I detenuti aumentano ma diminuisce il lavoro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 giugno 2019 Inviata al Parlamento la relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge per il 2018. “Dai dati attualmente in possesso (aggiornati al 31.12.2018) risulta che il numero totale dei detenuti lavoranti è pari a 17.614 unità (erano 17.936 al 30.6.2018)”. Questo viene riportato nella relazione al Parlamento dal ministero della Giustizia relativo al lavoro dei detenuti dell’anno 2018. I detenuti che lavorano, quindi, risultano in calo. Anche se, nella relazione stessa, viene trovata una giustificazione, spiegando che “nell’ottobre del 2017, si è provveduto ad adeguare le retribuzioni dei detenuti lavoranti, ferme dal 1994, ai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, così come previsto dall’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario”. Quindi secondo la relazione, “l’aumento medio delle retribuzioni, è stato di circa l’ 80%, incidendo sui livelli di occupazione all’interno degli istituti penitenziari”. Eppure, come viene sottolineato nella relazione stessa, parliamo di un adeguamento necessario e che comunque risale all’anno 2017 dove in realtà non risultano affatto diminuiti i fondi per le retribuzioni per i detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria. Nella relazione, infatti, c’è una tabella esplicativa sul punto. Nel 2016 erano stati assegnati 60.016.095 euro, e sia nel 2017 (anno dell’adeguamento delle retribuzioni ai detenuti) che nel 2018, sono stati assegnati ben 100.016.095 euro di fondi per il lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Purtroppo, sempre dalla relazione stessa, emerge che sono diminuiti anche i detenuti che lavorano per la gestione quotidiana degli istituti penitenziari: al 31 dicembre del 2018 era di 12.522 unità, mente erano 12.922 al 30 giugno del 2018. Come si legge nella relazione, i servizi di istituto assicurano il mantenimento di condizioni di igiene e pulizia all’interno delle zone detentive, comprese le aree destinate alle attività in comune, le cucine detenuti ed il servizio di preparazione e distribuzione dei pasti. “Garantire opportunità lavorative ai detenuti - di legge nella relazione - è strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi e le tensioni proprie della condizione detentiva”. Ma, ricordiamo, si tratta di un lavoro non qualificante, anche se la relazione sottolinea che tale attività “rappresentano una fonte di sostentamento per la maggior parte della popolazione detenuta”. Su questo punto, interviene l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che recentemente ha analizzato le schede on line di ogni istituto e ha riscontrato che ben 95 istituti su 190 hanno fornito informazioni parziali sul lavoro, e in alcuni casi non rispondono. “Occorre però tenere presente che - sottolinea Rita Bernardini -, per quel che riguarda i lavori interni agli istituti, si tratta di impieghi a turnazione e di poche ore giornaliere, il che vuol dire che in un anno un detenuto lavora dai due ai quattro mesi, prendendo retribuzioni risibili”. Apparentemente risulta un dato positivo, quello dei detenuti che vengono impiegati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per lavori di tipo industriale (falegnameria, sartoria o tipografia): 637 detenuti al 31 dicembre del 2018, rispetto ai 613 al 30 giugno del 2018. Ma se si paragonano i dati del 2017, prima erano 655. Numeri, ricordiamo, comunque piccolissimi visto che sono una percentuale irrisoria visto il numero della popolazione detenuta che supera le 65 mila persone. Stesso identico discorso per i detenuti addetti al settore agricolo: al 31 dicembre 2018, di 375 unità, di cui 249 presso le colonie agricole. Nel 2017, invece, erano 420. Però, nella relazione stessa, si pone comunque l’accento alla sensibilizzazione degli Istituti penitenziari e i Provveditorati Regionali sottolineando la necessità di tenere stretti contatti con il territorio, ponendo particolare attenzione alle realtà imprenditoriali locali, al fine di valutare la possibilità di offrire in gestione a terzi le lavorazioni che hanno particolari difficoltà a mantenere o sviluppare le proprie produzioni. Dato stazionario, invece, per quanto riguarda i detenuti lavoranti che beneficiano della legge Smuraglia, la quale definisce le misure di vantaggio per le cooperative sociali e le imprese che vogliano assumere detenuti in esecuzione penale all’interno degli istituti penitenziari. Si legge che nel corso del 2018, dai monitoraggi effettuati dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento sull’utilizzo dei benefici previsti dalla legge Smuraglia, risultano occupati 1.513 detenuti (si tratta esclusivamente dei lavoranti per i quali i datori di lavoro hanno fruito dei benefici della legge Smuraglia e non del totale dei detenuti assunti da imprese e cooperative). Il totale dei detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni, al 31 dicembre del 2018 - ultimo dato disponibile - era di 2.386 unità. Carcere e lavoro, il binomio funziona: in aumento i detenuti impiegati di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 29 giugno 2019 I detenuti che hanno potuto usufruire di opportunità lavorative nell’anno 2018 sono stati complessivamente 22.114. Infatti ai 17.614 che per il lavoro svolto hanno percepito una retribuzione, che nell’anno 2018 si è attestata su un valore pari a 11mila euro, si aggiungono i 4.500 impiegati, a rotazione, in lavori di pubblica utilità, che i detenuti svolgono volontariamente e a titolo gratuito a beneficio della comunità, come previsto dall’art. 20 ter, recentemente introdotto dal decreto legislativo 124/2018, a modifica della Legge 354/1975 sull’Ordinamento Penitenziario. Queste attività concorrono alla rieducazione e al reinserimento sociale del detenuto. Lo precisa, in un nota, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a proposito dei dati riportati nella “Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti” per l’anno 2018. Si segnala anche che una importante novità introdotta con il Decreto Legislativo 124/2018 che ha modificato la normativa riguardante gli introiti delle lavorazioni penitenziarie. Con l’entrata in vigore del d.lgs. 124/2018 i proventi delle manifatture carcerarie vengono destinati integralmente all’amministrazione penitenziaria per investirli presso gli istituti che svolgono attività lavorative per i detenuti, al contrario di quanto avveniva precedentemente, quando il 50% degli introiti rimaneva acquisita all’Erario. L’intento è quello di consentire il reinvestimento degli introiti delle lavorazioni penitenziarie e quelle relative alla prestazione di servizi, per garantire maggior risorse da destinare sia al lavoro che alla formazione dei detenuti e degli internati. Per quanto riguarda il capitolo degli “sgravi fiscali e agevolazioni alle imprese che assumono detenuti o internati negli istituti penitenziari” il bilancio di previsione ammonta a 15.148.112,00. Il successo del lavoro di pubblica utilità sul quale, con soddisfazione reciproca di tutte le componenti coinvolte (detenuti, agenti, amministrazioni comunali, magistratura di sorveglianza e imprese) il Ministero della Giustizia sta puntando fortemente dallo scorso anno attraverso la sottoscrizione di Protocolli d’intesa improntati sul modello “Mi riscatto per…”, ha fatto aumentare le possibilità di lavoro offerte ai detenuti secondo questa tipologia. Dei 4.500 impiegati a rotazione - dovuta al fine pena e alle relative sostituzioni - circa mille sono stati quelli impiegati a Roma, dove è nato il modello “Mi riscatto per Roma” per la manutenzione del verde pubblico e delle strade della Capitale. Per il 2019 l’Amministrazione prevede di raddoppiare tale numero. 41 bis = tortura? Esatto proprio così perunaltracitta.org, 29 giugno 2019 Lettera mandata da Potere al Popolo di Firenze alla redazione cittadina de La Repubblica, a seguito di una segnalazione piuttosto scandalizzata relativa alla comparsa di una scritta su un muro che diceva “41 bis = tortura”. Gentile redazione, alcune brevi note in merito alla reazione suscitata dalla scritta sul muro “41 bis = tortura”. Nato come misura emergenziale, strumento estremo di contrasto alla criminalità organizzata, in realtà il regime di carcere duro noto come 41 bis si è ben presto trasformato in strumento ordinario, che non riguarda solo capi clan e boss della mafia. Da regime temporaneo, che andava rinnovato dal magistrato di sorveglianza solo se persistevano le eccezionali condizioni di pericolosità del detenuto, è ormai diventato una condanna definitiva e permanente. Ma al di là del profilo penale di chi è sottoposto a questo regime, particolarmente afflittivo, non possiamo non ricordare i dettami costituzionali riguardo alla natura e alla finalità della pena, e domandarci se siamo di fronte a una pena o a una vendetta. Nel suo rapporto al parlamento del 2019 il garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, parla di “gravi criticità”. “Se il regime diventa un sistema in cui si vogliono aggiungere delle afflizioni aggiuntive, un qualcosa in più di tipo punitivo rispetto alla privazione della libertà e questo qualcosa in più non si giustifica dal punto di vista dell’interruzione della comunicazione ma è una mera afflizione, allora siamo in contrasto con la finalità rieducativa della pena”. La dott.ssa Laura Longo, magistrato di sorveglianza di Roma e presidente del Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, ha recentemente scritto: “È una condizione di spietato isolamento insostenibile per l’essere umano, specie se protratta per anni. E tale condizione può essere ulteriormente aggravata (fino a diventare isolamento totale) da circostanze contingenti (malattia, impegni processuali, esecuzione della sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività in comune). È un sistema che genera dunque una sofferenza aggiuntiva che va ben al di là di quella fisiologicamente connessa alla condizione di reclusività”. E sulla necessità di un superamento di questo regime, per conciliare esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali di chiunque, aggiunge: “È questa una battaglia di civiltà necessaria per ricondurre a giustizia gli attuali connotati di vendetta del regime di 41 bis. È una battaglia sollecitata anche da organismi internazionali; oltre al Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, anche il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha di recente sollevato critiche sull’eccessività del tempo di durata del regime derogatorio e sulla condizione di isolamento in cui versano tali categorie di detenuti”. Tornando alla scritta sul muro che tanto ha indignato, in realtà non è così distante dal vero: basta informarsi sulle specifiche previsioni del regime del 41 bis, che qui omettiamo per brevità. In realtà ci dovremmo interrogare non solo su quali limiti porre a regimi carcerari speciali e spesso inutilmente afflittivi, ma anche sulle condizioni di vita nell’universo carcerario tutto, girone infernale troppo spesso rimosso dalle coscienze, dimenticato, se non esplicitamente esaltato come strumento di vendetta, con buona pace non di Gozzini, ma addirittura di Beccaria. Potere al Popolo Firenze Candidature impresentabili, ora le fissa pure l’Anm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 29 giugno 2019 Ecco le cariche incompatibili con l’elezione al Csm. Le “preclusioni” individuate dal “sindacato” dei giudici escludono dalle suppletive di ottobre tutti i magistrati che ricoprono ruoli nell’associazionismo giudiziario. Candidature impresentabili. Gli “impresentabili” arrivano anche al Consiglio superiore della magistratura. Le indicazioni dell’Anm - La giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati ha, in una recente delibera, indicato una serie di “cause di incandidabilità” per le toghe intenzionate a correre per un posto nell’organo di autogoverno. A partire già dalle prossime elezioni suppletive di ottobre, in cui i magistrati dovranno scegliere i sostituti dei togati dimissionari Luigi Spina (Unicost) e Antonio Lepre (Magistratura indipendente). L’elenco di incarichi e funzioni “ostative” alla candidatura al Csm è lungo. “Non potranno candidarsi per le elezioni suppletive i magistrati che ricoprono attualmente le seguenti cariche o svolgono i seguenti incarichi”. “Componenti della giunta esecutiva centrale e del comitato direttivo centrale dell’Anm”. “Componenti delle giunte esecutive sezionali; presidenti, segretari e componenti delle segreterie nazionali (variamente denominate) dei gruppi associativi; componenti dei Consigli giudiziari; magistrati fuori ruolo”. Una svolta - La delibera, approvata in fretta e furia via mail, segna una svolta nell’associazionismo giudiziario. È affidato all’Anm, una associazione di natura privatistica, il compito di selezionare le candidature al Csm. Nel populismo imperante che pare aver dunque contagiato anche le toghe, va recisa ogni possibile “contaminazione” fra associazionismo e ruolo di consigliere del Csm. La delibera elimina dalla mattina alla sera chiunque abbia svolto ruoli di qualsiasi peso nelle varie correnti. Marchiando con lo stigma dell’inaffidabilità a prescindere. Magistratura indipendente - Come fanno, però, notare le toghe di Magistratura indipendente. Le uniche che si sono opposte al diktat dell’Anm a trazione Area, Autonomia e Indipendenza e Unicost. “Questa delibera è un concentrato di incoerenza e di ipocrisia”. La giunta dell’Anm”, si legge in un comunicato di Mi, “ha salvaguardato gli attuali componenti, non impegnandoli, fin da ora, con una intenzione programmatica, alla rinuncia a candidature non solo per le suppletive”. Ma, cosa ancor più importante e rilevante, per le prossime elezioni generali del Csm. “Impedire la candidatura a tutta una serie di profili di magistrati, salvaguardando però se stessi per il prossimo futuro, è illogico ed incoerente”. “Ma ha un motivo semplice, in quanto una buona parte degli attuali componenti si presenterà a quelle future elezioni”. Insinuano le toghe di Mi, bollando l’attuale giunta Anm, di cui appunto non fanno parte, con il nome in codice “gattopardo”. Effetto Palamara - E in effetti la decisione con cui si individua tutta una serie di condizioni “pregiudizievoli” per l’elezione nell’attuale Csm pare risentire di un’alterazione un po’ iperbolica innescata dal caso Palamara. Tanto da riprodurre in modo persino aggravato il paradosso della procedura con cui la commissione parlamentare Antimafia individua gli impresentabili della politica in vista di qualsiasi tornata elettorale. Se nel caso della Bicamerale, infatti, si tratta almeno di un organo istituzionale, l’Anm non è altro che un’associazione privata, appunto. Nella nota con cui, comprensibilmente, si dissocia da questa sorta di iperbole giustizialista, Magistratura indipendente parla di “forte preoccupazione”. Per “il rischio vendetta da parte di coloro che, sotto il vessillo di un moralismo di facciata, vogliono marchiare a fuoco il nostro gruppo e l’ambiente dei magistrati moderati. Stupisce che tale iniziativa nasca da una giunta che non ha esitato a spaccare l’unità sindacale. Espellendo Mi, macchiatasi dell’orrida colpa di chiedere per tutti (e non solo per i propri consiglieri) un minimo riscontro obiettivo e documentale rispetto a quanto si ventilava, al tempo, solo sui quotidiani”, si legge ancora nel comunicato. Il trojan - Oltre a quanto emerso nel dopo cena all’hotel Champagne di Roma, con i deputati dem Cosimo Ferri, Luca Lotti e alcuni togati di Unicost e Mi, sembra che il cellulare dell’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, infettato con il virus trojan dai colleghi di Perugia, non abbia registrato altro di interessante. Per la cronaca, infine, l’Anm ha anche bocciato la proposta avanzata del Pierpaolo Beluzzi, di AeI. “Fornire un supporto telematico ai candidati, con forum di discussione sui programmi, attraverso un sistema che consenta a tutti i magistrati di partecipare direttamente e ai candidati indipendenti la concreta possibilità di essere presenti in ogni occasione”. L’Aquila: visita del Garante alle detenute anarchiche in sciopero della fame da un mese di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 giugno 2019 Dopo la segnalazione di alcuni legali delle donne anarchiche detenute che si trovano in sciopero della fame nella sezione femminile di alta sicurezza 2 della Casa circondariale dell’Aquila, il Garante nazionale ha deciso di visitarla. La sezione ospita in tutto quattro donne, tre delle quali sono imputate per reati di matrice anarchico insurrezionalista e stanno attuando appunto lo sciopero della fame. La sezione femminile di AS2 è situata all’esterno dell’Istituto de L’Aquila, destinato alle persone ristrette in regime detentivo speciale ex articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario e dove vi è l’unico reparto per donne in tale regime. La delegazione del Garante nazionale, guidata dal presidente Mauro Palma, ha avuto modo di parlare con le quattro donne, di consultare la relativa documentazione e di verificare le modalità con cui la protesta viene seguita dall’Amministrazione del carcere. “Nei prossimi giorni - si legge in una nota - il Garante nazionale invierà un breve rapporto, contenente le proprie valutazioni unitamente ad eventuali raccomandazioni, all’Amministrazione penitenziaria”. Ricordiamo che all’Aquila, lo scorso 17 giugno, si è svolta la clamorosa azione di protesta di due gruppi di anarchici che hanno occupato la sala conferenze della sede comunale di Palazzo Fibbioni all’Aquila e il cantiere dell’Arcivescovado in piazza Duomo, proprio per solidarizzare con le due detenute, e sono saliti su una gru esponendo un lungo striscione con la scritta: “Chiudere la AS2 dell’Aquila”. Una protesta per solidarizzare con Anna Beniamino e Silvia Ruggeri, rinchiuse nel carcere aquilano che - ricordiamo - dal 29 maggio scorso sono in sciopero della fame per chiedere il loro trasferimento e la chiusura della sezione, perché presenta restrizioni che in certi casi sono addirittura superiori al 41 bis. Da pochi giorni, come già scritto sulle pagine de Il Dubbio, si è aggiunta un’altra donna - Natascia Savio - nonostante il clamore mediatico, almeno regionale, e la presa di posizione di alcuni politici della regione Abruzzo. Tutte e tre le donne, sono monitorate dal personale sanitario, ma la loro richiesta di poter far entrare un medico dall’esterno viene ad oggi ancora disattesa. Si apprende anche che prosegue lo sciopero della fame di un altro detenuto anarchico per solidarietà con le tre donne. Si trova ristretto nel carcere di Alessandria, sempre nella sezione di altra sicurezza, ed è arrivato a pesare 42 Kg. Qualche giorno fa, rifiutandosi di non integrare nulla con l’acqua, ha subito una crisi ipoglicemica per cui sono state necessarie alcune flebo di glucosata e fisiologica, ma attualmente il problema pare risolto e viene parametrato dal personale sanitario due volte al giorno per evitare che si verifichi di nuovo. Per solidarietà, questa volta sempre al carcere de L’Aquila, le detenute ristrette al 41 bis effettuano la battitura con le bottigliette di plastica, per esprimere solidarietà alle tre donne in sciopero della fame da oramai un mese. Ancona: avvocati e detenuti “il Presidente del Tribunale di Sorveglianza ci incontri” anconatoday.it, 29 giugno 2019 Sul tavolo le rigidità espresse nei confronti del Tribunale di Sorveglianza sulla concessione di misure alternative alla detenzione previste dall’Ordinamento Penitenziario. Il disagio manifestato dai detenuti nella Casa di Reclusione di Barcaglione - Ancona è stato condiviso dai rappresentanti dell’Ordine degli Avvocati di Ancona, della Camera Penale e dal Garante per i diritti della persona che hanno convocato una riunione d’urgenza per fornire una risposta sollecita alle criticità emerse. All’incontro hanno partecipato Maurizio Miranda, Presidente Ordine degli Avvocati di Ancona, Marina Magistrelli, Responsabile Osservatorio Giustizia Penale dell’Ordine Avvocati Ancona, Marta Mereu, Consigliere Ordine degli Avvocati di Ancona, Andrea Nobili, Garante dei diritti della persona Regione Marche, Francesca Petruzzo, Segretario Camera Penale di Ancona, Gaetano Papa, Segretario Camera Penali Ancona. Sul tavolo le rigidità espresse nei confronti del Tribunale di Sorveglianza sulla concessione di misure alternative alla detenzione previste dall’Ordinamento Penitenziario e dal Codice di Procedura Penale a presidio del principio fondamentale della funzione rieducativa della pena e già riassunte in una lettera inviata all’amministrazione penitenziaria, al Garante Nazionale ed al Garante regionale per i diritti dei detenuti, all’Ordine degli Avvocati di Ancona ed alla Camera Penale di Ancona. “Nel corso dell’incontro - ha detto il Presidente Miranda - abbiamo ribadito la necessità e l’auspicio che ai difensori sia concesso un dialogo continuativo con i Magistrati del Tribunale di Sorveglianza, in relazione al quale si ritiene opportuna una maggior presenza degli stessi proprio per ampliare le occasioni di incontro”. “È evidente - puntualizza Il Garante Andrea Nobili - che questa necessità deve ritenersi funzionale non solo a garantire il diritto di difesa ma anche per consentire allo stesso Tribunale il miglior funzionamento”. “Tra i temi della riflessione - ha concluso Francesca Petruzzo - c’è anche la perplessità riscontata dai difensori nella complicata applicazione dei benefici penitenziari”. “Mio figlio era malato, lo Stato lo ha lasciato morire in carcere. Ora voglio la verità”. Al termine dell’incontro Marina Magistrelli ha sottolineato l’intenzione di condividere l’iniziativa del Garante, unitamente al Consiglio dell’Ordine ed alla Camera Penale di Ancona, “di chiedere un incontro in tempi ragionevolmente brevi con il Presidente facente funzione del Tribunale di Sorveglianza, sempre auspicando la nomina da parte del Csm del nuovo Presidente del Tribunale di Sorveglianza, anche questa in tempi brevi”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): non solo vino, ma anche erbe e marmellate nel carcere quotidianodelsud.it, 29 giugno 2019 Nuove opportunità formative nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, dove, su input della Direttrice, Giulia Magliulo, sono state introdotte nuove lavorazioni nel tenimento agricolo. Infatti è stata avviata la produzione erbe officinali e di confetture ricavate dai frutti raccolti all’interno del perimetro detentivo. Le marmellate, commercializzate con l’etichetta “Dolcezze normanne”, in ossequio alla storia antica del territorio irpino, sono destinate al circuito penitenziario italiano. Lo stesso avverrà con la produzione di origano, salvia, menta e rosmarino, a cui è stato assegnata l’etichetta “Erbe libere”, e ad altre erbe, come la lavanda, che invece, raccolte in appositi sacchetti, anche questi realizzati sempre tra le mura del carcere, serviranno come profumatori. Emblematico anche il nome scelto per questo prodotto: “Profumi di Libertà”. Più che soddisfatta la dott.ssa Magliulo: “Fin dal mio arrivo a Sant’Angelo ho ritenuto di inserirmi nel solco progettuale già tracciato da chi mi ha preceduto alla guida della Casa di reclusione, cercando di dare nuovo impulso alle già note produzioni di vino e miele, che danno prestigio all’Istituto”. L’iniziativa è stata presentata nel corso di un incontro con il personale del carcere santangiolese, che ha accolto il progetto con larga soddisfazione. Un incontro che è servito ad inaugurare anche la “Cantina dei Sapori”, una sala di esposizione e degustazione dei tanti prodotti creati e commercializzati nella Casa di reclusione santangiolese. “Una sede immaginata per prima dal compianto direttore Massimiliano Forgione, la cui realizzazione fu bruscamente interrotta dalla morte del dirigente”, ha ricordato Giovanni Salvati, commissario coordinatore con funzioni di comandante, che assieme alla dott.ssa Magliulo ha tagliato il nastro. A queste nuove produzioni del tenimento agricolo sovrintenderà l’assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, Donato Festa, che nel corso della presentazione ha fatto da guida agli ospiti presenti. “Insomma il carcere altirpino si distingue sempre più nel panorama penitenziario italiano come un luogo dove i detenuti possono lavorare e imparare un mestiere che potranno spendere quando avranno saldato il loro debito con la società”. Era questa la filosofia gestionale del Direttore Forgione e questa è anche l’impronta che Giulia Magliulo ha voluto dare alla sua direzione. San Benedetto del Tronto: i detenuti cureranno il verde pubblico viveresanbenedetto.it, 29 giugno 2019 Il Comune ha finanziato un progetto sperimentale, proposto dai volontari dell’associazione “Il Germoglio Onlus”, che prevede l’impiego di alcuni detenuti nella cura e manutenzione dei giardini pubblici e delle aree comunali. I detenuti, alcuni agli arresti domiciliari, saranno impiegati sotto la vigilanza dei volontari dell’associazione, che operano su autorizzazione dei competenti uffici del Ministero della Giustizia, e la supervisione del personale del Servizio Aree verdi del Comune. L’iniziativa è stata presentata nel corso di una conferenza stampa: “Partiamo con un esperimento limitato a poche persone per la durata di un mese - dice l’assessore alle politiche sociali Emanuela Carboni - ma non escludiamo di ripeterlo ed ampliarlo in futuro. Sappiamo tutti della situazione drammatica delle carceri italiane a causa del sovraffollamento e dunque siamo consapevoli che è necessario predisporre interventi mirati al fine di non vanificare il principio costituzionale che impone la rieducazione e risocializzazione dei detenuti, in un’ottica che ponga al centro la “dignità della persona” come previsto dallo stesso legislatore. In tal senso il lavoro fuori dal carcere acquisisce un ruolo sempre più strategico nel percorso di reintegrazione del detenuto nella società”. “Attraverso la pulizia delle aree verdi o delle aree pubbliche - aggiunge Cosimo Bleve, presidente de “Il Germoglio” - si cercherà di fornire ai destinatari del progetto anche la possibilità di inserirsi nel contesto sociale, accompagnandoli in questo percorso e facilitando nel contempo il contatto con il territorio di riferimento”. Bologna: presto un secondo piano al carcere minorile Pratello Il Resto del Carlino, 29 giugno 2019 Lo afferma la Cgil Fp e chiede notizie sulla modalità dei lavori. La struttura raddoppierebbe la capienza. Un secondo piano detentivo al carcere minorile del Pratello. Potrebbe aprire presto, come spiega la Cgil Fp che ha appreso la notizia “informalmente, durante l’incontro del 20 giugno con il Centro Giustizia Minorile dell’Emilia Romagna e Marche”, senza però ottenere, come continua la nota del sindacato di penitenziaria, “ulteriori informazioni in merito”, in particolare relativamente all’organico degli agenti in servizio al minorile. “Sembra che dovranno essere eseguiti alcuni lavori di ripristino al secondo piano detentivo - continua la nota - ormai inutilizzato da anni, che porterebbero come conseguenza al raddoppio della capienza dei detenuti. Se quanto appreso dovesse risultare vero, chiediamo delucidazioni in merito alle modalità dei lavori e sulle possibili ricadute sulla sicurezza del personale. Siamo contrari allo svolgimento di lavori nella struttura con la contemporanea presenza dei detenuti, come già avvenuto. La notizia ci lascia basiti, soprattutto in questo momento, in cui sembra prospettarsi un possibile nuovo avvicendamento della figura del comandante di reparto che getterà il personale dell’istituto in una nuova situazione di disorientamento, a causa dei continui avvicendamenti che perdurano ormai da anni. L’Amministrazione faccia chiarezza”. Padova: laurearsi in carcere, l’esperienza di un detenuto al Due Palazzi padovanews.it, 29 giugno 2019 L’Università di Padova offre la possibilità a chi sta scontando una condanna di poter studiare e laurearsi. Un’opportunità che abbiamo sostenuto anche noi, attraverso l’associazione Operatori Carcerari Volontari. Ci sono uomini che hanno il destino segnato da una passione. Ci cadono dentro da un momento all’altro, come Obelix nella pozione magica, e da quel momento la loro vita è diversa per sempre. Ciro Ferrara, 58 anni, è uno di questi. La passione di Ciro, campano di Casoria, è lo studio. A stare sui libri ha cominciato una quindicina d’anni fa. A marzo dell’anno scorso ha conseguito la laurea magistrale con una tesi su padre Agostino Trapè, teologo ed esperto di Sant’Agostino. Voto: 110 cum laude. Dove sta la notizia? Sta nel fatto che lui si è laureato in carcere. Discussione, proclamazione, strette di mano alla commissione, applausi dei presenti, e prima ancora giornate intere di studio: tutto si è svolto all’interno del Due Palazzi, la casa di reclusione di Padova. Dove lo incontriamo per farci raccontare la sua storia di studente. Eccolo: completo gessato grigio scuro, camicia bianca, occhiali con montatura total black, taglio di capelli perfetto. Ha una stretta di mano decisa, che sembra voler trasmettere forza prima di tutto a se stesso. Ma i suoi timori a dir la verità durano poco, perché la verve narrativa che sfodera di lì a qualche minuto avrà la meglio per tutta la durata dell’incontro. Su di lui aggiungiamo solo un paio di altri dati: il detenuto Ferrara è un “fine pena mai”. Il dottor Ferrara, quando è entrato in carcere più di 30 anni fa, di cui 27 trascorsi in regime di massima sicurezza, aveva solo la quarta elementare. L’articolo 34 della nostra Costituzione, nello stabilire il diritto all’istruzione, afferma l’uguaglianza sostanziale di fronte alla possibilità di raggiungere i livelli più alti di studio. Un principio che trova un concreto esempio nei poli universitari penitenziari. Com’è quello realizzato per l’appunto nell’istituto penale padovano, avviato nel 2003 con una convenzione tra l’Università degli studi di Padova e il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Senza progetti come questo, che fanno la differenza tra un carcere riabilitativo e uno che non lo è, Ciro sarebbe rimasto allo stesso grado di conoscenze e preparazione di quando in carcere c’è entrato: capace sì e no di leggere e scrivere. Un asino, insomma. E se usiamo proprio questo termine, state tranquilli: il motivo c’è. “Quand’ero ragazzino” inizia a raccontarci con la sua inflessione napoletana doc “di studiare non me ne importava proprio. Anzi, i miei genitori mi portavano a scuola, io entravo, e poi però me ne uscivo di soppiatto dal retro”. Un rapporto di odio reciproco, come lo definisce lui stesso, che sembrava destinato a sussistere ad oltranza. Invece no. Ad orientarlo e supportarlo negli studi in carcere sono stati i volontari dell’associazione Operatori Carcerari Volontari come Maria Chiara Fuser che ci accompagna nella visita, insieme alle educatrici e agli insegnanti con un incarico all’interno del penitenziario. E da quanto ci racconta il nostro interlocutore, sono soprattutto questi ultimi ad aver rappresentato la sua “pozione magica”. Grazie alla tenacia di un’educatrice, Ciro consegue il diploma di terza media. Fosse dipeso da lui, si sarebbe fermato lì. Ma lei no, convinta delle sue potenzialità, insiste. Fino a convincerlo ad iscriversi all’Istituto Tecnico Commerciale. Lui la accontenta, ma non tutto fila liscio. Dopo un debito formativo in inglese, al terzo anno arriva il diktat del professore di italiano: “Durante un consiglio di classe propone agli altri insegnanti di esonerarmi dallo studio” ci informa. E lei come l’ha presa? “Io? Ero felicissimo! Mo’ finalmente mi avrebbero lasciato in pace”. Scherza su di sé, Ciro, gigioneggia e temporeggia quanto basta per tenerti sulle spine. Ma poi arriva al punto. Quello che gli sta più a cuore. “Al Due Palazzi ho incontrato insegnanti che mi hanno aiutato, e che non smetterò mai di ringraziare. Ricordo che in quell’occasione, preoccupata per la mia possibile espulsione, una delle prof viene a parlare con me, mi guarda negli occhi e mi fa: “Vuoi veramente dargliela vinta e farti mandar via? Se sì, vorrà dire che resterai un asino”. Me la sono legata al dito, quella frase lì. Asino a me?”. Punto sull’orgoglio, Ciro parte a spron battuto, inanella un voto alto dopo l’altro, e si diploma ragioniere. A tappa raggiunta, gli insegnati gli domandano se vuole continuare. Ma lui rimpalla: prima chiede di pendersi “un anno sabbatico” dagli studi, e poi tentenna ancora sul da farsi. Per indurlo a proseguire, probabilmente forte della reazione già ottenuta in precedenza, la stessa prof di cui sopra rimette in campo ciuchini e somari, dandogli di nuovo dell’asino. È fatta! Ciro, ri-colpito nell’orgoglio, si iscrive a Filosofia. Colleziona un libretto con voti che non scendono sotto il 28, si appassiona sempre più allo studio, passando sui libri tutto il tempo che gli è concesso. Arriva alla laurea, discutendo una tesi su sant’Agostino. Voto: 110. Di fermarsi al primo livello del traguardo accademico, adesso, è lui stesso a non pensarci nemmeno. Studiare in carcere non è semplice. Perché le difficoltà che questi studenti incontrano sono comunque tante: non avere a disposizione il docente quando si incontrano dei dubbi, non potersi informare su Internet, dedicarsi allo studio solo negli orari previsti dal regolamento interno, trovare uno spazio adatto alla concentrazione necessaria. Ciro il suo spazio l’ha trovato nella chiesa vicina alle aule, grazie anche all’ospitalità del cappellano. Così tra i banchi di preghiera si è aggiunto anche un banco di scuola, il suo. Quel che ne scaturisce, tra l’altro, è una vera e propria sintesi visiva di una delle massime più note del “suo” sant’Agostino: “Credo ut intelligam, intelligo ut credam”, (Credo per pensare, penso per credere). Ascensore sociale per antonomasia, lo studio è una chiave per la comprensione del mondo, sebbene la visione più diffusa sia spesso di tipo utilitaristico: “Mi serve per trovarmi un lavoro”. Che cosa spinge, allora, un ergastolano a studiare? È pura voglia di conoscenza e passione per la cultura fine a se stessa? Un mezzo per entrare in relazione con il mondo esterno? Una forma di riscatto sociale? Una scommessa sul futuro? Forse sì: perché anche chi è destinato a non uscire mai dal carcere un futuro ce l’ha, e dovrebbe almeno poterlo immaginare. Per quanto riguarda il suo, Ciro ha un desiderio: fare da tutor ad altri studenti detenuti, anche se è consapevole che l’occasione non è detto si renda possibile. Intanto si è già iscritto ad un’altra facoltà: Lettere Moderne. “Mi abbonano cinque esami, ma non è questo che conta. È che ormai dello studio non posso proprio farne a meno. Per arrivare fin qui mi sono impegnato assai: io sono un autodidatta, all’inizio della filosofia non ci capivo proprio niente. Ma ci ho messo passione, perseveranza e tenacia. Ed eccomi qui, laureato”. “Anche grazie a loro”, continua indicandoci l’agente rimasto presente al colloquio, un po’ in disparte. “Gli agenti hanno sempre fatto il tifo per me. Sono persone che se vedono che tu ami fare qualcosa, ti ci impegni e ti piace, ti appoggiano e ti sostengono”. Quando dice “studio” Ciro intende il termine ad ampio raggio: comprende i testi per gli esami ma anche i libri di lettura personale; la scrittura delle sue due tesi, ma anche quella degli articoli per alcune riviste di filosofia, fino a racconti e poesie che invia a concorsi letterari. Un paio di anni fa ne ha vinto uno, con una poesia dal titolo sinestesico: “L’inchiostro parla”. “In cella ho una pila di libri senza i quali mi sentirei perso. Cosa sto leggendo in questi giorni? “L’arte di essere fragile”, “Fahrenheit 451” e “Il coraggio di essere liberi”“. Tris non da poco: un dialogo immaginario con Leopardi che esplora gli ambiti più intimi e complessi dell’esistenza umana; un romanzo su un futuro visionario in cui i libri sono fuori legge; un saggio sul concetto di libertà. Un concetto che può sembrare fuori luogo qui dentro, stridendo come lo sferragliare delle massicce porte a grate che vengono aperte e subito richiuse al passaggio di chiunque. Ma Ciro il paradosso sembra non coglierlo, e forse ha ragione lui: la libertà non è solo non avere delle sbarre attorno. È averla dentro di sé. Come la passione, la perseveranza e la tenacia. Riconoscendo l’importanza che gli studi universitari possono ricoprire rispetto alle finalità rieducative e di reinserimento sociale, attraverso l’Associazione Volontari Carcerari abbiamo contribuito alle spese relative alle tasse universitarie per i detenuti privi di mezzi e garantito il sostegno economico per il materiale didattico necessario agli studi. Asti: teatro-carcere, i detenuti interpretano una Lisistrata dei nostri tempi di Mimmo Sorrentino lavocediasti.it, 29 giugno 2019 Nell’ambito di Asti Teatro 41 “Lisistrata nei quartieri spagnoli” del regista Mimmo Sorrentino: “Occorre distinguere l’errore dalle persone”. Un gruppo di detenuti che recita nell’ambito di un Festival teatrale è qualcosa che può uscire dall’immaginario collettivo. In realtà si tratta di progetti voluti e pensati per far sì che questo mondo reale e ben contestualizzato, possa avere i suoi margini di “normalità”, non dimenticando che pur ristretti e con gravi colpe, tutte le persone hanno bisogno di sentirsi parte di una società. Una società che magari hanno vilipeso ma che attraverso questo tipo di progetti può far comprendere quale sia il vero senso della vita. Ed è con spirito di curiosità, rispetto e grande attenzione che 30 spettatori (altri 30 domani) hanno avuto il privilegio di assistere allo spettacolo “Lisistrata nei quartieri spagnoli”, direttamente nel carcere di Asti. Lo spettacolo, inserito nel cartellone di Asti Teatro 41, fa parte di un progetto che per il secondo anno, porta gli spettatori in carcere e alcuni detenuti ad esibirsi di fronte ad un pubblico vero e attento. La procedura di entrata è lunga e articolata e il caldo africano non aiuta, ma la curiosità e la voglia di scoprire un mondo non consueto è alta. Ancora una volta è il regista Mimmo Sorrentino che ha una lunga esperienza di “teatro sociale” a condurre il gruppo di 15 detenuti in una complicata Lisistrata moderna alla prese non con ateniesi e spartani ma clan rivali di un una Napoli belligerante che si contende le piazze per lo spaccio di droga. Senza dimenticare il clima ironico e irriverente di Aristofane. Lisistrata infatti, come nella commedia di Aristofane, organizza uno sciopero del sesso per convincere gli uomini a sospendere la guerra nei quartieri e a firmare la pace. Si ride per questi uomini, quasi tutti grandi e grossi vestiti da donna o per i “veri machi”, delusi e arrapati per lo “sciopero del sesso”, ma ci si commuove per il dolore delle poesie rivolte “Dal carcere di Asti alle donne lontane”. Tre poesie di Neruda che toccano il tema dell’attesa, della nudità e dell’abbandono. Tra il pubblico attento anche la direttrice del carcere Francesca Daquino, la comandante della polizia penitenziaria Alessia Chiosso, la Garante dei detenuti Paola Ferlauto, l’assessore alle Politiche Sociali Mariangela Cotto, il questore di Asti Alessandra Faranda Cordella amante del teatro che, per la seconda volta ha assistito allo spettacolo dei detenuti: “Importante che si ragioni sul proprio vissuto, ci ha raccontato a fine spettacolo. Un direttore davvero illuminato”. “Un bel messaggio - aggiunge l’assessore Cotto - le donne sanno portare la pace”. Il regista Mimmo Sorrentino che si è avvalso dell’aiuto di Raffaella Cordara, insegnante del Cpia di Asti al termine, sudato e felice, dopo 6 mesi di prove ha spiegato il grande impegno di tutti i detenuti che hanno dovuto confrontarsi e amalgamarsi: “Uso lo stesso metodo di lavoro in tutti i contesti sociali. Il mio lavoro consiste anche nel sapere ascoltare le necessità delle persone. Devono sentirsi riconosciuti e occorre distinguere l’errore dalle persone. Non c’è mai stato il più piccolo screzio. Qui non ho mai avuto timori”. Milano: la settimana del rugby per i “ragazzi” dell’Ipm Beccaria di Sara Bernacchia La Repubblica, 29 giugno 2019 Il sole pungente non spaventa i giocatori, che non si risparmiano in allenamento e alla fine si concedono un bagno in piscina. I calciatori, che corrono agli ordini dei tecnici delle giovanili dell’Inter, sono i 39 detenuti del carcere minorile Beccaria, che partecipano al progetto Sport Camp di Mediobanca. A correre con loro c’è Diego Dominguez, ex capitano della Nazionale italiana di rugby, che per il terzo anno consecutivo trascorre un’intera settimana ad allenarli. “Si aspettano sincerità e coerenza: se gli prometti una cosa devi farla, non puoi deluderli. Ma in cambio puoi pretendere rispetto e impegno”, spiega Dominguez, che ha creato un rapporto di fiducia con i ragazzi. “Sono venuto qui a cena e mi hanno invitato al loro spettacolo teatrale - racconta. Tre di loro sono in carcere sin dalla prima edizione, li ho visti crescere e maturare. Sanno che se fanno bene possono contare su di me, anche fuori da qui”. A fine allenamento i ragazzi si preparano per rientrare e lui li saluta uno per uno. “Diego è un grande” spiega Marco, pur ammettendo che prima di entrare al Beccaria non sapeva chi fosse Dominguez. Lo Sport Camp, che ha portato in carcere anche il nuotatore Federico Morlacchi, quattro medaglie d’oro alle Paralimpiadi di Rio 2016, è un modo per “trascorrere giornate bellissime” racconta il giovane Aldair. L’atmosfera è quella di una qualsiasi partita tra ragazzi. Gli agenti di polizia penitenziaria, infatti, non indossano la divisa e le operatrici riprendono i giocatori come fossero le madri. “Carlos, metti tutto nello zaino, ogni voltati dimentichi qualcosa”, grida una al ragazzo che ha in mano i pantaloncini nerazzurri avuti in regalo. “Questi progetti permettono di portare in carcere la società civile e danno ai ragazzi l’occasione per fare cose adatte alla loro età”, sottolinea la responsabile dell’area pedagogica del Beccarla, Elvira Narducci. L’età media dei detenuti è di 17 anni, “al momento il più piccolo ne ha 14 e il più grande 24 prosegue. Abbiamo due gruppi di orientamento, un gruppo avanzato e i “ragazzi 21”, che lavorano all’esterno. Pisa: l’orchestra dell’università dentro il carcere per la festa della musica pisatoday.it, 29 giugno 2019 Al termine della VII Edizione del Progetto Musica Dentro, il corso di educazione musicale per i detenuti organizzato da “Il Mosaico”, speciale evento in collaborazione con la realtà musicale dell’Ateneo pisano. In generale è sempre faticoso muovere un’orchestra e un coro composti da tante persone e i loro strumenti ingombranti, figuriamoci se questo avviene per andare a suonare all’interno di un carcere! Gli sforzi come minimo si quadruplicano! Ma questo non ha impedito a un gruppo di volenterose istituzioni e ai loro rappresentanti di organizzare lo scorso martedì 25 giugno all’interno del Carcere Don Bosco una bellissima Festa della Musica, al termine della VII Edizione del Progetto Musica Dentro, il corso di educazione musicale per i detenuti di Pisa svolto dall’Associazione Il Mosaico, con il contributo della Fondazione Pisa e della Società della Salute Pisana. La Direzione Penitenziaria, l’Università di Pisa e l’Associazione Culturale Il Mosaico sono riusciti nel loro intento e per circa un’ora il Coro e l’Orchestra dell’Università di Pisa diretti da Manfred Giampietro hanno eseguito una selezione musicale delle colonne sonore dei video giochi Zelda. Quaranta persone, in rappresentanza di un ensemble molto più numeroso ma logicamente ridotto per la circostanza, hanno cantato e suonato all’interno della Sala Polivalente per oltre 120 persone, tra agenti di custodia, educatori, volontari e detenuti. “La musica unisce tutti, la musica non ha confini, passa attraverso i muri” hanno commentato soddisfatti Riccardo Buscemi per il Mosaico e la Prof.ssa Maria Antonella Galanti, coordinatrice del Centro per la diffusione della cultura e della pratica musicale dell’Università di Pisa. Come da tradizione, è stata consegnata la T-Shirt del concerto al Dr Francesco Ruello, direttore della struttura penitenziaria di Pisa, al Commissario Vincenzo Pennetti, Comandante della Polizia Penitenziaria di Pisa, al rappresentante del Comune di Pisa, Assessore Paolo Pesciatini, al Presidente della Provincia Massimiliano Angori, ai Professori Gesi, Del Corso e Borghini in rappresentanza dell’Università di Pisa e infine ai protagonisti della serata, Marialuisa Pepi, direttore artistico del Progetto Musica Dentro, e al Maestro Manfred Giampietro, visibilmente emozionato e soddisfatto. Un grazie a tutti i musicisti che hanno festeggiato in una maniera davvero “speciale” la Festa della Musica e a tutti coloro che hanno lavorato per realizzare questo evento”. Migranti. Il Garante dei detenuti “svela” i veri numeri dei rimpatri di Graziella Di Mambro articolo21.org, 29 giugno 2019 Giudizio severo sui Cpr: “Condizioni indecorose”. “Nel primo semestre del 2019 sono stati 2.839 gli stranieri rimpatriati. A fine anno saremo quindi sui 5.600-6.000, numero in linea con quelli degli ultimi anni. Mentre qualcuno aveva parlato, a seconda dei casi, di 500mila o di 90mila da espellere”. Parole chiare, che mettono ordine, quelle pronunciate dal Garante dei detenuti, Mauro Palma, in audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera nelle stesse ore in cui i social e la politica sono infiammati dal dibattito sulla Sea Wacht e il suo capitano. Palma ha anche illustrato la situazione dei centri di permanenza per il rimpatrio registrata durante le sue visite e ha definito “indecorose” le condizioni di alcune strutture; inoltre ha segnalato che delle 2.267 persone trattenute nei centri nei primi sei mesi dell’anno, solo il 39% sono state rimpatriate, dunque si pone “il problema della legittimazione della privazione della libertà per le rimanenti persone”. I numeri del Garante smentiscono clamorosamente i dati diffusi in sede politica e sollevano il velo su quello che sta succedendo nei centri di permanenza. Nel corso dell’audizione non sono mancare severe valutazioni sull’efficacia di alcune misure contenute nel decreto sicurezza. La maggior parte dei rimpatri avviene in esecuzione di atti di natura penale, in pratica lo stesso motivo degli ultimi 10-15 anni: Il che smentisce, dati alla mano, tutti i proclami sulla rivoluzione nei rimpatri che praticamente non esiste. Per stare ancora sui dati dall’inizio dell’anno sono stati utilizzati 26 voli charter (4 per l’Egitto, uno per il Gambia, 4 per la Nigeria, 17 per la Tunisia), che hanno portato all’espulsione di 566 persone, con l’impiego di 1.866 operatori. Per il Garante è necessario lavorare su “nuove forme di incentivazione per i rimpatri volontari, a cui dovrebbero essere destinate risorse, le quali sono invece impiegate per pochi rimpatri forzati”. Poi, per illustrare le condizioni dei Centri di permanenza, ha citato l’esempio di Palazzo San Gervasio a Potenza dove sono state trattenute, per periodi vari, 491 persone, ma solo 80 rimpatriate. Questi centri dovevano essere piccoli e vicini agli aeroporti per consentire iter più rapidi. Invece non sempre è così, non nel caso di Potenza. La bassa percentuale di rimpatriati pone un problema su come vengono trattati quelli che restano e sulla legittimità della misura con cui vengono trattenuti. Un problema irrisolto perché non si sa a quale titolo quelle persone vengono private della loro libertà. “Nel primo decreto sicurezza - ha detto Palma nel corso dell’audizione - è prevista una convalida del trattenimento in hotspot solo se il richiedente asilo resta per 30 giorni ma per chi non è richiedente asilo tale convalida da parte del magistrato non è prevista”. Severissimo il giudizio del Garante sullo stato in cui versa il centro femminile di Ponte Galeria a Roma: “Nel corso della mia visita ho ritenuto di portare il viceprefetto nell’area dei servizi igienici per chiedergli se li avrebbe mai utilizzati: c’era un nugolo di zanzare e moscerini sulle pareti. Il centro è situato in una zona sotto il livello del mare: sono stati fatti alcuni lavori, qualcosa è migliorato ma la situazione è segnata dal fatto che in tutto il 2018 solo il 13% delle donne è stato rimpatriato”. Caso Sea Watch, arrestata la capitana Carola. Migranti sbarcati a Lampedusa di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 giugno 2019 Dopo la lunga attesa, l’imbarcazione ha deciso di sfidare il divieto imposto dal ministro Salvini. Sbarcati i 40 migranti a bordo. Carola Rackete accusata anche di tentato naufragio. Improvvisa svolta nel caso della Sea Watch 3. La nave della Ong tedesca è arrivata nel porto commerciale di Lampedusa intorno all’1.30 della notte fra venerdì e sabato. A tentare di fermare le operazioni di attracco una motovedetta della Guardia di finanza che è rimasta schiacciata tra la nave e il molo. La comandante Carola Rackete ha dunque sfidato il divieto delle autorità italiane e poco prima delle tre di notte è stata prelevata dagli uomini della Guardia di finanza che l’hanno portata in auto nei locali del comando sull’isola, dove è stata raggiunta dal suo avvocato. Secondo quanto emerso è in arresto. Tre i reati che le sono stati contestati: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, resistenza alle navi da guerra e anche tentato naufragio- che prevede una pena fra 5 e 12 anni di carcere- per la manovra effettuata in porto, quando la Sea Watch ha spinto la motovedetta contro la banchina. Intanto prima dell’alba sono cominciate le operazioni per lo sbarco dei 40 migranti che sono scesi prima delle sei di sabato mattina per essere trasferiti nel centro di prima accoglienza. Scesi dalla nave anche i parlamentari che erano a bordo: “Finalmente è finita questa odissea - ha detto Nicola Fratoianni di Sinistra italiana - spero che si possa chiudere subito anche quella della comandante. Come avete visto far sbarcare 40 persone era semplicissimo. Possibile che si sia dovuti arrivare a questo?”. Terminato lo sbarco, la Sea Watch alle 6.30 ha mollato gli ormeggi ed è salpata abbandonando il porto di Lampedusa. Applausi e contestazioni - L’approdo della nave ha provocato uno scontro verbale tra opposte fazioni sul molo di Lampedusa: da una parte i sostenitori della ong che hanno applaudito la scelta della comandante, dall’altra un gruppo di lampedusani, tra cui l’ex vicesindaco Angela Maraventano, che ha urlato e inveito contro i volontari dell’organizzazione. “È una vergogna - ha urlato Maraventano rivolta verso la nave. Qui non si può venire a fare quello che si vuole, non venite nelle nostra isola se no succede il finimondo”. E poi, “fate scendere i profughi - ha aggiunto rivolgendosi alle forze dell’ordine - e arrestateli tutti”. All’ex vicesindaco ha risposto l’ex sindaco Giusi Nicolini: “Che vuoi tu, chi sei tu per decidere chi deve venire e chi no”. “Non avevamo scelta” - “Non avevamo scelta: al comandante, iscritto nel registro degli indagati, non è stata data nessuna soluzione di fronte a uno stato di necessità dichiarato trentasei ore fa e quindi era sua responsabilità portare queste persone in salvo”. Così la portavoce della Sea Watch, Giorgia Linardi, ha commentato la scelta della comandante della nave, Carola Rackete, di entrare in porto. “La violazione - ha aggiunto Linardi - è stata non del comandante, ma delle autorità che non hanno assistito la nave per sedici giorni”. Ma ora il comandate rischia l’arresto?, le è stato chiesto: “Potrebbe - ha risposto. Vediamo cosa accade”. La testimonianza di Delrio - “Ha deciso la comandante, questa sera intorno alle 22.30”, ha raccontato Graziano Delrio, parlamentare del Pd ed ex ministro ai Trasporti, che ha seguito le fasi più calde a bordo della Sea Watch. E ancora: “Per due giorni l’avevamo convinta ad attendere una soluzione diplomatica. Oggi c’erano stati degli spiragli con i paesi che si erano mostrati disponibili ad accogliere i naufraghi. Ma quando il capitano ha visto che la situazione non si sbloccava, con le perquisizioni che hanno allarmato i migranti, e le loro condizioni che peggioravano: uno di loro era già stato ricoverato, due non stavano per niente bene. A quel punto ha deciso di andare. E noi non avevamo più argomenti per convincerla”. Con questa irruzione nel porto, il comandante ha sicuramente compiuto una reiterazione del reato e rischia l’arresto, proprio alla vigilia dell’interrogatorio fissato per sabato alle 9. Libia. Moavero: “Non è un porto sicuro. Non ci sono condizioni per definirla tale” Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2019 “Non siamo noi a dirlo, è un dato di fatto del diritto internazionale”, ha detto il ministro degli Esteri rispondendo a una domanda alla Farnesina con l’inviato Onu Ghassan Salamé. Enzo Moavero Milanesi mette in chiaro la posizione del ministero degli Esteri: la Libia non è un porto sicuro. “La definizione di porto sicuro viene dalle convenzioni internazionali, queste condizioni per la Libia non ci sono - ha detto il capo della diplomazia italiana rispondendo ad una domanda in un punto stampa alla Farnesina con l’inviato Onu Ghassan Salamé - Non siamo noi a dirlo. So che da questo nascono varie precisazioni di carattere mediatico su convergenze di posizioni o meno, ma è un dato di fatto del diritto internazionale”. Quanto all’attività della Guardia costiera libica, Moavero ha affermato che “la Libia ha diritto a vigilare su ciò che accade nelle proprie acque territoriali e di intervenirvi, come ogni Stato sovrano”, ha proseguito il ministro. “Dunque, gli interventi della Guardia costiera libica vanno collegati all’esercizio di questo diritto-dovere. Bisogna, inoltre, ricordare che le missioni di addestramento della Guardia costiera libica vengono effettuate anche nell’ambito di missioni dell’Unione Europea”, ha aggiunto. Il Partito democratico parte all’attacco: “Il ministro degli Esteri Moavero ha spiegato bene e con chiarezza che la Libia non è un porto sicuro, è un dato di fatto - commenta il senatore Alessandro Alfieri, capogruppo del Pd nella Commissione Esteri - Dovrebbe spiegarlo bene al suo collega Salvini, che vorrebbe rispedire in Libia tutte le persone migranti che dalla Libia affrontano viaggi della speranza verso l’Europa”. “Il ministro Moavero non dice nulla di nuovo - fa eco Lia Quartapelle, capogruppo dem in commissione Esteri della Camera - ma conferma soltanto quanto sostenuto dall’Onu e dall’Ue: la Libia non è un porto sicuro. Il ministro Salvini però non lo sa o finge di non saperlo. Chi scappa dalla Libia deve essere accolto”. “Se in tutto questo ci fosse una logica, Moavero dovrebbe ora anche chiedere al ministro dell’Interno l’immediato sbarco a Lampedusa dei naufraghi partiti dalla Libia e raccolti in mare dalla nave Sea Watch. Ma una logica in questo governo non c’è”, afferma Ivan Scalfarotto, membro della commissione Esteri della Camera del Pd. Il quale ha convocato per la prossima settimana i suoi gruppi parlamentari per discutere delle missioni internazionali e degli accordi stretti con Tripoli nel 2017 per fermare i migranti diretti verso l’Italia. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Sinistra Italiana: “Parole importanti, tuttavia invece di dirle ai giornalisti approfitti del prossimo consiglio dei ministri e lo ripeta a voce alta, magari lentamente, ai ministri Salvini e Toninelli”, il commento di Nicola Fratoianni, che è a bordo della Sea Watch 3. La situazione nel Paese nordafricano resta molto difficile. L’offensiva lanciata il 4 aprile dal comandante dell’Esercito nazionale libico guidato da Khalifa Haftar per prendere Tripoli si è fermata alle porte della capitale e la situazione ristagna da settimane. “Haftar resta uno dei protagonisti dello scenario libico, un interlocutore imprescindibile”, ha detto Moavero Milanesi. “Come governo italiano siamo convinti della necessità di un dialogo inclusivo con tutti i protagonisti”, ha chiarito il ministro. Nei giorni scorsi presentando il suo piano di pace Fayez Al Sarraj, capo del governo di unità nazionale appoggiato dall’Italia, aveva escluso il dialogo con il maresciallo responsabile dell’offensiva su Tripoli. Sul terreno la presa di Gharian da parte delle forze fedeli al governo di Tripoli rappresenta “uno sviluppo notevole dopo undici settimane di stallo” del conflitto, ha commentato da parte sua Salamé: Gharian era stata la prima città ad essere conquistata dagli uomini di Haftar all’inizio di aprile. “Vedremo quale sarà la prossima mossa delle autorità, in ogni caso è una novità che va riconosciuta”, ha sottolineato Salamé. Eritrea. Repressione senza frontiere: la lunga mano del regime contro la diaspora di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 giugno 2019 Winta Yemane, nata in Italia e orgogliosa delle sue radici eritree, ha aderito al Fronte popolare giovanile per la democrazia e la giustizia (l’ala giovanile del partito unico al potere in Eritrea) quando frequentava le scuole superiori. Nel 2011, ha partecipato alla conferenza annuale a Oslo, in Norvegia. Quando ha preso la parola esprimendo l’auspicio in una Costituzione, nel rispetto dei diritti umani e nell’indipendenza del potere giudiziario, si è trovava rapidamente dalla parte opposta agli alti rappresentanti del governo che prendevano parte all’incontro. “Dissero che ero una vittima della disinformazione della propaganda occidentale e dei nemici dell’Eritrea. Dei miei commenti non si doveva tener conto perché ero minorenne. Tre degli organizzatori tentarono pure di espellermi dalla conferenza”, ricorda Winta. Tornata a casa a Milano, ha subito azioni di stalking per due settimane, ricevendo minacce di morte telefoniche da numeri sconosciuti e subendo una campagna diffamatoria sui social media. Molti altri eritrei, tra i quali il direttore degli Avvocati eritrei in esilio Daniel Mekonnen e padre Mussie Zerai (nella foto), il prete cattolico candidato al Nobel per la pace nel 2015 per il suo impegno in favore dei migranti, hanno subito attacchi e intimidazioni del genere. Quelle di Winta e padre Mussie sono solo due delle storie raccontate da Amnesty International nel suo rapporto “Eritrea, repressione senza frontiere”. Il rapporto è la sintesi delle ricerche svolte dal 2011 al maggio 2019 dall’organizzazione per i diritti umani sulle minacce di morte, le aggressioni fisiche, la diffusione di notizie false e le molestie online con cui gli eritrei della diaspora vengono presi di mira da rappresentanti e sostenitori del governo dell’Asmara, tra cui spiccano per devozione alla causa i militanti dell’ala giovanile del Fronte, incaricati di operazioni di spionaggio. Per molti difensori dei diritti umani, la fuga dall’Eritrea non ha significato affatto il distacco dalla repressione, a causa della quale molti di loro sono morti proprio mentre cercavano di allontanarsene. Devono costantemente guardarsi le spalle e controllare ogni parola che dicono, impauriti dalla lunga mano del governo eritreo che si estende ben oltre le frontiere. Secondo le ricerche dell’organizzazione, gli stati in cui i difensori dei diritti umani eritrei corrono i maggiori rischi sono Kenya, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera. Ma anche l’Italia non è un paese sicuro. Questo trattamento, comunque, non è riservato solo agli eritrei. Il 30 novembre 2018 l’ex direttore di BBC Africa Martin Plaut è stato attirato a un incontro con una “fonte eritrea” alla British Library di Londra. Qui, gli è stato rovesciato addosso un secchio contenente liquido ed è stato definito “traditore” a causa delle sue inchieste giornalistiche sui diritti umani in Eritrea. L’ambasciatore eritreo in Giappone, Estifanos Afeworki, ha poi pubblicato un tweet esprimendo apprezzamento per l’azione. Un comportamento davvero istituzionale! La Tangentopoli del Perù dà tutto il potere ai giudici di Angela Nocioni Il Dubbio, 29 giugno 2019 Le inchieste spazzano via la classe politica ma il suicidio dell’ex Presidente Garcia apre una crepa nel partito giustizialista. Eccellente era eccellente, ma non ha fatto in tempo ad essere detenuto perché il 17 aprile scorso si è ucciso mentre la polizia stava andando a prenderlo. È così che, a due mesi dal drammatico mancato arresto dell’ex presidente peruviano Alan Garcia - l’ennesimo personaggio politico famoso del Perù a (non) finire in manette - le accuse da lui lanciate dalla lettera in cui spiega perché ha deciso di uccidersi è riuscita a spalancare, con la forza dello scandalo, lo spazio a una pubblica discussione, per quanto avvelenata, su quali limiti debbano porsi i magistrati inquirenti nell’uso della prigione preventiva durante le inchieste. Nel paese andino, che viene da un periodo economicamente effervescente con grandi opere pubbliche avviate e capitali esteri investiti, una indagine giudiziaria sulla corruzione di amministratori pubblici da parte delle imprese ha terremotato la politica locale e spiccato mandati d’arresto per gli ultimi quattro presidenti della repubblica. Il mercoledì della Settimana santa Alan Garcia - due volte presidente della repubblica (1985- 1990, 2006- 2011) - aspettava a casa di essere portato in carcere con accuse di corruzione. Era indagato per le concessioni pubbliche relative alla linea 1 della metropolitana di Lima. Secondo le ipotesi degli inquirenti, vari membri del suo secondo governo avrebbero intascato 24 milioni di dollari di cui ci sarebbe traccia in conti segreti ad Andorra e lui stesso avrebbe mantenuto spese superiori al suo patrimonio personale. Di recente aveva chiesto asilo politico in Uruguay, lamentando una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti. Il governo di Montevideo l’aveva rifiutato perché, così recita la motivazione resa pubblica, “in Perù il potere giudiziario è indipendente dal governo e quindi non si può considerare nessuno perseguitato per ragioni politiche”. Pochi minuti prima che i poliziotti si presentassero a casa sua Alan Garcia ha tirato fuori dalla cassapanca accanto al suo letto una pistola Colt e si è sparato alla tempia destra. In una lettera, resa pubblica dalla figlia Lucía, ha scritto d’aver scelto di suicidarsi “in disprezzo ai nemici”, descrive gli errori dell’inchiesta e afferma: “Non ci sono conti segreti, né tangenti”. Altre testimonianze raccontano la sua furia contro l’uso spregiudicato da parte della prigione preventiva per spingere gli arrestati ad ammettere colpe proprie e altrui. Due giorni dopo il suicidio di Garcia, in uno dei rivoli peruviani della stessa inchiesta centrata sulle mazzette milionarie della Odebrecht - la grande impresa di costruzioni brasiliana che ha distribuito, secondo le ammissioni di alcuni suoi dirigenti, una marea di soldi a vari governi latino-americani cominciando da quello brasiliano (il magistrato mediaticamente più esposto in Brasile è stato Sergio Moro, nominato super-ministro della Giustizia e degli Interni dall’attuale presidente d’ultradestra Bolsonaro dopo aver fatto arrestare in piena campagna elettorale il candidato favorito alla presidenza della repubblica, mossa senza la quale Bolsonaro non sarebbe mai arrivato al governo e Moro nemmeno) - è stato mandato in cella Pablo Kuczynsky, ex presidente ottantunenne ricoverato da tempo per problemi di salute. Solo nel 2018 sono stati aperti in Perù 4.225 dossier per reati di corruzione, con 2.059 autorità locali come imputati, tra i quali 57 governatori ed ex governatori regionali, 344 sindaci ed ex sindaci e 1658 altri amministratori pubblici. All’inizio di quest’anno il procuratore generale Pedro Chávarry ha tentato di sottrarre l’inchiesta che stava montando ai due principali inquirenti, il coordinatore Rafael Vela e il suo braccio destro José Domingo Pérez. Iniziativa rivelatasi per lui un boomerang: una manifestazione di protesta cittadina ha fatto talmente scalpore da costringerlo a riaffidare l’inchiesta ai due giudici e a dare le dimissioni. Dopo aver visto l’ex presidente Alejandro Toledo scappare negli Stati uniti per tentare di sottrarsi all’arresto, l’ex presidente Ollanta Humala e sua moglie Nadine Herrera fare tre anni di galera con l’accusa di aver ricevuto da Odebrecht tre milioni di dollari, il capo dell’opposizione parlamentare, Keiko Fujimori, estremista di destra figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori, incarcerata con accuse di lavaggio di denaro, Alan Garcia suicida e Kuczynsky arrestato, l’attuale presidente della repubblica, Martín Vizcarra, ha preso il coraggio a due mani e ha, per pochi minuti, deposto la bandiera dell’appoggio fideistico al pool di magistrati inquirenti e ha osato articolare una timida argomentazione in difesa del principio della presunzione d’innocenza. Poche e misurate parole, le sue, sufficienti però a riportare a galla nel dibattito pubblico alcuni fatti che raccomandano l’uso della facoltà del dubbio. Tra questi, un dettaglio: Odebrecht ha firmato con gli inquirenti un accordo di collaborazione. In questo testo l’azienda riconosce il pagamento di tangenti in quattro gare d’appalto, si impegna a portare le prove dei reati commessi e a pagare un risarcimento civile di 185 milioni di dollari in 15 anni oltre ad altri 137 milioni di dollari come multa d’ingresso qualora voglia partecipare a nuove gare d’appalto pubbliche. In cambio la magistratura peruviana rinuncia a processare i rappresentanti dell’impresa che hanno accettato di accusare terze persone di aver ricevuto dato mazzette. È criticabile quest’accordo? Ci si può fidare delle accuse di qualcuno che addita qualcun altro come colpevole e riceve in cambio l’immunità giudiziaria? È sano per una società affidare una rivoluzione politica alle mani di un pool di magistrati considerandoli al di sopra del Diritto? Domande che non hanno avuto finora spazio possibile nel dibattito politico latinoamericano perché chiunque osi formularle viene ovunque additato alla pubblica opinione come amico dei corrotti e che ora, timidamente, fanno capolino, a sorpresa, dal Perù.