La potenza del perdono. Abbandonare odio e vendetta per far del bene anche a se stessi di Elisabetta Cipollone La Stampa, 2 giugno 2019 Sono una mamma che ha perso metà del suo cuore in un gelido pomeriggio di otto anni fa. L’ho seppellito lì, insieme ad Andrea sotto qualche manciata di terra. Vittime noi, privati per sempre del suo amore. Vittima lui, portato via dalla scelleratezza umana di chi non rispetta la vita con la sua preziosa ed incommensurabile unicità. Sono una mamma che, nello stesso istante in cui le è stato comunicato che il proprio figlio non sarebbe più tornato a casa, ha dovuto compiere la scelta più difficile e affrontare la sfida più ardua per un essere umano: tentare di vivere e di non farsi schiacciare da un dolore che si fa fatica anche solo a nominare. L’ho fatto per chi era rimasto, l’ho fatto neppur sapendo a cosa e a chi aggrapparmi, se non ad un amore infinito che mi urlava di vivere, di agire, di combattere al posto di chi non avrebbe più potuto farlo. Con tenacia e avvicinandomi ad una realtà fino a quel momento sconosciuta, ottenemmo l’istituzione di una nuova fattispecie di reato per gli omicidi stradali. Con forza, impegno e determinazione inseguii il sogno di mio figlio e in Africa realizzammo, e da allora continuiamo a realizzare, pozzi profondi per l’accesso all’acqua potabile a beneficio di popolazioni massacrate da siccità e carestia. Ma i conti con me stessa continuavano a non tornare. Nulla colmava il vuoto e nulla placava l’ira. E più la giustizia umana risultava clemente con l’omicida di mio figlio, più cresceva il male che sentivo dentro, assieme all’odio, al rancore, al desiderio di vendetta. E più odiavo più stavo male. Fu ad un convegno organizzato per chiedere inasprimento e certezza della pena che mi fu proposto di partecipare ad un progetto di giustizia riparativa nel carcere di massima sicurezza di Opera. Non capii esattamente di che si trattasse ma dissi di sì. Perché di una cosa ero certa: avevo la possibilità di incontrare autori di reato, avanzi di galera ai quali “vomitare addosso” tutto il mio dolore e tutti i sentimenti negativi che provavo verso chi causa sofferenze agli altri. Ma quel carcere dall’odore pungente, il rumore assordante di porte che si aprono e si chiudono cominciavano a sortire qualche effetto inaspettato sulle mie barriere giustizialiste. Li conosco poi, li guardo, li oltrepasso, cerco di capire, cerco di arrivare nella sede dei loro pensieri. Cerco il loro cuore. Trovo una inaspettata umanità. Dio mio, che sta succedendo? Non era previsto che la clemenza potesse rientrare nei miei progetti. Mi sento disarmata e sento che la mia corazza si sta sgretolando e mi accorgo che era fatta di fragile cartapesta caduta sotto i colpi di tanto dolore. Il mio. Il loro. Il mio e il loro patimento si fondono, si uniscono si amalgamano, mi sento smarrita. Chi sono diventata? Da allora camminiamo insieme, senza troppe pretese, semplicemente prendendoci la mano. La mia che ha accarezzato per un’ultima volta il corpo esanime di Andrea. La loro che un tempo fu insanguinata di male arrecato. Io ora lo so. Ne ho le prove. Il male si può arginare, si può anche fermare, ma il bene no. Una volta innescato, si propaga come una meravigliosa reazione a catena tesa all’infinito. Risponde Maria Corbi Bella lettera, belle parole. Vivere un grande dolore, una grande ingiustizia, una perdita incolmabile, porta spesso a credere che solo ricambiando il male ricevuto si possa avere un qualche sollievo al proprio tormento. Ma non è così e la tua storia lo dimostra. Hai trovato la forza di smettere di odiare, di rispondere al male ricevuto con il bene. L’intelligenza di capire che la vera giustizia non è nella vendetta ma nel fare in modo che “il male” non si ripeta. Educando i responsabili, mettendoli di fronte alla loro colpa, al dolore che hanno causato ma anche alla speranza di poter essere migliori. Sei stata giustamente premiata per il tuo esempio ai Magna Grecia Awards, un riconoscimento che rinvia alla bellezza dell’anima e della mente, svoltosi a Massafra, in provincia di Taranto, ispirato ai valori della Magna Grecia. E quello che hai passato, il tuo percorso dall’odio al perdono, alla comprensione, alla clemenza spero possano essere di esempio, o almeno di monito, in questi tempi bui dove il giustizialismo impera e la barbarie fa capolino in molti modi. D’altronde, la nostra bellissima carta costituzionale aveva indicato la strada con l’articolo 27 in cui si dice chiaramente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E certamente il carcere come è oggi non può rieducare nessuno. Anzi. Certamente chi vi entra ne esce peggiore. E non è solo un discorso di bontà e perdono, ma anche di lungimiranza e di protezione della società. Per questo le esperienze di giustizia riparativa sono importanti. E, almeno in Italia, ce ne sono troppo poche. Mettere in galera “e buttare la chiave” non serve a niente se non ad alimentare il peggio. Le ricette delle detenute in giro per l’Italia: tre appuntamenti per “Inside Out Shared Food di Maria Michienzi cronachedigusto.it, 2 giugno 2019 Tre eventi tra Torino (Dù Cesari), Palermo (Enosteria Sicula) e Cefalù (Bastione & Costanza) con un fine nobile e benefico. Inside/Out Shared Food ripartirà da Torino il 3 di giugno grazie al sostegno della Onlus “1Caffé” la cui mission è perfettamente attinente a quella della Cooperativa Sociale “Officina Creativa” fondata da Luciana delle Donne. Entrambe, infatti, sono composte da un insieme di “persone che vogliono cambiare il mondo, con una buona azione alla volta, una volta al giorno”. Dal 3 giugno al 9 giugno sarà possibile sostenere il progetto di Micol Ferrara che mira alla costruzione di una tavola simbolica che attraversi l’Italia al fine di promuovere il recupero di tradizioni alimentari semplici e genuine così come paradossalmente ci invitano a fare proprio le detenute. Un progetto che avrà poi come esito finale la pubblicazione di un ricettario “dal carcere” che vuol essere condivisione di esperienze, buona tavola e ricordarci che nella vita c’è sempre una seconda possibilità. E che, grazie ai fondi raccolti, aumenti il “benessere” nelle carceri stesse. Un circolo virtuoso, una vera semina d’amore, alla quale ciascuno di noi è chiamato a contribuire. Durante la settimana di raccolta fondi della Onlus 1 Caffè sarà possibile partecipare ad una serie di eventi ad hoc. Si aprirà il 4 giugno alle 13,30 con lo chef Danilo Pelliccia (Ristorante Dù Cesari, corso Regina Margherita, 252 - Torino) con una carbonara accompagnata dal vino Antani della cantina La Tognazza, gestita da Gianmarco Tognazzi figlio del mitico Ugo Tognazzi. A fine pasto anche un caffè. Il 6 giugno ci si sposterà a Cefalù, in provincia di Palermo, da Bastione & Costanza (piazza Francesco Crispi, 13), in cui verrà presentata IO (Inside Out) una pizza nata e ideata dall’occasione da Marco e Costanza Durastanti. La pizza è stata metaforicamente ideata come una spirale: ciclo di vita, percorso esistenziale. L’uomo - simbolicamente il fiore di zucca - vive questo percorso ciclico fatto di luci e ombre, evoluzioni e involuzioni, contrasti tra ciò che porta dentro di sé e ciò che la vita gli pone dinnanzi. Tra risonanze e dissonanze. Qualcosa di estremamente complesso ed ambivalente. Un cammino lungo il quale, evidentemente, si può sbagliare (qui il pensiero alle nostre muse ispiratrici le donne in carcere), ma dall’errore si può anche apprendere e ritrovarsi su un nuovo sentiero. Un equilibrio che si gioca tra la sapidità dell’acciuga e la dolcezza delle mandorle. Il percorso si chiude con un fiore edule a completare il senso del ciclo con l’auspicio di un lieto fine e vivacizzare la cromia della pizza che risulta leggera nella sua espressione ma anche metafora di un messaggio profondo. Una serata che si completerà con l’amaro Neptà offerto da Ornella Spiana Ceo di Cunzato. Per concludere la raccolta fondi, si tornerà poi a Palermo dai ragazzi dell’Enosteria Sicula (via Torrearsa, 3) il 7 giugno alle ore 19 per il loro aperitivo solidale. Nel locale gestito da Danilo Ciulla, Massimo Rallo e Piero Scelfo, saranno servite tre bruschette pensate insieme alle detenute, condite con gambero sparacelli e lardo, fave e baccalà croccante, caponata bianca e mandorle. Alle bruschette saranno abbinati i vini della cantina del ristorante palermitano. Dalle 21 si potrà anche cenare alla carta. Si può davvero interrompere la solidarietà alla chiusura degli eventi o al termine della raccolta? No! Perché come ci ricorda qualcuno “la felciità è reale solo se condivisa” ed è per questo che sarà possibile continuare a donare per il progetto seguendo i meccanismi che via via saranno indicati sui social e sul sito della Onlus “1 caffè”. Si tratta in buona sostanza di donazioni rese possibile dal sostegno di piccoli imprenditori che offriranno i loro prodotti per garantire la continuità di Inside Out. Giulio Balzano ha messo a disposizione il suo olio prodotto in Umbria (Villa Monteporzano, località La Badia); Filippo Civran le sue ottime marmellate fermentate Foodstock; sarà possibile assaggiare le “Scappatelle” prodotte proprio in carcere così come il liquore di Villa Costanza, realizzato con le erbe raccolte nell’orto del locale. E non solo, si potrà donare e ricevere in cambio una cena con un bel “viaggio” nel menù straordinario dello Chef Cesare Grandi presso La Limonaia a Torino, un’esperienza unica. Silvia Meacci (Segretario Generale di 1caffè) e Micol Ferrara stanno lavorando per raccogliere via via sempre più sostegni consapevoli che fare del bene fa bene. Csm, resa dei conti. Adesso rischia lo scioglimento di Liana Milella La Repubblica, 2 giugno 2019 Uno spettro si aggira al Csm. E preoccupa il Quirinale. È quello di un possibile scioglimento qualora, dalla procura di Perugia, dovessero arrivare ulteriori prove di un coinvolgimento di singoli consiglieri di palazzo dei Marescialli - tra le file della corrente centrista di Unicost e quelle di Magistratura indipendente, il gruppo che rappresenta la destra - nelle trattative con la politica. L’obiettivo era, ed è, nominare non solo il capo della procura di Roma, ma anche quelli di altri uffici giudiziari, da Torino alla stessa Perugia dove, per una coincidenza, è andato in pensione il procuratore Luigi De Ficchy proprio a fine maggio. Lo spettro ha una sua forte consistenza. E rischia di aumentare di volume giorno dopo giorno. È nato con l’esplodere dell’inchiesta e del caso Palamara, che ieri ha lasciato l’Anm, di cui è stato presidente negli anni del governo Berlusconi, autosospendendosi, ed è stato di fatto scaricato da Unicost, la sua corrente, che già annuncia di volersi costituire parte civile nel suo futuro processo. Lo spettro è cresciuto con il coinvolgimento di Luigi Spina, Unicost anche lui, che ieri si è dimesso dal Consiglio. È aumentato ulteriormente con la notizia che altri due consiglieri, entrambi di Mi, Corrado Cartoni e Antonio Lepre, partecipavano agli incontri con Palamara, e i deputati Pd Luca Lotti e Cosimo Maria Ferri, quest’ultimo magistrato e da sempre leader super votato di Mi, anche quando andò al Csm. Tre consiglieri su 16 togati coinvolti nell’inchiesta sono un brutto colpo. Soprattutto perché due di questi - Spina e Lepre - sono ex pm, il primo a Castrovillari, il secondo a Paola, entrambi paesi della Calabria. Spina ieri si è già dimesso. Cartoni (ex giudice civile a Roma) e Lepre sono coinvolti negli incontri e solo le carte dell’inchiesta potranno dire di più. Ma proprio l’assurdo gioco delle correnti li lascia senza “eredi”, perché non esiste il primo dei non eletti, in quanto per i quattro posti di pm le correnti avevano candidato giusto quattro pm. Per Spina, e per eventuali altri pm dimissionari, bisognerà andare ad elezioni suppletive. Nel frattempo il Consiglio resterà incompleto proprio quando anche un solo voto può fare la differenza per eleggere il capo di un ufficio importante. “È una crisi istituzionale senza precedenti” diceva ieri un componente del Consiglio mentre si dirigeva alla festa del 2 giugno nei giardini del Quirinale. Una crisi che ieri ha spinto il vice presidente David Ermini, reduce dall’incontro del giorno prima con Sergio Mattarella, a riunire di sabato il comitato di presidenza, lui stesso e i vertici della Cassazione, che per una coincidenza appartengono pure loro alle stesse due correnti coinvolte nello scandalo, il primo presidente Giovanni Mammone di Mi e il procuratore generale Riccardo Fuzio di Unicost. Sul tavolo le dimissioni di Spina, ma anche lo spettro di una delegittimazione complessiva che potrebbe spingere a un gesto clamoroso come le dimissioni di una parte consistente dei togati. Tra l’ipotesi minimalista di un plenum burocratico solo per prendere atto delle dimissioni di Spina, e quella massimalista di un plenum per affrontare a 360 gradi lo scandalo delle toghe sporche, nonché delle nomine eterodirette dalla politica, Ermini ha imposto la seconda strada. Da un lato chiedere a Perugia tutte le carte per fissare i confini della “malattia” che ha colpito il Csm, e quindi trovare, se esistono, gli antidoti; dall’altra, un plenum - in cui Mattarella non sarà presente - per affrontare pubblicamente le conseguenze e le implicazioni di quello che ormai non è più solo il caso Palamara, ma il caso Csm. Con l’immediata conseguenza di bloccare sine die qualsiasi nomina. Bufera procure, Palamara si autosospende dall’Anm. Il Csm convoca plenum straordinario di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 2 giugno 2019 Palazzo dei Marescialli: “Va tutelata la magistratura”. Il pm indagato per corruzione: “Sono certo di chiarire i fatti. Voglio recuperare la dignità e l’onore”. Ma Unità per la Costituzione annuncia: “Saremo parte civile”. L’Anm: gravi violazioni deontologiche, seguiamo con preoccupazione. Dalle scelte personali a quelle collegiali: l’inchiesta di Perugia che ha coinvolto alcuni magistrati romani, scuote non solo i protagonisti, ma anche il Csm. E così, mentre Luca Palamara, accusato di corruzione, si autosospende dall’Anm con una lettera inviata al presidente Pasquale Grasso, il comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli convoca un Plenum straordinario per martedì: “Si impone oggi un confronto responsabile tra tutti i componenti per la forte riaffermazione della funzione istituzionale del Csm a tutela dell’intera magistratura”. Nella riunione verrà anche preso atto delle dimissioni del consigliere Luigi Spina, indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento dai pm perugini. Non solo. L’organo di autogoverno ha anche annunciato di avere chiesto ai colleghi umbri gli altri “atti ostensibili” oltre a quelli già arrivati a Roma dell’inchiesta. “Sono certo di chiarire i fatti che mi vengono contestati - scrive Palamara - il mio intendimento ora è quello recuperare la dignità e l’onore e di concentrarmi esclusivamente sulla difesa nel processo di fronte a tali infamanti accuse. Per tali ragioni mi assumo la responsabilità di auto sospendermi dal mio ruolo di associato con effetto immediato. Sono però sicuro - conclude il pm di Roma, che ha guidato l’Anm dal 2007 al 2012 - che il tempo è galantuomo e riuscirà a ristabilire il reale accadimento dei fatti”. Da parte sua la corrente della magistratura Unicost, Unità per la Costituzione, a cui appartiene Palamara, se al termine dell’inchiesta di Perugia dovesse aver luogo un processo, “si ritiene parte lesa, sicCHé sin da oggi ci riserviamo, in caso di successivo processo, la costituzione di parte civile a tutela dell’immagine del gruppo, gravemente lesa”. Lo annuncia il presidente Mariano Sciacca. “Più leggiamo gli articoli e ancor più ci convinciamo del danno, forse ancora non compiutamente calcolabile, che la vicenda all’attenzione della magistratura perugina porterà alla magistratura italiana”, sostiene Unicost nella nota firmata oltre che dal presidente Sciacca dal segretario Enrico Infante. “Al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni, Unità per la Costituzione, ma ancor prima ciascuno dei suoi associati, non possono accettare la perdita di credibilità davanti ai colleghi e ai cittadini”. E questa non è “ vuota retorica, ma sostanza”, affermano ancora i vertici della corrente, assicurando che tutto il gruppo è pronto ad “assumere la propria responsabilità politica senza sconto alcuno”. E aggiunge: “Chiediamo ai colleghi Spina e Palamara, iscritti a Unità di Costituzione - ai quali auguriamo di potere chiarire tutto tempestivamente - di assumersi le rispettive responsabilità politiche, adottando le decisioni necessarie delle dimissioni dall’istituzione consiliare e dalla corrente”. Intanto, in una nota, i consiglieri del Csm Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura indipendente, i cui nomi sono stati riportati da alcuni giornali in quanto avrebbero partecipato a incontri con esponenti politici per discutere della nomina del procuratore di Roma, si difendono: “Il nostro comportamento è sempre stato improntato alla massima correttezza. Non siamo mai stati condizionati da nessuno. Marcello Viola è il miglior candidato alla procura di Roma e solo ed esclusivamente per questo lo sosteniamo”. L’Associazione nazionale magistrati dice invece che sta seguendo “con estrema attenzione, inquietudine e forte preoccupazione, le notizie di stampa che si susseguono”. Si delinea, spiega una nota dell’Anm, “il verificarsi di condotte il cui rilievo penale o disciplinare è rimesso alla valutazione degli organi competenti. Gli accadimenti e le frequentazioni riferiti dagli organi di stampa, tuttavia, sotto il profilo etico e deontologico, costituiscono una grave violazione commessa da parte di chi, in attuazione delle norme costituzionali, ha la responsabilità di far parte del governo autonomo della magistratura e sono in palese contrasto con i principi e i valori che orientano i magistrati nel loro operare quotidiano”. L’Anm dunque reagisce “con forza a ogni distorsione che tenti di minare il corretto svolgimento dell’attività consiliare e, con esso, l’autorevolezza e la credibilità dell’Istituzione le cui regole e prerogative sono garanzia della indipendenza della magistratura e tutela dei diritti dei cittadini. Ritiene sia necessario avviare, all’interno della magistratura, una ampia e diffusa riflessione sulla necessità di apprestare presidi ancora più forti rispetto al rischio di condizionamento e di distorsione del fisiologico percorso istituzionale che deve necessariamente essere rispettato per l’assunzione di tutte le decisioni del Consiglio Superiore della Magistratura”. Caos nelle correnti e nel Csm. I penalisti chiedono l’intervento di Mattarella di Adriana Pollice Il Manifesto, 2 giugno 2019 Inchiesta sulle toghe di Roma. Palamara si autosospende. Martedì un plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura. Invoca l’intervento del capo dello Stato, Sergio Mattarella, nella sua funzione di titolare della Presidenza dell’organo di autogoverno dei giudici, il Csm, il presidente delle Camere penali di Roma, Cesare Placanica. Il caso Palamara ha innescato un effetto domino, con pesantissime ombre sulle nomine nelle procure di mezza Italia. Dall’inchiesta di Perugia, infatti, sembrerebbe venire fuori un mercato con al centro tentativi di piazzare magistrati amici o screditare toghe nemiche. Si è partiti con la lotta per la successione a Giuseppe Pignatone a Roma e si è arrivati alla stessa Perugia, dove Luigi De Ficchy è approdato alla pensione, con i tentativi di pilotare la nuova nomina per bloccare l’indagine Palamara, fino al caso Gela, dove secondo la procura umbra il gruppo intorno agli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore si sarebbe mosso per insediare Giancarlo Longo. Il Csm ha chiesto ai pm umbri la trasmissione degli atti “ostensibili”, oltre quelli già in possesso del Consiglio, relativi all’inchiesta che vede indagati i pm di Roma Luca Palamara (per corruzione) e Stefano Rocco Fava (per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento) e del togato Luigi Spina (pure lui indagato per rivelazione e favoreggiamento). Spina si è dimesso dal Consiglio superiore della magistratura. Martedì un plenum straordinario prenderà atto delle sue dimissioni ma affronterà anche il caos in atto: “Si impone un confronto per la forte riaffermazione della funzione istituzionale del Csm a tutela dell’intera magistratura”. Le dimissioni le ha date anche Palamara ma dall’Anm. Anche l’Associazione nazionale magistrati è preoccupata: “Gli accadimenti riferiti dalla stampa costituiscono una grave violazione sotto il profilo etico e deontologico”. Sono cominciate anche le prese di distanza da parte delle correnti dei magistrati coinvolti. Unicost, di cui fanno parte Palamara e Spina, ha diffuso una nota: “Ai colleghi chiediamo di assumersi le rispettive responsabilità politiche, dando le dimissioni dalla corrente. Non possiamo accettare la perdita di credibilità davanti ai colleghi e ai cittadini. In caso di processo ci riteniamo parte lesa”. Mentre Magistratura Indipendente ha indetto per sabato prossimo un’assemblea “pur evidenziando la gravità di alcuni fatti emersi, ove accertati, ma anche la strumentalizzazione operata da alcuni organi di stampa”. Anche Mi è finita al centro dell’attenzione dei pm umbri. I suoi consiglieri Antonio Lepre e Corrado Cartoni avrebbero partecipato agli incontri con i parlamentari dem Luca Lotti e Cosimo Ferri sulla scelta del nuovo procuratore di Roma. “Non siamo mai stati condizionati da nessuno”, si sono difesi ieri. Il sospetto della procura è che l’incontro tra i due Pd, Palamara e Spina di Unicost e i due componenti di Mi dovesse servire a favorire l’arrivo a piazzale Clodio di Marcello Viola e non di Francesco Lo Voi, che avrebbe segnato la continuità con Pignatone. Lotti avrebbe avuto interesse a intervenire poiché imputato a Roma nel caso Consip. Monza: il lavoro in carcere che rende (davvero) liberi di Dario Crippa Il Giorno, 2 giugno 2019 L’orto coltivato dai detenuti produce oltre un quintale di frutta e verdura ma per sopravvivere ora servono i clienti. Alessio ha gli occhi che brillano: “Guardi come sono belle queste fragole, le prenda, assaggi... sono dolci, vero? Di così buone al supermercato non se ne trovano”. Alle sue spalle fa capolino Leo: “E provi anche questi piselli - e intanto apre un baccello sotto i tuoi occhi - Squisiti, vero? Io me ne intendo, fino a qualche tempo fa lavoravo in un centro giardinaggio”. E adesso? Adesso Leo, 51 anni, sconta una condanna per furto, di biciclette racconta. E Alessio, che ha “20 anni da appena due mesi” dice con orgoglio, deve stare in galera per un cumulo pene per reati contro il patrimonio. In fondo, bofonchia, lui la galera l’ha conosciuta quando aveva appena 14 anni, al carcere minorile Beccaria. “Cani perduti senza collare” come Alessio, vite che hanno preso la strada sbagliata come Giorgio, che vittima della ludopatia “ho fatto una cosa molto brutta”, e quando in carcere ti senti dire così capisci che spesso si parla di omicidio. Ora però Giorgio, i segni dell’età nel volto, con l’entusiasmo di un ragazzino ti spiega tutto sulla pacciamatura, la tecnica per mettere al riparo le colture sotto uno strato naturale di verde, tenerle al caldo e all’umido, riparate dal sole, riparate dalle intemperie e dalle storture della vita. All’orto della Casa circondariale di via Sanquirico, ripartito non senza fatica il mese scorso, si impara. Un insegnante messo a disposizione dalla Scuola di Agraria del Parco viene tutte le settimane a mostrare ai detenuti come fare una pacciamatura, come innaffiare, quando piantare, come raccogliere pomodori, cipolle, insalata o cipolle, fiori di zucca “e anche menta”, fa eco Alessio. Per quei detenuti selezionati dal direttore della casa circondariale, la dottoressa Maria Pitaniello, significa per una mattina a settimana stare fuori dall’angoscia di una cella, sotto il sole, a imparare un mestiere, “a vedere il frutto del proprio lavoro che cresce - spiega - a lavorare con la terra: una delle attività più motivanti che ci siano: per questo faccio di tutto per portare avanti l’orto”. Anche quest’anno a dare una mano considerevole è una consigliera comunale e dirigente scolastica, Anna Martinetti, che assieme al sindaco Dario Allevi è riuscita a far ripartire un progetto che rischiava di morire. Di problemi da affrontare per fare un orto in carcere, infatti, ce ne sono più di quanti si possa immaginare. Nel 2016, quando tutto cominciò su spinta proprio della Martinetti e degli agenti della polizia penitenziaria, in quell’appezzamento di mille metri quadrati nel cortile del carcere c’erano solo cemento e un deposito abbandonato. Poi, col sudore dei detenuti e la buona volontà degli agenti di polizia penitenziaria, la terra è stata strappata all’asfalto. Sono sorte tre serre, sono arrivate le motozappe, sono cominciati a crescere i filari, protetti da un tetto che si apre e chiude in base alle condizioni atmosferiche e bagnati da irrigatori temporizzati. Ora anche dall’occhio vigile della Scuola di Agraria, con la qualche quest’anno è stata avviata una collaborazione. Il problema più grosso è però trovare una destinazione per i prodotti coltivati, frutta e soprattutto verdura: l’anno scorso il quintale e 300 chili di piselli, cipolle, zucchine, rapanelli, cetrioli, insalata e così via coltivati sono stati donati al Banco alimentare. Una piccola parte è finita sulla tavola dei detenuti. Ma non basta. Ecco allora l’appello del direttore e di Anna Martinetti: “Cerchiamo un mercato, qualcuno a cui vendere i prodotti. Tutti rigorosamente biologici e a km zero, ovviamente. Serve come motivazione per i detenuti, che hanno una risposta concreta ai loro sforzi, e serve per continuare a investire nella serra, per comprare attrezzature, concimi, sementi”. Finora la casa circondariale se l’è cavata con le sue forze. Ma a stento. Ora si cerca qualcosa di più. “In questo carcere ci sono 660 detenuti, il 50% stranieri, più di 300 definitivi, gli altri in attesa di giudizio. L’obiettivo dell’Amministrazione è supportare la persona a essere autonoma e responsabile”. Una seconda occasione. “Quello che ti uccide tante volte è il pregiudizio - interviene Ottavio, 42 anni, da 8 in carcere perché rapinava banche. Ho sbagliato e mi sono rovinato, a casa ho due figli e una moglie che mi aspettano: la detenzione la fai perché sai di averla meritata, ma una volta fuori è difficile trovare una seconda occasione, se la gente non è disposta a dartela”. Le mani di Giorgio ora sono sporche solo di terra e sudore. Quello buono: “Coltivare e zappare ti serve, ti porta via la mente dal pensiero fisso di quello che hai fatto: non c’è giorno che non ci pensi e non me ne penta. La colpa è mia e sconterò la mia pena. Solo... fa rabbia a volte vedere lo Stato che pubblicizza il gioco d’azzardo e ci lucra sopra”. E il giovane Alessio? “Lavorare la terra mi ricorda i nonni”. Trapani: approvata mozione “Sprigioniamo il lavoro”, formazione e lavoro per i detenuti di Francesco Tarantino trapanisi.it, 2 giugno 2019 È stata votata all’unanimità la mozione “Sprigioniamo il lavoro” presentata dalla consigliera Annalisa Bianco. Oggetto della mozione è invitare l’amministrazione a firmare un protocollo di intesa con la Casa Circondariale e la Uepe di Trapani, al fine di porre in essere tutti gli interventi relativi alla formazione, al lavoro ed all’integrazione dei detenuti. Input che ha spinto i consiglieri firmatari a presentare tale mozione è l’esigenza di dare dignità lavorativa ai soggetti sottoposti a misura detentiva, consapevoli che il mancato reinserimento lavorativo-sociale potrebbe creare un senso di desolante solitudine che spesso porta a ripercorrere strade note, non buone, non di rado più pericolose, vissute come l’unica possibilità per non sentirsi emarginati, persi, finiti. Infatti, è risaputo che a condizione lavorativa costituisce una leva psico-sociale di ineludibile valenza in quanto produce salute mentale e struttura la fiducia in se stessi, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. Soddisfatta la prima firmataria, Annalisa Bianco, che sottolinea come “questa amministrazione potrebbe puntare, mediante la convenzione, sulla valorizzazione turistica della città di Trapani anche attraverso una decisa azione di manutenzione, pulizia e decoro del centro storico, delle spiagge, dei vicoli e dei cortili, dei luoghi di fruizione sociale, mediante un utilizzo razionale del personale comunale, ma anche attraverso forme di coinvolgimento attivo della cittadinanza, del volontariato, delle cooperative sociale, oltre che avvalendosi di soggetti formati e con voglia di riscatto sociale”. “Ritengo - conclude la consigliera - che questa amministrazione possa dare la possibilità di cambiare anche a coloro che, fino ad oggi, non hanno potuto godere di questa opportunità”. Napoli: persa la posta del detenuto, da 17 anni attende i danni di Viviana Lanza Il Mattino, 2 giugno 2019 Quando fu presentata la denuncia correva l’anno 2002. Era il 21 giugno quando un pacco, spedito da un detenuto del carcere di Secondigliano per far arrivare alla moglie e ai figli che lo aspettavano a casa giocattoli, fotografie e lettere, non fu consegnato e andò distrutto. La storia finì in tribunale e ancora è lì nonostante siano trascorsi diciassette anni dai fatti. La causa, infatti, intentata contro Poste italiane da Giampiero Sessa, il 46enne napoletano che durante la detenzione in carcere spedì il pacco per i suoi familiari, è ancora in corso, e ancora nella fase del giudizio dinanzi al giudice di pace. Tra una decina di giorni, salvo nuovi imprevisti, si dovrebbe entrare nel vivo dell’istruttoria con la testimonianza in aula di uno dei testi che Sessa, assistito dagli avvocati Angelo e Sergio Pisani, ha dovuto indicare al giudice che ha disposto la prova testimoniale per verificare il danno subìto dall’utente. “Al danno si aggiunge la beffa” commenta l’avvocato Pisani sottolineando come a distanza di tanti anni diventa difficile ricordare nei minimi dettagli i fatti utili a fornire la prova del danno che si ritiene subìto. A far dilatare i tempi del procedimento, oltre ai rinvii a lungo termine, ci si è messo anche lo smarrimento del fascicolo. Ma andiamo con ordine. Il 21 giugno 2002 il pacco che Giampiero Sessa spedisce ai suoi cari non arriva a destinazione. L’uomo in quel periodo è detenuto per l’accusa di rissa. Nel pacco ci sono giocattoli e messaggi, foto e lettere, che a suo dire dovevano dimostrare i propri sentimenti nei confronti della compagna e dei bambini che erano a casa. Sessa racconta di aver avuto problemi familiari per via di quel pacco mai arrivato, perché chi lo attende inizialmente scambia quel silenzio per disinteresse e pensa che il detenuto non l’abbia proprio spedito. Invece il pacco va smarrito e si scoprirà solo in un secondo momento che è finito al macero delle Poste. Sessa chiede il risarcimento del danno alle Poste, sostenendo che la spedizione sia avvenuta in perfetta regola, con tanto di mittente indicato e pagamento effettuato. Il tentativo di conciliazione non va a buon fine e si va davanti al giudice di pace. Dopo la prima udienza arriva il primo rinvio, con nuova udienza a distanza di tre anni. I tempi si allungano fino alla scoperta che il fascicolo non si trova più: smarrito. Lo si cerca nelle cancellerie ma senza successo, e non resta quindi che ricostruirlo, il che equivale a ripartire da zero. Intanto passano gli anni perché i tempi della giustizia civile sono lunghi e i rinvii anche a un anno possono diventare più o meno la normalità. Si arriva, infine, all’udienza del prossimo 12 giugno: in calendario c’è l’esame dei testimoni. “È assurdo essere ancora nella fase dell’istruttoria dopo quasi vent’anni” dice l’avvocato Angelo Pisani, come presidente di Noiconsumatori e legale del protagonista di questa storia. “Tutto ciò - aggiunge ironicamente - dimostra che anche il sistema giustizia dovrebbe munirsi di polizza assicurativa come imposto ai professionisti per risarcire i frequenti danni provocati ai cittadini, spesso già vittime innocenti, danneggiate da condotte ingiustificabili”. Bergamo: “nella mia tesi di laurea un progetto per dare al carcere un volto più umano” di Gisella Laterza Corriere della Sera, 2 giugno 2019 Un carcere che aiuti sempre di più i detenuti a reinserirsi nella società, grazie a spazi che permettano di lavorare durante il periodo di detenzione. È questo il cuore della tesi di ricerca di Martina Biava, 27 anni, di Villa di Serio. Laureata il mese scorso in Architettura al Politecnico con il relatore Giancarlo Floridi, nella prima parte del suo lavoro ha studiato lo sviluppo delle carceri dall’800 ai giorni nostri, nella seconda ha elaborato un progetto da proporre alla casa circondariale di Bergamo in via Gleno. Catalogando le carceri nel mondo e nella loro evoluzione storica, ha notato che si sono modificate notevolmente. “Fino agli anni 2000 - spiega - non c’è un’architettura del penitenziario. Il carcere è solo una macchina di contenimento, ma questo causa, nel tempo, una perdita dell’identità della persona. L’idea che voglio presentare, invece, è creare all’interno del carcere gli spazi che permettano ai detenuti di ricoprire i ruoli che avevano in libertà, per poi riuscire a reintrodursi nel mondo esterno ed eliminare il rischio di recidiva”. Martina Biava sostiene infatti che, sebbene esista già per i carcerati il diritto al lavoro, “spesso non viene rispettato perché mancano le strutture adeguate”. Il suo modello si basa, idealmente, sui monasteri, in particolare la Certosa di Pavia, e sui beghinaggi medievali, micro città all’interno delle città. In questi luoghi “esistono le celle, dove i monaci si ritirano e godono di momenti di solitudine. Ci sono poi gli spazi in comune, per lavorare, e gli spazi di collegamento con la città”. Nel caso di Bergamo, la struttura attuale è progettata per 321 persone. Ne contiene 563 (dati aggiornati al 31 marzo 2019). È la quinta in Italia per sovraffollamento, “uno dei problemi maggiori”. La proposta è la creazione di una nuova area a nord del carcere per ospitare 100 detenuti che debbano scontare meno di 7 anni di pena in semi-detenzione (cioè potendo, su permesso, uscire per un periodo limitato). Il muro esistente andrebbe ampliato nel suo spessore, ricavando all’interno degli spazi abitabili da cui si diramerebbero due braccia, uno che contenga le celle e la parte dei visitatori e l’altro l’area dei servizi, con una mensa in comune e uno spazio per fare lavori di falegnameria o di altro tipo, “anche su commissione del Comune”. I tre muri andrebbero a formare un triangolo con all’interno una corte, simile a quella dei monasteri. “La forma - prosegue Martina Biava - segue il profilo del territorio esistente, come lo scorrere della roggia, e l’altezza degli edifici del carcere riprende quella delle abitazioni circostanti. Così il penitenziario diventa a tutti gli effetti qualcosa che si integra con la città, pur rimanendo separato”. Le celle sarebbero di 12 metri quadri, compreso il bagno, “la dimensione è la stessa delle celle esistenti, ma che attualmente sono sovraffollate”. I materiali da utilizzare sarebbero “una struttura blocchi di cemento e per rivestimento di una membrana impermeabilizzante ardesiata per abbattere i costi, la proposta è utilizzarlo per rifinitura al posto della lamiera”. Nel suo lavoro, Martina Biava si è basata molto sulla ricerca ma anche sul dialogo con ex detenuti. “Molti - cita - mi hanno detto che il carcere, per come è ancora fatto oggi, trasforma l’individuo in un problema sociale, mentre potrebbe essere una palestra, perché il tempo vuoto aumenta la capacità inventiva. Sta alla società sfruttarlo nel modo giusto”. Fa l’esempio del penitenziario di Bollate (più grande di quello di Bergamo), dove i detenuti cucinano per i visitatori e in questo modo hanno la possibilità di lavorare e continuare a mantenere la famiglia. Come dicevano Dostoevskij e Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Voghera (Pv): recupero e volontariato, alla Sensia uno stand dalla Casa circondariale fieradellascensione.it, 2 giugno 2019 Tradizione alla Sensia spesso significa antico retaggio. Sarà perché la Fiera dell’Ascensione di Voghera festeggia quest’anno ben 637 anni. Sarà perché sin dalla sua prima edizione ufficiale e approvata nel lontano 1342 si trattava di un momento eminentemente rurale e, quasi, intimo. Eppure, da evento vivo e partecipe della continua evoluzione della città, la Sensia ha la capacità unica di incorporare nuove usanze, innovazioni, buone pratiche e scolpirle da subito nell’immaginario collettivo come “autentica tradizione”. Ed è proprio quanto ha fatto nel caso di una delle più fruttuose e “buone” collaborazioni che il Comune di Voghera coltiva con spirito di integrazione e crescita. Come da diversi anni, infatti, anche per il 2019 tra i padiglioni nel cortile nord dell’ex Caserma, sarà presente il Ministero della Giustizia, nella sua articolazione territoriale al contempo più evidente eppure più isolata, la Casa Circondariale di Voghera. Dal 30 maggio al 2 giugno, il carcere cittadino sarà rappresentato dagli operatori carcerari, dai volontari e dalle persone detenute proprio all’interno del Padiglione Città di Voghera, attraverso l’esposizione dei frutti dei numerosi laboratori e iniziative allestite nel contesto carcerario nell’ottica di quello che, nel linguaggio giornalistico e comune, è chiamato “recupero”. Allo stand della Sensia sarà possibile acquistare, quindi, dolci leccornie, come fragranti biscotti, prodotti tessili e giochi intagliati nel legno, tutti realizzati artigianalmente nel dalle persone detenute. Si tratta di un’occasione preziosa per valorizzare i rapporti della Casa Circondariale con il territorio e favorire una crescente integrazione di questa realtà con la città. Un’opportunità resa possibile dallo stretta unità d’intenti che ha unito, per l’ennesima volta, la direzione carceraria con la Presidenza del Consiglio Comunale di Voghera, che si è fata patrocinatrice dell’iniziativa. I manufatti acquistabili sono disponibili grazie all’impegno dei numerosi volontari che operano tra le mura della Casa Circondariale, ma anche attraverso quelle donazioni che si raccolgono durante eventi come questo, che permettono la sostenibilità dei laboratori. Non si tratta, infatti, di sostenere semplicemente una buona azione, ma di consentire alle persone detenute di porre in essere, con interesse e passione, azioni di giustizia riparativa che valorizzano le loro competenze e risorse in una prospettiva di rientro nella società. Il ricavato delle vendite servirà per proseguire le attività laboratoriali artigianali avviate. Sensia è solidarietà, collaborazione, integrazione. Radio Radicale non si conta, si pesa di Roberto Saviano L’Espresso, 2 giugno 2019 Nel dibattito sulla sopravvivenza dell’emittente si trascura un aspetto. L’informazione che riesce a fornire su temi che gli altri media ignorano. Ancora su Radio Radicale, perché noto che nelle discussioni pro o contro il rinnovo della convenzione con il Mise per trasmettere le sedute di Camera e Senato, spesso manca una considerazione che io, invece, trovo cruciale. Avete mai l’impressione di avere tante informazioni frammentarie che, messe insieme, non creano un segmento organico? Ecco, questo sentimento le ascoltatrici e gli ascoltatori di Radio Radicale difficilmente lo provano. Non perché siano più colti o privilegiati, ma perché hanno accesso a una moltitudine di informazioni che, messe insieme, sono in grado di restituire un quadro organico. E non sono informazioni di parte. Radio Radicale ha una ricchezza di voci (non mi riferisco solo all’archivio, ma alle rubriche e ai giornalisti che le curano) che rendono l’ascoltatrice o l’ascoltatore anche incostante, mediamente informato non solo su ciò che riguarda l’Italia, ma anche su come si muove il resto del mondo. A volte mi trovo a sorridere quando Mariano Giustino legge, nella lingua in cui sono scritti, i titoli dei quotidiani turchi, immaginando forse che qualcuno qui da noi possa capire quella sequenza cacofonica di consonanti; sorrido ma poi immagino cosa accadrebbe se non ci fosse lui, ogni sabato mattina, a raccontarci dall’interno, a distanza zero, cosa accade in Turchia. La rassegna stampa turca non ha solo notizie come quella, ad esempio, della Commissione elettorale suprema (Ysk) che ha annullato - in maniera del tutto faziosa e illegittima - l’elezione del nuovo sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, che aveva strappato il centro nevralgico del potere di Erdogan, dopo 25 anni, all’Akp. No, Mariano Giustino legge commenti e reazioni, ci racconta la politica turca come se parlasse di quella italiana. Ci porta dentro e ci fa capire cosa esattamente sta accadendo ai confini orientali dell’Europa. Mi ero sempre ripromesso di scrivere sulle rubriche di Radio Radicale, ma sono tante e tutte utilissime. Non ne ho scritto finora per l’imbarazzo di sceglierne alcune e lasciare fuori quelle che non riuscirò a citare, rimando dunque i miei lettori a questo link, per capire di che straordinaria ricchezza sto parlando: www.radioradicale.it/rubriche. Altro strumento fondamentale, oggi più che mai, è la “Rassegna delle stampa e della blogosfera cinese” a cura di Francesco Radicioni; la ascolto, la riascolto e colloco l’Italia all’interno delle dinamiche mondiali. Roberto Spagnoli con il “Notiziario antiproibizionista” ogni lunedì alle 13.00 ci aggiorna su quanto ci costano le nostre politiche in materia di droga, ci dice delle iniziative che vengono intraprese, della mole di accordi non rispettati, di promesse disattese, di leggi tradite. Se oggi so che dall’inizio del 2019 nelle carceri italiane si sono suicidate 14 persone, se conosco i loro nomi e le loro storie lo devo a Riccardo Arena, che il martedì sera conduce “Radio Carcere” e lo devo a Giovanna Reanda e a Elisabetta Zamparutti che conducono “Dei delitti e delle pene”, rubrica fondamentale in cui ci raccontano lo stato della giustizia e delle carceri con uno sguardo anche e soprattutto a ciò che accade fuori dai confini italiani. Cito poi “A che punto è la notte” di Roberto Sommella, “Il rovescio del diritto” di Gian Domenico Caiazza, “Il maratoneta” rubrica curata dall’Associazione Luca Coscioni, sempre in prima linea nella battaglia per il progresso scientifico. “La rassegna stampa africana” a cura di Jean-Léonard Touadi la consiglierei a quanti parlano di Africa, di “aiutare a casa loro”, senza sapere davvero cosa accade “a casa loro”. Lorena D’Urso cura “Osservatorio giustizia”. E Michele Governatori dedica “Derrick”, ogni martedì, ai mercati legati all’ambiente e all’energia. Massimiliano Coccia in “Le parole e le cose” parla di libri con rara sensibilità. E poi ci sono trasmissioni che hanno modificato il mio Dna: lo “Speciale giustizia”, bussola nei tempi più bui, “Stampa e regime” condotto fino a un mese fa dall’amato Massimo Bordin e la fondamentale “Rassegna stampa estera” curata ogni mattina da David Carretta. Chiunque pretenda di contare le ascoltatrici e gli ascoltatori di Radio Radicale sta sottovalutando il fenomeno che ha di fronte: le ascoltatrici e gli ascoltatori di Radio Radicale non si contano, si pesano perché sono portatrici e portatori sani di informazioni verificate, approfondite. Sono ottimisti, anche nell’ora più buia, perché hanno dalla loro un bene assai prezioso: la conoscenza. “Rifarsi una vita”: esperienze e sogni di otto ex detenuti raccolti in un libro di Silvia M.C. Senette Corriere dell’Alto Adige, 2 giugno 2019 Caritas, storie di carcere e di speranza. Otto storie di carcere, sette uomini e una donna che dopo essere stati dietro le sbarre cercano di ripartire da zero nel mondo di fuori. Nel libro “Rifarsi una vita Storie oltre il carcere”, gli autori Paolo Beccegato e Renato Marinaro, raccontano le vicissitudini che hanno portato i protagonisti in prigione. Il testo, voluto dalla Caritas per dimostrare che ricominciare è possibile, sarà presentato mercoledì prossimo al Kolping alle 18.30. “Mi chiamo Carmine, sono nato nel 1974 a Torre Annunziata, Napoli. Sono cresciuto conoscendo subito la strada: nel mio quartiere se volevi fare i soldi trovavi il modo, c’erano sempre persone più grandi che ti offrivano sigarette e diecimila lire, bastava fare loro un favore”. L’incontro con la droga giovanissimo, lo spaccio, l’inferno della microcriminalità. Carmine ha scontato la sua pena nel carcere di Bolzano. Ora è fuori, ha iniziato una nuova vita. Ed è l’esempio che cambiare e ripartire si può. È una delle testimonianze narrate nel libro Rifarsi una vita - Storie oltre il carcere. Carmine è “un napoletano doc di una simpatia travolgente che farebbe invidia a Totò”, scrivono di lui Paolo Beccegato e Renato Marinaro, gli autori delle otto storie del libro, che mercoledì (ore 18.30) verrà presentato a Bolzano nella sala grande di Casa Kolping, in largo Adolph Kolping. Un appuntamento aperto a tutti e promosso dal Centro per la Pace e Caritas diocesana. Sette uomini e una donna che, per vicissitudini della vita, sono finiti dietro alle sbarre e a distanza di anni, dopo un percorso di introspezione e recupero, prendono coscienza di sé e dei propri errori, scoprendo con sorpresa che qualcuno si fida ancora di loro. E che anche loro possono fidarsi. Una dare reciproco, che stimola il cambiamento e li aiuta a ritrovare la strada giusta. A rinascere. Un’altra possibilità per una seconda vita. Come Francesco, il vero nome di Carmine, che ha scontato cinque anni e mezzo nel carcere di Bolzano dopo che, nel 2009, è stato arrestato al Brennero per traffico di droga. Affiancato dai volontari di Odòs, il servizio della Caritas altoatesina dedicato ai percorsi di giustizia, ha deciso di uscire allo scoperto e di partecipare agli incontri pubblici per raccontare la sua esperienza e dare un volto e una voce al protagonista di “Solo per i miei figli”, il capitolo a lui dedicato. Una narrazione che parte dall’infanzia di Francesco Carmine a Torre Annunziata quando, bambino, prendeva laute mance per fare “favori” ai più grandi. “Avere la loro stima e il loro riconoscimento era importante, altrimenti non eri nessuno - racconta -. Mio fratello è entrato presto in questo giro, è finito in carcere già da minore e ora sconta la pena dell’ergastolo, perCHé coinvolto in un omicidio”. Una realtà difficile, quella di certi quartieri di Napoli, di cui Carmine-Francesco ha preso consapevolezza solo a distanza, quando una sentenza lo ha costretto nella casa circondariale altoatesina e lì, a contatto con detenuti e volontari, ha cambiato mentalità e ha capito che per lui un futuro “pulito” nella sua città non era più possibile. E così, grazie alla Caritas, ha potuto sfruttare i permessi periodici per vedere a Bolzano la moglie e i due figli e, una volta libero, ha deciso di portare al nord la famiglia. “Si è fermato qui, ha trovato lavoro come camionista perché anche in cella aveva mantenuto tutte le sue patenti, ed è riuscito in un brevissimo arco di tempo a trovare un alloggio per sé e per i suoi figli - spiega Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio Odòs. Si sono integrati tutti molto bene e con la moglie ha avuto una terza figlia”. Una storia, permeata dal profondo amore per i suoi bambini e dal desiderio di dare loro un avvenire normale, molto simile e al contempo molto diversa dalle altre sette storie che compongono il volume di cui si discuterà mercoledì pomeriggio a Bolzano con don Dario Crotti, direttore della Caritas di Pavia, e l’operatrice Paola Dispoto. In tutte, però, torna il tema della responsabilità, di un’esperienza difficile da rielaborare, del momento in cui la delinquenza si incrocia con una vita apparentemente come tante e, soprattutto, dell’incontro decisivo con i volontari che li hanno “rimessi in carreggiata” fino alla rinascita e al riscatto sociale. E come Carmine, anche Ivan, Marta, Jimmy e gli altri protagonisti delle storie, hanno visto la loro esistenza deragliare: l’ambiente, il miraggio di soldi facili, eventi traumatici improvvisi, violenze domestiche e momenti di rabbia che li hanno fagocitati in un baratro apparentemente senza uscita. “Ma la strada per ricominciare c’è sempre”, rassicura Alessandro Pedrotti. “Almarina”, di Valeria Parrella. La professoressa Maiorano, madre “ricollocata” recensione di Teresa Franco Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2019 Almarina è un nome e una speranza. In queste sillabe, chiare come l’acqua che abbraccia Napoli e cancellai confini, Valeria Parrella ha sentito il richiamo delle sirene. Difficile non cedere al fascino di una promessa, al desiderio di libertà. E allora ha inventato una scrittura densa e leggera al tempo stesso, perché - come avverte la sua protagonista - è opalina la vera trasparenza del cuore. A cercare di leggerci dentro, si colgono solo riflessi e iridescenze. Non si capisce mai a che profondità si può arrivare. Dove finisce l’intuito e inizia la comprensione. Procedendo così, per sorprese e paure, frammenti e ricordi, sembra quasi che la storia non abbia bisogno di una fine e, pur accettando le convenzioni di un prologo e di un epilogo, si propaghi come le onde, o si aggrovigli attorno ai pensieri di Elisabetta Maiorano che di mestiere fa la professoressa di matematica, ma dalla vita si sente in esilio. Il tempo è fermo da quando Elisabetta è rimasta vedova, senza Antonio, ma con la voglia di una famiglia e il rimorso di essere arrivata troppo tardi. Da allora le giornate si misurano solo attraverso i suoi spostamenti: da Napoli a Nisida, il promontorio collegato alla terraferma da un lungo rettilineo; e da un quartiere borghese all’aula di una scuola speciale, dentro un carcere minorile, passando per tutti gli odiosi rituali del servizio di sicurezza. Eppure, sono proprio questi meccanismi disumanizzanti a spogliarla di ogni privilegio o colpa, lasciandola sola davanti alla verità del suo nome: “mi chiamo Elisabetta Maiorano” ripete con disarmante candore la professoressa. Confessare le sue inadeguatezze è infatti l’unico modo per darsi coraggio. L’unica difesa davanti ai gesti inquisitori delle guardie o le occhiate oblique dei suoi studenti. Come svolgere altrimenti il ruolo di educatrice portandosi un fardello di sofferenza così grande? Come nascondersi dietro la disciplina, sapendo che ogni regola, altrove legittima, qui è inammissibile? L’unico principio valido è adattarsi, sospendendo il giudizio, “ricollocarsi”, dice Elisabetta, e intanto accetta che uno dei suoi studenti la chiami a suo piacimento “maestra, dottoressa e prof”, qualche volta sfacciatamente anche “vir’a chesta”, come se lei fosse invisibile. “Ricollocarsi” significa ignorare il programma ministeriale, usare dei semplici fogli bianchi al posto dei libri, mostrarli ogni giorno a un gruppo diverso, senza il conforto di una penna rossa o del registro. Non sempre, però, “ricollocarsi” indica una misura restrittiva; talvolta significa sconfinare, andare oltre il circuito rassicurante delle proprie competenze. Nella scuola di Nisida Elisabetta non porta solo angoli e rette, addendi e moltiplicazioni, ma soprattutto quello che crede di non saper fare: raccontare una storia, e, se occorre, reinventarla più bella o meno triste. Seguendo questa pedagogia, persino Gramsci, uno dei punti di riferimento dell’autrice, diventa un detenuto qualunque: “Che importa che aveva fatto? Perché io a voi ve lo chiedo che avete fatto? Era un carcerato, e queste sono lettere di un carcerato. Gli davano ogni quindici giorni un foglio protocollo e gli doveva bastare, tu puoi scrivere un quaderno intero”. Ai suoi studenti Elisabetta insegna il riserbo, perché una lettera può ferire quando si è adolescenti e non si capisce pienamente la differenza tra dentro e fuori. Lo sa bene la professoressa, che quel confine lo varca ogni giorno, e tiene stretto il passaporto, invece della carta d’identità, perché lì non compare il suo stato coniugale. Lo sa bene, lei che ama Napoli nei bagliori rosa dell’alba, quando non è ancora la “città involontaria” che risucchia i suoi figli e di cui parlava Anna Maria Ortese. Lo sa bene, questa donna di 5o anni, che il fuori può far paura più del carcere. E quando si trova di fronte Almarina, la ragazza romena con un passato violento alle spalle, non riesce a commiserarla. Nei suoi sedici anni vede la bellezza, i capelli corti che ricrescono, una vita che può ricominciare. Almarina è una sorella prima di essere una quasi figlia. È con lei che Elisabetta Maiorano ritrova la forza per essere felice, e poi riconosce in questo istinto sopito “l’amore delle madri: senza merito, senza reciprocità e senza conquista”. E, ancora, è per lei che Valeria Parrella ha scritto un libro poetico e civile. “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri” recensione di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2019 È la festa della Repubblica anche lì. E loro l’hanno voluto ricordare, con un’iniziativa senza precedenti nel mondo. La Costituzione non si ferma davanti ai muri di cinta. E dall’altra parte dell’orizzonte, l’hanno voluta portare i giudici della Corte Costituzionale. Con un viaggio negli istituti penitenziari. E ora con un film, dentro queste città invisibili. “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper Media, è la storia di molti incontri, di un’umanità dolente e di vite che la Carta costituzionale non trascurava. Un viaggio, che è il racconto di un continuo scambio tra due mondi chiusi: da una parte, i sommi custodi della Carta fondativa, i giudici di leggi e non di persone; dall’altra, coloro che le hanno infrante, le leggi. I primi, chiusi tra gli stucchi del Palazzo della Consulta e fino a due anni fa sconosciuti all’85% degli italiani; i secondi, obbligati tra celle, raggi e camminamenti. Rimossi dallo sguardo e dalle coscienze e qui invece svelati, in una dimensione diversa da quella creduta. Così non sono “barbari” i detenuti incontrati, ma facce comuni. La pellicola, per la regia di Fabio Cavalli, proiettata in anteprima a Roma il 5 giugno, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha condiviso lo slancio della Corte di uscire dal Palazzo e mettere i piedi nella realtà - ripercorre questo dialogo senza toghe, né matricole. Ma con un linguaggio comune, la Costituzione, e una successione di volti: quelli dei giudici e dei detenuti, ciascuno con il proprio vissuto, con gli errori commessi o le opportunità ricevute, con i drammi patiti e i bisogni condivisi: volti che, come già documentato dai video delle singole tappe, si avvicinano, si toccano, si confondono intorno ad uno stesso desco. “Voi siete parte di questa comunità che è la Repubblica italiana”, scandisce la vicepresidente della Corte, Marta Cartabia. E l’applauso sorgivo e prolungato cancellala distanza del “noi e loro”. Da vicino, allora, tutto cambia. E restano solo le persone davanti alle telecamere, entrate con i giudici nel carcere vero. In celle affollate, dove si fanno i turni per sgranchirsi le gambe; dove la luce filtra obliqua, tra grate ingombre di panni; in corridoi dove braccia coperte di tatuaggi si allungano al di là dei chiavistelli e l’aria stessa è reclusa, mentre c’è chi salmodia un rosario e chi stende il tappeto verso La Mecca. Tra i detenuti comuni c’è anche chi rinuncia ai permessi di uscita, perché aldilà del muro non lo attende nulla di meglio. Ad ogni mandata di chiave, si snoda il romanzo corale di questi vinti, che espiano dietro le sbarre la rottura del patto collettivo, sempre più spesso maturata tra i gironi della tossicodipendenza e della marginalità sociale. In nome del popolo italiano, loro sono stati limitati nel movimento, ma non negli altri diritti, affinché affrontino un percorso che li restituisca migliori all’esterno. Ma il carcere troppe volte genera altro carcere. Così ad ogni voce rimbomba un frammento di Costituzione: è davvero rispettata la funzione rieducativa? Siamo davvero tutti uguali davanti alla legge, come chiede un ragazzo del carcere di Nisida e come indicano i padri della Repubblica? Non ci sono sentenze durante il cammino, che è geografico, educativo, emotivo e che come il Viaggio in Italia di Guido Piovene prova a portare alla luce quanto era nel buio. La Corte Costituzionale ha affrontato il suo viaggio, “per conoscere e farsi conoscere”, introduce il presidente Giorgio Lattanzi. E in questo percorso tutti hanno da imparare. E può proseguire ogni volta che ciascuno riesca a separare il reato dalla persona. Come fanno i familiari delle vittime, quando incontrano i carnefici. Come riescono alcuni musicisti, attori, artisti invitati per l’anteprima, alla vigilia della messa in onda sulla Rai. A conclusione del viaggio si diffondono le note dell’inno nazionale, sventolano dalle sbarre i panni colorati dei detenuti, novelle bandiere di un pezzo di Repubblica. L’anteprima - “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle carceri” sarà proiettato in anteprima all’auditorium Parco della Musica di Roma, sala Sinopoli, il 5 giugno alle 20.30. Sarà presente il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sarà trasmesso su Rai Uno il 9 giugno in seconda serata (speciale Tg1). È una produzione Clipper Media con Rai Cinema; regia e sceneggiatura di Fabio Cavalli, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. I giovani, migranti invisibili e cittadini di seconda classe di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 2 giugno 2019 Nel solo 2018 se ne sono andati all’estero in 120 mila, numero di poco inferiore agli abitanti della Valle d’Aosta. La quota dell’emigrazione giovanile è quintuplicata in dieci anni. Quella dei laureati è raddoppiata. I giovani italiani? Migranti invisibili e cittadini di seconda classe. Sono pochi e, dunque, politicamente non contano nulla. Nemmeno con il “governo del cambiamento”. In un Paese anziano sembrano, ormai da molto tempo, più tollerati che incoraggiati. Il governatore della Banca d’Italia ha letto venerdì le sue Considerazioni finali davanti a una platea con scarsa presenza giovanile e femminile. Ma dalle parole di Ignazio Visco e dalla corposa relazione della banca centrale emergono dati su cui riflettere. I commenti del giorno dopo sono stati però in gran parte dominati da altre emergenze. Dal macigno che pesa sul presente (il debito). Dal futuro che si vorrebbe ipotecare spendendo di più (deficit) senza aumentare gli investimenti. Dalla spesa per interessi (il passato) superiore a quella dedicata a scuola e università (il futuro). “L’Italia invecchia rapidamente e la popolazione tende a ridursi - ha detto Visco - sono caratteristiche comuni a molti Paesi, più marcate da noi”. Nei prossimi 25 anni la popolazione compresa tra 20 e 64 anni diminuirà di sei milioni, “nonostante l’ipotesi di un afflusso netto dall’estero di 4 milioni di persone in questa classe di età”. La quota degli over 65 nell’Unione europea sarà pari al 28 per cento. Da noi toccherà il 33 per cento. Lasciamo perdere per un attimo gli immigrati. Notiamo solo che la quota di laureati tra loro (13 per cento) è - come scrive Visco - meno della metà della media europea. Cioè i più istruiti vanno altrove. Parliamo invece dei migranti italiani. Nel solo 2018 se ne sono andati all’estero in 120 mila, numero di poco inferiore agli abitanti della Valle d’Aosta. La quota dell’emigrazione giovanile è quintuplicata in dieci anni. Quella dei laureati è raddoppiata. Poi ci sono i migranti interni. Sempre secondo la relazione della Banca d’Italia, nel decennio 2007-2017 il Mezzogiorno ha registrato un deflusso netto verso le altre regioni di 480 mila persone, quasi la metà degli abitanti di Napoli. Il Sud ha perso 193 mila laureati, di cui 165 mila verso il Centro Nord. Nello stesso arco temporale dal Nord se ne sono andati all’estero 300 mila cittadini, di cui 69 mila laureati. Se quella massa di giovani migranti italiani (che non vengono purtroppo prima, per parafrasare uno slogan di successo) si fossero imbarcati tutti parleremmo di un’emergenza nazionale. Invece silenzio. Sono invisibili. La mobilità è una necessità, un valore. L’esodo in massa un peso sulla nostra coscienza nazionale. Nei giorni scorsi è stata pubblicata la classifica Ocse sull’attrattività dei talenti. L’Italia è quart’ultima. Precede solo Grecia, Messico e Turchia per quanto riguarda i lavoratori altamente specializzati, con master o dottorati. Non si può dire poi che l’occupazione giovanile sia in ripresa. Nel 2018, attingendo sempre alla relazione della Banca d’Italia, il tasso di attività, tra 15 e 24 anni è sceso; tra 25 e 54 anni è rimasto stabile. È cresciuto solo per i più anziani. Quota 100 si riteneva che potesse liberare posti per i giovani. Si era arrivati pure a dire (Conte e Di Maio), che per ogni pensionato si sarebbero aperte anche tre possibilità. Salvini ha ammesso (Corriere, 22 maggio) che si libererà “un posto di lavoro ogni due persone che andranno in pensione”. Lo stesso Reddito di cittadinanza, sempre leggendo la relazione della Banca d’Italia, “nel confronto con il Reddito d’inclusione, è relativamente meno generoso per i nuclei con minori rispetto a quelli con soli adulti”. Un programma serio per favorire la natalità è sempre rimasto tra i buoni propositi, insieme a quello per realizzare una vera parità di genere che accresca l’occupazione femminile senza penalizzare la famiglia. Il tema annoso dell’occupazione giovanile non è solo una questione di incentivi fiscali, di decontribuzioni contrattuali. È qualcosa di più sottile e preoccupante. Le politiche pubbliche sono inadeguate, certo. Ma non basta questa consolidata carenza a spiegare la costante sottovalutazione culturale dell’investimento nei giovani. Atteggiamento tipico di una società anziana, refrattaria all’innovazione, in ritardo nel cogliere le sfide del mondo digitale, in parte ripiegata su sé stessa. Ciò è il riflesso di un ridotto livello di conoscenze e competenze di giovani e adulti, nota ancora la Banca d’Italia. Ma anche, aggiungiamo noi, il portato di un modesto ricambio generazionale, dell’inesistenza in molte delle aziende italiane di piani di successione, di percorsi di carriera più gratificanti. E di retribuzioni per diplomati e laureati meno umilianti. Ci prendiamo cura degli anziani, ed è un meritevole aspetto del nostro capitale sociale, ricco di buone relazioni e spinte solidali. Meno dei giovani, forse perché in parte se ne sono andati. Non ci sono, dunque invisibili. Nessuno parla delle loro pensioni, soprattutto integrative, che probabilmente non avranno mai o riceveranno in modesta entità, visti i rapporti discontinui e di basso valore contributivo. Oltre due milioni di loro non studiano né lavorano. Un grande spreco di vite e di talenti. In altre stagioni avrebbero manifestato nelle piazze. Oggi se ne vanno. Una protesta silenziosa. Parentesi chiusa. Ora possiamo tornare a occuparci, come si fa da troppi anni, di come addebitare loro, indebitandoci di più, errori, egoismi e miopie di generazioni più fortunate. Massimo Ammaniti: “Violenze e social, ecco la società senza genitori di Antonio Polito Corriere della Sera, 2 giugno 2019 Lo psicoanalista: “È in crisi l’asse centrale della famiglia: fare figli e allevarli. Noi umani siamo dotati di un sistema che serve a prendersi cura dei piccoli, è un fatto biologico”. Professore Massimo Ammaniti, ci aiuti. Qui c’è bisogno di uno psicanalista. Che sta succedendo nelle famiglie italiane? Un tempo, neanche troppo tempo fa, eravamo campioni mondiali di familismo, la famiglia era al centro di tutto, nel bene dell’accudimento amorevole che dura una vita, dei legami di solidarietà e di affetto; e anche nel male del familismo amorale, del nepotismo, del paternalismo. Oggi invece della famiglia si parla solo in campagna elettorale e nella cronaca nera, perché dalle famiglie provengono alcune tra le storie più dolorose e ripugnanti. “È andato in sofferenza l’asse centrale e cruciale della istituzione-famiglia, la sua legge fondamentale: la scelta della procreazione, l’impegno che comporta l’allevamento, le rinunce e i sacrifici, sembrano sempre più ostacoli alla ricerca della felicità individuale, alla cultura del narcisismo, che mette al centro della vita la soddisfazione dei propri desideri. Abbiamo visto, nel giro di poche settimane, nella periferia di Milano, nella provincia piemontese, in un paese del Frusinate, tre vicende di maltrattamenti e abusi nei confronti dei figli piccoli da parte di genitori in condizioni di grave marginalità sociale, con storie di droga e alcol, padri e madri irascibili e violenti o acquiescenti e complici, che hanno preso a botte i figli fino a farli morire. E perché? Perché piangevano, si lamentavano, davano fastidio, impedivano il sonno o l’intimità dei genitori. Avrà notato che si tratta sempre di bambini intorno ai due anni. È il momento in cui un neonato, che va solo nutrito e pulito, diventa un essere umano che si muove, cammina, ha caldo e freddo, fa richieste continue. Alla prima prova con il duro mestiere di genitore, queste persone non hanno retto. Sono solo la punta dell’iceberg. I dati sugli abusi nei confronti dei minori ci dicono che otto casi su dieci si verificano in famiglia. È lì che vive l’orco delle favole”. Questa è la patologia dell’abbandono, della deprivazione. Ma la normalità? A me pare che il problema più grande delle famiglie italiane è che di figli ne fanno ormai davvero pochi. E chi se ne lamenta, segnalandolo come il problema principe della nostra comunità, viene subito trattato come un reazionario, un tradizionalista, un cripto-fondamentalista. “La laicissima Francia ha preso di petto il problema della natalità, e ha messo in campo negli anni delle politiche di aiuto alle famiglie che hanno avuto ottimi risultati, tanto che oggi la natalità è più o meno sul tasso di rimpiazzo demografico, due figli per ogni donna in età fertile; mentre noi siamo a 1,32, praticamente il Paese dell’Occidente dove si fanno meno bambini. E - sono d’accordo - non è solo un problema sociale o economico. Anche se occupazione femminile, sgravi fiscali, asili nido, tempo parziale, contributi per il baby sitting, sono fattori decisivi per consentire a chi vuole generare di provarci. Ma poi ci sono anche quelli che non vogliono figli perché trovano più bella una vita senza, o li vogliono il più tardi possibile, e spesso è troppo tardi. E questo è un fatto culturale. I figli sono considerati problemi, impegni, condizionamenti, in conflitto con la realizzazione dei propri desideri. L’ha scritto anche il Papa nell’esortazione Amoris laetitia, e secondo me ha ragione, che c’è in giro troppo individualismo. Nel rapporto 2016 l’Istat calcola che il 34% delle famiglie italiane non ha figli. E del rimanente 66% con prole, il 46 per cento ha un solo figlio. È scomparso un mondo, quello dei fratelli e delle sorelle. Un mondo che consentiva ai ragazzi di non essere adultizzati fin dalla nascita, di avere un’infanzia. Se non partiamo da questo epocale cambiamento non comprendiamo niente. Una società che non fa figli si spegne”. Con la denatalità muoiono anche idee e valori del passato. Come si fa a spiegare la “fraternità” a una generazione di figli unici? “Inoltre un bambino che cresce solo con gli adulti è spesso vittima di una iperstimolazione, che è l’altra faccia dell’abbandono, ma ha effetti negativi sullo sviluppo infantile. Li ha visti tutti questi bambini tenuti al ristorante fino a ora tarda? E tutte quelle che io chiamo le protesi educative? Il tablet già nel passeggino, il video per i viaggi in treno, YouTube a colazione, come se avessimo assunto una balia elettronica per essere un po’ lasciati in pace. Ci sono ricerche che dicono che già a otto mesi un bimbo cui vengano offerti un pupazzo e uno schermo rivolge la sua attenzione allo schermo. Così si mettono le basi per forme patologiche di dipendenza dal video. Un bambino che va a letto con la storia letta dai genitori invece ne trae un vantaggio non solo in termini di sviluppo del linguaggio, ma anche di abilità sociale, perché impara il gioco dei significati del comportamento umano, il codice della crescita”. Prima parlavamo dei dati Istat. Ma secondo lei è “famiglia” anche un nucleo senza figli? Gli inglesi dicono “household” che è un termine più neutro e generale, indica i gruppi umani che vivono insieme, non necessariamente legati da rapporti di sangue. “Dal punto di vista statistico, in Italia vengono definite famiglie anche i nuclei composti da una sola persona, cioè i single. E non voglio certo discutere qui dello stile di vita che ciascuno si sceglie. Ma è un fatto indiscutibile che noi umani siamo dotati di un apposito sistema di care-giving predisposto dall’evoluzione nella corteccia orbito-frontale, e che serve a prendersi cura dei piccoli della specie. È una esigenza, diciamo così, biologica. Dal punto di vista sociale, poi, dobbiamo sapere che in una famiglia con figli è più agevole l’acquisizione di quella caratteristica cruciale dell’essere umano, il suo vero successo evolutivo, che chiamiamo “mentalizzazione”, e cioè la capacità di vedere il punto di vista degli altri, di capire che il comportamento dei simili nasce da stati d’animo simili ai nostri. Vale per i ragazzi, che se non fanno questa esperienza in famiglia poi arriveranno senza maturità all’incontro con il gruppo dei coetanei; ma vale anche per gli adulti, che diventando genitori imparano a vedere il mondo attraverso gli occhi dei figli, una singolare e travolgente esperienza di trasformazione. E la “mentalizzazione” è contagiosa, è una scuola di educazione al vivere in società”. Adesso che me lo dice capisco che cosa è che non va nei “social”: mancano persone disposte a mettersi nei panni dell’altro, per vedere le ragioni altrui, che è poi la condizione sine qua non della società aperta e della discussione pubblica. Ma che succede a un adolescente se in famiglia non riesce ad apprendere questa skill della “mentalizzazione”? “Succede quello che è successo a Manduria, o a quel gruppo di giovani della periferia romana che hanno preso a sassate un rider di colore che si pagava l’università consegnando la pizza. Succede che alla logica della società, che è inclusiva, si sostituisce quella del gruppo, o peggio del branco, che è esclusiva. Sempre più spesso anche il social network è un branco. In quella logica si è inclusi se si esclude il fragile, il goffo, il timido, il malato, il disabile, il nero, chiunque sia in una condizione di vulnerabilità. L’Unicef calcola al 37% la percentuale dei ragazzi che sono stati in un modo o nell’altro vittima di episodi di bullismo. Perché i deboli, a quella età, sono tanti. E la socializzazione malata, priva della educazione che avviene in famiglia, è spietata nel rifiutare la debolezza”. Se ho capito bene lei sta dicendo che gli adolescenti narcisisti di oggi sono la prima generazione di bambini cresciuti in famiglie narcisiste? “Esattamente. Escludere l’altro per sentirsi incluso. Questo è il contrario della socializzazione, è la tribù. L’esperienza del rifiuto è poi drammatica per chi la subisce. Ha conseguenze serie sullo sviluppo del carattere e genera stati d’ansia e di depressione. Io osservo nella mia esperienza che questo meccanismo è ormai prassi nelle scuole superiori; anche, e forse perfino di più, nei migliori licei delle grandi città, dove i professori sembrano disarmati, e i genitori distratti. E guardi che ciò che succede nelle discoteche dei quartieri borghesi di Roma, dove di recente è stata violentata una ragazza etiope da tre giovanissimi, alcol, sostanze, pasticche, viene sempre più spesso iscritto alla categoria dello “sballo”, come se fosse una forma naturale, e solo un po’ più esuberante, di divertimento. Arancia meccanica di Kubrick era la storia di un gruppo di psicopatici. Ma quanto profetico è stato quel film nello svelare il sottile piacere della sopraffazione, della intimidazione e della violenza che dorme in ciascuno di noi, e che solo quella raffinatissima forma di educazione che è la cultura può dominare. Ciò che è successo a Manduria a quel povero sessantenne, morto al culmine di un calvario di cattiveria gratuita e di sevizie, è l’arancia meccanica dei giorni nostri”. Cosa ci può salvare? Cosa è rimasto di buono nella famiglia italiana? Cosa dovremmo fare, oltre che fare più figli, stare di più con loro, saper correre il rischio educativo? “Ci può salvare l’impegno. L’etica della responsabilità. Un bene comune da perseguire. Ci sono milioni di volontari in Italia. Quella è la cura. Ci sono 150.000 scout, quella è la palestra. Ma l’impegno civile potrebbe vivere in mille altri modi. Le racconto un episodio che ho vissuto di persona, e non dimentico. Dopo il terremoto dell’Aquila, un gruppo di università italiane pensò di replicare ciò che l’ateneo di Harvard aveva fatto in Giappone, a Kobe, dopo il terribile sisma che l’aveva colpita. Proponemmo al ministero dell’Istruzione un progetto per coinvolgere i ragazzi delle scuole nella ricostruzione, dedicandovi due pomeriggi alla settimana in cambio di un piccolo salario. L’esperienza di Kobe aveva dimostrato che un impegno collettivo poteva aiutare a combattere quei fenomeni di spaesamento, depressione, isolamento sociale, che spesso si accompagnano alle catastrofi nel comportamento dei giovani. Ci risposero che erano troppo giovani per quel tipo di cose, che i ragazzi andavano piuttosto tirati su di morale, che nelle scuole avrebbero invece mandato i clown. Ecco che cosa intendo: non li prendiamo mai sul serio, non crediamo che possano diventare adulti, forse perché noi genitori rifiutiamo di esserlo, e ormai siamo già cinquantenni quando loro diventano adolescenti, e così si somma la nostra crisi di invecchiamento alla loro di crescita. Ci capita addirittura di entrare in competizione, quasi invidiandone la gioventù. Si formano così famiglie liquide, un magma dove le generazioni non si distinguono più, e nelle quali inevitabilmente l’autorità deperisce e svanisce, perché nessuno se la sente più di incarnarla”. Ma esercitare la propria autorità con i figli è diventato pericoloso. Chi prova a mettere regole in casa si trova di fronte alla contestazione classica: ma gli altri lo fanno. Se resisti sull’acquisto del telefonino ti mostrano i compagni che ce l’hanno. Abbiamo paura di essere odiati dai figli, di non essere buoni genitori... “E invece i genitori questo devono fare, se sono adulti e non adultescenti. Un genitore buono è un genitore finito, che ha rinunciato al suo compito di educatore. Le regole non possono più essere certamente imposte come accadeva quando eravamo ragazzi noi. Non è più il tempo per padri padroni, ma questo non vuol dire che non ci sia bisogno di regole. Discusse, frutto di mediazioni, costruite per quanto possibile con il consenso, ma servono. Sono gli stessi ragazzi, inconsciamente, a chiederci una guida. Altrimenti, senza una leadership, neanche la ribellione è possibile, e invece è la cosa più sana che possa succedere a quella età”. Un tempo i ragazzi avevano fretta di crescere e di andarsene, proprio per emanciparsi dall’autorità paterna, fare di testa propria, costruirsi la libertà e l’intimità di cui un adulto ha bisogno. Oggi questa fretta non c’è anche perché i genitori non esercitano più tanta autorità, li trattano come fratelli e li proteggono come se ne fossero i sindacalisti? “I genitori devono fare il possibile perché i figli conquistino la loro autonomia e vadano via di casa, a cominciare la loro vita. Attenzione ai falsi sentimentalismi. Troppo spesso li tratteniamo dicendo a noi stessi che sono loro a voler restare. Convivenze eccessivamente lunghe tra generazioni diverse sono innaturali. Io scolpirei sullo stipite di ogni porta, in ogni casa, una frase di Erik Erikson, lo psichiatra che negli anni 60 studiò il tema della identità: “Se i genitori non accettano la propria morte, i figli non potranno entrare nella vita”. Il più delle volte sbagliamo proprio per questa paura inconscia. Oscuramente avvertiamo che la loro crescita si accompagna alla nostra fine. E proviamo a impedire entrambe. Perché l’uomo del Duemila, nel suo delirio di onnipotenza, pretende di vivere come se fosse immortale”. Ecco perché non è vero che “gli immigrati hanno il record di scabbia e Tbc” di Michele Bocci La Repubblica, 2 giugno 2019 Così i dati del Centro europeo per prevenzione e controllo delle malattie e l’Istituto superiore di sanità smentiscono il vicepremier, che lo aveva affermato replicando al direttore della pediatria di urgenza del Sant’Orsola di Bologna secondo cui certe malattie “non sono causate dai migranti, come qualcuno vuole far credere, ma dall’aumento della povertà”. La tubercolosi è una malattia infettiva entrata spesso nel dibattito politico negli ultimi anni perché colpisce molti migranti. Anche oggi il ministro dell’interno leghista Matteo Salvini ha ribadito, dopo aver detto che tutti hanno il diritto alle cure, che “agli immigrati purtroppo va il record di tbc e scabbia”. Il vicepremier ha risposto a Marcello Lanari, direttore della pediatria di urgenza del Sant’Orsola di Bologna, che al congresso dei medici dei bambini aveva detto che certe malattie “non sono causate dai migranti, come qualcuno vuole far credere, ma dall’aumento della povertà”. Ecco come stanno le cose. I dati sulla tubercolosi li raccoglie Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Nel 2017 in Italia i casi segnalati sono stati 3.944, cioè 6,5 ogni 100.000 abitanti. Tra i malati, gli immigrati sono circa i due terzi, cioè 2.600. Va chiarito che il numero di casi negli ultimi anni non è cresciuto, anzi, a partire dal 2010, quando le notifiche erano circa 7,8 ogni 100.000 abitanti, c’è stata una continua decrescita, fino al 2015, quando sono risalite per poi scendere di nuovo, appunto, nel 2017. Dunque, dal punto di vista sanitario non c’è alcun allarme e comunque il numero assoluto di casi (all’interno del quale comunque cresce la quota di migranti) resta contenuto in un Paese da 60milioni di abitanti come il nostro. E del resto, in Europa, l’Italia è tra i Paesi dove l’incidenza è più bassa. Nei Paesi dell’Unione infatti la media è di 10,7 per 100.000 abitanti in quelli europei fuori dall’Unione si sale a 56,3. Per fare alcuni esempi, hanno più casi dell’Italia il Belgio (8,6), la Croazia (8,9), la Francia (7,7), la Germania (6,6), l’Ungheria (7), la Polonia (15,2), il Portogallo (17,5), la Spagna (9,8), il Regno Unito (8,5). La situazione è peggiore nei Paesi dell’Est, con la Russia che arriva al 79,3. Giovanni Rezza, responsabile delle Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità spiega che “La tbc è una malattia della povertà insieme a Hiv e Malaria, come ha detto l’Oms. Non è però diffusa solo in Paesi poveri. Ci sono moltissimi casi anche nell’Europa dell’Est, ad esempio”. Riguardo all’ipotesi che sia portata dagli immigrati, Rezza dice: “Ci sono due categorie di cui tenere conto. Intanto tra gli italiani la maggior parte dei casi riguardano anziani, che magari erano stati infettati da giovani. La malattia si latentizza e non dà segni di sé finché il microbatterio si sveglia a causa di una immunosoppressione, anche dovuta a altre patologie. L’altra categoria è quella degli immigrati, in genere più giovani. Si tratta di persone che magari vengono da Paesi dove c’è una grande diffusione della malattia. L’infezione se la portano dietro e poi in una certa percentuale di casi la sviluppano anche per le condizioni di vita precarie e in generale povere in cui si trovano in Italia”. Il contagio comunque non è facile. “Il fatto che il numero dei casi sia stabile negli ultimi anni ci dice che tanti contagi non ci sono. Per trasmettere la malattia ci vuole un contatto abbastanza stretto e prolungato, non basta andare sullo stesso autobus”. L’ultimo focolaio di malattia scoppiato nel nostro Paese, tra l’altro, è partito da un’italiana. Nell’aprile scorso nel trevigiano si sono contati una sessantina di casi, partiti da una maestra che non si è fatta controllare dal medico malgrado avesse i sintomi di un problema respiratorio perché temeva di avere un tumore. Riguardo alle terapie, “in un Paese avanzato come il nostro - dice Rezza - la tbc è curabile. Le forme pericolose, quelle multi-resistenti ai farmaci, da noi si vedono poco”. Discorso assai diverso vale per la scabbia. “Quello è un problema banale. Si tratta di una parassitosi cutanea, non mette a rischio la vita - chiude Rezza - Si cura facilmente con i farmaci. Di certo è un altro mondo rispetto alla tubercolosi”. Migranti. La procura di Agrigento scagiona Sea Watch, libera di tornare in mare di Adriana Pollice Il Manifesto, 2 giugno 2019 La nave della ong tedesca era stata sequestrata dopo aver salvato 47 naufraghi poi sbarcati a Lampedusa nonostante il niet di Salvini. “La Sea Watch è libera”: con un post sui social l’Ong tedesca ieri ha annunciato il dissequestro della nave da parte della procura di Agrigento per “cessate esigenze probatorie”. Il blocco era arrivato dopo il salvataggio di 47 naufraghi, sbarcati il 18 maggio a Lampedusa. I pm hanno aperto un fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma è orami una routine. Unico indagato il comandante della nave, Arturo Centore. Se la procura ha lasciato l’imbarcazione libera di proseguire la sua missione è perché nulla di rilevante è stato appurato. I volontari potranno lasciare il porto di Licata e riprendere le attività di ricerca e soccorso. “Speriamo che ciò valga a interrompere una campagna diffamatoria nei confronti della Sea Watch di cui si è reso responsabile, in più occasioni, il ministro dell’Interno italiano”, il commento degli avvocati Alessandro Gamberini e Leonardo Marino. “Il dissequestro conferma la correttezza dell’operazione di salvataggio operata dall’equipaggio della Ong”, sottolineano ancora i due legali. Il comandante ha fornito una piena collaborazione alla polizia giudiziaria consegnando mail, documenti fotografici e audio, mentre i medici della Ong hanno confermato le condizioni precarie dei migranti a bordo e l’assoluta necessità di procedere allo sbarco a Lampedusa, nonostante l’iniziale divieto delle autorità: in molti a bordo avevano minacciato il suicidio. “Nei giorni scorsi sono state numerose le notizie di persone in difficoltà - ha spiegato la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi. Alcune hanno atteso ore per essere soccorse, altre sono ancora ostaggio in mare senza indicazione di un porto sicuro. Le persone continuano a partire, auspichiamo di tornare presto nel Mediterraneo centrale con le altre Ong insieme agli assetti militari, che prima di noi hanno soccorso vite in mare. Speriamo possa essere fatto ancora e non osteggiato dal governo, che deve astenersi da diffamazioni senza alcuna base legale”. Attraccherà invece stamattina a Genova il pattugliatore della Marina militare Cigala Fulgosi, che giovedì scorso ha soccorso un gommone, al largo delle coste libiche, che aveva a bordo cento migranti (23 i minori). In 20 hanno bisogno di cure mediche. I migranti non rimarranno in Liguria: “Nessuno sarà a carico degli italiani - ha annunciato Salvini. Grazie alle nostre buone relazioni, una parte sarà accolta in cinque paesi europei mentre tutti gli altri saranno ospitati dal Vaticano”. Il salvataggio della Fulgosi aveva sollevato le proteste delle Ong perché la posizione del gommone, sgonfio e con il motore fermo, era stata comunicata ai Centri di coordinamento già il giorno precedente. Il soccorso è avvenuto solo dopo che si era diffusa la notizia, poi smentita, di una vittima di 5 anni a bordo. “Queste persone sono in pericolo da ore. Ci stiamo rifiutando di vederle”, avevano denunciato Sea Watch e Alarm Phone. Una volta intervenuta la Marina, il Viminale ha deciso di dirottare il pattugliatore dalla Sicilia a Genova. Salvini ieri ha spiegato: “Ho detto: datemi tempo, andate a Genova, per avere accordi con paesi europei e con il Vaticano. Spero che non ci sia qualche magistrato pronto a indagarmi per questo. Però li vedo molto impegnati a indagarsi tra di loro”. In serata ha aggiunto: “Non mi stupirebbe l’apertura di un procedimento penale a mio carico da parte del tribunale dei ministri di Catania”. “Noi, prostitute in lotta per il riscatto sui vostri marciapiedi” di Antonello Mangano ed Elisa Oddone L’Espresso, 2 giugno 2019 I riti vodoo per terrorizzare, i debiti del viaggio, i figli da mantenere in patria, le piazzole controllate dalla malavita, la polizia. Tre ragazze straniere raccontano perché sono finite a vendersi in Italia. E come provano a sfuggire. La sera del 15 novembre, ogni anno, le unità dei servizi sociali anti-tratta scendono in strada in contemporanea in 63 città italiane. Da Asti a Catania, centinaia di operatori raccolgono elementi per disegnare una mappa nazionale del fenomeno. Durante l’ultima uscita hanno incrociato più di 2.800 persone che si prostituivano in strada. Tra loro ci sono rom bulgare che scendono ad aspettare clienti di fronte al portone di casa; signore cinesi di mezza età nelle vie di Mestre e Milano; minorenni nigeriane sulle strade provinciali piemontesi. Vengono dalle zone più povere dei rispettivi paesi: i villaggi rurali del Liaoning, Edo State, le città a cavallo tra Bulgaria e Romania. Sono vittime. Ma anche protagoniste di una guerra privata per l’emancipazione. “Mi avevano detto di tagliarmi un dito per la cerimonia ma ho rifiutato e allora hanno usato un fantoccio di sabbia con le sembianze di una testa umana”, racconta Loveth all’Espresso. “Mi hanno fatto giurare di ripagare il debito e che, se non lo avessi fatto, non sarei mai riuscita ad arrivare in Italia”. Loveth è una ragazza di 23 anni. Viene da Uromi, una città a cento chilometri da Benin City. Era una studentessa di Scienze che sognava di diventare infermiera. Non potendo continuare gli studi per mancanza di denaro, ha deciso di lasciare la Nigeria per lavorare in Italia come parrucchiera. Per raggiungere l’Europa ha affrontato un percorso drammatico tra Niger, Libia e Mediterraneo. Per il viaggio le hanno chiesto 20 mila euro. Un debito garantito dal rituale del juju. Poco più di un anno fa Ewuare II, Oba di Benin City, ha convocato i “native doctors”, i sacerdoti del voodoo. Nel corso di una cerimonia ufficiale, ha annullato tutti i giuramenti passati e futuri fatti dalle vittime di tratta. L’Oba è, nella cultura del popolo Edo, un capo religioso tradizionale e un re, sovrano dell’antico regno del Benin. La sua autorità è riconosciuta in ambito religioso e culturale. “L’Oba ha emesso l’editto perché è un uomo moderno, che conosce bene la tratta, ha studiato a Londra e nel New Jersey, è stato in Italia come ambasciatore”, spiega un documento dell’associazione antitratta Piam di Asti, la stessa che ha accolto Loveth dopo la fuga dai suoi aguzzini. “Ho lasciato la strada e la mia prigionia prima dell’editto dell’Oba ma con molta paura per il mio futuro e la mia vita in quanto avevo fatto il giuramento juju”, ricorda la ragazza. “Poco dopo, ho saputo dell’editto. Il mio cuore si è sollevato tantissimo. Dobbiamo far conoscere l’editto il più possibile perché in questo modo tante ragazze lascerebbero le loro aguzzine. Se credo che serva? Ne sono certa”. Sembra però che l’editto abbia avuto più effetto in Africa che in Italia. “C’è stata una enorme riduzione della tratta nell’Edo State”, ci spiega Stella Odife, presidente dell’ong di Abuja Wogi (Women’s Organization for Gender Issues). “Ora siamo al livello più basso di sempre, non siamo più un terreno fertile per i trafficanti, che però si sono spostati nel Delta State, il distretto confinante”. Ancora sospesa tra liberazione e schiavitù, Loveth rivive il percorso per l’Europa. “Se nella foresta in Niger cadi dalla moto che va all’impazzata con altre due persone a bordo, non si fermano a raccoglierti”, racconta. “Ho fatto il viaggio a occhi chiusi, stringendo forte la persona in sella di fronte a me. Sono stata nel deserto per tre mesi con i trafficanti aspettando il momento propizio per entrare in Libia. Lì le donne nigeriane devono stare molto attente. Ci mettevamo un niqab che lasciava solo scoperti gli occhi perché altrimenti gli uomini ci avrebbero rapito e violentato. Non siamo nulla per loro”. A Torino, Loveth trova il suo contatto, una connazionale. “All’inizio era gentile, mi dava cibo, ospitalità, poi al momento in cui pensavo di lasciarla per iniziare a cercare lavoro come parrucchiera, mi ha detto: “Dove stai andando?”. Da quel momento ha iniziato a seguirmi, a chiudermi in casa. E poi a mettermi in strada per ripagare il debito”. Il lavoro in strada è terribile. Si sta in un “joint”, una piazzola di sosta lungo le provinciali. Ogni joint è strettamente controllato dall’organizzazione criminale. “Lavoravo tutte le notti offrendo prestazioni tra i dieci e venti euro”, dice Loveth. “Questo incubo è andato avanti fino a quando l’anno scorso la mia sfruttatrice si è allontanata per andare ad una festa. Sono scappata: ho finto di andare a lavorare come al solito e, per evitare sospetti, ho portato con me solo una piccola borsa, lasciando tutti i miei beni nel suo appartamento”. Quando Maria ha lasciato Vidin, una città al confine tra Romania, Bulgaria e Serbia, pensava al nome del suo quartiere: “New Path”. Una definizione ironica per quell’enorme insediamento di baracche e grandi palazzi grigi dell’era comunista, dove le tubature dell’acqua esplodono periodicamente accentuando il degrado tra pozze e cumuli di spazzatura. Con la scusa di proteggere i bambini dagli incidenti ferroviari, anni fa hanno costruito un enorme muro blu che circonda il ghetto. Secondo il censimento dell’Istituto nazionale di statistica bulgaro, risalente al 2011, ci sono 325.343 rom nel paese, pari al 4,9 per cento della popolazione. Il Consiglio europeo invece stima circa 750.000 persone. La forbice si comprende considerando che essere rom è soprattutto uno status sociale basato sulla discriminazione e sulla segregazione. È rom chi vive nei ghetti. Un circolo vizioso tra disoccupazione, povertà e, molte volte, disprezzo. Dopo aver perso un lavoro da sarta, Maria ha deciso di partire. Il tasso di disoccupazione in Bulgaria è alle stelle e per i rom è ancora più alto. I figli sono rimasti in patria. Vuole che frequentino la scuola privata perché nella pubblica possono essere discriminati. È il suo obiettivo principale. Adesso lavora sotto casa, a Marghera. Venezia è a due passi ma la zona è divisa tra un quartiere residenziale, un porto commerciale e la zona industriale. Si organizza come se avesse un orario d’ufficio, dalle 15 alle 20, mai di domenica, mai di notte. È pericoloso comunque, ma almeno è protetta dai mariti delle sue amiche. Sono loro che l’hanno introdotta al lavoro in strada. Le donne dell’Est sono tipicamente circondate da una rete di parenti, amici e fidanzati. “Le dinamiche tra loro sono molto complesse e non dettate solo dalla costrizione”, ci spiega Elsa Lila, cantante albanese che vive da anni in Italia. “Il legame può essere un accordo d’affari così come l’innamoramento”. Il viaggio, almeno, è stato semplice. Il suo fidanzato di Vidin l’ha accompagnata alla stazione degli autobus di Sofia, dove partono le linee internazionali. Poi circa venti ore per arrivare in Italia. Qui ha ritrovato le sue amiche, quelle del quartiere. Adesso vive in un appartamento a Marghera, 400 euro divisi tra cinque persone. Con i soldi guadagnati Maria mantiene tutta la famiglia: il compagno in Italia, i tre figli in Bulgaria tutti avuti dal suo ex marito, la sorella più piccola, i genitori che si occupano dei figli e i genitori dell’ex. Come può uscirne? “Nessuno stipendio è in grado di competere con quello che guadagna, il benessere che può assicurare ai propri figli in Bulgaria non può raggiungerlo con nessun lavoro “normale”, per cui rinuncia al nostro aiuto”, spiega Gianfranco Della Valle del Numero verde antitratta. “Le storie delle rom bulgare a volte sono paradossali, sembrano quasi vicende di emancipazione sociale. Sui loro profili Facebook mostrano le foto delle vacanze oppure le loro nuove abitazioni in costruzione”. Nonostante le difficoltà, il modello italiano di intervento anti-tratta è considerato un’eccellenza a livello europeo. L’articolo 18 si basa sulla concessione del permesso di soggiorno per chi denuncia gli sfruttatori, a cui segue un programma di inserimento. Le donne comunitarie però non possono accedere a nessun “premio” particolare, come il permesso di soggiorno, quindi difficilmente vengono intercettate dai programmi di reinserimento. E, come abbiamo visto, per loro la denuncia è più difficile: si tratterebbe di mettersi contro la famiglia, gli amici o il fidanzato. Yuyuan è una signora di mezz’età molto curata, parla un italiano migliore delle altre sue connazionali che lavorano nello stesso tratto di strada in via Paganini, a due passi da Piazzale Loreto. Vive a Milano da vent’anni. “Ho lavorato in una fabbrica e poi come cameriera. È passato solo un anno da quando ho iniziato a stare in strada”, racconta. Sta comprando casa, altri due anni per pagare il mutuo e poi pensa di fare ancora la cameriera. “È un lavoro più tranquillo. Ho una figlia di dieci anni in Cina. Va a scuola e vive con la nonna. Non voglio portarla qui. La Cina è meglio dell’Italia adesso. L’economia italiana è diventata pessima”. Il percorso di Yuyuan è quello di tante cinesi. “In fabbrica ci si ammala di stanchezza. Salvo rare eccezioni le operaie dormono e mangiano all’interno della fabbrica. Allora la prostituzione in appartamento o in strada diventa una seconda possibilità”. Martina Bristot, esperta di Cina ed ex-ricercatrice presso l’Università di Hong Kong. “Le donne con cui ho parlato non pensavano che avrebbero fatto le prostitute”, ci dice. Ma quando chiedi il perché, rispondono che “almeno quello è un lavoro”. Nonostante siano quasi sempre vittime di doppio sfruttamento, lavorativo e sessuale, le donne cinesi rimangono fuori dal circuito dell’accoglienza e spesso passano dalla reclusione delle fabbriche a quella dei Cpr, i Centri di permanenza per il rimpatrio. Si tratta di strutture pensate per espellere gli stranieri senza documenti. Ma, nella maggior parte dei casi, al termine di sei mesi di detenzione, viene semplicemente consegnato un foglio di via. La storia di H., tratta dal rapporto “Interrotte”, è esemplare. Il 23 febbraio, giorno del capodanno cinese, va a festeggiare con gli amici. “Abbiamo bevuto molto e la polizia ci ha fermati. Era la prima volta che mi controllavano, ero sempre chiusa in fabbrica, non uscivo mai”. La portano alla questura di Prato, nessuno le spiega nulla. Dopo 36 ore la rinchiudono a Ponte Galeria, il Cpr nei pressi di Roma. “Le donne cinesi vivono la reclusione come un’ingiustizia e un torto inflitto dallo Stato italiano”, dicono le attiviste di BeFree. La testimonianza è stata raccolta nel 2015, ma la situazione rimane identica. La Prefettura di Roma, tuttavia, ci ha negato la possibilità di visitare il centro, con la seguente motivazione: “Dietro conforme parere del ministero dell’Interno, non si ritiene opportuno, per il momento, consentire visite”. *I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità delle donne Cannabis light, via ai controlli: sequestri e denunce in tutta Italia di Valentina Arcovio Il Messaggero, 2 giugno 2019 I commercianti si stanno organizzando per rispondere alla sentenza della Cassazione sulla cannabis light. Intanto però sono partite le operazioni delle forze dell’ordine su alcuni negozi sparsi per l’Italia. Come ad Avellino, dove la Guardia di Finanza ha sequestrato 72 confezioni di infiorescenze essiccate di cannabis light poste in vendita da un distributore automatico nei pressi di un istituto scolastico del capoluogo irpino. Il prodotto, pari a 221 grammi, è stato sequestrato insieme a cartine e accendini. Il proprietario è stato denunciato a piede libero alla Procura di Avellino sulla scorta della recente sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione. Stessa operazione a Caserta. Tre negozi che vendevano cannabis sono stati sequestrati dai carabinieri che hanno eseguito un decreto d’urgenza di perquisizione e sequestro preventivo emesso dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). I titolari dei negozi sono stati denunciati perché “detenevano ed esponevano per la vendita infiorescenze, foglie, resina e olio ottenuti dalla coltivazione di una varietà di cannabis” che non rientra tra quelle ritenute “legali”. E ancora a Reggio Calabria. Qui alcuni esercizi sono stati sottoposti a controllo nel corso di un’operazione interforze che ha visto il coinvolgimento di Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di finanza. Nel corso dei controlli sono state repertati 59 campioni delle sostanze commercializzate, poi inviati al Gabinetto regionale di Polizia scientifica della Calabria ed al Reparto investigazioni scientifiche di Messina, perché vengano effettuati gli esami volti a stabilirne l’efficacia drogante. L’operazione, riferisce la Questura, “è stata disposta dopo la decisione delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, pubblicata con informazione provvisoria n.15 del 30 maggio, ove è stabilito che commercializzare i prodotti derivati dalla Cannabis light è reato”. Su input del Ministro dell’Interno, in sede di Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica diretto dal prefetto di Reggio Calabria Massimo Mariani, già il 22 maggio scorso era stato deciso l’avvio di un’attività di ricognizione degli esercizi commerciali interessati per “monitorare il fenomeno della libera vendita dei prodotti”. Sequestri e denunce rientrano anche nella-linea del questore di Macerata Antonio Pignataro, secondo il quale i cannabis shop non chiuderanno per legge, ma dovranno rinunciare “a vendere infiorescenze, oli, resine, foglie” per non essere accusati di detenzione a scopo di spaccio di sostanze stupefacenti. Dal canto loro le associazioni di categoria, commercianti e agricoltori sperano che le motivazioni della sentenza della Suprema Corte lascino più margine di interpretazione a favore della vendita dei “derivati”, anche perché negli ultimi anni hanno investito molto sul business della canapa. Secondo la Coldiretti, i terreni coltivati a cannabis sativa sono aumentati: dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4.000 per il 2018 nelle campagne da Nord a Sud. Per questo Lello Ciampolillo del M5S ha annunciato la presentazione di un disegno di legge già domani mattina. “Bisogna dare una risposta immediata alle migliaia di imprese che hanno investito nella cannabis light”, sottolinea. Più secca la posizione di Maurizio Gasparri (Fi), secondo il quale “la sentenza della Cassazione impone l’immediato stop al commercio di sostanze dannose”. Stati Uniti. La rivoluzione dei giornali è il non profit di Luca Celada Il Manifesto, 2 giugno 2019 Il “Salt Lake Tribune”, un giornale americano in edicola da 148 anni, strappa le regole del mercato e chiede a lettori e fondazioni di sostenere la trasformazione in azienda senza fini di lucro. Come per musei o cattedre universitarie, si pensa che l’informazione sia un bene pubblico utile in sé, che non può essere messo a rischio da logiche puramente economiche. Sullo sfondo di una crisi costituzionale in questi giorni sempre più profonda e di avvenimenti che per gravità giustificano un parallelo lecito con il Watergate, la crisi del giornalismo americano non conosce fine. La stampa che nell’impeachment di Nixon ebbe il momento di più fulgida gloria ricoprirebbe un ruolo quasi costituzionale nella patria del primo emendamento (a garanzia della libertà d’espressione) e fu invocata direttamente dai padri fondatori come un meccanismo ausiliare ma essenziale per completare l’equilibrio dei poteri politici della repubblica e garantire il pubblico scrutinio dei potenti. Nell’attuale contingenza i pronunciamenti jeffersoniani sul ruolo della libera stampa rischiano però di diventare poco più che accademici anacronismi. Non è forse casuale che l’involuzione delle democrazie occidentali, l’avvento delle bufalocrazie e i revival terrapiattisti, le amnesie storiche e le fortune politiche costruite sull’offuscamento e la disinformazione stiano coincidendo con la crisi della stampa. E che alla crisi fisiologica prodotta dalla diffusione di contenuti digitali e dal vuoto pubblicitario determinato dal monopolio delle piattaforme, si sommi l’assalto frontale del trumpismo ai giornalisti “nemici della patria”. Un tentativo di trovare una soluzione ad entrambi i problemi - la solvibilità dei giornali e la tutela dell’informazione come bene pubblico - è quello del Salt Lake Tribune, che ha annunciato di volersi reinventare come entità non profit. La svolta del giornale pubblicato da ben 148 anni nella capitale dello Utah, è il primo tentativo di un quotidiano tradizionale Usa di abbandonare il mondo del mercato tout court per abbracciare la sfera giuridica della “pubblica utilità” (un’operazione che necessita tuttavia del benestare preventivo dell’agenzia delle entrate, l’Irs). L’idea in sostanza è quella di aggirare il problema della sopravvivenza economica e della concorrenza “impossibile” delle piattaforme social situando l’attività giornalistica al di fuori delle forze di mercato. Implica insomma un riavvicinamento alla concezione “fondante” dell’informazione come sfera di speciale interesse pubblico. “Il Tribune è un bene comunitario cruciale, ed è giusto che diventi di pubblica proprietà”, ha affermato Paul Hunstman, il facoltoso editore che ha acquistato la testata nel 2016, trovandosi immediatamente ad affrontare i problemi di ogni giornale: riduzione degli abbonamenti e collasso degli introiti pubblicitari. Solo lo scorso anno il Tribune aveva licenziato un terzo dei redattori (oggi il giornale impiega 60 giornalisti, nel 2011 erano 148). Huntsman ha affermato di avere preso la decisione dopo avere analizzato assieme ad esperti le migliori opzioni per mantenere in vita il giornale. “In tutta sincerità - ha proseguito - non ho mai preso in considerazione la prospettiva di chiudere. Non è per questo che ho comprato il giornale”. L’ordinamento fiscale americano consente la possibilità di costituire associazioni o aziende non a scopo di lucro nell’ambito di “fini caritatevoli, religiosi, scientifici, educativi, letterari, legati alla pubblica sicurezza, allo sport o altrimenti filantropici”. La petizione del Salt Lake Tribune si baserà prevedibilmente sulla funzione “educativa” dell’informazione. Altri giornali hanno parzialmente sperimentato modelli non profit - il Guardian ad esempio ha affidato a una fondazione la gestione del proprio archivio. Negli Stati uniti il Tampa Bay Times è in parte di proprietà del Poynter Institute, un ente dedito alla formazione e all’aggiornamento giornalistico. Il Philadelphia Enquirer opera ancora come giornale commerciale ma è tecnicamente anch’esso di proprietà del Lenfest Institute for Journalism, una fondazione dedita allo “sviluppo di modelli sostenibili di giornalismo locale”. Se verrà approvato dall’Irs, il modello Tribune potrebbe essere un primo esempio di trasformazione integrale, attuabile forse anche da altri giornali. “Ho sempre pensato al Tribune come a un istituzione vitale per il nostro stato - sostiene Huntsman - simile alle biblioteche, agli ospedali e alle organizzazioni artistiche e culturali che arricchiscono le nostre vite e rispecchiano i comuni valori civici”. “È imperativo che riusciamo a sopravvivere - aggiunge la direttrice Jennifer Napier-Pierce - la società in cui operiamo risulterebbe gravemente impoverita dalla scomparsa nostra e del giornalismo indipendente”. L’unico altro giornale pubblicato in Utah è il Deseret News, di proprietà della chiesa mormone. Se riuscirà, l’operazione avvicinerebbe il giornale al modello Americano di finanziamento dell’arte o della scienza: sovvenzioni private provenienti in gran parte da fondazioni non profit a volte coordinate da enti pubblici (per esempio National Endowment for the Arts, National Institutes of Health, etc). Il Tribune potrebbe inoltre accettare finanziamenti per specifiche posizioni di redattori per un dato periodo di tempo, simile a ciò che avviene con gli endowment (sovvenzioni) privati per le cattedre accademiche. In ambito giornalistico il modello per ora più simile è probabilmente quello delle radio non commerciali che operano grazie alla Corporation for Public Broadcasting che amministra sia i modesti contributi federali che le donazioni private. Ma il grosso dei bilanci delle radio pubbliche proviene dalle sottoscrizioni degli ascoltatori. Il successo del modello non profit presuppone dunque sia l’esistenza di una rete di fondazioni che di una diffusa cultura della sottoscrizione diretta da parte degli utenti. Sono ancora molte insomma le incognite, fra cui i potenziali conflitti di interesse, che potrebbero emergere. È prassi dei giornali americani ad esempio appoggiare candidati politici mediante endorsement elettorali ma le regole fiscali vieterebbero esplicitamente l’attività politica da parte di chi beneficia di sgravi fiscali (“la nostra linea editoriale non sarà mai in vendita a potenziali sostenitori”, assicura Huntsman). Si tratta a ogni modo di un esperimento interessante sullo sfondo di un modello di mercato che per i giornali sembra definitivamente inceppato. E l’indicazione di una necessaria evoluzione di pensiero sul problema di editoria e informazione e della strategie di sopravvivenza democratica in era digitale. Cina. Tienanmen, ecco cosa si dissero i capi cinesi: “uccidiamo chi va ucciso” di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 2 giugno 2019 Trent’anni dopo la strage un libro svela le trascrizioni dei discorsi dei leader del partito a seguito dell’intervento militare contro i manifestanti: “Siamo tutti d’accordo”. “Bisogna uccidere coloro che debbono essere uccisi, condannare coloro che debbono essere condannati”, disse il vecchio rivoluzionario e vicepresidente Wang Zhen nella sala di una palazzina in stile imperiale di Zhongnanhai, a poche decine di metri da Piazza Tienanmen. La strage era già stata compiuta e i dirigenti del Partito stavano discutendo la linea da tenere. Tutto fu deciso dietro le mura color rosso vermiglio che chiudono alla vista Zhongnanhai, il quartier generale del potere comunista, un tempo giardino imperiale accanto alla Città Proibita. Deng Xiaoping era lì con i suoi compagni dirigenti quando a metà aprile del 1989 i primi gruppi di cittadini cominciarono ad affluire in Piazza Tienanmen per accumulare sotto il Monumento per gli eroi del popolo fiori e poesie in memoria di Hu Yaobang, l’ex segretario del Partito estromesso per liberalismo e morto per un attacco di cuore il 15 aprile. Fu a Zhongnanhai che fu decretata la legge marziale il 18 maggio, quando il movimento ormai chiedeva riforme, la fine della corruzione e della censura e l’uscita di scena dei “vecchi” aggrappati al potere anche dopo la pensione. Fu da Zhongnanhai che fu dato l’ordine ai soldati di “ripulire” la piazza nella notte tra il 3 e il 4 giugno: la strage con mitragliatrici e carri armati. E fu ancora dietro quelle mura rosse che si riunirono tra il 19 e il 21 giugno i mandanti della repressione. Trent’anni dopo, la censura continua a cancellare ogni tentativo di commemorazione a Pechino. Ma a Hong Kong, che mantiene la sua autonomia semi-democratica, è appena stato pubblicato un libro con le trascrizioni finora segrete dei discorsi tenuti dai membri del Politburo in quei giorni per valutare l’esito dell’azione e le mosse seguenti. The Last Secret: the final documents from the June Fourth crackdown si basa su trascrizioni degli interventi conservate e fatte filtrare ora da un funzionario di Partito presente alla discussione. Non si sa quanti fossero i partecipanti a quella riunione del Politburo, allargata agli “anziani ex dirigenti” che ancora manovravano il potere dietro le quinte, quelli che gli studenti avevano sperato di far uscire di scena per sempre. Sono 17 le voci registrate nelle minute. Tutti, prendendo la parola, cominciarono proclamando: “Sono completamente d’accordo”, “Sostengo assolutamente” la decisione del compagno Deng Xiaoping di mobilitare l’esercito “per porre fine ai tumulti anti-partito e agli atti controrivoluzionari”. Wang, che chiedeva condanne ed esecuzioni capitali, fu appoggiato da Xu Xiangqian, ex grande maresciallo dell’Esercito popolare di liberazione: “I fatti hanno provato che la confusione e i tumulti di queste settimane, sviluppatisi in disordini controrivoluzionari, sono stati dovuti al collegamento tra forze interne e straniere, sono stati il frutto del rifiorire della borghesia che aveva come obiettivo il rovesciamento della nostra Repubblica popolare cinese e l’instaurazione di un regime anticomunista, antisocialista e vassallo di potenze occidentali”. Il milione di studenti e cittadini che erano stati in Piazza Tienanmen per cinquanta giorni furono bollati da Peng Zhen, ex presidente del Comitato centrale del Congresso del Popolo come “piccolo gruppo di persone che collaborando con forze straniere ostili volevano abbattere le pietre angolari del nostro Paese”. Il tema della trama straniera fu ripreso da molti, con riferimenti all’inizio della Guerra Fredda e ai piani degli Stati Uniti: “Quarant’anni fa il segretario di stato americano Dulles disse che la speranza di restaurare il capitalismo in Cina era riposta nella terza e quarta generazione nata dopo la nostra Rivoluzione. E ora lo stato dell’ideologia politica in una parte della nostra gioventù è spaventoso: non dobbiamo permettere che la profezia americana si avveri”. Dalle trascrizioni emerge la grande paura nel Partito per quei giorni nei quali il loro potere sembrava sul punto di crollare: “Per settimane il Partito si è ridotto ad essere clandestino, anche il nostro governo si era ridotto alla clandestinità, eravamo sotto attacco in tutto il Paese, circondati”, disse Chen Xitong, il sindaco di Pechino, “concordando pienamente” con la decisione di Deng di far sparare sul popolo. Venezuela. In cella 17 parlamentari, sono vivi o morti? italiastarmagazine.it, 2 giugno 2019 Appello al regime di Maduro della famiglia del vice di Guaidò, Edgar Zambrano, in carcere dall’8 maggio. “Violati i diritti costituzionali, non sappiamo più nulla di lui”. Ma i grillini italiani restano “neutrali”. In cella 17 parlamentari. Sobella Mejía, leader di Acción Democrática (Ad), e moglie di Edgar Zambrano, ha dichiarato che sono stati violati i diritti costituzionali del parlamentare, perché finora non gli è stato permesso di ricevere visite dai suoi parenti o dal suo avvocato. “L’informazione che abbiamo è che si trova a Fuerte Tiuna (Caracas), ma né la famiglia né l’avvocato hanno avuto accesso al vice Édgar Zambrano”, ha detto Mejía. “La Costituzione stabilisce il giusto processo che ogni cittadino deve poter vedere i propri avvocati, i parenti e i loro cari”, ha ricordato, invocando l’articolo 44 della Magna Carta, che stabilisce che la libertà personale è inviolabile. “È già stato nominato un gruppo di avvocati che stanno aspettando un segnale dal regime. Ci saranno negoziati nelle organizzazioni internazionali”, ha detto la moglie del leader. L’arresto di Zambrano risale l’8 maggio, dopo che la sua immunità parlamentare è stata revocata dall’Assemblea Nazionale Costituente (Anc). Il 2 maggio, il tribunale della Corte Suprema di Giustizia gli aveva inviato la sua sentenza in cui è responsabile di aver partecipato agli eventi del 30 aprile. Il tribunale a seguito del caso ha annunciato che l’indagine contro il deputato Edgar Zambrano continuerà la sua procedura ordinaria. Iran. Peggiora la salute di Narges Mohammadi, condannata a 16 anni di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 giugno 2019 Dopo mille insistenze dei medici, a maggio la difensora dei diritti umani iraniana Narges Mohammadi è stata autorizzata al ricovero ed è stata sottoposta a un intervento di urgenza per asportarle l’utero. Nel 2012 Narges Mohammadi era stata condannata a sei anni di carcere ma era stata presto rilasciata a causa delle sue condizioni di salute. Proprio per questo motivo, non avrebbe mai dovuto trascorrere un giorno in più in carcere. Invece, nel 2016 le è stata inflitta un’altra condanna, stavolta a 16 anni. La “colpa” di Narges Mohammadi è di aver invocato l’abolizione della pena di morte, aver parlato di diritti umani con rappresentanti di istituzioni internazionali e aver preso parte a manifestazioni pacifiche per i diritti delle donne, in un periodo in cui erano frequenti gli attacchi con l’acido nei loro confronti. I suoi familiari chiedono ora che sia scarcerata per motivi di salute o, almeno, che possa trascorrere in ospedale tutto il periodo post-operatorio necessario. La situazione di Narges Mohammadi ricorda quella di Ahmadreza Djalali, scienziato esperto in Medicina dei disastri, condannato alla pena capitale e che rischia di morire in carcere a causa del rapido deterioramento delle condizioni di salute. Sua moglie Vida Mehrannia lancerà da Roma dopodomani un appello per la sua scarcerazione.