Meno lavoro dietro le sbarre, nuovo allarme dal carcere di Antonio Maria Mira Avvenire, 28 giugno 2019 La relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge inviata al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede conferma, accanto al ritorno del sovraffollamento delle celle, il calo dei detenuti lavoranti. Mentre tornano ad aumentare i detenuti, e si ripropone l’affollamento delle celle, diminuisce il lavoro in carcere. Non succedeva da almeno sette anni. È quanto emerge dalla “Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti” per l’anno 2018, inviata al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sovraffollamento e meno lavoro, un accoppiata molto pericolosa. Anche perché, come si legge proprio nelle prime righe della Relazione “il lavoro è ritenuto dall’Ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato Costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa”. E invece, su questo fronte, il 2018 ha tutti dati negativi. Sia in numeri assoluti che percentuali. Lo scorso anno, infatti, i detenuti lavoranti sono stati 17.614, rispetto ai 18.405 de12017, il 4,29% in meno. Eppure nello stesso periodo i detenuti in carcere sono invece saliti da 57.608 a 59.655. Un aumento di presenze che non ha portato ad un aumento del lavoro. Così ne12018 la percentuale dei detenuti lavoranti rispetto al totale è stata del 29,52%, rispetto al 31,94% del 2017. Ed è il primo risultato negativo almeno dal 2012, quando i detenuti lavoranti erano solo il 21,01% (con una popolazione carceraria di 65.701 persone). Nella relazione si prova a trovare una giustificazione ricordando che “nell’ottobre del 2017, si è provveduto ad adeguare le retribuzioni dei detenuti lavoranti, ferme dal 1994, ai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, così come previsto dall’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario”. Aggiungendo che “l’aumento medio delle retribuzioni, è stato di circa 1’80%, incidendo sui livelli di occupazione all’interno degli istituti penitenziari”. Dunque l’aumento delle retribuzioni ha provocato un calo dei detenuti lavoranti? La classica coperta troppo corta? Eppure le assegnazioni sul capitolo delle retribuzioni per i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni sono cresciute molto, passando dai 50-60 milioni fino al 2016 ai 100 milioni del 2017, e anche lo scorso anno l’aumento non si è fermato, arrivando a 110 milioni. Ma è davvero solo una questione di fondi? Se andiamo a leggere altri punti della Relazione possiamo vedere che a calare sono tutti i dati. Così i detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria in attività industriali (officine e laboratori interni al carcere), sono scesi da 655 a 637, interrompendo così anche per questa attività “specializzata” il trend positivo degli ultimi sette anni. Stesso discorso per i detenuti impegnati presso “colonie e tenimenti agricoli”, passati dai 420 del 2017 ai 375 del 2018. E il calo, purtroppo, ha riguardato anche l’importante settore del lavoro esterno al carcere, preziosa occasione di recupero e reintegrazione. A131 dicembre 2018 i detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni erano 2.386 rispetto ai 2.480 del 31 dicembre 2017. All’interno di questa cifra l’unico dato non negativo sono i detenuti che lavorano grazie alla “legge Smuraglia”, che prevede misure di vantaggio per le cooperative sociali e le imprese che vogliano assumere detenuti in esecuzione penale all’interno degli istituti penitenziari. Sono 1.513, più o meno quanti nel 2017, ma di meno in termini percentuali. Il quadro, quindi, è critico. Perché il lavoro in carcere è un’arma potente di reinserimento sociale, a pena scontata. Ed è - osserva la stessa relazione - “strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi e le tensioni proprie della condizione detentiva”. Le recenti proteste, anche violente, in vari penitenziari sono un campanello d’allarme. Condanna Cedu. Bortolato: “ecco come si supera l’ergastolo ostativo” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 28 giugno 2019 Il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze: “C’è bisogno di una riforma sostanziale che metta il condannato di fronte a una libera scelta che sia moralmente accettabile”. “Si può non collaborare perché non si vuole barattare la propria libertà con quella di un altro, perché si teme per l’incolumità propria o dei propri familiari, oppure per ragioni morali. Ma l’impossibilità per il giudice di valutare in concreto le ragioni della mancata collaborazione rappresenta di per sé il più grave ostacolo alla funzione rieducativa della pena, che anche quella perpetua deve avere. Non si vuole negare l’importanza della collaborazione con la giustizia: essa è stata ed è un fondamentale strumento della lotta alla criminalità organizzata”. Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, approfondisce, per Redattore Sociale, la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui l’ergastolo ostativo viola i diritti umani e, in particolare, l’articolo 3 della Convezione europea. “Una sentenza - spiega Bortolato - che condanna l’Italia perché priva il magistrato del potere di valutare le ragioni della mancata collaborazione da parte del condannato all’ergastolo che voglia accedere ai benefici penitenziari. Solo attraverso questi benefici la pena dell’ergastolo è compatibile con il principio di rieducazione e dunque con la Costituzione”. “La Corte europea - prosegue il magistrato - non si è limitata però ad affermare un principio elementare, ispirato a criteri di ragionevolezza ed uguaglianza, ma ha ingiunto all’Italia di adottare misure strutturali per intervenire nei confronti dei quasi 1.200 ergastolani “ostativi”: una sentenza “quasi-pilota” si è detto, di fronte alla quale lo Stato non può rimanere indifferente, a pena di ulteriori condanne”. Che fare dunque? “Ci sono questioni di legittimità pendenti alla Corte costituzionale ma la via legislativa è da ritenere preferibile”. E come si può conformare l’esecuzione della pena perpetua all’evoluzione della personalità del condannato e alla sua concreta pericolosità sociale? “Prevedendo percorsi differenziati solo in presenza di perduranti collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento - spiega Marcello Bortolato. La risposta potrebbe essere relativamente semplice: non è necessaria l’abolizione integrale della norma dell’ordinamento penitenziario che costituisce ancora oggi il nodo centrale di tutto il sistema delle preclusioni e, in particolare, dell’ergastolo “ostativo”, e cioè l’articolo 4bis (nulla a che fare s’intende col 41bis), ma una sua riforma sostanziale che metta il condannato di fronte a una libera scelta, stavolta moralmente accettabile: o collaborare con l’autorità giudiziaria (una collaborazione vera, utile, efficace e non, come oggi, confinata nell’astrattezza della “impossibilità”) ovvero dimostrare con comportamenti positivi la reale “dissociazione”, sulla falsariga di quello che si fece negli anni 80 con la legge antiterrorismo n. 34/87. Il condannato mantiene ferma la libertà di non operare la scelta collaborativa ma deve dimostrare in cambio la propria dissociazione”. “È con il ripudio della violenza e della forza di intimidazione come metodo criminale - conclude il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze - che si può dimostrare nei fatti l’abbandono definitivo dell’organizzazione di appartenenza: solo così si potrà togliere una volta per tutte, come chiede la Corte di Strasburgo, l’insopportabile peso dell’ergastolo ostativo italiano”. Il 35% di chi è entrato in cella nel 2018 era tossicodipendente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2019 Aumento degli ingressi e delle presenze in carcere sia per detenzione della droga sia di soggetti classificati come tossicodipendenti. Aumenta a dismisura il numero delle segnalazioni ai prefetti. Un quadro impressionante in un contesto dove il sovraffollamento riprende a mordere anche grazie alla legge proibizionista e punitiva. Parliamo dei dati che emergono dal Decimo Libro Bianco sugli effetti collaterali della legge antidroga sul carcere e la giustizia, un libro promosso da La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni e con l’adesione di A Buon Diritto, Arci, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd, Lega Coop Sociali, Lila. Si apprende che, entrati nel 30esimo anno dalla sua approvazione, la parte penale (l’art. 73 in particolare) del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino- Vassalli continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Esattamente 14.118 dei 47.258 ingressi in carcere nel 2018 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 29,87%: si conferma l’inversione del trend discendente attivo dal 2012 a seguito della sentenza Torreggiani della Cedu e dall’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Il leggerissimo calo in termini assoluti rispetto al 2017 coincide con un aumento in termini percentuali: rappresenta un nuovo record, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. Sui quasi 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2018 ben 14.579 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 5.488 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 940 esclusivamente per l’art. 74. Questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili (anzi diminuiscono di alcune decine di unità). Nel complesso vi è un aumento secco del 6,5% sull’anno precedente. Ben 16.669 dei 59.655 detenuti al 31/ 12/ 2018 sono tossicodipendenti. Il 27,94% del totale. Una percentuale che supera il picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), poi riassorbito a seguito di una serie di interventi legislativi correttivi. Preoccupa poi l’ulteriore l’impennata degli ingressi in carcere, che anche qui toccano un nuovo record: il 35,53% dei soggetti entrati in carcere nel corso del 2018 era tossicodipendente. Un dato positivo, l’unico che intravedono gli autori del libro introdotto dai garanti regionali delle persone private della libertà Stefano Anastasia e Franco Corleone, arriva dalle misure alternative: in crescita lieve ma costante negli ultimi anni. Il fatto che il trend prosegua oltre la inversione di tendenza nella popolazione detenuta databile dal 2016 lascia ben sperare per una autonomia delle misure penali di comunità. Continuano però ad aumentare le persone segnalate al Prefetto per consumo di sostanze illecite: 39.278 nel 2018. Si conferma l’impennata delle segnalazioni dei minori: + 394,4% in tre anni. Dopo l’aumento dell’anno scorso si consolida il numero delle sanzioni: 15.126. Risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al Prefetto: su 39.278 persone segnalate solo 82 sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento socio- sanitario; nel 2017 erano 3.008. Le sanzioni amministrative riguardano invece il 36% delle segnalazioni, percentuale in aumento rispetto all’anno precedente. La segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti ha quindi natura principalmente sanzionatoria. La repressione colpisce per quasi l’ 80% i consumatori di cannabinoidi (79,18%), seguono a distanza cocaina (14,34%) e eroina (4,39%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990 1.267.183 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste il 73,11% per derivati della cannabis (926.478). Restano significativi i dati rispetto alle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psico- fisica per uso di sostanze stupefacenti. I dati disponibili, (Polizia Stradale 2018, Istat e Dpa) indicano che solo l’ 1,14% dei conducenti coinvolti in incidenti stradali rilevati dalla sola Polizia Stradale è stato accusato di violazione dell’art. 187 del Codice della strada. Anche i dati della sperimentazione dello screening rapido su strada indicano che a poco più dell’ 1% dei conducenti risulta positivo ai test. Di questi una media superiore al 20% viene “scagionato” dalle analisi di laboratorio. Nel libro bianco sulle droghe di quest’anno si trova anche una ricostruzione storica degli ultimi trent’anni di politiche sulle droghe nel nostro paese, il commento delle principali novità giurisprudenziali, compresa la sentenza della Cassazione sulla cannabis light, il punto sulla riduzione del danno in Italia alla luce dell’inserimento nei Livelli Essenziali di Assistenza e un approfondimento sulle politiche sulla cannabis in Italia e nel mondo anche a seguito della raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale di Sanità per la riclassificazione della sostanza nelle tabelle internazionali. Carcere ingiusto, la relazione: inutile la legge appena votata di Errico Novi Il Dubbio, 28 giugno 2019 L’Ispettorato del Ministero della Giustizia: eventuali abusi dei Gip sono già segnalati. Il documento sulle misure cautelari inviato come ogni anno da via Arenula al Parlamento sconfessa la scelta dei deputati M5S, che martedì in aula hanno ribadito il sì al provvedimento. Una doccia gelata. L’ispettorato di via Arenula definisce di fatto inutile la legge sulle ingiuste detenzioni. Testo presentato da un deputato di opposizione, l’azzurro Enrico Costa, ma sostenuto anche dalla maggioranza. Incluso il Movimento 5 Stelle, partito dello stesso ministro della Giustizia. Secondo gli uffici del governo che monitorano l’intero sistema delle misure cautelari, ci sarebbe “assenza di correlazione tra il riconoscimento del diritto alla riparazione” nei confronti degli innocenti finiti in galera “e gli illeciti disciplinari dei magistrati”. Ecco. Invece la legge di Costa tende proprio alla possibilità che tale “correlazione” esista. Prevede infatti di ampliare il codice di procedura penale in modo che il ministero dell’Economia comunichi gli avvenuti risarcimenti per il carcere ingiusto ai titolari dell’azione disciplinare, vale a dire allo stesso ministro della Giustizia e al pg della Cassazione. Chi ha ragione? E soprattutto, le obiezioni degli uffici di via Arenula rischiano di essere un monito per i deputati Cinque Stelle che hanno già votato a favore del ddl Costa in commissione Giustizia? L’episodio rischia di far emergere l’insostenibilità, per il Movimento, di una linea troppo “severa” nei confronti dei magistrati? I quesiti sono legittimi tanto più se si considera che proprio un esponente del M5S, Bonafede appunto, ha la funzione, come guardasigilli, di sovrintendere all’amministrazione della Giustizia. Competenza che si estende anche ai rapporti con la magistratura, a cominciare proprio dalle ispezioni e, appunto, dal perseguimento di eventuali illeciti. I parlamentari pentastellati, insomma, potrebbero aver compiuto una scelta non facile da sostenere per il loro partito. Sia in commissione Giustizia sia in aula, dove martedì scorso hanno ribadito il loro sostegno al provvedimento firmato da Forza Italia. Il ddl in questione dovrebbe essere approvato in prima lettura a Montecitorio martedì prossimo. A farne oggetto di evidenti critiche è, in particolare, la “Relazione annuale sulle misure cautelari personali”, inviata pochi giorni fa al Parlamento. Come previsto dalle riforma del 2015 sulla carcerazione preventiva, uno specifico capitolo della relazione è dedicato ai risarcimenti per le ingiuste detenzioni liquidati dallo Stato (in particolare dal ministero dell’Economia) nell’anno preso in esame. E secondo la relazione appena trasmessa da via Arenula alle Camere, nel 2018 si registra una “lieve flessione” (rispetto all’anno precedente) dell’ammontare complessivo liquidato, che è di 33 milioni e 373mila euro. La somma è relativa alle 895 ordinanze emesse da via XX Settembre che hanno accolto i ricorsi degli innocenti. Fin qui, si tratta di dati non sconvolgenti. A colpire sono altri passaggi. Innanzitutto la già citata tesi secondo cui non c’è “correlazione” tra risarcimenti e presunti illeciti disciplinari dei giudici che avevano ordinato quegli arresti. Ancora, i richiami al carattere quanto meno superfluo delle nuove norme, chiarissimi quando si sostiene come “le anomalie che possono verificarsi in correlazione con l’ingiusta compressione della libertà personale in fase cautelare” siano “costantemente oggetto di verifica da parte degli uffici ministeriali”. I quali, si afferma ancora nella relazione, non hanno bisogno di attendere che vengano pagati i risarcimenti: le verifiche, si nota, vengono condotte “sia nel corso di ispezioni ordinarie sia a seguito di esposti e segnalazioni delle parti, dei loro difensori e di privati cittadini, che, infine, in esito alle informative dei dirigenti degli uffici”. Controlli che intervengono assai prima, dunque, che si arrivi alla liquidazione dei ristori da parte del Mef: il sistema disciplinare, recita ancora il documento di via Arenula, “consente di intercettare e sanzionare condotte censurabili molto prima, e indipendentemente dalla verifica giudiziaria dei presupposti per il riconoscimento della riparazione da ingiusta detenzione”. Anche se poi, secondo la relazione, queste “condotte censurabili” si manifesterebbero in tutto fuorché nelle manette facili. Rilievi che potrebbero essere rovesciati, naturalmente. È vero anche che le decisioni sulla condotta dei magistrati sono rimesse alla libera valutazione degli uffici. E che a influire su tale vaglio discrezionale può, inevitabilmente, contribuire anche il fatto che un determinato errore del gip responsabile di un arresto sia costato all’erario decine di migliaia di euro. Resta in ogni caso il conflitto tra le considerazioni dei “tecnici” dell’ispettorato e quelle dei deputati M5S. E il sospetto che, senza il caso Palamara, difficilmente il gruppo pentastellato avrebbe sostenuto una legge sulle “colpe” delle toghe per le manette facili. Quando l’assassino è in casa: in famiglia un omicidio su 2 Il Dubbio, 28 giugno 2019 I dati del Rapporto Eures sui delitti tra le mura domestiche. Tra i 329 morti del 2018, un terzo sono donne: 109 su 130 mogli o ex aumentati anche i figli uccisi dai genitori. Nel 2018 il 49,5% degli omicidi volontari commessi in Italia (163 su 329) sono avvenuti all’interno della sfera familiare o affettiva: la percentuale più alta mai registrata in Italia, cresciuta ulteriormente (+ 10,3%) nei primi cinque mesi di quest’anno. E il 67% (109) delle vittime di omicidi in famiglia del 2018 sono donne. Sono dati allarmanti quelli che emergono dall’ultimo Rapporto Eures sul fenomeno. Il maggior numero di vittime (49,1%) degli omicidi in ambito familiare si registra all’interno della relazione di coppia (in essere o passata) ma a crescere (del 47,6%, dai 20 del 2017 ai 31 del 2018) sono i figlicidi. Complessivamente, dal 2000 a oggi, gli omicidi in famiglia sono stati 3.539, in media uno ogni 3 omicidi volontari commessi nel nostro Paese. All’interno dell’omicidio in ambito familiare è nella relazione di coppia che si consuma il maggior numero dei delitti: nel 2018 sono 80 le vittime tra coniugi, ex coniugi o ex partner, pari al 49,1% degli omicidi in famiglia. La relazione più a rischio è quella coniugale o di convivenza, con 60 vittime (54 donne e 6 uomini). A destare preoccupazione è il tema dei figlicidi: si contano infatti 31 figli uccisi dai genitori nel 2018, con una crescita del + 47,6% sull’anno precedente. I 31 figlicidi censiti sono stati commessi in 20 casi dai padri (pari al 64,5%) e in 11 casi dalle madri (35,5%). La responsabilità delle madri è stata esclusiva nei 4 omicidi di figli di età inferiore ad un anno per poi scendere al 40% nella fascia 1- 5 anni e al 33,3% nella fascia 6- 13 anni. In diminuzione (- 34,4%) il numero dei genitori uccisi dai figli: nel 33,3% dei casi l’autore aveva disturbi psichici, negli altri alla base del gesto figurano liti, dissapori e moventi economici. Dai dati del rapporto Eures emerge che l’anno scorso in Italia 65 delle 163 vittime di omicidi in famiglia (il 39,9%) sono state uccise da armi da fuoco, il 97% in più rispetto all’anno precedente. Dopo le armi da fuoco, quelle più utilizzate negli omicidi in famiglia - sempre riferito al 2018 - sono armi da taglio (24,5%), armi improprie/ percosse (9,8%), soffocamento (7,4%) e strangolamento (6,1%). L’omicidio in famiglia colpisce in misura sempre più frequente gli anziani: le vittime over 65 raggiungono il 30,1% del totale (49 in valori assoluti nel 2018), a fronte del 18% del 2000. Aumenta contestualmente anche l’età media delle vittime, che passa dai 45 anni nel 2000 ai 48,8 dell’anno scorso. I ricercatori dell’Eures lo spiegano in parte con “il crescente fenomeno degli omicidi pietatis causa (o compassionevoli), dettati cioè dalla decisione dell’autore di porre fine ad una condizione di disagio estremo della vittima (grave malattia, demenza senile, ecc.) da lui ritenuta insostenibile” (23 casi nel 2018). L’autore degli omicidi in famiglia nell’ 88,1% dei casi è un uomo, con un’età media passata da 43,9 anni nel 2000 a 51,5 nel 2018. Fatture false, commercialista reo in concorso di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2019 Corte di cassazione - Sentenza 28158/2019. Risponde in concorso con il cliente del reato di dichiarazione fraudolenta per utilizzo di fatture false il commercialista che, da precedenti controlli della Gdf, era a conoscenza della falsità dei documenti. Ad affermarlo è la Corte di cassazione con la sentenza 28158 depositata ieri. Il commercialista di una società veniva condannato in concorso con altri imprenditori per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2 Dlgs 74/00). Il professionista ricorreva così in Cassazione lamentando l’assenza di prove relativamente al suo contributo nell’illecito commesso da terzi. La Suprema corte confermando la decisione di appello ha innanzitutto ricordato che in giurisprudenza è pacificamente ammessa la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente sia in generale nei reati tributari, sia, più in particolare, nei delitti dichiarativi. Il commercialista, infatti, può concorrere nel reato di emissione di fatture false (Cassazione 28341/2001), così come nell’indebita compensazione (Cassazione 1999/2017) o di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (Cassazione 39873/2013 e 7384/2018). I giudici di legittimità hanno precisato che il contributo causale del concorrente nel reato può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche. Il concorso, quindi, può essere sia morale, sia materiale, ma occorrono le prove delle modalità della sua esecuzione, del rapporto con le attività poste in essere dagli altri concorrenti e della reale partecipazione. Con riguardo alla colpevolezza, la Cassazione, ha così chiarito che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che la presentazione della dichiarazione comprensiva delle fatture false, possa comportare l’evasione delle imposte. Nella specie il professionista era consulente della società e dei suoi soci, anche gestendo per loro conto mandati fiduciari. Predisponeva i bilanci di esercizio e disponeva di un accesso diretto in remoto al sistema informatico della società per ottenere dei report contabili periodici. Inoltre, dalle intercettazioni telefoniche e da altri elementi in atti, era emerso di essere a conoscenza, da controlli effettuati dalla Guardia di finanza per esercizi precedenti, che le fatture di alcuni fornitori fossero già state considerate false. Infine, era consapevole delle irregolarità fiscali della società come l’omessa istituzione e tenuta della contabilità di magazzino, l’irregolare tenuta del registro degli inventari e così via. Violazioni, peraltro, periodicamente segnalate dal collegio sindacale. Alla luce di ciò, la Suprema corte ha ritenuto che il concorso del professionista alla commissione del delitto fosse così individuabile nella predisposizione e nell’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da false fatture nonché nell’attività di supporto per la sistemazione documentale di gravi violazioni contabili. Ordine parte civile risarcito dall’iscritto condannato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2019 Corte di cassazione - Sentenza 28235/19. Sì al risarcimento dell’Ordine dei commercialisti parte civile contro un suo iscritto, condannato per induzione indebita nell’ambito di una difesa in giudizio. La Cassazione (sentenza 28235) respinge il ricorso del professionista e conferma la condanna riqualificando il reato: induzione indebita e non concussione come affermato dalla Corte d’Appello. Per la Suprema corte è legittima la costituzione in giudizio dell’Ordine dei commercialisti e il diritto al risarcimento, da quantificare. Alla base della condanna il comportamento del professionista che aveva paventato alla difesa della parte privata il rischio che venisse accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, anche in virtù di un suo “aggancio” con uno dei giudici: ipotesi che si poteva evitare versando una somma. Il suo interlocutore aveva finto di accettare la proposta, registrando però la conversazione e avvertendo la polizia che era arrivata nel momento della consegna del denaro. Ad avviso del ricorrente si trattava di un delitto tentato e l’Ordine non poteva costituirsi parte civile, come previsto per gli avvocati. Tesi entrambe respinte. La Cassazione, in primo luogo, qualifica il reato come induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319 -quater del Codice penale), in virtù dell’esito incerto del giudizio collegiale: neppure l’amicizia con il presidente avrebbe garantito il risultato. Quanto alla costituzione di parte civile i giudici chiariscono che tra i compiti del Consiglio dell’ordine c’è anche la vigilanza sul rispetto della legge professionale. In questo contesto si inserisce il compito di tutela svolto dall’Ordine. Specialmente nel caso di un reato commesso nello svolgere un’attività qualificata come la difesa di parte in un giudizio tributario. C’è anche il margine per la condanna generica al risarcimento dei danni. Senza la necessità che il Consiglio provi la loro effettiva sussistenza e il nesso di causalità tra questi e l’azione illecita. Basta l’accertamento del fatto come potenzialmente produttivo di conseguenze dannose. Se ci sono state e in che misura deve dirlo il giudice civile. Augusta (Sr): detenuto si impicca in cella, scoperto da un agente durante giro di controllo siracusapost.it, 28 giugno 2019 Dalla finestrella posta sulla porta della cella, si è reso conto di quello che era accaduto e ha dato l’allarme, ma non c’era già più nulla da fare. È stato trovato con un pezzo di lenzuolo avvolto attorno al collo, agganciato alla griglia della finestra. Così ha trovato la morte un detenuto 40enne, originario di Noto, ospite della casa di reclusione di Brucoli, ad Augusta. La scoperta a mezzanotte di ieri da parte dell’agente di Polizia penitenziaria, che, entrato in servizio, stava effettuando il consueto giro di controllo. Dalla finestrella posta sulla porta della cella, si è reso conto di quello che era accaduto e ha dato l’allarme, ma non c’era già più nulla da fare. Pare che l’uomo fosse particolarmente ansioso: pare che nei giorni scorsi avesse chiesto di essere stato portato al pronto soccorso perché temeva di avere un infarto in corso. L’uomo era in cella con un’altra persona, che però, avrebbe dichiarato di non aver sentito nulla perché aveva preso un sedativo per dormire. Lucca: la Garante dei detenuti audita in commissione sociale La Gazzetta di Lucca, 28 giugno 2019 La commissione sociale del comune di Lucca ha incontrato la Garante per i detenuti della Casa circondariale di Lucca, Alessandra Severi, che ha iniziato da un paio di mesi la sua attività - è scritto nella nota. Erano presenti altresì alla seduta di commissione alcuni operatori del volontariato in carcere oltre che l’assessore Lucia Del Chiaro e Aldo Intaschi, funzionario che si occupa delle faccende del carcere. I rapporti fra carcere e amministrazione si sono fatti più stretti: si sono avuti vari incontri anche con il nuovo direttore e il suo staff per mettere a fuoco i problemi e mettere a punto sinergie e interventi non solo con l’amministrazione, ma anche con il volontariato che per altro sta operando e bene all’interno del carcere. In particolare la Caritas con i vari progetti attivi nei vari settori e il Gvc (gruppo volontari carcere) che opera sia all’interno che all’esterno offrendo inserimento dopo lo sconto della pena a coloro che non hanno dove andare”. “La garante - prosegue la nota - ha parlato della vita del carcere, della necessità di aumentare lo scambio con l’esterno perché il carcere non sia solo un momento punitivo e di recupero. E in questo senso ha sollecitato a creare nuove opportunità di lavoro sia per rendere autonomi economicamente i detenuti rispetto alle famiglie sia per occupare dignitosamente il tanto tempo a disposizione. Oggi ci sono vari laboratori: teatro, pittura, riparazione biciclette, lingua. C’è anche un corso tenuto dal Cpia che però ha bisogno di essere incentivato, in modo che la permanenza nel carcere possa essere utilizzata soprattutto per gli stranieri che sono circa la metà per imparare l’italiano. Particolare interesse ha suscitato l’intervento di Piergiorgio Licheni, operatore del Gvc che la raccontato la sua lunga esperienza tra i detenuti sia in carcere che fuori nel centro di accoglienza San Francesco, e Giulia Mariani della Caritas che ha parlato dei vari corsi che vengono effettuati durante l’anno. Intaschi poi ha parlato del progetto che l’amministrazione sta realizzando in accordo col direttore del carcere per la risistemazione della pavimentazione del campo sportivo interno che oltre ad offrire ai detenuti un gradito spazio di gioco insieme alla palestra potrà essere uno spazio aperto per alcuni eventi anche alla città. Alla conclusione, la dottoressa Severi ha riferito della prossima apertura del padiglione nuovo che verrà utilizzato per ampliare gli spazi dei laboratori e delle attività dei detenuti”. “Come ha detto l’assessore Del Chiaro - conclude Ciardetti - si respira aria di rinnovamento, entusiasmo e volontà di migliorare insieme (carcere, amministrazione e volontariato) la qualità di vita dei detenuti e aiutare il carcere a essere un momento di reale recupero per un reinserimento nella vita civile, una volta scontata la pena. Sulmona (Aq): arredi per il carcere, ci pensano i detenuti. 750 mila € per il reinserimento di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 28 giugno 2019 La produzione di manufatti in legno idonei a soddisfare l’intero fabbisogno nazionale di arredi carcerari, attraverso il lavoro dei detenuti. È il progetto, finanziato con le risorse del Pon Inclusione 2014-2020, che prevede un modello sperimentale di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale, presso la casa circondariale di Sulmona. Il progetto prevede la presa in carico globale dei detenuti, che comprende gli aspetti psico-sociali, formativi e lavoristici degli stessi e la successiva erogazione di attività di formazione e qualificazione delle competenze del settore della falegnameria da parte di soggetti titolati. È prevista la formazione di 45 detenuti che conseguiranno la qualifica di “Falegname”, rientrante nel Repertorio delle Figure Professionali della Regione Abruzzo, attraverso corsi della durata di minimo 400 ore, tra formazione teorica e formazione pratica, per la quale i detenuti percepiranno una indennità oraria di frequenza. Successivamente sarà avviata una vera e propria start up dell’azienda di produzione di manufatti in legno all’interno dell’Istituto Penitenziario. Una parte dei detenuti formati sarà avviata a tirocini presso aziende del settore del legno del territorio mentre coloro che, già formati, devono scontare periodi di detenzione di lunga durata, saranno coinvolti in supporto alla formazione di nuove figure professionali. Il finanziamento arriva dalla Direzione generale per il coordinamento delle Politiche di Coesione del Ministero della Giustizia per un importo complessivo di 750 mila euro. Pianosa (Li): la gratuità apre anche le porte del carcere di Mauro Cozzoli* Avvenire, 28 giugno 2019 La gratuità apre le porte, anche le più ermetiche, come quelle di un carcere. La gratuità è sincera, perché disinteressata, senza secondi fini: intenzionata solo dal bene da fare. La gratuità è disarmante: è l’arma degli inermi. Non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene: il male in ogni sua forma: fisica, affettiva, spirituale, morale. Si china per fasciare le ferite, curare e sanare. La gratuità è libertà: libera dalle grettezze dell’ego e dall’affanno del tornaconto e del profitto. Libera per il dono: l’amore a perdere. Che è la fonte del vero guadagno, del giovamento dell’anima: “Che giova all’uomo - domanda il Vangelo - guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8,36). La gratuità è ricompensa a se stessa, perché dilata il cuore nel dare, ma anche e ancor più nel ricevere dall’altro, dal suo stupore, dal suo sorriso, dallo sguardo commosso e grato. La gratuità è gioia di essere dono. Gioia che riempie dentro e trabocca fuori: tracima contagiando e conquistando alla causa del dono. È questa la semantica e la dinamica del volontariato: questo potenziale di valore e di azione, nei variegati campi del bisogno e della promozione umana, da ascrivere a grande merito e patrimonio della nostra gente, fermentato in modo singolare e preminente dal lievito di amore del Vangelo. Potenziale di solidarietà, che come un fermento appunto, poco vistoso ma efficace, tesse la trama di umanità della nostra società, facendosi carico di tante miserie e indigene, apprensioni e disagi altrimenti inascoltati e disattesi. Contribuendo nel contempo alla elevazione e al consolidamento morale degli standard valoriali ed educativi, che una cultura dell’affare e del vantaggio tende a erodere e indebolire. Ho iniziato con un riferimento specifico al carcere, uno dei luoghi di miseria e marginalità più penosi e problematici. Da cui mi è suggerita questa riflessione, per aver condiviso da poco tre giorni di volontariato tra i carcerati, nella colonia penale dell’isola di Pianosa. Esperienza vissuta con 15 dei numerosi medici dell’area cardiologica e vascolare del Policlinico “Gemelli” di Roma che, su iniziativa e sotto la guida del professor Massimo Massetti, primario cardiochirurgo, danno vita alla Onlus “Dona la vita con il cuore”. Organizzazione di volontariato che si porta nelle periferie geografiche ed esistenziali di Roma e d’Italia, per offrire ai più poveri possibilità mediche di prevenzione, diagnosi, terapia e controllo delle malattie cardiovascolari, non altrimenti fruibili. A Pianosa era la terza volta. Per cui i semi della gratuità avevano attecchito e portavano frutti. Si aprivano le porte del carcere. Non solo “in entrata” per i volontari, le cui cure cominciavano dalla condivisione di vita coi detenuti, che aprivano i loro spazi (le loro celle, la loro cucina) alla convivialità. Ma anche “in uscita” per i carcerati, che ci raggiungevano negli ambulatori da campo allestiti fuori, nella condivisione di esperienze, nella esplorazione ambientale e culturale dell’isola, nella preparazione e consumazione dei pasti. Insieme: volontari, detenuti, direttore del carcere, guardie e polizia penitenziaria, amici di Pianosa. Il momento clou: la Messa di Pentecoste, da tutti vivamente partecipata nella chiesa dell’isola. Miracolo della gratuità! Abbatte le distanze, vince le diffidenze, libera da paure, integra le diversità, avvicina i lontani, conquista alla fiducia, fa sentire amici, trasforma un detenuto in un fratello e gli apre il cuore alla speranza. *Teologo moralista, Pontificia Università Lateranense Milano: dal carcere a Malnatt, la birra del riscatto La Repubblica, 28 giugno 2019 Una birra che si chiama “Malnatt”, termine dialettale milanese che veniva usato per indicare i “nati male ma che lottano per cambiare il proprio destino”, non poteva che nascere per aiutare chi sta in carcere a ripensarsi, a rinascere. È un progetto che potrà dare lavoro a una decina di detenuti di San Vittore, e degli istituti di Opera e Bollate. Se di questa birra dal nome strano ne verranno venduti almeno mille ettolitri, i tre penitenziari avranno 20 mila euro da investire subito in progetti di reinserimento sociale e magari anche di ristrutturazione degli spazi. E se davvero il progetto dovesse decollare con l’arrivo di ordini per grandi quantitativi di birra, lo sviluppo ulteriore potrebbe essere anche quello di produrre la bevanda direttamente in carcere, come già succede a Rebibbia. L’idea è nata dalla riflessione di Massimo Barboni, che nel campo delle birre lavora da tempo e che sa come anche i grandi marchi internazionali oggi puntino molto sui prodotti artigianali e locali e sulle birre che hanno dietro all’etichetta un contenuto, una storia particolare. Siccome vanno bene sul mercato le birre regionali, l’idea è che possa piacere al pubblico anche questa che è sicuramente a chilometro zero, perché verrà prodotta in una cascina vicino ad Abbiategrasso, la Morosina, che ha al suo interno un piccolo birrificio. Ieri a Palazzo Marino, l’assessora al Lavoro Cristina Tajani ne ha parlato come di “un progetto tipicamente milanese sin dal nome, che coniuga alcuni dei tratti distintivi della nostra città come l’attenzione alla ricerca della qualità attraverso l’uso di materie prime a filiera corta e la capacità di saper intuire le tendenze del mercato: speriamo di poterla vendere anche attraverso il nostro consorzio Viale dei mille che già distribuisce altri prodotti del carcere”. L’idea di Barboni è stata fatta propria anche dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Pietro Buffa, che come il suo predecessore Luigi Pagano crede molto nella molla del lavoro come strumento per favorire il reinserimento sociale e per evitare le recidive. Malnatt darà un’opportunità concreta di lavoro ad alcuni detenuti ed ex detenuti, presso l’azienda agricola La Morosina che è nel parco del Ticino, e di distribuzione presso la società Pesce, che è già pronta ad assumere il primo detenuto di Opera come magazziniere. Le birre Malnatt, in distribuzione presso il canale Horeca (Hotellerie-Restaurant-Café), sono birre ad alta fermentazione, non pastorizzate, non filtrate e rifermentate in bottiglia o in fusto. Tre le linee prodotte e dedicate ai tre istituti carcerari di Milano: Malnatt San Vittore, birra chiara non filtrata di solo malto d’orzo; Malnatt Bollate, birra di frumento; Malnatt Opera, birra rossa. “I finanziamenti vengono da un pool di imprenditori lombardi che hanno trovato un accordo con il provveditorato alle carceri e con il Comune - spiega Barboni. Riteniamo che sia una cosa buona per le carceri e verseremo il 5 per cento a favore di progetti di formazione per la polizia penitenziaria, per la ristrutturazione delle carceri, ma anche per le attività di reinserimento di chi sta scontando una pena”. Pescara: i detenuti in pellegrinaggio con i disabili al Santuario di Loreto di Giulia Antenucci pescaralive.it, 28 giugno 2019 Si tratta di “Oltre le barriere”, il progetto che il 6 e 7 luglio 2019 porterà nove ragazzi, detenuti nella Casa Circondariale di Pescara, in pellegrinaggio al Santuario di Loreto. L’iniziativa è promossa dalla Sottosezione di Pescara dell’Unitalsi nell’ambito del pellegrinaggio regionale. I detenuti saranno affiancati da due esterni e svolgeranno attività di servizio al fianco degli altri volontari dell’associazione. Sono ormai quattro anni che la Sottosezione dell’Unitalsi di Pescara ha avviato la collaborazione con il carcere, prima portando “pellegrina” la Madonna di Lourdes e l’anno successivo la Madonna di Fatima. Dal 2017 è stato realizzato quello che era un forte desiderio: coinvolgere i detenuti al servizio all’altro. Ciò è stato possibile attraverso l’amicizia con Suor Livia Ciaramella, responsabile dei percorsi rieducativi all’interno dell’istituto di pena. I nove ragazzi, individuati in base al loro percorso e alla loro storia giudiziaria, hanno risposto con entusiasmo. Il mese scorso, i giovani sono stati coinvolti in tre momenti d’incontro e formazione: il primo, il 10 giugno, con il focus sull’associazione e Lourdes, il secondo, il 17 giugno, su Loreto, e il terzo sul servizio di volontariato, il 24 giugno, con particolare attenzione al refettorio e all’esterno nel contesto delle celebrazioni del pellegrinaggio, i servizi in cui saranno impiegati i detenuti. “Non è la prima volta che coinvolgiamo i detenuti nelle nostre iniziative”, spiega Federica Bucci, presidente della Sottosezione Pescara, “dall’anno scorso partecipano anche a eventi come la Giornata Nazionale, che accoglie i volontari segnalati dalle educatrici o in affido ai servizi sociali, che sono a fine pena. Siamo molto grati a Franco Pettinelli, l’ex-direttore del carcere grazie al quale tutto questo è stato possibile, e salutiamo con gioia la nuova direttrice, Lucia Di Feliciantonio. Siamo certi che in futuro ci saranno tante occasioni per migliorare la nostra collaborazione con nuove modalità e proposte”. “Andare oltre le barriere significa superare quelle del carcere, quelle del pregiudizio, quelle causate dalla malattia e dalla disabilità”, conclude Bucci, “I detenuti hanno l’occasione di avere un rapporto diretto con la società, di uscire dalle loro celle e andare incontro ai loro fratelli malati e con disabilità per aiutarli a vivere l’esperienza del pellegrinaggio. Questo è lo scopo del progetto, e il motivo per cui è così importante per noi”. Verona: il Cpia, le persone detenute e il teatro, insieme per vivere un’esperienza di Paola Tacchella e Lia Peretti Ristretti Orizzonti, 28 giugno 2019 Con lo spettacolo “Io sono con te” le donne del carcere di Montorio partecipano con il CespRete delle scuole ristrette a Matera 2019. Cosa può richiamare cento cittadini ad entrare in carcere? La curiosità degli spazi, per percepirne l’impatto emotivo? Scoprire se dai volti dei detenuti traspare il reato commesso? O invece, semplicemente, vengono senza porsi delle attese, per vivere un’esperienza di ascolto, di incontro? Giovedì 20 giugno, le lezioni scolastiche sono da poco finite. Sono le sette di sera, le donne del femminile sono pronte, sanno bene la parte, hanno già fatto una “prima”. Recitano nella chiesa della sezione maschile, prestata a teatro, per raccontare le vicende di Brigitte Zebé, infermiera congolese che, sotto la minaccia per la propria vita, per una scelta etica, non si presta a procurare la morte ad alcuni suoi pazienti, anche se sono dissidenti politici. Il libro di Melania Mazzucco presenta proprio la storia di Brigitte, ora, dopo alterne vicissitudini, rifugiata nel nostro paese. L’Italia, paese che accoglie malgrado le incongruenze e le contraddizioni, paese anche di coerenza e di umanità. Il 30 aprile la Giuria del Teatro della Scuola ha portato con sé un gruppo di studenti delle scuole superiori del Veronese che, insieme agli studenti del Cpia in carcere, dall’alfabetizzazione ai corsi di Primo livello, hanno affollato la sala formando un pubblico eterogeneo molto attento. Ora, alla replica, i posti non sono stati sufficienti ad accogliere le richieste dal territorio. È intervenuta, dopo la performance, una suora comboniana originaria della Repubblica Democratica del Congo a portare la testimonianza autentica delle vicende travagliate del suo paese. Lì, per impossessarsi della ricchezza mineraria di alcune zone, si sta attuando un piano di sterminio, le cui prime vittime sono le donne che subiscono atrocità difficili persino da ascoltare. Il mondo con le sue tragedie entra in carcere. La dirigente scolastica, Nicoletta Morbioli, ha consegnato a ciascuna attrice l’attestato di frequenza e una rosa rossa e inoltre, con l’organizzatore del Festival, il riconoscimento per l’intensità dell’interpretazione. Con lo spettacolo “Io sono con te” le donne del carcere di Montorio partecipano con il CespRete delle scuole ristrette a Matera 2019: Con lo sguardo “di dentro”: Matera, capitale europea della cultura. Diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità. Prossimo appuntamento in autunno per una seconda replica, forse anche con la scrittrice del libro. Per iniziare il prossimo anno scolastico con passione e con la potenza dell’incontro. *Docenti del Cpia di Verona Nella sofferenza quotidiana della reclusione Il Manifesto, 28 giugno 2019 Uno stralcio tratto da “Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti”, a cura di Patrizio Gonnella e Dario Ippolito (Edizioni dell’Asino). Il volume è un’antologia di testi raccolti da Piero Calamandrei in “Il Ponte” del 1949. I testi selezionati e ripubblicati integralmente sono di grandi personalità della resistenza come Vittorio Foa, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Michele Giva, Giancarlo Pajetta, Carlo Levi, Leone Ginzburg, Ester Parri, Adele Bei, Lucio Lombardo Radice e vari altri). Altiero Spinelli venne arrestato il 3 giugno 1927 a Milano e rimase in prigione fino all’aprile del 1937. Trascorse i dieci anni di carcere a Lucca, Viterbo e Civitavecchia. Scontata la pena, fu inviato per cinque anni al confino, prima nell’isola di Ponza; e poi in quella di Ventotene. Fu liberato il 18 agosto 1943, dopo la caduta di Mussolini. Testo di Altiero Spinelli - “Durante il mio lungo soggiorno in carcere e al confino ho naturalmente avuto fin troppo agio di riflettere non solo sulle particolari condizioni in cui vivevo, ma anche sul principio stesso della pena carceraria. Durante i miei dieci anni di prigione ho assistito ad alcuni lievi addolcimenti della severità del regime carcerario. La segregazione cellulare è stata ridotta a più piccole proporzioni; la durata delle punizioni in celle di rigore è stata quasi dimezzata; i reclusi hanno visto il loro corredo accrescersi di calze e di una forchetta di legno; le biblioteche si sono arricchite; la pasta asciutta è stata distribuita cinque volte all’anno anziché tre; l’intervallo fra le visite dei familiari è diminuito, e si è ottenuto di scrivere lettere più frequenti. Non si trattava però che di lievi increspature su una superficie che rimaneva monotonamente eguale. A pensarci bene, credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in modo sostanziale. Naturalmente è possibile migliorare il cibo, rendere più igieniche le celle e le camerate, dare più svaghi e più lavoro, e simili. Ma ciò non altera il dato essenziale, che consiste nel tenere degli uomini in gabbia, nella impossibilità di sviluppare una vita normale, privi quasi completamente di una tutela giuridica. Vorrei perciò parlarti non già di questo o quel difetto da correggere nel sistema carcerario, ma del suo significato profondo. Se non erro, il carcere è concepito comunemente come uno strumento di pena e di rieducazione alla vita civile. Per quel che possono valere le mie osservazioni ed esperienze, ti assicuro che si tratta di due grossolane mistificazioni. L’uomo è nella sua media un animale talmente abitudinario da esser capace di soffrire solo se la pena è di breve durata. La condanna al carcere è sentita come una sofferenza per uno o due anni al massimo. Il condannato soffre per l’interruzione delle sue abitudini, delle sue relazioni umane, dei suoi bisogni sessuali, per il peggioramento del cibo, per la soggezione in cui si trova rispetto ai suoi guardiani. Soffre perché è tutto teso verso la libertà che gli manca. Col passare del tempo infatti i rapporti con il mondo esteriore diventano qualcosa di evanescente. In poche parole, il carcere diventa una piccola società cenobitica, in cui si vive, cioè si soffre e si gode, si piange e si ride, come in tutte le società. È una vita meschina, monotona, ripugnante a vederla dal di fuori. Il posto assegnato a ognuno non può essere modificato, e perciò non possono svilupparsi ambizioni né in bene né in male, oltre quelle di diventare spazzino o scrivanello. Non ci si può elevare al di sopra, né cadere al di sotto del livello di vita fissato dalle leggi carcerarie. Il governo dei guardiani e dei direttori è dispotico; mancando in questa società ogni divisione di poteri fra i governanti; e si verificano perciò abusi ed ingiustizie di ogni genere. Ma anche a questa mancanza di diritti ci si abitua. Cosa resta più allora dell’idea della pena? Il carcere è un insieme di regole ascetiche imposte al delinquente allo scopo di indurlo a riflettere sul delitto commesso. Ma la purificazione mediante l’ascesi è un procedimento che ha efficacia solo per chi ha la vocazione della santità. E poiché il delinquente non è davvero uno stinco di santo, egli non viene incontro al carcere con animo contrito, ma con l’animo dell’uomo medio che si prepara a studiare le circostanze in cui è ormai obbligato a vivere, per sistemarvisi nel modo migliore possibile. Ma chi pensa che il carcere, comunque modificato, possa essere uno strumento di redenzione morale e sociale è vittima non di una illusione, ma di una ipocrisia. In realtà, se si ha un’idea di quel che sia la dignità umana, bisogna dire che nessuno ha il diritto di giudicare sulla redenzione di un altro essere umano, perché chi è obbligato a cercare che un tal giudizio sia reso su lui, è con ciò stesso obbligato a dannarsi”. Un piano di azione contro i discorsi di odio di António Guterres* Corriere della Sera, 28 giugno 2019 È adesso il momento di cambiare passo per debellare antisemitismo, islamofobia, persecuzione di cristiani e tutte le altre forme di razzismo, xenofobia e l’intolleranza che le accompagna Un piano di azione contro i discorsi di odio. Un’onda insidiosa di intolleranza e di violenza fondata sull’odio si avventa sui credenti di diverse fedi ovunque nel mondo. Brutali incidenti cui ci stiamo sempre più tristemente, e in modo allarmante, abituando. Nei mesi scorsi, abbiamo visto ebrei assassinati nelle sinagoghe, e le loro tombe deturpate con svastiche; musulmani abbattuti nelle moschee, con i loro siti religiosi vandalizzati; cristiani uccisi mentre erano in preghiera, con le loro chiese date alle fiamme. Oltre a questi orribili attacchi, assistiamo a una crescente retorica di odio, indirizzata non soltanto a gruppi religiosi ma anche a minoranze, migranti, rifugiati, donne e in generale chiunque sia “altro”. Mentre divampa il fuoco selvaggio dell’odio, si sfruttano i media sociali per seminare intolleranza. Movimenti neonazisti e suprematisti sono in crescita, e la retorica incendiaria si converte in una redditizia arma politica. L’odio si diffonde ugualmente all’interno di democrazie liberali e regimi autoritari, gettando un’ombra sulla nostra comune umanità. Le Nazioni Unite hanno nel corso dei decenni mobilitato il mondo contro l’odio di tutti i tipi attraverso un’azione di ampio raggio a tutela dei diritti umani e in favore dello stato di diritto. Di fatto, l’identità stessa dell’Organizzazione è dalla sua creazione radicata nell’incubo che scaturisce dall’odio virulento lasciato troppo a lungo libero di attecchire, incontrastato. Per noi l’istigazione all’odio rappresenta un attacco contro tolleranza, inclusione, diversità, contro l’essenza stessa di norme e principi dei nostri diritti umani. Più in generale, questa odiosa pratica minaccia la coesione sociale, erode valori condivisi e può essere il presupposto della violenza, in grado di ricacciare indietro pace, stabilità, sviluppo sostenibile e dignità umana. Nei decenni scorsi, l’istigazione all’odio è stata alle origini di crimini atroci, quali il genocidio, dal Ruanda alla Bosnia e alla Cambogia. Temo che il mondo stia raggiungendo un’altra simile fase nella lotta contro il demone dell’odio. In risposta a questo ho dunque lanciato due iniziative delle Nazioni Unite. Innanzitutto, ho appena inaugurato una Strategia e un Piano di azione contro l’istigazione all’odio che coordini gli sforzi comuni a tutto il sistema delle Nazioni Unite, si occupi delle sue cause profonde e renda più efficace la nostra risposta. In secondo luogo, stiamo sviluppando un Piano di azione che veda l’impegno totale dell’Onu negli sforzi a salvaguardia dei siti religiosi e a garanzia della sicurezza dei luoghi di culto.A quanti insistono a utilizzare la paura per dividere le comunità, va detto: la diversità è una ricchezza, non è mai una minaccia. Un profondo spirito di reciproco rispetto e accoglienza è in grado di scalzare post e tweet sparati a raffica. Non dobbiamo mai dimenticare che, dopo tutto, ciascuno di noi è “altro” rispetto a qualcun altro, da qualche altra parte. Non può esserci illusione di sicurezza quando l’odio è diffuso. Come parte di un’unica umanità, è nostro dovere prendersi cura l’uno dell’altro. Naturalmente, ogni azione di contrasto all’istigazione all’odio deve essere in linea con i diritti umani fondamentali. Affrontare l’istigazione all’odio non vuol dire limitare o proibire la libertà di parola. Significa piuttosto impedire che essa degeneri in qualcosa di più pericoloso, in particolare incitamento a discriminazione, ostilità e violenza, il che è vietato dal diritto internazionale. Occorre trattare l’istigazione alla violenza come trattiamo ogni atto illecito: condannandolo, rifiutandoci di amplificarne la portata, contrastandolo con la verità, e incoraggiando gli autori a cambiare il loro comportamento. Governi, società civile, settore privato e media giocano tutti un ruolo importante. I leader politici e religiosi hanno una responsabilità speciale nella promozione della convivenza pacifica. L’odio è un pericolo per tutti - per questo tutti devono combatterlo. Insieme, possiamo spegnere l’incendio dell’odio e sostenere i valori che ci uniscono tutti come una singola famiglia umana. *Segretario Generale delle Nazioni Unite Che fare se il potere viola la Costituzione di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 28 giugno 2019 Se le norme violate dalla comandante della Sea-Watch 3 risultassero incostituzionali l’atto di disubbidienza civile potrebbe alla fine non essere sanzionato. È evidente che in questa fase l’illegalità è stata commessa e la responsabile della nave si è dichiarata consapevole di dover essere sottoposta a giudizio e dover rispondere delle proprie azioni contra legem. Ma è appunto nel corso del giudizio che la vedrà protagonista che si potrà sollevare una questione di legittimità costituzionale chiedendo il sindacato della Consulta. Ed è lì - io credo - che si giocherà la partita decisiva. Se, come molti sostengono, il decreto Salvini che ha dettato le nuove regole sull’entrata nelle acque territoriali delle imbarcazioni non governative che operano i salvataggi nel Mediterraneo si dovessero rivelare in contrasto con i principi dettati dalla nostra costituzione, oltre che non conformi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, la Corte costituzionale dovrà dichiarare la “cessazione dell’efficacia”. Si dovrà allora riconoscere che il comportamento illegale del capitano della Sea-Watch è stato però conforme alla “superiore” legalità costituzionale. A quel punto a nulla serviranno le urla o le reazioni boriose di chi è stato definito “il ministro della propaganda”, poiché - si ricorda - è la costituzione a porre limiti insuperabili e indisponibili alla politica. E quando il Parlamento o il Governo pongono in essere leggi o atti aventi forza di legge in contrasto con la costituzione quest’ultimi vengono espunti dal nostro ordinamento e ripristinati i principi di civiltà violati. Così è sempre stato in epoca repubblicana, e così ancora sarà anche in questo caso. Sin dalla prima sentenza della corte costituzionale promossa da altri disubbidienti civili (in quel caso si trattava della libertà di manifestazione del pensiero assoggettata ad autorizzazioni della pubblica sicurezza che ne limitavano la diffusione) abbiamo avuto persone che - a loro rischio - hanno violato le leggi per far valere la costituzione. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky: “Il violatore apparirà, ma solo ex post, o come un “fuorilegge”, oppure come un benemerito della Costituzione”. Si tratta pertanto ora di far valere le ragioni della costituzione in una contesa che non ha nulla di predeterminato. Quel che può dirsi sin d’ora che sono chiari i principi e le domande da porsi. Da un lato il “paradigma sicuritario”, in base al quale l’ordine pubblico e il controllo dei confini sono una specifica manifestazione della sovranità degli Stati; dall’altra il “paradigma umanitario”, che ritiene non potere in nessun caso violare la dignità delle persone. Questo secondo paradigma non nega il primo, lo limita. Non rinuncia cioè a governare i flussi ovvero a garantire l’ordine necessario per l’esistenza stessa di ogni ordinamento giuridico. Stabilisce però che in nessun caso si possono porre in essere atti contrari al senso di umanità. Dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale è questo il principio che si rinviene in tutte la Carte sovranazionali (a partire da quella dell’Onu, passando per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sino alla Carta di Nizza) e le costituzioni nazionali (con particolare enfasi quella Italiana, ma anche quella tedesca). Sono queste le norme cui si dovrebbero attenere tutti gli Stati. Potrei a questo punto ricordare le numerose disposizioni che la nostra costituzione contiene, a partire dall’articolo 2 sulla necessità di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, ovvero la giurisprudenza della Consulta, che risale ai lontani anni 60, sull’estensione delle garanzie dei diritti fondamentali agli stranieri; potrei richiamare le norme internazionali relative alla protezione umanitaria cui l’Italia ha l’obbligo di conformarsi. Lo abbiamo fatto tante volte su questo giornale. Ora però mi sembra ancor più importante comprendere qual è la sfida che l’atto di ribellione di una cittadina straniera su una nave battente bandiera olandese pone al nostro paese. Forse potremmo usare le parole di Antigone per intenderne la portata: “Non potevo consentire a un mortale di calpestare le leggi non scritte degli dèi. Io non potevo cadere nella loro condanna per paura di un uomo e della sua arroganza”. Antigone pensava che fosse inaccettabile trasgredire la legge di natura, noi possiamo interrogarci se sia oggi possibile che l’arroganza del potere possa giungere a violare la costituzione. Nel rispetto della legalità e nelle forme che il nostro ordinamento prevede, dovremmo proporci di chiederlo al giudice delle leggi cui spetta l’ultima parola. Migranti. Il Garante: “Sui rimpatri nulla è cambiato” di Giulia Merlo Il Dubbio, 28 giugno 2019 Palma: nel 2019 saranno 6 mila, come sempre. I dati non mentono e il Garante dei detenuti e delle persone private della libertà Mauro Palma li espone davanti alla Commissione Affari costituzionali della Camera: nei primi sei mesi del 2019 i rimpatriati dall’Italia sono 2.839, “in linea con gli anni precedenti”, tanto da far presumere che, per fine anno, i rimpatri saranno circa 6mila. Un trend, dunque, “del tutto analogo con quello degli ultimi 10- 15 anni” e nonostante il vicepremier Matteo Salvini avesse parlato di un obiettivo di 90mila migranti da espellere. Oggetto di propaganda ma anche strumento giuridico presente nel nostro ordinamento, il sistema dei rimpatri è seguito da vicino dall’Ufficio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà e ieri Mauro Palma ha presentato i dati in audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera. Non solo, il Garante ha aggiunto anche una serie di valutazioni critiche sull’attuale situazione nei Centri per il rimpatrio e sull’efficacia delle misure stabilite dal governo, come il decreto Sicurezza. Nei primi sei mesi del 2019 le persone rimpatriate dall’Italia sono 2.839, “Un numero in linea con gli anni precedenti”, tanto da far presumere che, per fine anno, i rimpatri arriveranno ad essere circa 6mila e la maggior parte di essi avviene in “esecuzione di atti di natura penale”. Un trend, dunque, “del tutto analogo con il panorama monitorato negli ultimi 10- 15 anni”. Proprio su questo, non è sfuggita la nota polemica posta da Palma: “Qualcuno aveva parlato, a seconda dei casi, di 500mila o di 90mila da espellere”. Quanto al metodo di rimpatrio, dall’inizio dell’anno sono stati utilizzati 26 voli charter (4 per l’Egitto, uno per il Gambia, 4 per la Nigeria, 17 per la Tunisia), che hanno portato all’espulsione di 566 persone, con l’impiego di 1.866 operatori, ma è impellente lavorare a “nuove forme di incentivazione per i rimpatri volontari, a cui dovrebbero essere destinate risorse, le quali sono invece impiegate per pochi rimpatri forzati”. Palma ha appena completato una serie di visite nei centri per il rimpatrio e ha fornito alcuni numeri: a Palazzo San Gervasio, in Basilicata “sono state trattenute per periodi vari 491 persone, ma solo 80 rimpatriate”, anche perché i centri dovevano essere “piccoli e vicino all’aeroporto”, cosa che li non è possibile. A Bari, invece, su 267 trattenimenti “in 120 casi non erano stati convalidati” e “il rischio è che tutto questo diventi solo una misura di carattere simbolico e di avvertimento: non venite in Italia perché rischiate di essere trattenuti”. Sulle modalità di trattamento dei rimpatriati, Palma ha denunciato di nuovo l’utilizzo delle fascette ai polsi dei migranti imbarcati sui voli Frontex, “mentre per esempio il Belgio non le accetta. Stiamo lavorando perché si arrivi a una uniformità di trattamento”. Quanto ai numeri dei migranti trattenuti nei Centri per il rimpatrio, da inizio anno sono stati 2.267, di cui solo il 39,3% è stato rimpatriato. Proprio questo dato solleva un problema giuridico di non facile soluzione: “La legittimità della privazione della libertà di chi non è stato rimpatriato”, ha spiegato Palma. Una questione tuttora irrisolta, infatti, riguarda gli hotspot, ancora al centro di un “limbo giuridico”: “Nel primo decreto sicurezza è prevista una convalida del trattenimento in hotspot solo se il richiedente asilo resta per 30 giorni - ha osservato Palma - ma per chi non è richiedente asilo tale convalida da parte del magistrato non è prevista”, producendo un vuoto legislativo. A proposito dei Centri per il rimpatrio, Palma ha stigmatizzato le condizioni delle strutture, definendo “deplorevoli in maniera assoluta” le condizioni in cui vivono le donne nel Cpr di Ponte Galeria a Roma. “Nel corso della mia visita - ha raccontato - ho ritenuto di portare il viceprefetto nell’area dei servizi igienici per chiedergli se li avrebbe mai utilizzati: c’era un nugolo di zanzare e moscerini sulle pareti”. Si tratta, ha ricordato il Garante, di un centro situato “in una zona sotto il livello del mare: sono stati fatti alcuni lavori, qualcosa è migliorato ma la situazione è segnata dal fatto che in tutto il 2018 solo il 13% delle donne è stato rimpatriato”. Condizioni “indecorose”, ha poi sottolineato Palma, sono state registrate anche nei Cpr di Bari e Torino. Il Garante, infine, ha commentato i contenuti del decreto Sicurezza già in vigore, spiegando come il problema centrale sia l’individuazione di “luoghi idonei” per il trattenimento dei migranti, sottolineando come “in almeno tre casi finora non è stato possibile avere l’indirizzo anche dopo la conferma del trattenimento da parte del giudice di pace”. È in corso un dialogo con il ministero dell’Interno, con il quale “si sta stabilendo la definizione” dell’idoneità dei luoghi: “Il primo punto dunque è che bisogna avere una mappa e fare delle verifiche per definirli tali”. Inoltre, la legge sui minori stranieri non accompagnati “non viene applicata” e, di fatto, “Quando il minore sa indicare solo l’anno di nascita e non il giorno o il mese viene sempre scritto che è nato il primo gennaio e viene fatta solo la radiografia della mano” per determinarne l’età anagrafica. Infine, Palma ha sottolineato come la sua consultazione anche per i provvedimenti legislativi in via di approvazione come il decreto Sicurezza bis sia “un obbligo di legge” e che dunque dovrà “essere consultato sul decreto sicurezza bis sia alla Camera che al Senato. Quindi mi riservo di venire con una serie di valutazioni scritte”. Migranti. Aspra baldoria, ferita profezia di Eraldo Affinati Avvenire, 28 giugno 2019 Da una parte ci sono i disattesi trattati internazionali, dall’altra i polmoni gonfi d’acqua di chi annega. Da un lato le convenienze politiche di questo o di quello, all’angolo opposto i polpacci scuoiati di un ragazzo sopravvissuto ai campi libici. Ne ho visti tanti così, reduci dalla barbarie animalesca che trionfa in mezzo al deserto, ammutoliti, offesi, mortificati, resi cinici dalle violenze subite, incapaci di reagire, invalidi spirituali che poi, una volta arrivati non so come nelle terre della proclamata civiltà giuridica del Vecchio e Nuovo Continente, sembrano quasi increduli nel verificare sulla propria pelle l’ipocrisia dei dettati costituzionali. Non erano proprio Italia e Francia, Germania e Olanda, Stati Uniti d’America, le nazioni più sviluppate? Paesi in grado di sconfiggere per sempre la legge della jungla, nelle cui metropoli affollate e vorticose sarebbero finalmente sfuggiti ai soprusi ferini. Dunque si trattava di fandonie. Menzogne. Trucchi. Inganni a catena. Per questo i corpi che continuano ad affogare nel Mar Mediterraneo vanno idealmente posti accanto ai cadaveri del padre e della figlia fotografati sulle rive del Rio Grande che Donald Trump ha trasformato in un campo di morte. Tutte le altisonanti dichiarazioni sulla protezione dei più deboli, sulla libera circolazione delle merci, sulla dignità delle persone, a partire da quelle pronunciate nel 1789 fino a ieri l’altro, sono crollate. Tradite da misere contingenze. È bastato il sospetto di poter perdere i nostri privilegi per buttare giù, in un colpo solo, le tanto sbandierate aspirazioni secolari. Su questo smarrimento, su questa ignoranza, su questi egoismi, gli agitatori di popolo prosperano. Brindano. Fanno baldoria. S’inchiodano agli scranni da cui discettano. Così noi continuiamo a parlare dei poveretti imbarcati sulla SeaWatch, come se niente fosse, mentre i funzionari delle commissioni sui diritti umani dettano i loro bollettini sporchi di sangue. “Siamo sempre / razzisti / nazisti / schiavisti / fedeli / infedeli / tutti un solo israele / e sempre questo faraone / e sempre questo mahagma / preumano / un oceano di gemiti / che nessuno ascolta più”. Antichi versi di padre David Maria Turoldo che sembrano scritti oggi. Confesso che quando, pochi giorni fa, la Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso presentato dalle 42 persone a bordo della nave della ong, ho ripensato alla potenza profetica del piccolo servitore di Maria: “Maledetta Europa, / per i tuoi giorni e per le tue notti / per il tuo passato e per l’avvenire... / Europa sempre affamata / non di fede / ma di oro e sangue...”. Come sono vere queste parole! Le ho sentite risuonare dentro di me una notte d’inverno, nel cimitero di Fontanella, sotto l’abbazia di Sant’Egidio, nei pressi di Bergamo, e ho l’impressione di risillabarle adesso, nei giorni della vergogna, della speculazione, dell’esibizionismo, mentre, come da una radio scassata, filtra la voce di un nuovo sbarramento da costruire nella martoriata e bella Trieste, al confine italo-sloveno. Sembra impossibile crederci. Quasi trent’anni fa cadeva il Muro di Berlino. Ma solo gli illusi potevano immaginare che tutte le cortine di ferro del Novecento più tragico fossero state abbattute da quelle semplici picconate televisive. Chris Gueffroy, nato nel 1968, morì il 5 febbraio del 1989 durante la fuga dalla cosiddetta Germania Democratica. Venne fucilato dalle guardie appostate sulla torretta. Oggi il fantasma di questo eroe di un eterno presente, paladino dell’intraprendenza, torna a rivivere nei volti tesi dei quarantadue profughi trattenuti al largo dell’isola di Lampedusa. Dove troveremo la forza per denunciare il patetico cerimoniale a cui sono stati sottoposti? Fra scartoffie e conferenze, procedure e protocolli, così agonizza l’Europa. Sea Watch, per ora fermi tutti. E l’Olanda rifiuta di prendersi i migranti di Rocco Vazzana Il Dubbio, 28 giugno 2019 Braccio di ferro internazionale sul destino dei naufraghi. “Le autorità e la Guardia di finanza ci hanno garantito che avremo una soluzione molto presto”. Carola Rackete, giovanissima comandante tedesca della Sea Watch ferma a un miglio dal porto di Lampedusa, accoglie a bordo i giornalisti arrivati in gommone insieme ad alcuni parlamentari del Pd e di Sinistra italiana e spiega le ragioni delle sue decisioni. Mentre scriviamo, i naufraghi sono ancora bloccati in mare e la comandante fa di tutto per rompere l’isolamento. “Ieri ho deciso di varcare le acque territoriali italiane dopo avere atteso 14 giorni fuori. Non avevo scelta”, afferma. La rotta sull’Italia è stata dettata da ragioni geografiche: il nostro è “il Paese più vicino” cui chiedere un porto sicuro. Ma Carola dice di averlo chiesto senza successo anche all’Olanda, alla Germania, alla Francia e alla Spagna. “Non c’è una soluzione politica e tutte le richieste sono state negate”, aggiunge la comandante che poco prima ha tentato di forzare il blocco con una manovra improvvisa, stoppata subito dalle motovedette della Guardia di finanza. All’alt intimato dai militari, Carola Rackete ha spento i motori e ha desistito dall’intento di portare a terre i 42 naufraghi soccorsi ormai due settimane fa. “La situazione a bordo è critica soprattutto dal punto di vista psicologico e abbiamo diversi passeggeri che hanno un stress post traumatico: e quindi dobbiamo arrivare a terra al più presto”, prosegue la responsabile della Sea Watch. Il Pd a bordo - Ad ascoltare la sua versione dei fatti ci sono anche Graziano Delrio, Davide Faraone, Matteo Orfini, Riccardo Magi e Nicola Fratoianni. i parlamentari saliti sulla nave per esercitare le “prerogative ispettive” riservate agli eletti. “A bordo abbiamo trovato una situazione insostenibile, è necessario che i 42 naufraghi sbarchino al più presto”, dice Delrio, a capo della delegazione dem. “È intollerabile che un suo ministro permetta tutto questo. Il governo italiano sta agendo al di là delle regole”, prosegue il capo dei deputati del Pd. E il ministro in questione, Matteo Salvini, non si fa pregare per rispondere a Delrio via Facebook: “Senza vergogna. Quelli del Pd stanno sempre dalla parte sbagliata: contro gli italiani”, scrive il titolare del Viminale. All’esponente del Pd non resta altra scelta che rivolgersi direttamente a Giuseppe Conte: “Il presidente del consiglio ha il dovere di intervenire immediatamente per porre fine a questa assurda situazione che sta minando la credibilità e il prestigio del nostro paese nel mondo”. Ma il capo del governo, appena arrivato in Giappone per il G20, non sembra affatto intenzionato a dissociarsi da Salvini su un tema così delicato. Sul caso della Sea Watch “mi sembra che le cose siano molto chiare: c’è una comandante che si è assunta una grave responsabilità e si è posta volontariamente in una situazione di grave necessità”, commenta Conte, magari puntando a portare il tema dei migranti al tavolo della trattativa con l’Ue sulla procedura d’infrazione. Sospetto confermato dalle parole dell’altro vice premier che, intervistato da Bruno Vespa, mette in evidenza proprio il fallimento di Bruxelles. “Vedo molta ipocrisia”, ri- sponde Di Maio in merito alla Sea Watch. “Nessuno parla dei 300 sbarcati a Lampedusa attraverso i barchini. Dobbiamo prendere atto del fatto che l’Europa ha fallito e noi reagiamo di conseguenza”, aggiunge, usando toni salviniani. La crisi con l’Olanda - Fare la voce grossa con gli altri Paesi dell’Unione però non sempre porta ai risultati sperati. O almeno così accade con l’Olanda, la cui bandiera “sventola” sulla Sea Watch. Amsterdam “si assume la sua responsabilità in quanto Stato di bandiera” della Sea Watch 3, ma “questo non significa che si prenderà i migranti”, dice la sottosegretaria olandese responsabile per l’Immigrazione, Ankie Broekers- Knol, mandando su tutte le furie Salvini, che sbotta: “Sull’Olanda apriamo una questione perché se dà ragione a una sua nave dicendo che se ne frega sapremo comportarci di conseguenza. Con il governo olandese non finisce qui”, è la minaccia del vice premier. E pazienza se, per 42 disperati bloccati fuori dal porto, in due giorni siano sbarcate più di 100 persone a bordo di imbarcazioni di fortuna. Per il ministro dell’Interno la guerra alle Ong “è una battaglia di principio”, dice Salvini, prima di improvvisarsi sceriffo: “Mi pongo l’obiettivo di una multa da 50mila euro alla Ong, del fermo e del sequestro della nave, dell’arresto o dell’espulsione degli equipaggi e dell’allontanamento dall’Italia degli immigrati a bordo”, è la “condanna”. Solidarietà all’Ong - Almeno da un punto di vista economico, però, le parole di Salvini non spaventano l’equipaggio della nave. Per tutelare Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, su Facebook è partita una raccolta fondi di solidarietà per coprire la quasi certa multa e le spese legali. E in meno di 24 ore si è andati parecchio oltre il tetto di 50 mila euro previsto inizialmente dagli organizzatori: quasi 200 mila euro. Migranti. La legge del pirata di Mattia Feltri La Stampa, 28 giugno 2019 Un paio di aspetti, di molti, marcano meglio la differenza fra il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e la comandante della Sea Watch 3, Carola Rackete. Il primo è il linguaggio: mentre Carola parla come un ministro dell’Interno (le autorità italiane sono salite a bordo, stanno controllando i documenti, attendono ordini superiori, speriamo si possa sbarcare presto...), Salvini parla come uno dei centri sociali (mi sono rotto le palle, è una fuorilegge, una sbruffoncella, il capo dei pirati, deve andare in galera...). L’altro aspetto ha a che vedere con la responsabilità di cui ognuno si sente investito. Dopo un paio di settimane al largo, poiché l’attracco a Lampedusa le era impedito dalle leggi italiane, Carola ha deciso di infrangere quelle stesse leggi, e non col trucco e con l’inganno, approfittando dell’oscurità, ma annunciandolo al mondo: le infrangerò perché me lo impone la coscienza e ne pagherò le conseguenze. Non proprio un atteggiamento da pirata. Piuttosto una disubbidienza civile lampante, di chi disattende una norma che considera ingiusta e si affida al giudizio della magistratura. Salvini, invece, dopo aver detto tutto quello che pensava di Carola, ha anticipato che contravverrà ad alcune norme europee sull’identificazione dei migranti, siccome si è rotto le palle e siccome sa che lui, al contrario, le regole se le può mettere in tasca, e nessuna conseguenza, com’è successo con la nave Diciotti, per cui era accusato di sequestro di persona e scampò ai giudici grazie a un voto parlamentare. I pirati, quelli veri, spesso hanno la legge dalla loro parte. Migranti. Se ragionare è impossibile, scegliamo la “sbruffoncella” di Annalena Benini Il Foglio, 28 giugno 2019 Una comandante che ha 42 persone a bordo, un ministro dell’Interno che la insulta. Meglio Antigone. Antigone ha ragione, soprattutto quando lo stato le risponde con gli sberleffi. Antigone ha ragione anche se l’idea assoluta di open borders della Sea-Watch non può funzionare, anche se la sfida alla legge dello stato si gioca su un altro, opposto, desiderio di consenso e di contrasto che contrappone una giovane donna alla guida di una nave a un ministro che ha promesso: niente più sbarchi (anche il 26 giugno sono scesi a terra altri cinquantacinque migranti). Entrambi usano la loro retorica, e un’idea del mondo e dell’eroismo, e però anche della responsabilità. E siccome Carola Rackete sa di avere la responsabilità di quelle quarantadue persone sulla nave, e per quelle quarantadue persone non dorme la notte e si tormenta di giorno, e prima aspetta e poi disubbidisce a una legge senza sotterfugi, caricandosi sulle spalle le conseguenze, calcolandole, e spiegando che non può fare altrimenti, ma senza (per ora) parole di sfida, solo parole di preoccupazione per gli esseri umani in ostaggio sulla sua nave, persone fuggite dalla Libia e allo stremo delle forze, e intanto Matteo Salvini, ministro su Twitter e in tivù, “si è rotto le palle” e questa sbruffoncella perché viene a rompere le palle in Italia, e deve andare in galera, allora se devo per forza scegliere un modello di disubbidienza alle regole, scelgo quello serio di Carola Rackete. Se mia figlia mi chiederà chi ha ragione, risponderò che ha ragione Carola Rackete. Che è complicato, ma lei ha ragione. Per le persone che ha con sé, più deboli di lei, più stremate di lei, ma anche per gli insulti che le hanno rovesciato addosso, e perfino per la strumentalizzazione uguale e contraria, quella che la trasforma in fiera oppositrice del governo italiano, salvatrice della nostra dignità e umanità, perfino del nostro futuro politico. Si sfrutta una storia, ognuno ai propri fini, ci si serve di una donna coraggiosa che guida una nave in porto, o di un ragazzo coraggioso che difende i rom di fronte a un militante di Casa Pound a Torre Maura, ci si affida a un eroe, offrendogliene immediatamente la patente e facendo il tifo, per sentirsi a posto con il proprio senso di giustizia e di coscienza. Si semplifica, si trova uno slogan: un eroe da esaltare oppure un nemico da distruggere. Sbruffoncella oppure Capitana. Però se la sfida è questa, se il livello è questo, e se una trentenne viene accusata di essere ricca e laureata ed europea, e quindi vacua e forse perfino intellettuale, visto che ha citato i pensatori greci e romani sull’importanza della vita umana, accusata di avere studiato, di avere viaggiato, di avere navigato, di parlare tante lingue, di avere scelto un passatempo (gli scafisti quindi sono più rispettabili di lei), se lei è la regina dei pirati che dice: speriamo ci facciano scendere, queste persone sono distrutte e sono sotto la mia responsabilità, allora il consenso e la speranza andranno sempre alla regina dei pirati. Afghanistan. Tra i tossicodipendenti di Kabul: “l’oppio è un’arma di guerra” di Amalia De Simone e Marta Serafini Corriere della Sera, 28 giugno 2019 Da Gengis Khan a Trump: così i papaveri hanno stravolto l’economia di un intero Paese e hanno alimentato il conflitto, con 2,5 milioni di consumatori. “Ho sessant’anni e mi faccio da quando ne avevo trenta”. Abdullah ha la pelle segnata dal tempo e dalla vita. Da un occhio non ci vede più. I denti rimasti sono completamente marci. È diventato tossicodipendente in Iran, dove si era rifugiato dall’Afghanistan a causa della guerra. “Avevo trovato un lavoro, asfaltavo le strade. Ma poi ho iniziato a drogarmi, prima con il tariak (l’oppio) e poi con l’eroina. E così ho perso tutto”. Oggi Abdullah vive sotto il Pule Sukhta, il ponte dei disperati di Kabul, dove è tornato. È solo, non ha più notizie di sua moglie e dei suoi figli. “Mi hanno accoltellato e picchiato più volte. Nessuno mi sta aiutando”, dice strofinandosi la camicia lurida contro la guancia. Ponte dei disperati lo chiamano. Sotto, l’acqua maleodorante del fiume Pangha attraversa lenta la capitale afghana. È solo uno dei tanti posti dove si radunano i tossicodipendenti di Kabul. Le strade pullulano. Un gruppo di uomini è seduto per terra, in un’aiuola. Tutto intorno, il traffico impazzito non molla la presa mentre la polvere, lo sporco e lo smog appesantiscono l’aria. Alcuni hanno il capo nascosto da una coperta, con le pipette di vetro o con delle strisce di carta stagnola aspirano il vapore sprigionato da una piccola palla scura. Pochi secondi, e l’oppio va dritto al cervello. Qualcuno fuma anche hashish, altri hanno in tasca delle bombolette spray di lubrificante da inalare, in pochi si fanno in vena. Ma tutti hanno lo sguardo stravolto. Cinque chilometri verso Ovest, a Kote Sangi, un ragazzo è collassato a terra, quasi non respira. Al suo fianco un cane dorme nella stessa posizione. Nessuno si cura di loro. Al Pule Bagh Omomy, vicino al monumento dedicato a Farkhunda Malikzada la giovane lapidata e arsa viva nel 2015 con l’accusa di aver bruciato il Corano, un uomo inizia a gridare. “Via via”, afferra una pietra e minaccia di tirarla. Non vuole essere ripreso o fotografato. Barcolla mentre le donne nascoste dal burqa girano la testa dall’altra parte e continuano a camminare lente verso il mercato. Quindici afghani, 19 centesimi di dollari. Tanto costa il tariak, una palla di oppio. Una dose di eroina invece è più cara, 2-3 dollari. “La maggior parte dei tossicodipendenti di Kabul l’oppio lo fuma, ma molti si fanno anche di hashish, metanfetamina e di Tramadol (un oppiode sintetico, ndr)”. Il dottor Zulmani Noorzai Ghori è il direttore del centro di riabilitazione supportato dal governo. Mille letti. Ogni paziente costa 300 dollari all’anno, il 30 per centro della cifra serve per la terapia. L’altro 70 va per gli stipendi dei dipendenti del centro. “Soffriamo di mancanza di fondi e di supporto. Ma cerchiamo di fare del nostro meglio. Abbiamo tre livelli di intervento. Prima ovviamente procediamo alla disintossicazione farmacologica e alle cure mediche, alcuni dei nostri pazienti hanno l’Epatite A, B, C o hanno contratto l’HIV. La terapia dura 45 giorni. Ma li seguiamo anche nel periodo successivo dando loro supporto psicologico e cercando loro possibilmente un lavoro”, spiega il dottor Ghori camminando nel cortile del centro. I pazienti indossano tute blu e rosse, qualcuno sta accucciato contro il muro per evitare il sole caldo di mezzogiorno. Qualcun altro gioca a biliardo, mentre c’è chi è impegnato nella pulizia delle camerate. Ma nessuno può lasciare la struttura. In Afghanistan ci sono 2,5 milioni di consumatori, 800 mila di loro sono donne, 100 mila bambini. Il 40 per cento è tossicodipendente. Un esercito le cui fila si ingrossano con il rientro dei rifugiati da Iran e Pakistan. Uno dei pazienti inizia a gridare senza un motivo apparente. È Ramadan, non si beve né si mangia dall’alba al tramonto. “A volte diventano aggressivi, molti hanno problemi psichiatrici”. Ma a mettere in pericolo Ghori non sono i tossicodipendenti. Il direttore del centro è stato minacciato di morte più volte: il suo lavoro dà fastidio a persone potenti, in testa i signori della guerra che gestiscono il traffico di droga. “Non mi lascio intimorire né dalla mafia né dal terrorismo. Sono orgoglioso di quello che stiamo facendo qui e vado avanti”, dice prima di salutare sorridendo. L’oppio in Afghanistan è arrivato nel 13esimo secolo con Gengis Khan. Per molto tempo la coltivazione è stata finalizzata all’uso medico e al consumo locale. È solo nell’Ottocento che inizia il commercio oltre frontiera, dopo che Abdur Rahman Khan, ai tempi emiro dell’Afghanistan, obbliga le tribù pashtun a spostarsi al confine con l’Iran. Lo scopo di questa mossa è duplice. Mettere a tacere le proteste dei pashtun che già allora avevano scarso accesso ai lavori e alle posizioni migliori. E aumentare le divisioni etniche del Paese secondo la vecchia regola del divide et impera. Avanti veloce di due secoli, l’oppio resta il protagonista. “Come successo in Laos, in Vietnam o in Colombia, anche in Afghanistan dopo l’invasione sovietica il traffico di droga è servito a finanziare i conflitti”, scrive Farib Nawa, autrice di Opium War. Risultato, dopo il 1979, l’amministrazione Reagan dà il via all’Operazione Cyclone e inizia a fornire armi ai mujahideen impegnati nella guerra con l’Unione Sovietica. L’obiettivo è solo uno: sconfiggere Mosca. Ma tra quei uomini barbuti nascosti sulle montagne c’è anche Osama Bin Laden, l’uomo che diventerà il nemico numero uno dell’America. All’epoca però quel nome non dice niente a nessuno. E mentre i ribelli trafficano oppio per comprare le armi, la Cia sta a guardare e - secondo alcuni - addirittura aiuta a creare i laboratori di eroina. “La nostra missione era mettere in difficoltà i sovietici, non avevamo tempo di occuparci dei danni causati dal traffico di droga e non penso di dovermi scusare per aver sconfitto il nemico”, sosterrà anni più tardi in un’intervista l’allora direttore della Cia per le operazioni in Afghanistan, Charles Cogan. Dal 2001 in poi, la storia è facile da riassumere. Quando gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, danno il via all’operazione Enduring Freedom, la produzione di oppio è al suo minimo storico. Ma dopo la sconfitta dei talebani, il vuoto di potere e la necessità di finanziare nuovamente la guerriglia fanno rifiorire di rosa tutto il Paese. E ogni tentativo - civile e militare - di distruggere o riconvertire le coltivazioni resta vano. “Abbiamo fallito”, dichiarerà nel 2014 John Sopko, ispettore speciale per l’Afghanistan del governo statunitense, sottolineando come in 13 anni, a fronte di oltre 7 miliardi di dollari stanziati per la lotta al papavero, i campi abbiano raggiunto un’estensione di oltre 300 mila ettari. Pari a 400 mila campi da football Usa. “Oggi in Afghanistan ci sono oltre 200 mila ettari coltivati a oppio, in testa le province meridionali di Helmand e Kandahar, Oruzgan e Farah. Ma dal 2015 pure le regioni occidentali, finite anch’esse sotto il controllo dei talebani, sono diventate produttrici”, spiega Jelena Bjelica, analista di Afghan Analysts Network. E se per gli agricoltori l’oppio è il prodotto più redditizio (il giro di affari è stimato intorno ai 3 miliardi di dollari all’anno), non stupisce che i poppy fioriscano. O che il 90 per cento dell’eroina mondiale sia fabbricato con oppio che proviene dall’Afghanistan. Il ciclo del papavero pare essere inarrestabile. “Da un lato l’economia di guerra ha favorito la crescita del traffico di droga, dando ai signori della guerra locali il modo di perpetrare il loro potere. D’altro canto l’oppio ha consentito ai contadini locali di sopravvivere”, sintetizza Pierre-Arnaud Chouvy, esperto francese di droga. I talebani infatti applicano una tassa del 10 per cento sul ricavo del raccolto e sui laboratori di eroina, guadagnando all’anno 400 milioni di dollari (circa il 60 per cento dei loro introiti). Nessuno può sottrarsi. E a maggio, quando inizia il raccolto, buona parte della popolazione si sposta verso le campagne per mettersi al lavoro nei campi. Una teoria confermata da più parti è che i talebani scambino droga e armi con i soldati corrotti della guardia rivoluzionaria iraniana. “Un chilo di eroina vale 10-15 kalashnikov”, ha raccontato un trafficante ad un giornalista dell’Institute for War and Peace Reporting nel 2008. Le armi arrivano in Afghanistan a dorso di mulo smontate in pezzi. Mentre l’eroina trova, attraverso l’Iran prima e la Turchia poi, la rotta perfetta verso l’Europa. Mohamed Shafi, 45 anni, sgrana il misbahah (il rosario). È dentro Pol-i-Charkhi, il carcere di Kabul, da 4 anni. Dovrà rimanerne qui altri 14. Mohamed è un trafficante di droga, originario della provincia di Farah. Lo hanno catturato dopo che è stato intercettato al telefono. “Facevo passare l’oppio in Iran dalla provincia di Nimruz. Mi hanno arrestato con un carico. Lo trasportavamo coi camion, ce lo pagavano 100 dollari al chilo”, racconta. Da quando è dentro, Mohamed ha visto sua moglie e i suoi sei figli solo una volta. Nonostante ciò sembra sereno, gli abiti e la barba sono curati. “Sapevo che smerciare droga è contrario all’Islam. Ho iniziato perché non c’era altro lavoro da fare, ero un commerciante ma non guadagnavo abbastanza. E i mujahedin sono venuti da me...”. Anche Shafi ha dovuto pagare una tassa ai talebani. “Erano soldi facili - dice - ora però mi sono pentito di quello che ho fatto”. Dentro al carcere gran parte dei 9.720 detenuti è tossicodipendente. “Abbiamo chiesto di poterli curare con il metadone”, spiega Nasif Aribrahim, responsabile dell’assistenza sanitaria di Pol-i-Charkhi. Ma fin ora non è stato previsto un intervento specifico per chi fa uso di droga. A prendersi cura dei detenuti, compresi quelli con problemi di dipendenza è Emergency: “Nel penitenziario abbiamo cinque cliniche dove ogni mese i nostri medici effettuano oltre 5.000 visite. Ma chiaramente lavorare in un contesto del genere è molto complesso anche a causa della diffusione dell’oppio e dei conseguenti problemi psichiatrici”, sottolineano Dejan Panic e Gabriella Rivera, rispettivamente coordinatore di Emergency in Afghanistan e Field officer. Fuori dalla prigione i parenti dei detenuti aspettano i loro turno per la visita. Un bambino se ne sta seduto al fianco della madre coperta dal burqa vicino a un blindato dell’esercito. Tutto all’apparenza è tranquillo. Ma i talebani hanno appena attaccato la sede di un’organizzazione statunitense accusandola di fornire servizi da contractor all’esercito. Un altro attentato dopo il rifiuto del cessate il fuoco per il mese del Ramadan mentre resta incerto il destino del tavolo di pace aperto con gli Stati Uniti. Nemmeno l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi ha portato un po’ di pace. “Ero in taxi con due amici, abbiamo visto passare degli uomini che gridavano Allah u akbar”, racconta Shaif, 33 anni, toccandosi il volto ferito. Ordinaria amministrazione per Kabul, dove solo nei primi tre mesi di quest’anno sono morti 1.170 civili, di cui 500 bambini. E dove quasi tutti girano con un foglietto in tasca con su scritto “in caso di mia morte telefonare a…”. “La droga è diffusa in tutti gli strati della società, anche i militari ne fanno uso, l’oppio ha avvelenato il nostro Paese”, dicono a bassa gli amici di Shaif. A segnare più di ogni cosa la vita degli afghani è la mancanza di un lavoro e di un futuro. Aazar ha 45 anni. Anche lui si è rifugiato in Iran e poi è tornato indietro. Lui è fortunato. Dopo essere diventato dipendente da eroina, è riuscito a disintossicarsi. Da quattro anni lavora come autista di camion. “Ora ho sei figli, le 4 femmine studiano tutte per diventare dottoresse”, dice piano. Poi si gira e saluta. “Scusate, oggi ho dimenticato di mettermi la divisa per venire a lavorare, spero non sia un problema”. Germania. Confessa il killer del leader pro-migranti: “ucciso per un discorso” di Walter Rauhe La Stampa, 28 giugno 2019 Lübcke è stato ucciso da un militante dell’ultradestra. Accuse ai populisti. Merkel: “I toni alti generano odio”. È stato ucciso perché si era espresso a favore dell’accoglienza dei profughi in Germania, in difesa dei valori umani del cristianesimo e contro ogni forma di odio razzista e di estremismo politico. Stephan Ernst, l’estremista di destra di 45 anni arrestato dieci giorni fa, sospettato dell’omicidio del presidente del distretto governativo di Kassel ed esponente di punta dell’Unione cristiano-democratica, Cdu, Walter Lübcke, ha rotto il suo lungo silenzio e ha confessato tutto. I più inquietanti timori sorti immediatamente dopo il ritrovamento del corpo del politico, il 2 giugno scorso, con un colpo di pistola alla testa sparato da distanza ravvicinata, si sono avverati. Si è trattato di un omicidio politico di matrice neonazista e xenofoba, che riporta alla ribalta in Germania la minaccia del terrorismo nero. “Ho deciso di far fuori Lübcke per via del suo discorso nell’ottobre del 2015”, ha confessato Ernst agli inquirenti. In quell’occasione l’esponente del partito di Angela Merkel aveva sostenuto che l’accoglienza di persone bisognose d’aiuto fosse un dovere per tutti i cristiani e chi non dovesse condividere i valori sacrosanti della solidarietà e dell’umanità sarebbe libero di lasciare il Paese. A rendere noti gli ultimi sviluppi dell’indagine è stato ieri il procuratore generale Peter Frank nel corso di una riunione d’emergenza della commissione interni del Bundestag a Berlino. Stefan Ernst, ammettendo la responsabilità dell’agguato omicida ha anche dichiarato di aver agito da solo - circostanza che viene messa in dubbio dagli inquirenti. Presente all’udienza era anche il responsabile dei servizi segreti interni Haldenwang che ha sottolineato i rischi legati al terrorismo di estrema destra e alla progressiva radicalizzazione delle frange neonaziste e dei loro tentativi d’infiltrazione all’interno di associazioni, partiti, organi costituzionali e persino della Bundeswehr, l’esercito federale e delle forze dell’ordine. Alla ricostruzione giudiziaria del caso si aggiunge però ora anche quella politica. La leader della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer ha accusato la destra populista dell’Alternative für Deutschland (AfD) di aver spianato la strada al terrorismo di destra con il suo linguaggio sempre più aggressivo e le sue campagne di odio e intolleranza nei confronti dei profughi. “Il populismo di estrema destra rappresenta un grande pericolo per la nostra nazione”, ha dichiarato la Kramp-Karrenbauer. Ancora più esplicito è stato il segretario generale della Cdu Peter Tauber che ha definito l’AfD come “complice” dell’omicidio di Lübcke. Nel corso del minuto di silenzio tenuto al parlamento regionale bavarese ieri a Monaco, il deputato AfD Ralph Müller non si é alzato in piedi ma è rimasto seduto provocando lo sdegno generale. Per la cancelliera Angela Merkel i “toni sempre più aggressivi, polemici e radicali” adoperati da certi esponenti della destra populista in Germania come in Europa generano odio, mettendo a rischio i principi della democrazia e la capacità di discutere dei problemi che affliggono le nostre società in modo civile e rispettoso. Così come la cancelliera Angela Merkel, anche Walter Lübcke apparteneva all’ala moderata e riformista della Cdu e si distingueva per il suo pragmatismo e una certa elasticità nell’interpretazione dei valori guida del conservatorismo tedesco. Per 10 anni è stato ufficiale di professione nella Bundeswehr, ma in qualità di cristiano credente ha sempre lottato per il disarmo e la pace. Un politico cresciuto e rimasto in provincia, un cristiano-democratico doc e un patriota il cui cuore batteva sia per la Bundesrepublik, sia per l’Europa unita, civile e tollerante. Giappone. Scioperi della fame nei centri di detenzione: un morto di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 28 giugno 2019 È la seconda morte in poco più di un anno nei centri di detenzione giapponesi. La 15sima dal 2006 ad oggi. Un uomo nigeriano di circa 40 anni è deceduto, lunedì scorso, a Nagasaki a causa dello sciopero della fame che aveva iniziato da qualche settimana per protestare contro il protrarsi della sua detenzione che durava da più di tre anni. Il Paese è noto per le sue misure draconiane sull’immigrazione. Chi fa richiesta d’asilo aspetta richiuso per lunghi periodi di tempo, circa tre anni. La qualità dei centri di detenzione è fortemente criticata per gli standard medici, l’attenzione verso i detenuti e la risposta delle guardie in caso di emergenza. Altri 27 stranieri si rifiutano di mangiare nel centro di Ushiku, a nordest di Tokyo. “Alcuni di loro sono in sciopero da 47 giorni - ha spiegato Kimiko Tanaka, portavoce di una ong -, un iraniano di 23 anni ha perso peso ed è costretto ad usare la sedia a rotelle. Altri due uomini sono dentro da 5 anni. La lunghezza della detenzione è una violazione dei diritti umani”. Un funzionario della agenzia che si occupa di immigrazione ha confermato alla Reuters che è in corso uno sciopero della fame al centro di Ushiku: “Stiamo cercando di convincerli a mangiare” ha detto. Secondo gli ultimi dati sono 1.317 le persone rinchiuse nei 17 centri di detenzione sparsi nel Paese. Lo scorso marzo i detenuti avevano firmato una petizione per chiedere che si ponesse fine alle lunghe prigionie. Non è la prima volta che i richiedenti asilo fanno lo sciopero della fame: nell’aprile del 2018 la protesta era stata condivisa da cento migranti per protestare contro la morte di un indiano che era stato trovato impiccato nella doccia dopo che gli era stato negato il rilascio. Eritrea. Il regime caccia preti e suore, la vendetta contro gli ospedali cattolici La Stampa, 28 giugno 2019 La vendetta del regime contro i vescovi che avevano denunciato un clima da apartheid nel Paese. E anche le scuole rischiano la chiusura. All’inizio, incontrando i migranti, mi dicevo: l’essenziale è che da qualche parte resti quello di cui si è vissuto. Le usanze. La festa di famiglia. La casa dei ricordi, anche se miserabile. La religione in cui nonostante tutto si crede. L’essenziale è vivere per il ritorno. Poi ho conosciuto i profughi eritrei, parte consistente di quelli che, un tempo almeno, sbarcavano in Italia dopo inenarrabili peregrinazioni. E ho capito che questa regola per loro non aveva significato. Gli eritrei sono evasi da una immensa prigione. Gli evasi che cosa si portano dietro? La distribuzione del cibo pessimo? L’ora d’aria? Il lavoro inutile e obbligatorio? Le angherie dei guardiani? Sì, a loro manca l’essenziale: ovvero qualcosa che renda desiderabile il ritorno. Gli Stati vergognosi Dimentichiamo in fretta noi uomini dell’Occidente. Che l’Eritrea è, in Africa, uno degli “Stati vergognosi” come ben li definiva lo scrittore congolese Sony Tansi. Da cui gran parte della popolazione non sogna altro che poter fuggire, a costo di affrontare i pescecani del Mar Rosso e quelli, ancor più feroci, che vendono i viaggi che trasudano sangue e sudore per l’Europa. Abbiamo dimenticato che l’Eritrea, il suo regime, applicando una sorta di metodico fanatismo dell’autocrazia, pratica con disinvolta indifferenza, a dirla crudelmente, lo schiavismo di stato, travestito da servizio militare perenne. Dove prevalgono spionaggio e delazione di massa e l’arresto spiccio e arbitrario, che colma centinaia di carceri di migliaia di oppositori veri o presunti di cui si ignora la sorte. Che, in odio all’Etiopia, ha sostenuto le funeste imprese dei taleban somali. E offre ora sostegno logistico ai ricchi massacratori sauditi che bombardano lo Yemen. Una recente rimessiticcia pace con Addis Abeba, con cui ha combattuto per quattro sassi la guerra forse più inutile della storia, le ha ridato fin troppo agevoli credenziali presso le disinvolte cancellerie democratiche. Succede così. Ci accontentiamo di poco. Si fa finta di non sapere che dietro il tentato golpe dei giorni scorsi in Etiopia molti intravedono proprio loro, gli eritrei. Vogliono ripetere una attempata operazione che è valsa l’indipendenza nel 1993: riportare al potere ad Addis Abeba i tigrini, fratelli oltrefrontiera di etnia e di lingua. Un modo pulito per vincere, senza sparare un colpo, la guerra. La distruzione delle chiese In prima fila, ahimè, tra i più malaccorti e solleciti nel fariseismo della spregiudicatezza realistica noi italiani con le immancabili carovane di sottosegretari e imprenditori in cerca di affari a ogni costo. La bolsa e deprimente retorica dei “confortanti passi avanti”, del “paese chiave del corno d’Africa”, le vuote astrazioni degli “antichi legami indissolubili” dei tempi degli ascari fedeli e delle “madame” succulente. Son durati poco i “passi avanti”. Il regime ribadisce a ritmi inauditi malefatte e ribalderie. Non le nasconde, spargono catene di metastasi. Cerca nuovi nemici da smantellare nell’affanno del peggio. Stavolta tocca alle strutture sanitarie che la chiesa cattolica tiene aperte nel paese, da Barentu a Keren, e che costituiscono per la popolazione, aggrappata alle perenni soglie della miseria, un soccorso importante e efficiente. I metodi sono abitudinari, le tirannidi in Africa non hanno fantasia e non devono tralignare alcun sacro principio. Non ne riconoscono alcuno. Energumeni del regime hanno fatto irruzione in ospedali e ambulatori cattolici, una trentina, frequentati da duecentomila pazienti l’anno, sfondato porte, sequestrato le chiavi, gettato in strada i malati, cacciato preti e suore (una di loro che ha tentato di opporsi alla illegittima soperchieria è stata arrestata). Li hanno sostituiti alla svelta con nuovo personale. Le gerarchie cattoliche, in un documento di garbata protesta, hanno ribadito di aver sempre scrupolosamente rispettato le norme che regolano l’attività medica, denunciando che, poiché le strutture si trovano spesso all’interno dei luoghi di culto, la espropriazione si trasforma in una limitazione della libertà religiosa. Hanno lanciato una sommessa mobilitazione con tre settimane di preghiere pubbliche. La rappresaglia del governo - Poco per disturbare il regime di Isaias Afewerki che sembra aver avviato una offensiva di intimidazione verso la minoranza cattolica; il cui prossimo bersaglio sarebbero secondo voci ricorrenti le scuole cattoliche. Non un sussulto islamista, per carità. Una vendetta politica semmai. Perché in due documenti pastorali i vescovi hanno accusato duramente il regime, tracciando un poco lusinghiero parallelo con il Sud Africa dell’apartheid. Un punto chiave. Da chiarire. Subito. Per non esser accusati di strepitare soltanto quando a subire torti e prepotenze sono la chiesa e i cristiani. Non si fanno graduatorie tra le soperchierie. Ma gli attacchi alla chiesa sono in molti paesi africani, non solo in Eritrea, la conseguenza del fatto che ha alzato la voce denunciando presidenti e guide supreme responsabili di un malefico presente. Mentre troppi altri tacevano, soddisfatti di inzotichire nella speranza di ruoli importanti e di bottino. Resta il problema: che fare? Se cioè basti restare ancorati alla credenza che il vincitore, nel caso Afewerki, dopo tutto ha sempre ragione. E quindi si possa congiungere il paternalismo razzista del respingere le vittime con la servilità, la furberia, la cretineria di fare affari con il loro persecutore.