimi si collegheranno in diretta streaming per dare lo “start” al torneo. La struttura organizzatrice della due giorni di scacchi risponde al nome di “Cook County Department of Corrections” di Chicago. Il torneo internazionale di scacchi vedrà scontrarsi team composti da quattro partecipanti in giochi di quindici minuti, per un totale di sette round. Ovviamente è stata ideata una piattaforma web, perfezionata e fornita dagli organizzatori dell’evento, attraverso la quale i partecipanti possono giocare in diretta e vedere, in un portale dedicato, classifiche e risultati. Annunciata anche una conferenza Skype in lingua inglese per il sei agosto che avrà come special guest il dodici volte Campione del mondo di scacchi Grandmaster Anatoly Karpov. Lo sceriffo di Cook Country Thomas Dart ha spiegato che al termine del torneo i vincitori riceveranno un certificato di riconoscimento. Importante sarà anche la presenza dei media che seguano lo sviluppo dell’evento e, per questo, lo stesso sceriffo ha invitato le maggiori emittenti contando sul fatto che ogni carcere faccia altrettanto con i media locali. I documenti ed i servizi ottenuti saranno poi condivisi nei Paesi partecipanti. Questo torneo internazionale segna la consacrazione della manifestazione, soprattutto per quanto concerne l’idea che ne sta alla base: mai come in questo caso “scacchi” è sinonimo di aggregazione e uguaglianza, strumento per collegare realtà lontane e diverse, per avvicinare vite accomunate, prima dagli errori, ed ora, oltre che da una passione, da un vero e proprio sport. Locri (Rc): “Ritorno alla legalità”, un progetto destinato ai detenuti di Rosario Vladimir Condarcuri larivieraonline.com, 30 giugno 2019 Incontro per caso Lidia e Valentina che mi raccontano del loro progetto destinato ai detenuti della Casa Circondariale di Locri, intitolato “Ritorno alla legalità”. Rimango sorpreso perché sono belle iniziative che spesso ci sfuggono e non riusciamo a raccontare, mentre sarebbe importante far conoscere alla gente che c’è chi vive con poche ore di aria. Mi invitano per mercoledì al carcere o casa circondariale di Locri (non capirò mai la differenza), per una partita tra detenuti e la squadra “calcio forense Zaleuco”, sul momento accetto senza porre molta attenzione, per cui mi organizzo mercoledì per andare. È la prima volta che entro in un carcere, non ho mai avuto nessun detenuto da andare a trovare. Sembra una cosa scontata ma non lo è, perché ho conosciuto molta gente che è stata in carcere, amici che andavano a trovare i padri o altri parenti. Certo, io sono stato fortunato perché appartengo a quella fascia di società che non paga il prezzo dell’ignoranza, che non paga il prezzo della prevaricazione. In alcuni casi è la miseria, intesa nel senso più ampio del termine, a condurre un uomo dietro le sbarre. Quel che è certo è che il carcere è un posto di sofferenza, necessario da sempre all’uomo per rendere giustizia nella società. Così mi trovo a varcare la soglia. Ci viene chiesto di consegnare telefoni e documenti, una richiesta che ci fa sentire tutti un po’ nudi. Dopo l’identificazione si aprono altre porte: da un lato le prime celle, dall’altro la cappella e la sala teatro, ancora un corridoio, altre celle e a sinistra la porta che dà su un giardino dove è stato costruito un piccolo campo di calcio a 5, un gioiellino. Dall’entrata fino a questa porta le presenze sono tutte in divisa, varcata la porta ci troviamo tra tante facce di giovani e pochi anziani, sono i detenuti. Al centro del campo già pronta la formazione di casa (eufemismo), aspetta con aria di sfida la squadra degli avvocati. Subito vedo alcune facce conosciute che sono del mio paese, e a poco a poco cerco di capire le disposizioni. Il carcere comunque è pulito e molto ordinato, anche il personale di polizia penitenziaria è gentile, e soprattutto inizio a conoscere il personale addetto alla gestione dell’area educativa. Mi colpisce a fine giornata il rapporto dei detenuti con la responsabile, la persona giusta nel posto giusto: nei suoi modi è evidente la passione che ha accompagnato il suo lavoro e quando si rivolge ai ragazzi si possono scorgere dei sentimenti materni, celati dal ruolo. Lei mi spiega che si trova bene perché questa è una casa circondariale dove ci sono poco più di 100 persone, nessuno per reati gravi, mentre ci sono un buon numero di stranieri. Mi spiega che il lavoro viene gestito in “modalità aperta” ovvero sono previste varie attività dal teatro allo sport, dallo studio al giornale. Questo anche per volontà politica del direttore Patrizia Delfino, che non è presente per altri impegni ma che ho avuto modo di conoscere e di apprezzare in occasione di altri progetti. Parlo con qualche detenuto mentre il tempo viene scandito dalle esultanze per i goal. Ho l’impressione che questo posto sia un’oasi nel panorama carcerario italiano, fatto di sovraffollamento e denunce per maltrattamenti, noto un rapporto di sostegno e solidarietà tra il personale e i detenuti. Intanto la partita è finita, hanno vinto i detenuti, 27 a 21, capocannoniere penso sia un ragazzo di San Luca, ma sono stati tutti molto bravi. Infine, la premiazione e la richiesta di una rivincita da parte degli avvocati, con alcuni interventi spontanei dei partecipanti che scoprono la gioia per una giornata speciale che hanno trascorso grazie a questo progetto. Ringrazio per questa esperienza l’Associazione “Progetto Libertà - Onlus”, Valentina De Maria, Lidia Fiscer, Tito Cimino, Domenico Lupis e Walter Carabetta, il direttore Patrizia Delfino, la commissaria Giuseppina Crea, l’area educativa e la polizia penitenziaria, oltre i detenuti. Mentre ci avviamo all’uscita, mi rendo conto di quanto sarebbe utile comunicare quello che ho visto ai nostri figli, comunicare la consapevolezza che questo posto sia necessario, come è necessario saper vivere rettamente per non dover mai varcare questa soglia. Palermo: presentato il Carro di Santa Rosalia, costruito all’interno dell’Ucciardone palermotoday.it, 30 giugno 2019 Svelato il modellino del Carro Trionfale: è stato realizzato, per la prima volta nella storia, all’interno dell’Ucciardone. Detenuti e un gruppo di volontari extracomunitari parteciperanno alla performance artistica. È stato presentato, nel salone Filangeri della Curia Arcivescovile, il programma del 395° Festino di Santa Rosalia di Palermo che quest’anno ha come tema “L’inquietudine”. Durante la presentazione alla stampa è stato svelato il modellino del Carro Trionfale, in scala 1 a 10, ideato dallo scenografo Fabrizio Lupo e realizzato, per la prima volta nella storia, all’interno della casa di reclusione Ucciardone, in collaborazione con le maestranze dell’organizzazione VM Agency Group, i detenuti e gli allievi dell’Accademia delle Belle Arti di Palermo, con il coordinamento della tutor Alessia D’Amico. Novità assoluta di questa edizione: al gruppo di volontari extracomunitari che tradizionalmente traina il Carro Trionfale durante il Corteo si uniranno anche i detenuti che parteciperanno alla performance artistica che si svolgerà nei pressi di Porta Felice. Come da tradizione i festeggiamenti della Santuzza cominceranno con gli appuntamenti delle manifestazioni a corollario che si svolgeranno dal 10 al 13 Luglio: tra questi l’evento inaugurale, l’”Offerta della Cera” coordinato dalla Diocesi di Palermo, che da Piazza Pretoria, riunendo in un unico corteo tutte le 120 Confraternite invitate, giungerà fino alla Cattedrale. E ancora il Festinello, con protagonisti gli attori-detenuti che da anni seguono il Corso del Laboratorio Teatrale dell’Ucciardone, condotto da Lollo Franco, e il gruppo dell’Accademia delle Belle Arti coordinato dalla docente Valentina Console. Tra i momenti più significativi del programma relativo al 14 luglio, al Piano di Palazzo Reale, il grande spettacolo che rievocherà, in chiave simbolica, la nascita di Rosalia, con la partecipazione, dopo il successo dello scorso anno, della compagnia Fura dels Baus. La compagnia catalana sarà protagonista, anche, ai Quattro Canti con una performance aerea inedita in Italia, che verrà presentata a Palermo in prima nazionale dopo la prima mondiale in Corea. Al Piano della Cattedrale, invece, per la prima volta nel cast artistico del Festino la compagnia Transe Express, pionieri dell’arte di strada che, dal loro esordio nel 1982, si sono esibiti in 50 paesi nei diversi continenti, con una performance che sarà un “dialogo tra cielo e terra”, sempre qui un altro dialogo sarà protagonista per la prima volta, quello fra la Santa e il Genio di Palermo che rappresenta la Città. L’edizione 2019 vuole rivolgere particolare attenzione anche alle donne: in quest’ottica è stato lanciato il concorso fotografico “Festino e dintorni”, ideato da Letizia Battaglia che, il 4 settembre, premierà la foto più significativa scattata durante i festeggiamenti del 2019. Alla presentazione alla stampa sono intervenuti: l’Arcivescovo Corrado Lorefice, il Parroco della Cattedrale, Filippo Sarullo, il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’Assessore alle Culture del Comune di Palermo Adham Darawsha, i Direttori Artistici del Festino Lollo Franco e Letizia Battaglia, lo scenografo del Carro Trionfale Fabrizio Lupo e Vincenzo Montanelli, Direttore Organizzativo del 395° Festino di Santa Rosalia Palermo. Capodarco (Fm): chiusa la XIII edizione del premio “L’anello debole”, ecco i vincitori comunitadicapodarco.it, 30 giugno 2019 Alta qualità tecnica e la forza delle storie: è questo il filo rosso che unisce video e audio cortometraggi che vincono il premio L’anello debole 2019, assegnato ieri sera, 28 giugno, dalla Comunità di Capodarco di Fermo, nella serata di premiazione del Capodarco L’Altro Festival, presentata dal direttore artistico del premio Andrea Pellizzari. Sul palco i protagonisti delle opere in gara a raccogliere gli applausi dei presenti. Le opere finaliste, scelte dalla giuria di qualità del premio, sono state votate dagli oltre 100 componenti della giuria popolare, durante la proiezione-maratona della “Notte dei corti” e l’”Aperitivo on air” di giovedì 27 giugno. Da alcuni anni anche detenuti e agenti penitenziari contribuiscono a determinare i vincitori del premio con il proprio voto. All’avvio della serata l’incontro con Nicola Arbusti, educatore della casa di reclusione di Fermo, che ha presentato il progetto “Scolpire il movimento. La stop motion occasione dl narrazione creativa”, che ha coinvolto i detenuti nella realizzazione di un cortometraggio di animazione. Apprezzata e applaudita la proiezione del video “Seraffino”. Vince la sezione audio cortometraggi “Scampia femminile plurale” di Giada Valdannini e Elisabetta Ranieri, prodotto da Radio3 Rai e trasmesso su Tre Soldi. Le autrici hanno voluto raccontare il quartiere di Napoli da un punto di osservazione diverso da quello narrato da libri e tv, dando voce alle donne. Nella stessa categoria il Premio speciale della giuria è andato a “Vico della croce bianca” di Federica Manzitti, lavoro autoprodotto e inedito. Il vico, stretto e scuro, scende da monte e porta alle banchine del porto di Genova. Trenta anni fa era la strada dei travestiti, oggi la raccontano con sincerità e umanità Ursula e Rossella, 76 anni a testa. Primo classificato per la sezione Corti della realtà “L’esodo centroamericano” di Cosimo Caridi e Ane Irazabal, prodotto da Fremantle Media Italia e trasmesso su Nemo, nessuno escluso - Rai2. Lo scorso ottobre migliaia di centroamericani hanno attraversato il Messico diretti verso gli Usa. Il reportage mostra come la prima carovana, composta in buona parte da donne e bambini, abbia attraversato gli stati più pericolosi. Il riconoscimento per la sezione Corti di fiction è andato al film iraniano The role di Farnoosh Samadi prodotto da Three Gardens. La storia di una donna che accompagna il marito ad un provino per un film e si troverà a prendere un’importante decisione… Nella sezione anche il Premio speciale della giuria di qualità a L’interprete di Hleb Papou, prodotto da Quasar. Francesca Osigwe, italiana di origini nigeriane, collabora con la polizia traducendo intercettazioni relative al traffico della prostituzione. Il caso di omicidio di una madame, legato a doppio filo a un oscuro patto Juju, la metterà a confronto con le sue paure più profonde. Una storia costruita per indizi, con un alto tasso di tensioni. Il primo classificato della categoria Cortissimi è “Reason to celebrate” di CoorDown, FCB Mexico, Small New York. La celebrazione della giornata mondiale sulla sindrome di Down è l’occasione per ricordare che, a differenza di altre giornate internazionali, non ci sono ancora molti motivi per festeggiare. Lo spiegano i ragazzi protagonisti del corto. Nella serata consegnati altri due premi speciali. Il Premio Comunità di Capodarco è andato a “Zulu Rema che ha imparato a volare” di Gaia Vianello, lavoro inedito, prodotto da La Furia Film. La storia di Emeer - Aka B-boy Zulu Rema adolescente tunisino a cui da bambino sono state amputate entrambe le gambe e della sua passione per l’arte e per la danza, che lo hanno portato a diventare campione nazionale di break dance e un modello per i giovani di tutto il mondo. Assegnato anche il Premio #PontiNonMuri da Usigrai, sindacato dei giornalisti della Rai, per il miglior video su storie di inclusione, accoglienza e dialogo dalle periferie di tutto il mondo. Vince “Gli spiriti dell’acqua” di Emanuela Zuccalà, prodotto da Zona/Medici con l’Africa - Cuamm. La Sierra Leone è il paese con il tasso più alto al mondo di mortalità in gravidanza e sala parto. Nel distretto di Bonthe non esistono strade ma solo fiumi, e l’ospedale è su un’isola. Flaviour Nhawu è una specialista in sanità pubblica, determinata a cambiare il destino delle donne. Sfidando gli spiriti dell’acqua. A consegnare “l’anello debole”, opera realizzata dal maestro orafo Silvano Zanchi, Andrea Nobili, Garante per i diritti delle persone della Regione Marche; il consigliere della Regione Marche Francesco Giacinti; Francesco Trasatti, vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Fermo; Alberto Palma presidente della Fondazione Carifermo e Angelo Serri direttore di Tipicità. Il Capodarco L’Altro Festival ha il patrocinio di Comune di Fermo e Fondazione Marche Cultura-Marche Film Commission ed è organizzato con il contributo di Regione Marche, Fondazione Carifermo e Coop Alleanza 3.0, in collaborazione con Usigrai, Poliarte e Cinema Sala degli Artisti. Le propagande a confronto di un’emergenza umanitaria di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 30 giugno 2019 È chiaro da tempo che la rotta del Mediterraneo va chiusa. I profughi non devono essere messi in condizione di affidare le loro vite agli scafisti. I moderni negrieri vanno arrestati. Per prima cosa, la Germania non può dare all’Italia lezioni: né di diritto, né di umanità. Perché la Germania le sue leggi le fa rispettare con durezza. E, per quanto la Bundesrepublik sia storicamente generosa con i profughi, la linea dell’accoglienza di Angela Merkel è durata pochi giorni; dopodiché la strategia è diventata pagare Erdogan perché si tenesse i siriani, e ora rispedire i migranti all’Italia, preferibilmente sedati e ammanettati. Ciò premesso, di tutto aveva bisogno il nostro Paese alla vigilia di una complessa trattativa con l’Europa, tranne che di un caso diplomatico attorno all’arresto di una giovane donna; commentato dalla solita propaganda - governativa, purtroppo - come se avessimo catturato Matteo Messina Denaro o un altro pericolo pubblico. La figura - non priva di fascino - di Carola Rackete pare pensata apposta per suscitare reazioni contrastanti: amore e odio, ammirazione e disprezzo. E pare uscita dalla macchina di consenso salviniana; proprio come Salvini è indispensabile alle Carola di tutto il mondo. Ma la vera questione non è lo scontro tra la capitana umanitaria e il capitano truce. La vera questione - per quanto all’apparenza passata in secondo piano - è l’emergenza umanitaria nel tratto di mare tra il Nordafrica e la Sicilia. Ed è il controllo dell’immigrazione, con il forte impatto che comporta sulla politica e sulla società italiana. Salvare vite umane non dovrebbe mai essere proibito dalla legge. Se questo accade, è perché nel Mediterraneo si è creata una situazione che non può continuare. Siamo di fronte a una duplice strumentalizzazione: chi forza le regole nazionali e internazionali a danno degli interessi e dell’immagine dell’Italia; e chi usa una barca con pochi disperati come forma di pressione sull’opinione pubblica e sull’Europa. Entrambi hanno fatto della Sea-Watch un simbolo. Cosa che sarebbe stato meglio evitare. La presenza a bordo di parlamentari dell’opposizione non ha aiutato. Fa male sia vedere il video in cui un gruppetto di persone volgari - che non rappresentano affatto lo spirito di umanità con cui la grande maggioranza dei lampedusani si è comportata in questi anni - accoglie Carola Rackete con insulti; e fa male che il video sia stato diffuso dal segretario del Pd siciliano, per l’ennesima operazione propagandistica. Però dire - come fanno i partiti di governo - che soccorrere i naufraghi tocca alla guardia costiera libica è un’ipocrisia. Sappiamo ormai bene che la guardia costiera libica non fa abbastanza. A volte non si è mossa e ha lasciato morire centinaia di persone. La Libia del resto è un Paese allo sbando. Le si poteva riconoscere un ruolo quando il premier al-Sarraj sembrava relativamente solido, e il generale Haftar disposto a collaborare con l’Italia. All’evidenza questo oggi non accade. È chiaro da tempo che la rotta del Mediterraneo va chiusa. I profughi non devono essere messi in condizione di affidare le loro vite agli scafisti. I moderni negrieri vanno arrestati. È stato sconfitto militarmente l’Isis; possono essere sconfitti anche loro. Basta volerlo. Frontex è troppo timido. Non è sufficiente. Non basta né alla sicurezza dei naufraghi, né alle ambizioni di un continente che intenda riprendere il controllo delle proprie frontiere meridionali. Occorre una grande operazione europea che batta le coste libiche, interrompa il traffico di migranti, contribuisca alla stabilizzazione del Paese, e lavori anche ad arrestare i flussi dai Paesi di partenza. Non è semplice; se lo fosse si sarebbe già fatto; ma è l’unica strada. La vergogna sul molo di Lampedusa di Roberto Saviano La Repubblica, 30 giugno 2019 Da dove vengono (e quale scelta ci impongono) le minacce sessiste urlate alla capitana Carola dai contestatori che l’hanno insultata mentre scendeva a terra. Gli insulti urlati sulla banchina a Lampedusa a Carola Rackete sono rimbalzati contro il suo volto sereno, non hanno scalfito quella compostezza data dalla consapevolezza di aver messo il proprio corpo a disposizione della propria responsabilità, cosa non scontata. Non scontata, in un Paese in cui il ministro dell’Interno, spaventato da un’eventuale condanna, si è sottratto al processo per sequestro di persona nel caso Diciotti facendosi salvare dalla sua maggioranza. Ma torniamo agli insulti. Sono stati abbastanza prevedibili. Nella parte non censurata di video che è stata postata, leghisti e grillini lampedusani urlano contro Carola: “Spero che ti violentino ‘sti negri, a quattro a quattro te lo devono infilare”. E ancora: “Ti piace il cazzo negro”. La dinamica è tipica: da un lato il sesso visto come aberrazione, insulto, porcheria, vizio, e dall’altro il senso di inferiorità che qualcuno ha in questo campo verso l’africano. Per quanto possa sbalordire, uno dei motivi principali del razzismo verso gli immigrati africani è proprio la minaccia sessuale: è stato così negli Stati Uniti ed è così in Europa. Tutta la retorica razzista di Salvini sugli immigrati furbi invasori perché arrivano con corpi atletici e non sono scheletri affamati, nasconde un evidente complesso di inferiorità. Il “ti devono violentare” viene dalla bocca degli stessi che blaterano di violenza carnale ogni volta che discutono di immigrazione ciarlando con crassa ignoranza di mafia nigeriana, della quale non sanno nulla. Nel video spunta a un certo punto una voce tenue che dice: “Piccio’, non parlate accussì”. È una donna, e si sta vergognando. È interessante capire come il leader di questi balordi abbia intenzione di commentare l’accaduto e che provvedimenti intenda prendere nei loro confronti. Chissà se questi miserabili sono coscienti che i leghisti del Nord usavano gli stessi insulti contro le persone che cercavano di difendere i meridionali. La cantilena allora era: “Li difendi perché ti piace scopare con i terroni”. Che rabbia deve generare in un leghista una donna giovane in grado di fare una scelta così forte, in grado di gestire una tale situazione con nervi saldi e con dichiarazioni piene di responsabilità, una donna in grado di vivere la propria vita con autonomia, che non viene definita in quanto fidanzata di, moglie di, amante di. Ecco, una donna così per i leghisti deve essere insopportabile anche solo da immaginare. Ed è naturale che insultare una donna attraverso il sesso sia la cosa più scontata e facile per vomitare la propria frustrazione. Ma c’è una seconda parte degli insulti che raccontano bene il Paese. A urlare “le manette” e “venduta” è l’Italia forcaiola che conosco benissimo; l’Italia che sputa su Enzo Tortora perché se non puoi essere Enzo Tortora è un bene che lui cada e ti faccia sentire meno mediocre; l’Italia che lancia le monetine su Craxi avendolo temuto e blandito fino a un minuto prima (poco importa in queste dinamiche l’innocenza o la colpevolezza, ma conta il grado di frustrazione e di meschinità); che parteggia a favore o contro Raffaele Sollecito e Amanda Knox; che esulta per ogni arresto, per ogni avviso di garanzia, come se facesse sentire meno tollerabile la propria sofferenza. Se la giustizia che pretende, tempo, pacatezza e responsabilità è impossibile, allora meglio tifare per le disgrazie altrui, cosa che non mitigherà le proprie ma almeno servirà a sfogarsi. Io sono cresciuto in un Sud Italia in cui, quando veniva arrestato un boss, la gente applaudiva il criminale e insultava i carabinieri. Guardate su YouTube il video di Antonino Monteleone che ha ripreso l’arresto del boss Giovanni Tegano a Reggio Calabria: c’era una fitta folla fuori dalla questura ad inneggiarlo. Non solo parenti ma anche semplici concittadini grati per la sua strategia contraria agli atti sanguinari. Quando venne arrestato Cosimo di Lauro a Secondigliano, centinaia di persone lo applaudirono e difesero. In fondo è così, è il prezzo del sopravvivere: piegarsi al potente, temere la sua vendetta, blandirlo, sperare in una sua parola per poter cambiare la propria vita. Al contrario, è facile colpire Carola, non ti succede niente se lo fai, stai sputando addosso a una donna che ha solo il suo corpo e la sua dignità come simbolo e difesa. Non ti toglierà il lavoro, non verrà a minacciarti, non c’è nessun favore che potrai chiederle. Carola non poteva che agire in questo modo: sbarcare a Malta, in Grecia o in Spagna significava compiere un atto fuorilegge, perché Lampedusa era molto più vicina e ciò rispondeva all’esigenza di mettere in sicurezza l’equipaggio. Se avesse deciso di andare verso altri porti, avrebbe messo in pericolo le persone salvate in mare violando la legge del mare. Urlano “venduta”, ma Carola ha scelto di impegnarsi mettendo le sue competenze al servizio di un “ambulanza del mare” ed è una donna che prende onestamente il suo stipendio, più vicino a un rimborso spese che a un lauto guadagno. È incredibile che tutto questo venga detto da un partito come la Lega, che non ha mai spiegato perché è andata a trattare con un’impresa di Stato russa per farsi finanziare la campagna elettorale; in un Paese dove il ministro dell’Interno finanziava post razzisti su Facebook con 5000 euro (500 quelli in cui annuncia i suoi comizi). In un Paese così, si dà addosso a una persona che salva con il proprio impegno dei disperati dall’agonia e si difende, invece, chi non mostra la minima trasparenza e chi ha alleanze torbide e partner politici criminali. Il meccanismo è sempre lo stesso: se sei un bandito non puoi convincere gli altri che tu non lo sia, puoi però cercare di far credere che tutti gli altri siano peggio di te. Ecco il gioco sporco di Matteo Salvini e dei leghisti con Carola. Ascoltate quegli insulti perché lì c’è tutto il cuore marcio del nostro Paese. Bisogna capire da che parte stare. Con chi volete stare? Con chi chiede manette per chi ha salvato vite? Con chi augura a una donna una violenza carnale? Da che parte volete stare? Con questi insultatori o con chi considera la libertà e la solidarietà l’unica dimensione in cui vale la pena di vivere? L’onda d’odio che inquina il vivere civile di Giovanni Mari Il Secolo XIX, 30 giugno 2019 Lo Stato deve educare, se la politica usa parole brutali, l’etica svanisce nella piazza. Il compito di uno Stato di diritto è garantire libertà e sicurezza ai cittadini. Se il capitano di una nave vìola la legge è doveroso (e automatico) che lo Stato provveda, con le competenze e gli organismi adeguati, a indagare ed eventualmente a punire il capitano. Con le aggravanti e le attenuanti del caso. In una presunta Unione Europea, tutti gli Stati dovrebbero inoltre cooperare per assicurare i diritti umani, anziché lasciare solo sia chi fugge dalla fame attraverso il Mediterraneo sia chi è nelle condizioni naturali di intervenire per aiutare altri esseri viventi, a salvarsi dal mare. Da queste banali considerazioni, il balzo alla cruda realtà di Lampedusa sembra frutto di un salto dimensionale (e culturale). Come è stato possibile sprofondare il Paese in una violenta e volgare arena di odio come quella che si è materializzata allo sbarco di Carola Rackete sull’isola più a sud d’Italia? La capitana della Sea Watch è stata accolta da insulti e urla da persone che le hanno augurato di subire violenze sessuali dagli stessi uomini africani che aveva appena salvato dal mare. Un’eruzione di minacce che travalicano l’antagonismo politico, sbaragliano le ataviche guerre tra poveri e finiscono nel disegnare un Paese civicamente allo sbando. Rakete ha violato la legge con l’attenuante umanitaria, va indagata. Da qui ad augurarle sofferenze fisiche sulla piazza di Lampedusa e ancor peggio sulla sterminata galassia social, il passo è immenso. Perché la pancia del Paese non riesce a fermarsi a una condanna severa e partigiana, ma nel limite della legge della civiltà? Perché scagliarsi con quel livore sanguinario? È anche colpa della politica, che da decenni anziché affrontare i problemi reali si limita a un’infinita contesa elettorale. Che anziché discutere sul merito si sfida in un’eterna narrazione identitaria o anti-identitaria, senza possibili vie di mediazioni e degradando verso il fango. Per bocca (o tastiera) di molti sfocia nell’insulto, nell’invettiva, proprio in quei processi sommari che ha chiesto la piazza di Lampedusa. Di fronte a questo scenario, Matteo Salvini, il politico attualmente più abile a comunicare attraverso il rutilante mondo dei social, dovrebbe ricordarsi di essere il ministro dell’Interno, un uomo di Stato, garante di quella sicurezza che il suo dicastero presiede. Invece, anche lui ha vergato parole sopra le righe, chiedendo giustizia sommaria senza aspettare sentenze o processi, applicando per settimane a ogni tema delicato (specie su migrazioni e sicurezza) un linguaggio brutale, non da uomo di Stato. Ha identificato la forza dello Stato in una forza muscolare che prescinde dall’etica del diritto. Lo Stato, la convivenza civile, si reggono invece su un codice di regole e valori che contempla una civiltà del linguaggio e della forza pubblica. Se si rompe quell’equilibrio, quel patto sociale, allora crolla ogni limite, ogni remora, ogni concetto di rispetto. Se l’argine etico e civile dello Stato si rompe, la legge del taglione dilaga in campo aperto. Non servono atti, basta il linguaggio, perché “la lingua è più del sangue”, diceva Franz Rosenzweig e quando la comunicazione promuove il conflitto diventa solo fonte di odio. La forza dello Stato deve andare in senso contrario: deve educare. Se invece trasforma in uno scontro da stadio il braccio di ferro con una Ong, guidata da un privato straniero molto abile a sfruttare la sceneggiata mediatica, allora lo Stato diseduca. E diventa paradossale, a guerra cominciata, sapere che mentre i 40 della Sea Watch aspettavano che si consumasse lo scontro a colpi di tweet, decine di altri migranti sbarcavano indisturbati fuori dal cono di luce delle telecamere, sulla stessa banchina degli insulti e dell’odio. Perché detestano chi salva i migranti di Roberto Saviano L’Espresso, 30 giugno 2019 Le Ong nascono per riempire un vuoto. Operano dove lo Stato non può o non vuole essere. E di tutto questo lasciano testimonianza. VI siete mai chiesti come nascono le Ong? Per un attimo non fidatevi di chi vi dice che sono finanziate da ebrei ricchi con lo scopo di modificare gli equilibri europei. Non fidatevi perché l’ebreo ricco che finanzia il nero povero per marginalizzare il bianco è la teoria complottista alla base della violenza del Ku Klux Klan. Non esiste una strategia studiata a tavolino che vedrebbe Soros finanziare Ong che vanno in Libia per portare migranti sulle coste siciliane al solo scopo di destabilizzare l’Italia. Nulla di tutto questo: le Ong esistono per prestare soccorso laddove gli Stati nazionali falliscono. Esistono per aiutare l’uomo quando non c’è nessuno a farlo. Sono stato a parlare di immigrazione sulla Open Arms, nave che ha salvato, da quando è attiva nel Mediterraneo, oltre 60mila persone. Gli abitanti di una città di medie dimensioni: Savona, Matera, Benevento, Agrigento, Cuneo, Teramo, Siena, Pordenone. Detta così fa venire i brividi: un’intera città salvata da una piccola nave. Una nave sola. E poi domandatevi come sono iniziate queste avventure, perché saperlo ci dice tanto su chi viene quotidianamente infangato e accusato di essere in combutta con i trafficanti di esseri umani. Oscar Camps, fondatore della Ong Proactiva Open Arms, è davanti alla televisione con sua figlia, insieme vedono la foto del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano trovato senza vita il 2 settembre 2015 su una spiaggia turca. Camps fornisce sicurezza per spiagge, personale addestrato per salvare vite in mare. La figlia guarda il bimbo morto sulla spiaggia e gli chiede: perché non li vai a salvare, papà? Non è questo il tuo lavoro? Camps, a Sandro Veronesi che lo intervista, dice: “Lesbo era a poche miglia dalla Turchia, dalla costa si vedeva morire la gente lasciata a mezza strada sui gommoni bucati e i cadaveri arrivavano a riva. Non c’era organizzazione, non c’erano mezzi, non c’era la Croce Rossa, non c’era nulla: il giorno stesso del nostro arrivo abbiamo cominciato a salvare gente a nuoto”. Così nascono le Ong, per sopperire alla mancanza di una politica europea strutturata sull’immigrazione. Con le loro missioni in mare - sempre in coordinamento con le autorità italiane ed europee - salvavano vite e testimoniavano ciò che accadeva nel Mediterraneo. Ed erano apprezzate ed elogiate per questo. Poi, improvvisamente, abbiamo smesso di guardare i migranti, abbiamo smesso di vederli uomini, di vederli donne e di vederli bambini. Sono numeri, numeri che arrivano, numeri che vengono bloccati, numeri che muoiono o che non muoiono. Numeri da tenere lontano, da tenere in Libia a qualunque costo. Numeri e non più esseri umani. Non ci specchiamo in loro, non li riconosciamo, non li consideriamo come noi. La Open Arms è stata a Napoli per una settimana, braccia aperte alla cittadinanza e a chiunque volesse visitarla, a chiunque avesse voluto ascoltare le storie che il suo equipaggio poteva raccontare. È stata a Napoli e quando ci sono salito ho provato un’emozione fortissima. Nella mia città, nel porto dove l’avventura di Gomorra era iniziata, ora avrei parlato, con Oscar Camps e Luigi Manconi, di ciò che le persone non vogliono vedere: un’umanità che parte per vivere e non per invadere. Mentre ero sull’Open Arms e guardavo negli occhi chi ci ascoltava, pensavo allo sconforto che come me quelle persone dovevano provare sapendo che il loro desiderio di umanità non c’era nessuno a raccoglierlo. E invece di mettere al centro diritti, crediamo di trovare in formule matematiche già sperimentate altrove la possibilità di vincere le elezioni. Nei giorni scorsi qualcuno si domandava se non dovesse, la sinistra italiana, fare come i socialdemocratici danesi e vincere le elezioni seguendo una linea dura sull’immigrazione. Ma l’Italia lo ha già fatto e ha perso, del resto l’Italia non è la Danimarca. E mentre si continua a tenere in ostaggio migranti in mare, confermando che questa sarà un’altra estate lunga e dolorosa, la politica non lavora per cambiare le regole europee sui paesi di primo approdo. È più facile convincere gli italiani che è giusto non salvare perché è giusto non accogliere, piuttosto che fare il proprio lavoro e restituire a tutti dignità. Alla politica, agli elettori e a chi ha la sventura di prendere il mare col vento contrario. L’appello di mezza Europa: “Liberate Carola” di Francesco Grignetti La Stampa, 30 giugno 2019 Parigi e Berlino: soccorrere non è reato. Salvini: non accettiamo lezioni. A forza di tirare la corda con gli europei, stavolta si rischia di rompere sul serio. Sono cinque i Paesi che si erano offerti di accogliere i naufraghi della Sea Watch 3. Ma con i francesi, Matteo Salvini si sta già prendendo metaforicamente a ceffoni. E sono venuti allo scoperto, chiedendo di lasciare libera la giovane Carola, anche i ministri degli Esteri di Germania e Lussemburgo. Non è chiara la posizione di Portogallo e Finlandia, ma a questo punto rischia di non tenere quel faticoso accordo che avevano cucito il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi. Tutti si dicono solidali con l’Italia. Confermano la disponibilità a farsi carico di una quota di nuovi arrivati. Ma rispettando le regole. La Francia ad esempio è sempre pronta - scrive il ministro francese Christophe Castaner - ad accogliere 10 rifugiati (che non possono essere tra quelli appena sbarcati, dovendo ricevere prima lo status da una commissione italiana e poi essere disponibili a trasferirsi), ma è “sbagliato affermare che l’Ue non ha dimostrato solidarietà con l’Italia. E il governo italiano, con la chiusura dei suoi porti in violazione del diritto internazionale del mare, sta assumendo soluzioni non concertate”. Parole a cui il vicepremier leghista risponde furente: “L’Italia non prende lezioni da nessuno e dalla Francia in particolare: Parigi ha chiuso Schengen, era in prima fila per bombardare la Libia, abbandonava immigrati nei boschi italiani”. Né Salvini tralascia la quotidiana dose di invettive all’Olanda, che “brilla per la sua assenza e il suo vergognoso menefreghismo; ha dato una bandiera a una nave fuorilegge fregandosene di quello che il suo equipaggio è andato poi a fare per il Mediterraneo”. L’arresto della giovane capitana Rackete, però, scuote l’anima del Nord Europa. “Mostra la scelleratezza del governo italiano e il dilemma della politica europea sui rifugiati”, dice il leader dei Verdi tedeschi, Robert Habeck. Insorge il vescovo Heinrich Bedford-Strohm, potente presidente della Chiesa evangelica, tra i principali sponsor della Ong: “Quell’arresto perché ha salvato delle vite umane e vuole portare le persone in sicurezza a terra, è una vergogna per l’Europa”. Su iniziativa del noto conduttore televisivo e satirico tedesco Jan Böhmermann, è iniziata una raccolta online per finanziare le spese giuridiche. Non meraviglia, che il ministro tedesco degli Esteri, Heiko Mass, scriva lapidario su Twitter: “Salvare le vite umane è un dovere umanitario. Soccorrere vite umane in mare non può essere criminalizzato. Tocca alla giustizia italiana ora chiarire le accuse”. Intanto il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn si rivolge all’omologo Moavero Milanesi: “Caro Enzo, vorrei sollecitare il tuo aiuto perché Carola Rackete, che era in obbligo di far sbarcare 40 migranti a Lampedusa, sia rimessa in libertà”. Aggiunge, per chiarezza: “Salvare vite umane è un dovere e non potrà mai essere un delitto o un reato; non salvarle, al contrario, lo è”. Sea Watch, l’Olanda scarica la capitana Carola: “Ha sbagliato lei” di Luigi Offeddu e Marta Serafini Corriere della Sera, 30 giugno 2019 Il colloquio con il segretario di Stato all’immigrazione, Ankie Broekers-Knol: “Poteva andare in Tunisia o in Libia. Non prendiamo più migranti dalle operazioni Sar”. “Caro Collega…”. La lettera è stata mandata via mail al Viminale verso le 22 di ieri sera e verrà poi seguita dalla versione ufficiale cartacea il più presto possibile, domani. Destinatario, il ministro dell’interno Matteo Salvini, che anche nelle ultime ore aveva attaccato l’Olanda su Facebook, accusandola di “menefreghismo” sulla questione dei migranti extracomunitari. Mittente, la segretaria di Stato olandese all’immigrazione, Ankie Broekers-Knol. Tema della missiva (qui la versione integrale), la vicenda della nave Sea Watch 3. Toni cortesissimi, come vuole da in secoli la diplomazia in tutto il mondo, ma sostanza tosta e netta. Ecco un elenco dei temi affrontati, anche se non in quest’ordine esatto. Primo: il fatto che una nave batta la bandiera di un certo Stato, “non implica un obbligo per quello Stato di imbarcare persone soccorse”. Secondo: l’Olanda ha deciso, “in assenza di una prospettiva di cooperazione verso una soluzione concreta e strutturale come quella indicata nelle conclusioni del Consiglio Europeo del giugno 2018, che non parteciperà più oltre agli schemi di sbarco “ad hoc”“. Terzo: il governo olandese “ha esplicitamente dichiarato che in principio non prenderà più migranti dalle operazioni Sar (Soccorso in Mare) in un’area ampiamente colpita dalle attività dei trafficanti di esseri umani”. L’Aja, prosegue la lettera della Segretaria di Stato, “è pienamente impegnata a rispettare l’obbligo di salvataggio delle gente in mare imposto dalla legge internazionale. Tuttavia, come lei (Salvini, ndr) giustamente dice, le operazioni della Sea Watch 3 non dovrebbero contribuire alle attività criminali dei trafficanti”. Quanto alla capitana tedesca della Sea Watch, l’Olanda dichiara di non condividere, “come lei” (Salvini, ndr), le scelte che ha fatto. Avrebbe potuto andare in Libia, in Tunisia, o anche nel porto olandese di competenza. Ma “contrariamente a quanto Lei dichiara nella sua lettera, non ha mai chiesto di sbarcare in Olanda”. I Paesi Bassi chiedono all’Italia di “lavorare insieme per riformare il sistema europeo di asilo e immigrazione, basato sui principi della solidarietà e responsabilità”. E come parte di questa riforma, bisognerà studiare “una procedura obbligatoria europea di espulsione ai confini esterni”. “Vorrei anche aggiungere - scrive la segretaria di Stato - che in caso di quei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale, il ricollocamento è uno spreco di sforzi e risorse finanziarie dei contribuenti, che dovrebbe essere evitato”. La segretaria di Stato all’immigrazione annuncia anche che si recherà a Roma per “colloqui bilaterali” con Salvini. Fin qui, la lettera di risposta al ministro italiano degli Interni. In un’intervista esclusiva al Corriere della Sera, Ankie Broekers Knol ha poi precisato alcuni altri punti della posizione del suo Paese: “I Paesi Bassi sono acutamente consapevoli della pressione migratoria sull’Italia negli ultimi anni, e particolarmente della pressione sproporzionata sperimentata fino alla metà del 2017. Inoltre, l’Olanda ha sempre riconosciuto l’impegno e la leadership italiana. È anche per questo che ha dimostrato la sua solidarietà in molti modi, per esempio contribuendo allo schema di ricollocamento temporaneo. Grazie allo sforzo dell’Italia e al sostegno degli altri Stati membri fra cui l’Olanda, gli arrivi illegali e le richieste di asilo in Italia sono calati in modo drammatico dalla metà del 2017”. Situazione generale in via di risoluzione, dunque? No, risponde la segreteria di Stato olandese, “al contrario noi abbiamo registrato in questo periodo successivo alla crisi migratoria un continuo, alto numero di richiedenti asilo, molti dei quali provenienti dall’Italia. Questi movimenti sono un altro problema che dobbiamo affrontare”. Salvini esulta: “Fatta giustizia”. E ora vuole inasprire il dl sicurezza di Francesco Grignetti La Stampa, 30 giugno 2019 Il ministro dell’Interno Matteo Salvini impegnato, venerdì scorso, a fare selfie con gli operai della Fincantieri a Genova. Il silenzio imbarazzato dei Cinque Stelle. Poi Di Maio si smarca dal leader leghista: “La rabbia non va alimentata”. E ora, manette. Matteo Salvini sembra finalmente sazio. La capitana tedesca lo ha sfidato fino in fondo, rischiando persino di schiantare una motovedetta della Guardia di Finanza pur di portare a terra i migranti che erano a bordo, e il leghista può urlare: “Avevamo chiesto l’arresto di una fuorilegge che stanotte ha anche messo a rischio la vita di uomini delle forze dell’ordine italiane, la multa per questa Ong straniera, il sequestro della nave che ha finito di andare in giro per il Mediterraneo a infrangere leggi, e la distribuzione di tutti gli immigrati a bordo in altri Paesi europei... e quindi abbiamo fatto bene a chiedere che le leggi fossero rispettate. Mi sembra che giustizia sia sana”. E se per caso la procura di Agrigento, retta da Luigi Patronaggio, con cui ha avuto ampiamente da ridire nelle settimane scorse, lo deluderà, comunque per Carola è pronto anche un decreto di espulsione. E già Salvini medita di ritoccare il decreto Sicurezza bis, raddoppiando le multe, visto che quelle attuali non hanno spaventato la Sea Watch. Il bersaglio grosso contro cui Salvini si scaglia, però, non è più l’Ong tedesca. Quella ormai è storia passata. Neppure dedica attenzioni più di tanto a due nuove navi umanitarie, la “Open Arms” e la “Alan Kurdi”, che si muovono verso la Libia. Dice: “Ong avvisate, mezzo salvate. Multe, sequestro della barca, divieto di ingresso nelle acque territoriali e in caso di disobbedienza, arresto”. No, nel mirino a questo punto c’è il Pd, che aveva mandato alcuni suoi parlamentari a bordo della Sea Watch. Se infatti l’operato di Carola lo definisce “un atto di guerra”, il suo exploit è per il Pd. “Solo in Italia abbiamo parlamentari della Repubblica che tifano per chi infrange le leggi della Repubblica e per chi attenta alla vita di uomini in divisa in servizio della Repubblica italiana. Vi rendete conto della follia?”. Parte così una ridda di dichiarazioni contrapposte che dura tutto il giorno. E comunque Nicola Zingaretti ha sentito la necessità di esprimere al comandante generale della Gdf, Giuseppe Zafarana, “massima solidarietà ai finanzieri”, seguita dalla critica a Salvini e a Di Maio: “Tenere insieme umanità, sicurezza e legalità, deve essere il compito di un governo in una democrazia. Il caso Sea Watch dice che Salvini e Di Maio hanno la colpa di aver deliberatamente sabotato questo principio”. Eppure Luigi Di Maio, dopo lunghe ore di silenzio, ha provato a distinguersi dal leghista. Piccole punture di spillo, non di più. “Trovo assurda - afferma Di Maio - l’escalation di insulti e di toni offensivi registrata nelle ultime ore”. “Chi rappresenta i cittadini questa rabbia deve sforzarsi di capirla, perché non può essere ignorata. Capirla non significa alimentarla, perché poi altrimenti la rabbia si trasforma in insulti violenti che colpiscono tutte le parti e che vanno sempre condannati”. “Prendiamo atto dell’azione della magistratura, che quotidianamente svolge un egregio lavoro. È importante elogiare sempre, e non a giorni alterni, il prezioso contributo di giudici e magistrati”. Nel giorno in cui Salvini straborda, però, queste poche cesellate parole di Di Maio non sembrano soddisfare una buona parte del M5S. A nessuno è sfuggito l’intervento di Beppe Grillo su “Il Fatto quotidiano” in cui ironizza su un governante “eternamente imberbe”. E il caso della Sea Watch rischia di far deflagrare di nuovo le tensioni nel movimento. Romania. Eroina, fame, malattie. I dannati di Livezilor, dove morì il sogno operaio di Francesca Mannocchi L’Espresso, 30 giugno 2019 Ceausescu vi fece costruire i palazzi per i lavoratori delle fabbriche che dovevano rendere grande il Paese. Oggi è la strada più degradata di Bucarest. Un inferno, specchio delle contraddizioni del post socialismo. “Cos’è successo? Perché tutte queste macchine?”, domanda una donna a una ragazza, esile, di fronte alle scale di un edificio. “Marga è morta, la mamma è morta”. Margareta era la madre di Sara, vent’anni, corpo piccolo e ossuto, viso teso. Ai piedi le ciabatte e in testa un fiocco nero in segno di lutto. Margareta aveva quarantaquattro anni, cinque figli ed era sieropositiva. Un compagno che entrava e usciva dal carcere con cui ha avuto due figli. Poi il tentativo di risollevarsi dalla povertà, qualche lavoro dignitoso, un nuovo compagno, altri tre figli, poi - di nuovo - la mancanza di lavoro. E un unico sollievo: l’eroina. Margareta viveva nel ghetto: Strada Livezilor, Ferentari, settore 5, Bucarest. Livezilor è una strada composta da due file di edifici fatiscenti di cinque piani, tra un edificio e l’altro cumuli di immondizia, topi. Agli angoli delle vie donne che spazzano a terra e altre donne sedute lungo il marciapiede con casse di frutta da vendere. Al primo sguardo potrebbero sembrare tentativi di normalità: il mercato, un po’ di soldi per sbarcare il lunario, allo sguardo successivo l’altra faccia della realtà: le donne stringono una manciata di siringhe. Un tassista si ferma, tira fuori qualche lei dalla tasca laterale dei jeans, la donna mette una mano nel grembiule, prende i soldi, gli passa la dose. E poi riprende a spazzare. Un uomo cammina con lo sguardo perso nel vuoto tenendo per mano un bambino, suo figlio, e nell’altra mano una siringa, con tutta probabilità usata, conta un po di denaro, lo porge a una donna robusta. Lei gli passa una bustina - la sua dose - lui abbozza un sorriso, è sollevato, riprende suo figlio per mano, diretto verso casa. Il corpo è segnato dalla droga: sulle braccia, sulle gambe, non un centimetro è stato risparmiato dai buchi. Si gratta nervosamente, ha croste dappertutto, le pupille a spillo dell’eroina. Il viso scavato, piedi gonfi, labbra bluastre. Più che camminare si trascina, fino a infilarsi in uno degli edifici scrostati e consumare nell’androne il sollievo momentaneo dell’eroina, mischiata a metanfetamine e a chissà che altro. Quest’angolo di Ferentari lo chiamano il ghetto dei tossici, ma Livezilor è molto di più, è lo specchio delle contraddizioni rumene. Gli edifici di Livezilor erano stati costruiti da Ceausescu per i lavoratori delle fabbriche che arrivavano dalle aree rurali per fare grande il paese. Dopo il 1989 le fabbriche hanno cominciato a chiudere e gli alloggi dei lavoratori si sono via via spopolati, lasciando spazio agli emarginati. Oggi a Livezilor vivono poveri, disoccupati, tossici, prostitute. I dimenticati della capitale. Più che case, qui, ci sono stanze. Tredici metri quadrati, una finestra e un bagno. Acqua e gas in un appartamento ogni cinque. Ai tempi del comunismo c’erano due lavoratori per stanza, ora tredici metri quadrati arrivano a contenere anche famiglie di dieci persone. Negli androni delle scale siringhe usate, a terra urina. L’odore si mischia al tanfo dell’immondizia che circonda gli edifici, resti di cibo gettati dalle finestre, vestiti ammassati e ancora plastica, aghi. Tutto a Livezilor parla la lingua dell’emarginazione. Sara apre la porta della stanza-casa, dove fino alla sera prima vivevano in sette. Ci dormivano in sei divisi sui due lati del letto, lei, i quattro fratellini, la nonna e Margareta. Lo zio - unico uomo adulto - a terra. Margareta si è sentita male la sera prima, setticemia. L’hanno portata all’ospedale dove poco dopo è morta. Da due settimane rifiutava di essere ricoverata, aiutata, curata. Si è lasciata morire, dice qualche vicino a bassa voce. Succede quando non riesci più a sopportare Livezilor. Perché tanto, dicono tutti, è questione di tempo, a Livezilor siamo già morti. Sara apre una busta rossa, le fotografie di un tempo che è stato. Lei bambina, sua madre in salute. “Avevamo un po’ più di soldi, la mamma lavorava, eravamo poveri ma vivevamo dignitosamente. Sono stata una bambina serena”, dice scegliendo le foto da portare via con sé. Poi la crisi finanziaria, la disoccupazione che nelle zone come Ferentari in meno di quattro anni raddoppia e l’oblio, che ha la forma della polvere su un pezzo di carta, il filtro rimosso di una sigaretta messo sopra un ago, l’eroina che si scalda e il liquido risucchiato dalla siringa. Margareta era bella, anche Sara lo è. Come i fratelli minori, come Sami che ha tredici anni, è semianalfabeta e vorrebbe venire in Italia a giocare a pallone. Sami che non ha più una madre, non è stato riconosciuto dal padre e ha vissuto nel degrado di una via in cui i genitori mandano i figli a raccogliere e distribuire siringhe usate. In cui i bambini scendono a giocare in uno slalom di mezzi vivi che si bucano sulle scale di casa, dove è normale vedere la propria madre mentre si droga, e l’eroina ha narcotizzato tutto al punto che i figli piccoli non piangono neppure di fronte alla bara di Margareta. Perché la morte a Livezilor la incontri anche ai bordi delle strade, solo una settimana fa - raccontano i volontari che lavorano nella zona - all’incrocio con la via principale c’era il corpo di un uomo riverso sul marciapiede e intorno i bambini a giocare a pallone. Oggi sullo stesso angolo di marciapiede un altro uomo è piegato su sé stesso, si contrae. La siringa vuota alla sua sinistra. E, anche intorno a lui, i bambini continuano a giocare a pallone. “Livezilor è la strada più degradata del quartiere più degradato di Bucarest, i ghetti attraggono marginalità e i disagi si sommano: droga, malattie, prostituzione sono conseguenza una dell’altra”. Franco Aloisio si guarda intorno mentre arriva in auto nel quartiere per prendersi cura del funerale di Margareta. Lo fa per Sami che frequenta la fondazione che presiede a Bucarest, Parada. Franco è arrivato in Romania nel 1999, tre anni dopo che il clown franco-algerino Miloud Ouldi aveva dato vita alla fondazione per il reinserimento sociale di giovani e adulti che vivevano nei canali sotterranei dei tubi dell’acqua calda: la città sotto la città che scalda la capitale rumena. Oggi il numero dei ragazzi di strada è nettamente diminuito, ma le condizioni degli emarginati sono peggiorate per l’esplosione di droghe sintetiche, eroina, e per le malattie che ne derivano. L’esplosione dell’uso di metanfetamine e droghe etnobotaniche, le chiamano le “legali” perché si potevano comprare nei negozi: i magazzini dei sogni. Poi il governo li ha chiusi e lo spaccio si è spostato per strada. In questi armi l’aumento dell’uso di eroina e “legali” ha coinciso con la drastica riduzione dei finanziamenti internazionali per il contrasto dei danni legati alla droga. I fondi sono praticamente prosciugati. La Romania era entrata nell’Ue, dunque poteva farcela da sola. Invece non ce la fa. E non c’è un piano. Aras (associazione anti-Aids rumena) ha esaurito i fondi per la sostituzione delle siringhe. E dal 2010 la diffusione dell’Hiv tra i consumatori di droga è esplosa, dall’1 al 60 per cento. “La prossima emergenza a Bucarest sarà l’esplosione dell’Aids”, dice Franco Aloisio, “stimiamo che in città ci siano ventimila tossicodipendenti, la metà sieropositivi. Molti non sanno nemmeno di essere stati contagiati e il tasso di mortalità è altissimo. Fino al 2007, data di ingresso nell’Unione Europea, abbiamo vissuto anni di grande intervento sulle marginalità. Paradossalmente entrare in Europa, per le politiche di inclusione ha rappresentato una regressione perché il disagio sociale è sparito dall’agenda politica pubblica, sostituito dal decoro”. A Bucarest ogni angolo di strada ricorda i sei mesi della presidenza di turno dell’Unione che termina alla fine di giugno. Ci sono bandiere europee dappertutto, nei boulevard pieni di turisti e caffè delle vie del centro fino al Palazzo del Parlamento, il secondo edificio più grande al mondo: mille stanze, 700 mila tonnellate di acciaio e bronzo per le porte monumentali, 1400 specchi, due piani sotterranei. Un tempo era Casa Popurolui, la Casa del Popolo di Ceausescu. Oggi all’esterno campeggia la scritta: Romania 2019, presidenza del Consiglio dell’Unione Europea. Dodici anni dopo l’ingresso nell’Ue e 30 dopo la caduta del Muro, la Romania è il paese delle contraddizioni, il paese dell’opulenza e della povertà estrema. In questi anni ha ricevuto dall’Europa 56 miliardi di finanziamenti che hanno portato un po’ di sviluppo se amministrati con criterio e aumentato divari sociali dove gestiti secondo logiche corruttive, dove cioè - raccontano i cittadini - “senza pagare mazzette non ti mettono nemmeno sulla barella in ospedale, non ti cambiano la flebo”. Dal 2015 la crescita annuale del Pil del paese è stata sempre superiore al 4 per cento, fino al picco del 5 per cento del primo trimestre 2019, ma lo sviluppo economico non ha sanato le differenze interne: uno stipendio medio nella capitale è di circa 750 euro, in Moldova, la zona più povera del paese non arriva a duecento. Secondo i dati Eurostat, alla fine del 2018, sono 3 milioni e 281 mila i rumeni ancora considerati “gravemente materialmente svantaggiati”, che cioè vivono in povertà estrema. I soldi europei a Bucarest hanno decisamente portato progresso, la città è piena di turisti, locali aperti notte e giorno, brand popolari e grandi marchi illuminano la fino al mattino. A essere euroscettici sono i socialisti del Psd, in rotta con Bruxelles per le proposte di riforme della giustizia atte a depenalizzare l’abuso d’ufficio e ridurre la lotta contro la corruzione. Le critiche europee sono state così severe che il leader del Psd in campagna elettorale ha utilizzato le parole d’ordine della destra nazionalista europea, il motto del Psd per la campagna elettorale è stato: Patrioti in Europa. Prima di essere sconfitto dai conservatori del Partito Nazionale Liberale alle scorse elezioni europee, i socialisti del Psd hanno sponsorizzato per anni una politica basata sulla crescita dei consumi che ha non solo impoverito le casse dello Stato ma ha trascurato investimenti pubblici in attività industriali e agricole, nelle infrastrutture e nei trasporti. In un paese che ha solo ottocento chilometri di autostrade. E dove mancano infrastrutture, si sa, non arrivano nemmeno investitori, non arrivano cioè posti di lavoro. Perciò 3 milioni e mezzo di persone si sono trasferite altrove per sfuggire alla povertà e all’assenza di prospettive, cioè un cittadino rumeno ogni sei ha lasciato il paese. Vuol dire che se un’azienda ha bisogno di manodopera specializzata non la trova. Significa che se continuerà a calare costantemente il numero dei giovani nel mercato del lavoro, la popolazione che oggi conta 19 milioni di persone arriverà a 16 nel 2050 e sarà un problema pagare le pensioni. E aumenterà il numero degli emarginati, dei marginalizzati. Significa che chi cerca lavoro va via, e chi resta ha bisogno di sussidi statali. Intanto, una Bucarest spende e consuma. L’altra è isolata nel ghetto. “Sono realtà che non si parlano, la nuova capitale, la Bucarest del consumo, non vuole vedere la marginalità degli ultimi, tollera il ghetto di Ferentari perché non deve conviverci”, racconta ancora Franco Aloisio, mentre guida, stavolta verso Gara de Nord, la stazione principale, fino a pochi anni fa era la casa della gente dei canali, i ragazzi di strada che vivevano sottoterra “Sono due città parallele che convivono in uno spazio geografico ma non si intersecano mai. In Romania si è inceppata l’idea di comunità, chi ha avuto il potere l’ha utilizzato per depredare il paese, il paese è stato saccheggiato, è rimasto corrotto e gli svantaggiati sono rimasti indietro”. Oggi nella gerarchia degli ultimi il canale è l’ultimo stadio, ne è rimasto aperto uno a Gara de Nord. Mariu vive li, ha trent’anni ma il suo volto, il volto scavato dall’Hiv, non ha età. I suoi amici sniffano Aurolac, la vernice che provoca danni al cervello e all’apparato respiratorio, Mariu controlla il valore di qualche pezzo di bigiotteria, i furti del giorno, per fare i conti per mangiare. Non si buca più, dice. Non sapeva nemmeno di essere sieropositivo fino a qualche tempo fa. L’ha contagiato una ragazza, che ha molto amato quando nei canali c’era una vita parallela, e Bruce Lee, il boss che li controllava - ora in carcere - aveva fatto costruire sottoterra una piscina e una discoteca. La ragazza adesso è morta. Mariu ora non ha più niente, non ha aiuti, non ha la sua famiglia, che lo rifiuta. Non ha la vita dei ragazzi dei canali. Consuma il tempo e consuma sé stesso su un materasso sporco nel canale della stazione. Da quando le autorità hanno chiuso i canali dove vivevano i tossici, strada Livezilor è tollerata, perché consumatori di droghe si autoghettizzano lì, lontano dai fasti del centro città. Don Federico vive a Bucarest da due anni, cammina con disinvoltura per le vie di Ferentari, stringe le mani a chi dorme in strada, porta sollievo, parla a lungo con un ragazzo scheletrico, le braccia segnate dai tagli, dall’autolesionismo. “Sono magro perché ho fame. Non mi buco, ma nessuno mi fa lavorare perché sono rom, e vivo qui, nel ghetto”, dice. Qualcuno a Livezilor ci è finito perché è rimasto indietro, perché con l’aumento dei salari per gli statali è aumentata anche l’inflazione. E basta un intoppo, una malattia, un problema. E non ce la fai. Un giorno hai una vita dignitosa, il giorno dopo sei a Livezilor, tra i tossici, i sieropositivi. È la storia di Cristian, sessant’anni. Viveva con suo fratello e sua madre, insegnante di rumeno al liceo, in una zona residenziale nel Settore tre di Bucarest. Poi la madre si è ammalata di cancro, il Psd ha triplicato i costi sanitari, cui vanno aggiunti quelli delle medicine e il prezzo della corruzione, le mazzette ai medici e agli infermieri. E Cristian non ce l’ha fatta. Senza madre, senza soldi e senza casa. Da quattro anni vive a Livezilor, la sola cosa che può permettersi. Stringe il vangelo e il rosario. Prega e piange e non esce mai dalla stanza di dieci metri quadri al terzo piano del blocco sei, che puzza di urina e stantio, per cui paga un affitto di quattrocento lei al mese, ottanta euro. Dalla sua finestra si vedono immondizia e il via vai dei clienti della sera, chi arriva dalla capitale a prendere eroina. Per quelli come lui è più difficile, perché a Livezilor ci sono finiti, e Livezilor ti inghiotte e ti consuma. Don Federico gli stringe le mani, lo incoraggia. Sii forte Cristian. Ma lui non ce la fa a essere forte. Piange, trema. E si vergogna. Malta. Daphne, la verità insabbiata, l’ultima speranza dall’Europa di Carlo Bonini La Repubblica, 30 giugno 2019 La verità sui mandanti dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, la giornalista di inchiesta maltese dilaniata da un’autobomba il 16 ottobre del 2017, resta in ostaggio delle mosse dilatorie del Governo laburista di Malta. E anche l’ultimo atto di messa in mora dell’Europa nei confronti della Valletta rimbalza sul muro di gomma che, da trentadue mesi, il premier Joseph Muscat, il suo gabinetto e una maggioranza parlamentare schiacciante hanno alzato a protezione del Sistema Malta. Un grumo di finanza nera, clientele politiche, traffico di influenze, rapporti con la criminalità organizzata, che ha dopato l’impetuosa crescita economica dell’isola, che è stato l’oggetto del resiliente lavoro giornalistico di Daphne e in cui - come ha documentato lo scorso anno il lavoro di Repubblica e del consorzio giornalistico di cui ha fatto parte, il Daphne project - è il movente del suo omicidio. È storia di questi ultimi giorni. Il voto con cui l’Assemblea parlamentare del Consiglio di Europa (342 rappresentanti per 47 Stati membri) ha adottato a larga maggioranza, la sera del 26 giugno scorso, una risoluzione figlia della coraggiosa inchiesta condotta per il Consiglio dal parlamentare popolare olandese Pieter Omtzigt che, nel denunciare le gravi falle mostrate dal sistema giudiziario maltese nell’inchiesta sulla morte di Daphne, raccomanda al Governo di Malta l’istituzione di una commissione di inchiesta indipendente, è stata infatti accolta sull’isola con la sufficienza di chi è convinto che quell’atto sia e possa restare poco più che una petizione di principio. Un ululato alla luna. Kurt Farrugia, portavoce del primo ministro Muscat, nel chiosare la risoluzione del Consiglio d’Europa (che Malta fino alla fine ha cercato di sabotare con una serie di emendamenti), ha infatti riproposto per l’ennesima volta gli argomenti con cui, da due anni e mezzo, il Governo nega l’istituzione di una commissione indipendente di inchiesta. E cioè che questa potrebbe interferire e insieme pregiudicare l’inchiesta penale, tutt’ora in corso, sulle responsabilità dell’omicidio. Che, dunque, in linea di principio, il problema non sia il “se”, ma il “quando” battezzare la commissione. Un modo per buttare ancora una volta la palla più in là. Guadagnare altro tempo. Che è esattamente la pentola in cui è stata lasciata e continua a cuocere a fuoco lento la richiesta inascoltata di verità e giustizia dei familiari di Daphne, delle organizzazione di attivisti per i diritti umani maltesi ed europei che di quella richiesta si sono fatte amplificatori nei Paesi dell’Unione. Confidando che il tempo, la stanchezza, e la dimensione periferica dell’isola spengano per sempre il faro acceso su Malta dall’esplosione del pomeriggio del 16 ottobre 2017. Del resto, che sia il silenzio la tomba allestita dal governo laburista in cui seppellire la memoria di Daphne e celare l’inerzia di un’inchiesta giudiziaria che non ha fatto più un solo passo avanti dal dicembre del 2017 (quando furono arrestati i tre uomini tutt’ora detenuti con l’accusa di essere gli autori materiali dell’omicidio), è nelle parole con cui la famiglia di Daphne ha accolto il voto dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. “La risoluzione - scrive la famiglia - ci porta più vicini alla verità: che Daphne sarebbe ancora viva se la corruzione a Malta fosse stata indagata e perseguita in maniera adeguata e se Malta e le sue istituzioni funzionassero come una democrazia degna di questo nome. Come famiglia, abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere fare perché questa semplice verità emergesse. Ora, chiediamo il sostegno della comunità internazionale perché monitori il rispetto della risoluzione da parte di Malta nella sua parte più importante: l’istituzione di una commissione indipendente di inchiesta sull’omicidio di Daphne. Il Primo ministro non ha nulla da temere che non sia la verità”. I fatti dicono che la verità - quantomeno la piena verità - resti un incubo per il governo Muscat. Come dimostra l’avvitamento kafkiano in cui si trascina dal gennaio del 2018 l’udienza preliminare (tutt’ora in corso) che dovrebbe decidere del rinvio a giudizio dei tre uomini accusati di essere gli autori materiali dell’omicidio di Daphne. La Procura (che a Malta dipende dall’esecutivo), nonostante il giudice dell’indagine preliminare avesse rapidamente già deciso nel 2018 che le prove - nella loro schiacciante evidenza documentale - fossero sufficienti per un processo, ha ritenuto infatti di dover trascinare l’udienza. Con il risultato che il 4 agosto, se la Pubblica accusa non avrà chiesto il giudizio, i tre imputati torneranno automaticamente liberi su cauzione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Né hanno avuto alcuna fortuna le inchieste, tutt’ora impantanate, che accusano di corruzione due uomini chiave del governo laburista. Il capo di gabinetto Keith Schembri e il ministro Konrad Mizzi. Una nuova pressione internazionale, dunque, la chiave. A cui, per la cronaca, qualcuno ha già dato prova di essere sordo. I diciotto membri dell’Assemblea del Consiglio di Europa che hanno votato contro. Appartengono ad una geografia politica che dice molto della posta in gioco: Azerbaijan, Ungheria, Turchia, Cipro e Italia. Già, l’Italia. Quantomeno una sua parte. Mentre i 4 membri espressione del Pd e della sinistra votavano a favore, il no alla richiesta di verità è arrivato dal deputato dei 5S Francesco Berti, dal leghista Simone Billi, dalla senatrice di Forza Italia Maria Rizzotti, mentre si è astenuto il 5S Alvise Maniero.