Ergastolo e diritti umani di Roberto Davide Papini riforma.it, 27 giugno 2019 La Corte europea di Strasburgo ha censurato il nostro paese per le situazioni in cui la pena di fatto esclude una possibile riabilitazione del detenuto. Il caso di chi non può collaborare con lo Stato per paura di ritorsioni nei confronti dei familiari. “È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura”. Un concetto che dovrebbe essere pacifico in ogni Paese civile, laddove vige lo stato di diritto. In Italia, però, soprattutto in tempi in cui avanza l’idea che i rei debbano “marcire in galera” e che per certi reati occorra “buttare via la chiave” (della cella, ovviamente), questo concetto basilare non è così immediato. Ci è voluta una sentenza di condanna verso l’Italia della Corte europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo, per richiamare il nostro Paese al rispetto di questi diritti. La questione riguarda il cosiddetto “fine pena mai”, ovvero l’ergastolo ostativo che si applica a persone accusate di reati di particolare gravità, come quelli di mafia o terrorismo. È una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato. A sollevare il caso davanti ai giudici di Strasburgo è stato Marcello Viola, in carcere dall’inizio degli anni Novanta per associazione mafiosa, omicidio, rapimento e detenzione d’armi. Viola, che sinora ha deciso di non collaborare con la giustizia, si è visto rifiutare le richieste per i permessi premio nonostante l’accertata buona condotta e l’evoluzione in positivo della sua personalità. Il punto, infatti, è proprio qui: in assenza di collaborazione con la giustizia per i condannati per certi reati particolarmente gravi non esistono possibilità di ottenere i benefici previsti per gli altri detenuti. Secondo i giudici di Strasburgo, la legge va contro la dignità umana e sottopone a trattamenti inumani i detenuti quando a priori - appunto perché non collaborano con la giustizia - impedisce loro di ottenere permessi premio, la semilibertà o la libertà condizionale, oppure di lavorare fuori dal carcere. I giudici di Strasburgo, infatti, affermano che il detenuto può avere molte ragioni per non collaborare (ci sono alcuni condannati che, comprensibilmente, temono ritorsioni verso i familiari), e osserva d’altro canto che la collaborazione non significhi necessariamente che la persona abbia interrotto ogni contatto con le associazioni per delinquere e che quindi non sia più un pericolo per la società. D’altronde, il “fine pena mai” contrasta evidentemente non solo con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che vieta i trattamenti degradanti e inumani) ma anche con il fine rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. La sentenza di condanna non cambia, per ora, la situazione di Viola che aveva chiesto un risarcimento di 50.000 euro, mentre l’Italia è stata condannata solo al pagamento di 6000 euro di spese processuali. Al di là di questo, però, si tratta certamente di una sentenza importante “un pronunciamento storico” come commenta Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, l’associazione da anni impegnata con il Partito radicale per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Una sentenza che si aggiunge ad altre condanne ricevute dall’Italia da parte della Cedu in materia di carcere, visti i grossi problemi di sovraffollamento in cui versa il nostro sistema penitenziario, con gravi ripercussioni sulla vita dei detenuti, ma anche di chi lavora nel carcere a vario titolo. Del tema carceri e, più nello specifico, della questione dell’ergastolo ostativo si è occupato il Sinodo valdese e metodista del 2017. Dopo un’interessante “Giornata teologica Miegge” (con la proiezione del docufilm Spes contra Spem) nel Sinodo è stato presentato un ordine del giorno contro l’ergastolo ostativo definito un “trattamento contrario allo spirito evangelico della grazia e della speranza”. L’ordine del giorno ha diviso in due l’assemblea e il peso degli astenuti ha portato alla sua bocciatura. A parere di chi scrive, il Sinodo valdese e metodista, spesso felicemente all’avanguardia su temi come l’accoglienza degli immigrati e la lotta contro l’omofobia, sull’argomento della giustizia e del carcere non ha avuto (anche in precedenza) lo stesso coraggio. La sentenza della Cedu, oltre a essere uno schiaffo all’Italia, può essere forse uno stimolo per il Sinodo a riaffrontare il tema con quel coraggio evangelico che, in tempi di giustizialismo forcaiolo, è sempre più urgente. Il sovraffollamento delle carceri trainato dalla legge sulla droga Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2019 Il Decimo Libro Bianco passa in rassegna trent’anni di leggi e politiche in materia di stupefacenti e raccoglie i dati relativi al 2018. Il Capo dello Stato: “Necessario il rafforzamento degli strumenti di prevenzione e di controllo da parte delle istituzioni”. “Senza gli arresti dovuti al proibizionismo il sistema penitenziario italiano rientrerebbe nella legalità costituzionale”. Ad affermarlo sono i curatori del decimo “Libro Bianco” sulle droghe, presentato oggi alla Camera dei Deputati in occasione della Giornata della lotta alla droga e al narcotraffico: “La tendenza alla crescita della popolazione carceraria - ha detto Stefano Anastasia, uno dei curatori del testo - è sempre trainato dalla legge sulla droga. È di fatto lo strumento con cui si riempiono e si svuotano le carceri. E in questo periodo le carceri piacciono piene”. Il libro - promosso da Associazione Luca Coscioni, La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca - passa in rassegna trent’anni di leggi e politiche in materia di droga e raccoglie i dati relativi al 2018. In Italia la media degli arresti per reati connessi alle droghe è del 30%, rispetto a una media mondiale intorno al 20%. Numeri dovuti, secondo il Libro Bianco, al Testo unico sulle droghe, la cosiddetta legge Jervolino-Vassalli, che viene messa sotto accusa come la principale causa di ingresso nelle carceri: 14.118 dei 47.258 ingressi in carcere nel 2018 sono stati causati da imputazioni o condanne per detenzione di sostanze illecite a fini di spaccio. Altri 5.488 per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, solo 940 esclusivamente per traffico di droga. Inoltre, si legge nel libro, solo l’1.14% degli incidenti stradali avviene per guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. E anche i dati della sperimentazione dello screening rapido su strada indicano che a poco più dell’1% dei conducenti risulta positivo ai test. Di questi una media superiore al 20% viene “scagionato” dalle analisi di laboratorio. Sul tema è intervenuto anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha affermato che è necessario accrescere l’azione e la cooperazione a livello nazionale e internazionale per combattere l’abuso e il traffico illecito di droga: “Il grave ed allarmante fenomeno della tossicodipendenza, che ha assunto nel tempo nuove e più insidiose forme di penetrazione, di accesso e di assuefazione e che colpisce tanti ragazzi in situazioni di difficoltà materiale, psicologica e ambientale, esige il rafforzamento degli strumenti di prevenzione e di controllo da parte delle istituzioni”, ha affermato. “All’impegno dello Stato non può non affiancarsi - ha aggiunto Mattarella - l’opera insostituibile delle famiglie, della scuola e di quel vasto e articolato settore del volontariato che ha saputo spesso offrire speranza e fiducia attraverso un’efficace azione di prevenzione, di educazione, di recupero e di reinserimento sociale”. Sul tema della tossicodipendenza nel Libro Bianco viene riportato che quasi il 28% dei detenuti sono ritenuti tossicodipendenti: una percentuale che supera il picco raggiunto dall’entrata in vigore della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), numeri successivamente riassorbiti grazie a interventi legislativi correttivi. Secondo Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone, “i Paesi dove più si persegue la criminalizzazione delle tossicodipendenze sono anche quelli dove inevitabilmente si hanno i costi più alti in termini di salute. La repressione attorno alla droga costa circa 100 miliardi l’anno e ad avvantaggiarsene sono solo i grandi cartelli criminali”. Il dito e la luna la scritta sul 41bis Michele Passione e Gabriele Terranova La Repubblica, 27 giugno 2019 Sui muri si scrive, da sempre; c’è chi lo fa per arte, chi per dichiarare il suo amore, altri lo fanno per manifestare opinioni politiche, o anche stati d’animo. Una cittadina fiorentina si indigna per la scritta 41bis è tortura, e invitando il Sindaco alla rimozione (e non solo!) ritiene che questo sia “lo slogan privilegiato dalla Mafia”. Noi non siamo mafiosi, e pensiamo che la Mafia sia una cosa schifosa. Solo che il 41bis da situazione di emergenza (così si chiama) è diventata routine, e si applica anche ai presunti innocenti. Solo che prevede 22 ore in cella ogni giorno, anche per decenni, pur consentendo l’uscita con altre tre persone all’aria (dunque, perché solo due ore? Per coerenza bisognerebbe tenerli chiusi sempre). Solo che prevede che non ci si possa scambiare oggetti neanche in quelle due ore (ma se si vuole comunicare qualcosa ce lo si dice a voce, mica si scrive un messaggio di morte su una fetta di pandoro). Solo che il 13 giugno la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 (divieto di tortura) per i condannati all’ergastolo ostativo, la pena che quasi sempre scontano i detenuti al 41bis. Se uno scrivesse carcere è tortura (e si scrive) nessuno storcerebbe il naso, ma se lo si fa sul regime più duro ci si indigna. Le regole e i limiti (ragionevoli) debbono valere per tutti, perché questo prevede lo stato di Diritto. Altrimenti, basterebbe un bel muro; si fa prima e si risparmia. Vuoi mettere? Il consenso nell’epoca del “populismo penale” di Nadia Urbinati Corriere della Sera, 27 giugno 2019 Si tratta di una tecnica del potere che si mostra professionalmente capace contro i “nemici”. Negli ultimi anni, due questioni si sono dimostrate trasversali a tutte le forze politiche, anche se più efficacemente affrontate e implementate da partiti e governi di destra: quella relativa all’immigrazione; e quella relativa alla sicurezza largamente intesa: dalla normativa stradale (con l’inasprimento delle pene già deciso dal governo di centro-sinistra) a quella sull’autodifesa (con la larga tolleranza decisa da questo governo) a quella sulle manifestazioni di piazza (duramente trattata dal Ministro degli interni). Su entrambe le questioni - contro i nemici esterni e contro quelli interni - si è registrato un consenso popolare sorprendente. Si tratta di un consenso che viene alimentato usando sapientemente l’emozione della paura e che si concretizza nella richiesta (e nella proposta) di soluzioni immediate e tecnicamente efficaci, anche a costo di stiracchiare i limiti al potere esecutivo. Chi meglio tiene in mano una risposta dura all’immigrazione e alla microcriminalità conquista il favore dell’audience; che in pratica significa un mandato largo (sempre più largo a giudicare dal Decreto sicurezza bis) agli organi governativi più direttamente responsabili della repressione. Ne risulta un esito paradossale: la depoliticizzazione della sfera politica o di larga parte di essa (la sicurezza, si dice, non è né di destra né di sinistra) e un’iper-politicizzazione dell’argomento della difesa della società e degli strumenti per attuarla. Nella letteratura politica questo fenomeno è chiamato Penal populism, populismo che si serve del codice penale. L’uso di questo neologismo lo si deve a Anthony Bottoms che nel 1995 ha collegato l’aggettivo “populista” al sostantivo “punitività” (punitiveness) per significare la propensione dei governi populisti a trasformare questioni di disagio sociale in questioni di law and order. La strategia della risposta operativa (efficacia nella repressione) mette a tacere la politica della prevenzione, perseguita dalla democrazia dei partiti nell’era dello stato sociale. Il declino del welfare ha allargato le maglie del linguaggio della colpa e della pena, ha esteso l’uso delle istituzioni penitenziarie e del controllo sociale coattivo, come a compensare la fragilità dello stato sociale. In alcune analisi comparate nei paesi di area angloamericana sulla relazione tra politiche della sicurezza e opinione pubblica, la cornice concettuale del populismo penale è stata definita come uso propagandistico dei dicasteri della sicurezza con lo scopo di estendere il consenso all’esecutivo. Luigi Ferrajoli ha messo in evidenza come le politiche che sfruttano la paura generica dettata dall’insicurezza mettendo mano al codice penale tendano ad accentuare le misure repressive fino a mettere a rischio il rispetto delle libertà civili. Stefano Anastasia e Manuel Anselmi hanno recentemente sostenuto che il populismo penale non è una specifica ideologia ma una tecnica del potere che usa il codice penale per definire i “nemici” e acquista consenso nel mostrarsi professionalmente capace contro di essi. Quest’attitudine si alimenta della logica della scorciatoia. Non è in contraddizione diretta con la Costituzione, ma opera una torsione interpretativa che si fa forte dell’autorità dell’audience, mettendo in secondo piamo quella delle norme e dei principi. L’esito dell’uso populista del codice penale è ben noto agli studiosi dei populismi latinoamericani, così sintetizzato da Kurt Weyland: “tutto per i mei amici; per i miei nemici, la legge”. Si tratta di una logica di radicale parzialità a sostegno di una politica strabica: inasprimento delle pene per chi manifesta dissenso, strizzata d’occhio e sostegno esplicito per gli alleati. Il populismo al potere resta nel tracciato della democrazia costituzionale ma a costo di stiracchiarla come un elastico, fino a portarla ai confini estremi oltre i quali c’è qualcosa d’altro, qualcosa che conosciamo bene e che si chiama tirannia. È evidente che non possiamo parlare di “crisi della democrazia” ogni qualvolta le elezioni ci consegnano maggioranze spiacevoli: non c’è nulla di non democratico nell’avere partiti di destra al potere. Ma quel che cambia con questo tirare dell’elastico costituzionale è il tenore della vita politica, dentro e fuori lo stato; è la dimensione simbolica e delle credenze che cambia fino a giustificare restrizioni della libertà di espressione che sarebbero impensabili in altri tempi e circostanze, o che comunque sarebbero oggetto di un’intensa opposizione. Non invece nel tempo del populismo penale, che gode di un consenso quasi egemone, ben al di là della maggioranza numerica. Taser, finita la sperimentazione ecco il bando, non tutti lo useranno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 giugno 2019 Nei prossimi mesi è prevista la gara d’appalto per la produzione delle pistole Taser, anche se il Viminale ha deciso di non chiamarle con il nome commerciale, ma “pistole a impulsi elettrici”. Dovrebbero essere in ballo circa un migliaio di queste pistole, anche se la cifra ufficiale ancora deve essere definito nel capitolato di gara. Tutto questo, mentre nel frattempo, le principali città del nostro Paese hanno deciso di mettere al bando il loro utilizzo. L’ultima in ordine cronologico è il comune di Milano. A fine mese scorso, il capoluogo lombardo ha votato l’ordine del giorno promosso da Antigone - associazione non governativa che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale - contro la dotazione della pistola elettrica al corpo di Polizia locale. Una possibilità introdotta dal decreto Salvini su sicurezza e immigrazione per le città con oltre 100mila abitanti. Milano diventa così la terza città italiana, dopo Palermo e Torino, ad approvare un ordine del giorno in tal senso. Nella città lombarda questa proposta è stata raccolta dalla consigliera di “Milano Progressista” Anita Pirovano e condivisa dalla maggioranza e dal sindaco Beppe Sala. Nel dettaglio, il consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno in cui si chiedeva alla giunta di “non dotare il corpo di polizia locale della città di Milano di pistole con impulsi elettrici (taser)”. Il motivo? Secondo la forza politica di maggioranza, i taser sarebbero “particolarmente pericolosi, specie nei confronti dei soggetti più vulnerabili, e lesivi dei diritti fondamentali della persona”. Sempre nel documento si legge che l’utilizzo della pistola elettrica “distrarrebbe la polizia locale dai compiti che le sono propri e senza l’assolvimento dei quali la vivibilità delle città risulterebbe fortemente compromessa”. Nel testo approvato a larga maggioranza viene stigmatizzato l’utilizzo del Taser, adottato dalla seconda parte del 2018 da carabinieri e polizia in via sperimentale. Secondo un’indagine di Amnesty International, riportata nel testo della mozione, “più di 400 persone sono morte negli Usa dopo essere state colpite da pistole taser”. Alla fine i voti a favore sono stati 22 sui 27 presenti al momento della votazione. Contrari Lega e Forza Italia, mentre il Movimento 5 stelle si è astenuto. La settimana scorsa, invece, è giunto a Roma Rick Smith, ceo e fondatore di Axon, l’azienda che produce il Taser, per rilanciare lo strumento. Ha presentato nella capitale il suo libro “The end of killing”, sottotitolo: “Come le nuove tecnologie possono risolvere uno dei più vecchi problemi dell’umanità”. Dice in sostanza che il Taser negli anni a venire potrebbe addirittura sostituire le armi tradizionali delle forze di polizia e riducendo quindi il rischio di morte. Una visione futurista molto ottimista, che però va a cozzare con i pareri degli organismi sovranazionali che si occupano dei diritti umani. Ad esempio Amnesty International ha voluto avvertire che il rischio zero non esiste. L’organizzazione non governativa, ha sottolineato che pur riconoscendo che il Taser sia un’arma utile, più sicura di molte altre armi o tecniche utilizzate per bloccare individui pericolosi e aggressivi, in non pochi casi nei paesi in cui è già in uso risulta impiegata nei confronti di persone vulnerabili o che non rappresentano una minaccia seria e immediata per la vita o per la sicurezza degli altri. Infatti negli Usa e in Canada, dove il Taser è utilizzato da quasi 20 anni, il numero delle morti direttamente o indirettamente correlate a quest’arma ha superato il migliaio. Nel 90 per cento dei casi, le vittime erano disarmate. Gli studi medici a disposizione sono, d’altronde, concordi nel ritenere che l’uso delle pistole Taser abbia avuto conseguenze mortali su soggetti con disturbi cardiaci o le cui funzioni, nel momento in cui erano stati colpiti, erano compromesse da alcool o droga o, ancora, che erano sotto sforzo, ad esempio al termine di una colluttazione o di una corsa. Finite le sperimentazioni, iniziano le prospettive. Il Taser è stato sperimentato in Italia dal 5 settembre 2018 fino al 5 giugno scorso. È stato dato in dotazione alle forze di polizia di dodici città (Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi, Genova) e utilizzato 60 volte: 46 dalla Polizia di Stato, 11 dall’Arma dei Carabinieri, tre dalla Guardia di Finanza. In 47 casi gli interventi si sono risolti con la semplice estrazione dell’arma o con l’attivazione del “warning arc”, la scarica di avvertimento, mentre nei restanti 13 il soggetto è stato colpito con i dardi. Al termine di questa fase sperimentale al Viminale è stato necessario intervenire con norme amministrative per legittimare poliziotti, carabinieri e finanzieri a proseguire con il Taser già ricevuto in via sperimentale, ora in dotazione. Anche il Garante nazionale delle persone private della libertà, ricordiamo, ha espresso una sua raccomandazione sulla sperimentazione. Il Garante ha riconosciuto una cautela e scrupolosità nell’introduzione di questa arma, attraverso un’analisi tecnico giuridica del possibile impiego, l’adozione di linee guida e manuali tecnico- operativi, un periodo di formazione e successiva sperimentazione e, infine, il monitoraggio del suo utilizzo. Tutto ciò, accanto al numero relativamente basso di Taser forniti, ha finora contribuito “a favorire una sua introduzione non traumatica”. Ma nello stesso tempo, il Garante ha espresso preoccupazione per la possibile estensione dell’arma anche alle polizie locali, perché “si rischia di aprire la strada a un utilizzo molto esteso e capillare sul territorio che richiederà da parte delle istituzioni locali e nazionali, compreso il Garante, un attento monitoraggio che prevenga qualsiasi tipo di abuso”. Dal punto di vista della utilità dell’introduzione del Taser, solo se il suo impiego farà diminuire il ricorso alle armi da fuoco e al contempo garantirà la sicurezza di tutti gli attori coinvolti, si potrà dire che la sperimentazione avrà avuto esito positivo. Come detto, la sperimentazione si è conclusa a giugno, e oltre alle felicitazioni espresse dal ministro Salvini - il quale farà di tutto per avviare al più presto il bando di gara -, anche il direttore del dipartimento Pubblica sicurezza, prefetto Franco Gabrielli, lo ha apprezzato spiegando che ha ritenuto buoni i risultati ottenuti “anche grazie all’intelligente utilizzo fatto dalla polizia”. L’utilizzo in pianta stabile del Taser prevede la modifica del decreto del presidente della Repubblica integrando il Taser nelle armi a disposizione delle forze dell’ordine e l’acquisizione di un numero significativo di strumenti. Per questo servirà una gara europea. La lingua sporca dei giudici di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 27 giugno 2019 Il linguaggio che usiamo parlando in confidenza e intimità è un trojan. È una spia autentica, degnissima di fede. Via le maschere artificiali della decenza e della convenienza, mette in mostra una sostanza. Se vogliamo sapere di che cosa è fatta la stanza e chi la abita, consideriamo il linguaggio. Esso è materia che “pensa e crea per noi” e, dunque, più che essere strumento nelle nostre mani, noi siamo strumenti nelle sue. O meglio: c’è coincidenza; siamo come parliamo e parliamo come siamo. Noi parliamo una lingua, ma la lingua parla per noi, con noi, di noi e talora contro di noi. Esiste la “sociolinguistica” che studia il rapporto tra le forme della comunicazione verbale e le strutture sociali: la lingua dei mafiosi non è la stessa dei soci dell’Accademia dei Lincei, la lingua delle diverse massonerie è fatta per intendersi tra “fratelli”. La lingua del III Reich (LTI - Lingua Tertii Imperii, dal titolo d’un libro dal fascino cupo del filologo Victor Klemperer), non è la stessa del fascismo e, a maggior ragione, della democrazia. S’è parlato di linguaggio dei tempi democristiani, craxiani, berlusconiani, renziani. Sarebbe utile studiare la lingua salviniana. Entriamo ora in una “stanza”, e andiamo nell’angolo riservato d’un albergo ancora aperto a ora tarda, quando di solito c’è silenzio. All’estraneo, il significato dei discorsi non è chiaro. L’atmosfera è iniziatica, si capisce che ci sono manovre in corso, ma sfuggono i legami, gli obbiettivi, il senso: per comprendere occorrerebbe decrittare, ricostruire, inferire e dedurre, cose da cultori della materia. Friedrich Schiller, di cui ho adottato, adattandolo, il bel motto citato all’inizio, potrebbe però trovare conferme nel linguaggio che quei pensatori e creatori usano tra loro, intendendosi perfettamente. Segue un piccolo repertorio. Quello, bisogna dirgli che ha rotto il cazzo; me lo metto a pecora. Il cazzo sembra avere un ruolo importante nella faccenda, perché viene evocato con frequenza: uno se l’è rotto e un altro l’ha rotto a un terzo. Uno ha inculato un altro, ma c’è uno che è stato inculato a sua volta. Ci si prende, dunque, vorticosamente per il culo. Uno a un altro, il culo, l’ha sempre protetto, però ora basta, rompiamogli il culo! Ma anche le palle e i coglioni hanno la loro importanza, perché ce li si rompe e ce li si spacca gli uni con gli altri, vicendevolmente. E poi ci sono quelli che, i coglioni, li hanno e quelli che no, e si capisce che si meritano trattamenti diversi. Non mancano accenni escrementizi, perché uno, al Quirinale, va su, mentre un altro si ferma al cesso, mentre c’è anche uno che, a quell’altro, gli caga il cazzo. In sintesi: è tutto un vaffanculo. Non che ci si debba necessariamente scandalizzare pudicamente d’una volgarità che, peraltro, fa pensare ad adolescenti non ancora ben formati, ossessionati dal sesso e dall’ano: il linguaggio forbito e lo stile diplomatico, infatti, possono essere altrettanto funzionali, o forse più, a ogni genere di scelleratezze confezionate in carta patinata. Del resto, si può fare del bene anche bestemmiando, e il buon Dio, che sulla bilancia della sua giustizia pesa le due cose, i fatti e le parole, forse non se ne dorrebbe particolarmente. Senonché, quel linguaggio s’accompagna alla totale assenza di parole e idee che abbiano a che fare con le responsabilità dei turpiloquenti: magistrati in servizio ed ex-presidenti dell’associazione dei magistrati, parlamentari ex-ministri, parlamentari ex-magistrati. Quello è un linguaggio della totale vuotezza etica, compensata da un pieno di trame, trattative, ricatti, diffamazioni e violenze, tipici di quei “giri di potere” parassitari che si aggirano nella zona grigia delle istituzioni. Esattamente come il linguaggio in cui si esprimeva ciò che un tempo si definiva “il sotto-Stato”. È il brodo di coltura dove alligna la pubblica corruzione, riemerso di recente e prepotentemente nel “mondo di mezzo” di Mafia-capitale, così definito e perfino teorizzato dai suoi stessi protagonisti. Ci sono, in questo squallore, aspetti penali? Si vedrà. Tuttavia, non ci dovrebbe essere (stato) indugio alcuno a fare pulizia, e per ragioni che vengono molto prima e che sono molto più pesanti degli aspetti strettamente giuridici. Il diritto penale non è la prima ratio, ma l’extrema ratio, alla quale si ricorre alla fine, quando si sia dimostrata l’inefficacia d’altre misure previe. Per questo, che non ci siano condanne giudiziarie non significa nulla. Chi ricorre a questo argomento cerca di usare il diritto penale come paradossale magna charta dei corrotti. Il presidente della Repubblica ha detto parole non consuete e non interpretabili in modo diverso dalla condanna non in termini penali, ma in termini di “disciplina e onore”, come dice l’art. 54 della Costituzione. Anche qui, si vedrà se la ramificazione e la potenza degli interessi in campo, che intrecciano tra loro uomini di partito e uomini della giustizia, riusciranno, guadagnando tempo, a fare finta di nulla ancora una volta. La posta in gioco è molto alta, più alta di quella che si usa definire con espressioni alquanto generiche, come credibilità e fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. C’è di più e di più specifico: un crimine contro la gioventù, la gioventù nella quale riponiamo speranze. In molti conosciamo tanti ragazzi e ragazze che si dedicano con passione e determinazione allo studio del diritto, attratti dalla magistratura, con la vocazione di servire il loro e nostro Paese, e con il desiderio di contribuire al miglioramento della società per mezzo della legalità. Che cosa possono pensare di fronte a questi esempi repulsivi? Se fosse possibile, dovrebbero costituirsi “parti lese” in un ideale processo di liberazione, insieme ai tanti magistrati alieni da quelle pratiche e sfiduciati nei confronti della professione che essi scelsero, un tempo, con quella medesima vocazione e con quel medesimo desiderio. Di Matteo, il baluardo dei pm per arginare le riforme “punitive” di Errico Novi Il Dubbio, 27 giugno 2019 Due anni fa Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita pubblicarono un libro-manifesto: “Giustizialisti. Così la politica lega le mani alla magistratura”. L’epitome di una straordinaria e vincente incursione nella coscienza profonda dell’ordine giudiziario da parte della corrente fondata dai due pm, “Autonomia e indipendenza”. Il gruppo era nato da un anno e mezzo, aveva già scombussolato gli equilibri elettorali dell’Anm e aveva l’ambizione di sedurre altri colleghi, soprattutto giovani, allarmati dalle bellicose riforme di Renzi (vedi riduzione delle ferie) e ansiosi di un riscatto per via antipolitica. Con la crociata indotta, contro il correntismo, dal caso Palamara, il gruppo di Davigo e Ardita pare poter raccogliere nuovi frutti dalla propria linea ultra-legalitaria. Intanto la componente di “AeI” ha scalzato “Magistratura indipendente” dalla giunta dell’Anm e vi ha fatto trionfale rientro dopo oltre un anno di “aventino”. Ma proprio tale ultima circostanza aiuta a scorgere un rischio, per i “davighiani”. Il loro gruppo è assolutamente estraneo ai traffici svelati dal trojan di Palamara (anzi, lo stesso pm indagato a Perugia ha definito Ardita un “talebano”, a proposito della sua integrità morale) ma è pur sempre una corrente. Ecco perché può valorizzare al meglio quanto emerso dal caso Csm solo attraverso candidati “indipendenti”, innanzitutto a Palazzo dei Marescialli. E infatti ieri Nino Di Matteo ha confermato la notizia anticipata due giorni fa dal Dubbio: si candida alle suppletive del Csm (indette per sostituire i due pm dimissionari Luigi Spina e Antonio Lepre) sostenuto proprio da “Autonomia e indipendenza”, ma come “non iscritto”, ossia indipendente. Lo ha dichiarato al Fatto nello stesso giorno in cui Repubblica ha confermato che la sua candidatura è stata invocata a furor di popolo dalla “base” di “AeI”. Con il probabile ingresso di Nino Di Matteo a Palazzo dei Marescialli si può riaprire anche la partita fra ordine giudiziario e politica, ora tutta sbilanciata in favore della seconda. Di Matteo rappresenterà l’orgoglio di una magistratura silenziosa e stufa di lasciarsi rappresentare da chi, secondo la verità del sacro trojan, l’avrebbe infangata. Sarà il riscatto antipolitico delle toghe. Se saprà gestire una simile arma, il gruppo di Davigo otterrà nel proprio ambito lo stesso straordinario esito conseguito dai cosiddetti populisti nella politica tout court. Con gli indipendenti come Di Matteo alla conquista del Csm sarà più difficile, per la politica, portare alle estreme conseguenze una stagione di riforme ritenute punitive dai magistrati. Sarebbe più impervio il percorso di una riforma radicale dello stesso Csm, per esempio, perché le correnti avrebbero nel frattempo dimostrato che figure come Di Matteo possono rimediare alle degenerazioni. Ancora, sarebbe più difficile sciogliere l’attuale Consiglio superiore. Il presidente della Repubblica ha escluso l’opzione anche perché ora un nuovo plenum sarebbe scelto con le regole vecchie. Il che autorizzerebbe a prevedere uno scioglimento anticipato una volta varata la riforma per l’elezione dei togati. Ma con il profilo da moralizzatore riconosciuto a Di Matteo, tenere le toghe nell’angolo dei loro presunti scandali sarà assai meno agevole. Non sempre Di Matteo ha avuto un buon rapporto col Csm. Che nel 2015 gli preferì altri colleghi per la Procura nazionale antimafia. L’anno dopo gli proposero la nomina straordinaria alla Dna come fuori organico: lui giustamente respinse l’omaggio e attese di conquistarsi l’ingresso a via Giulia con la domanda presentata, e finalmente accolta dal Csm, nel 2017. Il suo essere “altro” dal solito Consiglio superiore deriva insomma anche da un filo di legittimo rancore. Resta da decifrare un rebus. Di Matteo può contribuire a rinsaldare l’autonomia delle toghe. Disinnescare almeno in parte il pericolo di riforme radicali. Riuscirebbe a preservare ancor meglio l’autonomia della giurisdizione se proponesse di individuare nell’avvocatura il solo equilibratore della magistratura, come suggerisce il presidente del Cnf Andrea Mascherin. Solo che la corrente di Davigo è la più refrattaria al dialogo con gli avvocati. Se Di Matteo riuscisse a ribaltare lo schema e a perseguire l’ambizione di restituire orgoglio e indipendenza ai colleghi anche attraverso una difesa della giurisdizione in sinergia con la classe forense, la sua caratura di “indipendente” troverebbe la più autentica delle conferme. Cedu, sì ai divieti di accesso alle acque territoriali se lo richiedano ragioni di ordine e sicurezza di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2019 La Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo con una recente decisione ritiene ammissibile per i singoli Stati la facoltà di vietare l’ accesso alle proprie acque territoriali ai natanti per ragioni di ordine pubblico e sicurezza. Il caso di specie trae la propria origine dal divieto impartito da parte del titolare del dicastero dell’ Interno ad un natante, di fare ingresso nelle acque territoriali italiane per ragioni di ordine e sicurezza pubbliche. Circa la facoltà d impartire tali divieti il recente decreto legge n. 53/ 2019 meglio conosciuto come decreto sicurezza bis, sulla base della necessità di tutelare l’ integrità territoriale di uno Stato da parte di ingressi di clandestini pericolosi per l’ ordine e la sicurezza pubblica, prevede un espressa disposizione L’ articolo 1 del recente decreto legge prevede un potere per il ministero dell’ Interno in qualità di organo preposto alla tutela dell’ ordine pubblico, di emettere un provvedimento idoneo ad evitare l’ ingresso o la sosta ai natanti, nel caso in cui essi costituiscano un pericolo per l’ incolumità pubblica o la sicurezza. Il caso della Sea Watch 3 - Il ministro Salvini ha emesso, ravvisando un pericolo per l’ ordine pubblico, un provvedimento di divieto ad un imbarcazione che staccatasi dalle coste africane si accingeva a fare ingresso nelle acque territoriali italiane. Il natante, a bordo del quale si trovano numerosi soggetti di origine non comunitaria, a seguito dell’emissione del divieto, non può quindi terminare il proprio tragitto rimanendo in mare. Il capitano ed alcuni migranti sono riscorsi alla Corte europea dei diritti dell’ uomo al fine di ottenere un provvedimento che consentisse loro di fare ingresso nelle acque territoriali italiane, tanto da potere presentare agli organi competenti una richiesta di protezione internazionale, che se accolta ne avrebbe permesso la permanenza lecita sul territorio italiano. Peraltro, osservavano i ricorrenti come la permanenza dell’ imbarcazione in mare, comportava, in ogni caso, una seria minaccia per chi vi si trovava a bordo ponendone a serio rischio l’ incolumità e la vita stessa. Inoltre il provvedimento di divieto era, ad avviso dei ricorrenti, stato emesso in violazione alla normativa internazionale, la quale in casi come questo salvaguardia i diritti dei singoli individui. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’ uomo (alla quale lo Stato italiano ha comunque aderito), osservavano sul punto i ricorrenti prevede due specifiche disposizioni applicabili ai casi come questo. Si tratta degli articoli 2 e 3 i quali prevedono la tutela della vita in ogni caso, ed il divieto di trattamenti disumani e degradanti. Il provvedimento emesso dal ministro dell’ Interno pertanto presenterebbe un palese contrasto con le predette disposizioni, concludono i ricorrenti, tanto da dovere essere dichiarato illegittimo da parte dei giudici della Corte Europea dei diritti dell’uomo e di conseguenza fatto decadere con la sua perdita d’efficacia. La posizione della Cedu - Una tesi non accettata da i giudici europei, i quali con la sentenza emessa ritengono legittimo il provvedimento opposto. Secondo i magistrati europei infatti rientra nell’ ambito dei poteri dei singoli Stati, la previsione qualora lo richiedono ragioni di ordine e sicurezza di una facoltà di vietare ai natanti di fare ingresso nelle acque territoriali. Tale facoltà potrà venire esercitata da parte del Ministro competente per materia qualora se ravvisino i presupposti previsti dalla normativa. Inoltre Strasburgo ricorda che il 21 giugno i ricorrenti avevano adito la Corte sulla base dell’articolo 39 del regolamento che consente alla Corte di indicare misure provvisorie a qualsiasi Stato sia parte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di misure di emergenza che, secondo la prassi costante della Corte, si applicano solo in caso di rischio imminente di danno irreparabile. La Corte allo stesso tempo “chiede alle autorità italiane di continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone che si trovano a bordo della Sea Watch 3 in situazione di vulnerabilità a causa della loro età e delle loro condizioni di salute”. Napoli: se il carcere non è una prigione, il corso di “Educazione ai sentimenti morali” di Giuseppe Ferraro La Repubblica, 27 giugno 2019 “Affettivamente le cose stanno così”. Qui si usa così e sempre c’è qualcuno pronto a correggere: “Si dice effettivamente”. Non è però un errore della parlata, le cose stanno affettivamente così come non sono effettivamente. Lo scarto è evidente. Questa città si regge sull’affettività che lasciata sola diventa colpevole. Lo scarto è tra il mondo orale e quello reale. Su questo abbiamo tenuto quest’anno il corso di “Educazione ai sentimenti morali” in carcere, a Poggioreale, nella sezione “Alta sicurezza”, con i “Giovani adulti”, quelli di appena qualche anno in più della nuova generazione della “criminalità non organizzata”. È difficile essere veri in carcere. Impossibile. Il carcere è l’accademia del sospetto. Sincero non è nessuno. Il coraggio della fragilità è sotto vuoto, nell’intimità negata. In carcere si è guardati, ma non ci si riguarda. In carcere non ci sono specchi. Non ti rifletti. Ti devi far vedere. Importi. Stare chiuso là dentro non serve a niente. Il carcere produce carcerati. La pena deve valere la pena, se non vale la pena, diventa una punizione inutile. La pena deve essere un diritto, quella di riguardarsi. Eppure sentimenti affettivi ci sono, danno valori. Quando si parla di genitori, di figli, di amore le parole sono le stesse di chiunque ha figli, ama e ripensa ai genitori. L’effettivamente però non corrisponde a tutto questo. È come avere un’interiorità estranea, priva del sogno. Affettivamente le cose stanno così. Il desiderio scompare appena esci di casa e prendi le scorciatoie della vita tra i vicoli di strade e di estranei. Quest’anno a Poggioreale è stato un corso speciale. Protagonisti loro, quelli che “Gomorra”, la sanno da dentro come non è sullo schermo. E dietro quello schermo bisogna andare per uscirne. Quel giorno quando sono arrivato mi hanno chiesto subito notizie su Noemi e se fossi andato anch’io a trovarla in ospedale. Ho chiesto a mia volta perché le “stese” e perché si spara fino a colpire una bambina e uccidere un uomo davanti al nipotino. La risposta è stata: “Tracchiole, cotena e ossa”. Sul momento non ho capito. Ripeti: “Si spartiscono il resto di niente”, non ci sta più quella “ricchezza”, nemmeno ci sono più quelli che comandano e danno mandato e organizzazione. C’è rimasto “tracchiole, cotena e ossa”. A rifletterci sono gli ingredienti dl ragù. Ma è senza sapore, rancido. Ci si spartisce il poco e il niente. Il mercato della droga si è frammentato e ci sono ormai tanti piccoli clan, e poi ci sono i ragazzi che vogliono i capi firmati e le ragazze pronte da portare. Le “stese” sono le prove di scambio delle proprie paure. Servono anche come distrazione di fatti. Si può andare avanti con l’analisi di esperti in materia di camorra e arrivare al ritornello della legalità. Il fatto è che in questo paese la legalità non tutti se la possono permettere e, diciamolo pure, tra la legalità e la moralità si apre lo stesso scarto che è tra affettività ed effettività. Assai spesso chi è legale è immorale e chi è morale è illegale. Bisogna tenerle insieme legalità e moralità così come l’affettivamente e l’effettivamente. Diversamente c’è solo la disperazione. Questi mesi a Poggioreale con gli AS1 (detenuti ad alta sicurezza) non saranno stati indifferenti. L’ultimo incontro è stato speciale. Qui dove la porta dell’inferno è sempre aperta, si va in affanno a prodigarsi in iniziative eccezionali. Conosco tutte le carceri del paese, qui a Poggioreale si sentono le urla, si sente la folla, la disperazione, il dolore, l’odore. Anche nelle giornate di pioggia in inverno il cielo si apre a tratti per un raggio di sole. Così tra corridoi stretti e cupi di cancelli in cancelli si arriva su uno spazio murato e aperto. Non è un ossimoro. Ci sono i muri e il cielo. Ci sono i tavoli come nei parchi, c’è l’altalena. È l’Aria Verde. L’ultimo incontro l’abbiamo tenuto qui. Con i familiari, con i bambini, con le donne, mogli, compagne, figlie, sorelle. Vorrei tanto tenere un corso così insieme con le famiglie, perché in carcere ci sono anche loro. Ed ecco questo giorno straordinario è arrivato grazie alla Direzione. Siamo stati nell’Area Verde, con i tavoli, le altalene. Siamo stati affettivamente. In quell’area un insieme di corpi, grappoli umani, avvinghiati in una sola figura disegnata da intrecci di braccia. A vederli così, si capisce ancora meglio che nessuno è libero da solo, la libertà è fatta di legami. La libertà per ognuno si misura dalla qualità dei propri legami, ci sono quelli che soffocano e quelli che liberano il respiro. Anche la libertà di un paese si misura dalla qualità dei propri legami sociali. La legalità è fatta di legami, se si presenta solo in divisa, divide, lasciando aperto lo scarto tra legale e morale, tra effettivo e affettivo. In carcere, qui a Poggioreale, le iniziative promosse dalla direzione con Maria Luisa Palma e dall’Area educativa con Ercole Formisano sono davvero tante. Restano nascoste, recluse anch’esse. Si naviga su gommoni di sentimenti morali in un mare esagitato, senza approdi visibili da fuori. Oggi è stato un giorno speciale. Non possiamo filmarlo e fotografarlo, lo teniamo dentro. Non sarà stato indifferente, per una volta il carcere non è stato una prigione e la pena è stata il diritto a riguardarsi e riprendere effettivamente la propria affettività. Palermo: sciopero della fame al carcere Pagliarelli, rientra la protesta dei detenuti di Riccardo Campolo palermotoday.it, 27 giugno 2019 La rivolta pacifica messa in atto nel reparto di alta sicurezza ha portato alcuni piccoli frutti. “Ora potranno scaldare l’acqua con i fornelli che hanno in cella per poi portarla nelle docce comuni e utilizzarla. Nulla da fare sul fronte farmaci”. Rientrata la protesta al carcere Pagliarelli. Dopo cinque giorni trascorsi senza mangiare, rifiutando i colloqui con i familiari e altro ancora i detenuti hanno vinto quella che definiscono una “battaglia per la dignità umana”. Fra le ragioni della rivolta pacifica messa in atto dai 332 detenuti del reparto di alta sicurezza la turnazione delle docce (“una a settimana”), la somministrazione dei farmaci (“Tachipirina per tutto, al di là della patologia”) e altri piccoli problemi che in carcere diventano giganti. Circostanze alle quali la direttrice dell’istituto penitenziario, Francesca Vazzana, ha trovato una spiegazione: “La struttura è stata progettata per 600-700 persone e attualmente ne ospita 1.380. Purtroppo i fondi assegnati dal ministero sono risibili rispetto alle reali necessità”. Una volta esplosa la protesta, l’ultima di una lunga serie che ha riguardato i vari istituti penitenziari dell’isola, l’associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale Antigone ha programmato una visita che si è svolta ieri insieme al responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi nonché vicepresidente della Camera penale di Palermo, Fabio Bognanni, e ai rappresentanti dell’Osservatorio carcere della camera penale di Palermo Rosalia Zarcone, Anna Bonfiglio e Rita Maccagnano. “L’incontro con i rappresentanti dei detenuti - si legge in una nota - è servito per chiarire le ragioni e disagi che li hanno portati a forme esasperate di protesta, come quella di non presentarsi ai colloqui con i familiari”. In prima battuta i carcerati hanno elencato alcune richieste parzialmente già accolte, come il cambio di materassi e l’aumento del limite di peso per i pacchi destinati ai carcerati che arrivano da un’altra regione. Poi hanno passato in rassegna altri problemi per i quali è stato trovato un accordo con la direzione e con gli agenti di polizia penitenziaria. Tra questi uno riguarda l’igiene: “Hanno concordato la possibilità di riscaldare l’acqua con i propri fornelli per potersi lavare nelle docce comuni”, prosegue la nota. Di fatto gli impianti idrici, come ammesso dalla stessa direttrice in virtù dei numeri, non consentirebbero a tutta la popolazione carceraria di fare tre volte a settimana la doccia. Uno dei nodi rimasti irrisolti è quello relativo alle medicine. Poco o nulla, si legge ancora nella nota, è stato ottenuto per la consegna dei farmaci. “Per ottenerli passano circa 15-20 giorni, ma non per tutte le fasce e tipologie. L’altro grave problema per il quale l’istituto è abbandonato a se stesso - spiega Apprendi a PalermoToday - è legato alla salute mentale: ci sono oltre 300 detenuti che prendono farmaci specifici e invece avrebbero bisogno di maggiori attenzioni”. L’elenco dei problemi è ancora lungo: “Attualmente ci sono 80 donne detenute in un reparto che può comunque considerarsi vivibile. Queste donne però - aggiunge il presidente di Antigone Sicilia - non hanno un’area verde per i colloqui con i loro figli. Per quanto colorata e più o meno attrezzata, la stanza messa a loro disposizione non può considerarsi adeguata”. Ad essere sottodimensionato, oltre al complessivo sistema di impianti, è anche il numero di agenti di polizia penitenziaria, che devono occuparsi praticamente di tutto, dal trasferimento dei detenuti ai vari servizi amministrativi passando per la sicurezza dell’istituto. E su questo, conclude la nota, “il ministero fa orecchie da mercante”. A parlare sono i numeri: “Servirebbero almeno 727 unità, che sarebbero comunque oberate di lavoro, ma ce ne sono appena 691. Numero che ovviamente va suddiviso per i vari turni. Questa protesta era nell’aria e ha fatto emergere le gravi responsabilità dello Stato e le sue decennali inadempienze: non sono stati fatti investimenti. Prima venivano utilizzati i soldi delle ammende per la piccola manutenzione, ora neanche quello. E da ultimo, non per importanza, mancano i mediatori culturali, anello di congiunzione necessario per i 210 stranieri - tra uomini e donne - reclusi al Pagliarelli”. Palermo: disagi al Pagliarelli, i detenuti denunciano “poche docce e difficoltà a curarsi” ilsicilia.it, 27 giugno 2019 Il presidente di Antigone Sicilia, Pino Apprendi, il responsabile regionale dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi e vice presidente Camera Penale di Palermo Fabio Bognanni e i rappresentanti dell’Osservatorio carcere della Camera Penale di Palermo, Rosalia Zarcone, Anna Bonfiglio e Rita Maccagnano, si sono recati al Carcere Pagliarelli, a seguito dello sciopero della fame dei detenuti dell’alta sicurezza. La delegazione ha incontrato i rappresentanti dei detenuti che hanno manifestato il disagio che li ha portati anche a forme esasperate di protesta come non andare ai colloqui con i familiari. I detenuti hanno elencato una serie di richieste in parte accolte nell’immediato come il cambio dei materassi e l’aumento dei kg del pacco per i fuori sede. Per le docce hanno concordato la possibilità di riscaldarsi un secchio d’acqua con il proprio fornellino e recarsi nelle docce comuni non essendoci docce nelle celle, poco o nulla hanno ottenuto per migliorare la consegna delle medicine sia quelle del carcere che quelle che comprano privatamente. Un altro grave problema per il quale l’Istituto é abbandonato a se stesso è il problema legato alla salute mentale, oltre trecento sono i detenuti che fanno uso di medicinali appropriati. “Il carcere ha problemi strutturali, era stato costruito per 700 persone e ne ospita oltre 1300. L’impiantistica é sottodimensionata e inadeguata. Da decenni denunciamo questa situazione, in estate caldo rovente ed in inverno freddo glaciale. Non stanno meglio gli agenti della Polizia Penitenziaria, il cui organico é inferiore al previsto e sottodimensionato, come tutti sanno gli agenti vengono utilizzati anche per le traduzioni e per servizi amministrativi vari. Il Ministero fa orecchio da mercante”, lo dice Pino Apprendi, presidente Antigone Sicilia. Reggio Calabria: carceri di Arghillà e San Pietro in sovraffollamento avveniredicalabria.it, 27 giugno 2019 I numeri sono persone e purtroppo i primi soverchiano le seconde. I dati ufficiali del Ministero della Giustizia non lasciano scampo: nel 2018, come nel 2017, il sovraffollamento continua ad incrementarsi. In Italia, al 31 dicembre 2018, erano presenti 59.655 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 50.581, di cui 2.576 donne e 20.255 stranieri. Ma chi sono questi detenuti? Quanti anni hanno? Che titolo di studio possiedono? Per quali reati si trovano in carcere? Quanti, fra questi, sono reclusi in attesa di giudizio? In base ai dati ufficiali del Ministero della Giustizia, il 34% circa dei detenuti italiani, in realtà, sono stranieri; fra italiani e stranieri, dei circa 60.000 detenuti odierni, quasi 22.000 hanno un’età compresa fra i 18 ed i 39 anni; l’età media, comunque, è di circa 40 anni; 607 sono laureati; poco meno di 5.000 possiedono un diploma di scuola media superiore; quasi 20.000 la licenza di scuola media inferiore; circa 7.000 la licenza di scuola elementare; 900 circa sono privi di titolo di studio e più di 1000 sono analfabeti. Rispetto alla situazione nazionale, Reggio Calabria non fa eccezione, purtroppo. Al 31 dicembre 2018, per vero, a fronte di una capienza regolamentare di 302 detenuti, nel carcere di “Arghillà”, ne erano presenti 383, di cui 58 stranieri; alla stessa data, al “Panzera”, a fronte di una capienza regolamentare di 186 detenuti, ne erano presenti 216, di cui 11 stranieri e 34 donne. Presso il carcere di “Arghillà”, in specie, risultavano esserci 44 detenuti tossicodipendenti sottoposti a trattamento terapeutico, a cui vanno aggiunti altri 5 detenuti tossicodipendenti del “G. Panzera”, per un totale di 49 persone sottoposte a trattamento terapeutico per tossicodipendenza. Sempre, ad “Arghillà,” nel 2018, 90 detenuti risultavano sottoposti a terapia psichiatrica, mentre al “Panzera” erano 5 i detenuti in terapia psichiatrica e 48 risultavano essere stati inviati in osservazione psichiatrica. Al momento, per fortuna, non ci sono più bambini detenuti con le loro madri, ma nel corso del 2017 e del 2018, si sono alternati al “G. Panzera” quattro bambini con le rispettive madri detenute: una italiana con due bambini ed una nigeriana con due bambine. 50 casi di autolesionismo ed un morto ad “Arghillà” nel corso del 2018; 1 caso di autolesionismo al “G. Panzera”. Il personale penitenziario, pedagogico e sanitario resta insufficiente. Il rapporto del numero dei detenuti per ogni agente di Polizia penitenziaria è del 3,8 ad “Arghillà” e dell’1.7 al “Panzera” e il numero di detenuti per ogni educatore è del 76,4 ad “Arghillà” e del 128,5 al “G. Panzera”. Resta ancora non garantita la copertura infermieristica h/24 ad “Arghillà”, anche se di recente il referente e coordinatore sanitario ha formalmente comunicato l’avvio della 7 risoluzione dell’annosa problematica, “prevedibile entro alcune settimane”, mediante la confluenza nella sede di altro personale. L’estenuante rassegna di numeri e persone, insomma, restituisce un quadro complessivo del cosiddetto “pianeta carcere”, tanto a livello nazionale che locale, desolante e desolato. Reggio Calabria: per i detenuti tossicodipendenti l’assistenza è insufficiente lacnews24.it, 27 giugno 2019 Il percorso di recupero non è quindi garantito dalle Istituzioni. È quanto emerge in un confronto sul consumo e abuso di droghe tra operatori del settore. A rischio anche le comunità terapeutiche: da maggio 2018 i dipendenti non vengono retribuiti dall’Asp. Il consumo e l’abuso di droga rappresentano ancora un grande problema per l’intero territorio di Reggio Calabria. Criticità che riguardano anche il mondo degli istituti penitenziari, considerato che il numero maggiore è proprio quello dei detenuti per reati in materia di stupefacenti. In occasione della giornata mondiale contro il consumo ed il traffico illecito di droga si è aperto un confronto tra gli operatori del settore e il garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Agostino Siviglia. I detenuti tossicodipendenti nelle carceri reggine sono in tutto 49. 44 Ad “Arghillà” e 5 al “Panzera”. L’assistenza è insufficiente e il percorso di recupero non è quindi garantito dalle Istituzioni. I dati sono stati sottolineati dallo stesso Siviglia il quale pone l’accento su come “quotidianamente si assiste al mancato rispetto del diritto alla salute che è un diritto garantito dalla nostra Costituzione per tutti e anche per chi è ristretto. L’istituto penitenziario non è adatto - chiosa il garante-per la gestione di detenuti tossicodipendenti, visto le intere criticità del sistema sanitario nazionale il quale se ne dovrebbe occupare anche in carcere così come l’Asp”. 88 poi sono gli ex detenuti provenienti dal Sert i quali a causa dell’enorme buco di bilancio dell’Asp rischiano di non essere più curati così come quelli assistiti dalle comunità di recupero. Gli operatori non vengono retribuiti dal maggio dell’anno scorso e per loro potrebbero riaprirsi nuovamente le porte del carcere la loro riabilitazione essere così interrotta. “È una situazione drammatica- dichiara Luciano Squillaci, vice-presidente del “Centro reggino di solidarietà”- se l’Asp dovesse essere dichiarata fallita tutte queste spettanze non sarebbero più versate a chi ha lavorato e ciò che è ancora più grave è che tutti i pazienti finiranno chi in mezzo ad una strada, chi in carcere. La chiusura delle comunità – sottolinea - porterebbe un enorme disagio sociale. I problemi non sono infatti, solo degli operatori che rimangono senza lavoro, ma sono dei malati e della cittadinanza. Se non si interviene subito - ha concluso - il rischio è davvero troppo alto e a pagarne sarebbero sempre e solo le fasce più deboli”. Ancona: lettera a Ministro e Csm “Magistrati ostili, così ci tolgono dignità e speranza” anconatoday.it, 27 giugno 2019 È alta tensione al carcere di Barcaglione, dove i detenuti sono ormai in agitazione, in costante crescita dopo la morte di Daniele Zoppi. I detenuti non riescono a trascorrere del tempo con la famiglia, pochissime pene alternative, zero colloqui con i magistrati e un “no” categorico all’applicazione della legge 199, che prevede di scontare gli ultimi 18 mesi di pena in casa. È alta tensione al carcere di Barcaglione, dove i detenuti sono ormai in agitazione, in costante crescita dopo la morte di Daniele Zoppi. Così i 70 detenuti del carcere hanno scritto una lettera che la Camera Penale di Ancona, già schieratasi al fianco dei detenuti, ha rilanciato e indirizzato al Ministro della Giustizia e alla Presidenza del Consiglio Superiore della magistratura. Il testo integrale della lettera scritta dai detenuti anconetani È ormai diverso tempo che vediamo continui rigetti ingiustificati, in ultimo è negato poter passare del tempo in famiglia ai detenuti che usufruiscono dell’articolo 21 esterno al carcere. I rigetti parlano di programmi troppo ampi che l’articolo 21 concerne solo il lavoro e non altro. Ci sentiamo di dissentire fortemente su questo punto perché è lo stesso ordinamento penale che, al capitolo 48 (paragrafo 13) dice testualmente che, “nel provvedimento di assegnazione al lavoro esterno senza scorta, devono essere indicate le prescrizioni che il detenuto o internato deve impegnarsi a rispettare per iscritto, durante il tempo da trascorrere fuori dall’istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro, tenuto anche conto dell’esigenza di consumazione dei pasti e del mantenimento dei rapporti con i propri familiari e figli, secondo le indicazioni del programma di trattamento”. Ecco noi ci domandiamo come possa essere possibile lavorare all’esterno dell’istituto e non andare a casa e, allo stesso tempo, mantenere i rapporti con i nostri cari? L’uscita dall’istituto per lavorare è un passo molto importante per la vita di un detenuto che ritorna gradualmente alla società, ma soprattutto la continuità del rapporto con la propria famiglia, in primis con i figli, che ricominciano a rivedere la figura paterna fuori dal contesto carcerario, anche se per poche ore e nella propria casa. Questi dinieghi addirittura allontanerebbero ulteriormente genitore e figli perché, lavorando duramente la settimana, non sarebbe possibile svolgere i colloqui familiari settimanali che si ridurrebbero solo a quello domenicale svolto in molti istituti solo 2 domeniche al mese. Volgiamo ulteriormente far notare le pochissime pene alternative o premiali concesse dalla magistratura di Ancona. Un detenuto, che ha scontato anni di pena, ha partecipato alla vita sociale, ha avuto una forte revisione critica dei propri errori ed è pronto, secondo l’area trattamentale e la direzione, a poter avere la possibilità di scontare la pena in affidamento in prova o ad usufruire dei permessi premio, si vede vanificare tutto dai magistrati di sorveglianza: è quasi impensabile scendere al di sotto dei 4 anni di pena e vedersi accettare positivamente l’affidamento in prova. Qua siamo in un istituto di reclusione attenuata di neanche 100 detenuti e possiamo assicurare che sono davvero pochi quelli che ogni anno vediamo usufruire del beneficio dell’affidamento in prova e quei pochi sono a fine pena. Stesso discorso vale per i permessi premio, per i quali l’ordinamento penale prevede, per i reati comuni, l’accesso al beneficio dopo aver scontato almeno un quarto di pena. In questo istituto, per la maggior parte dei casi, bisogna averne almeno scontato i due terzi per vedere accolta l’istanza, prima sono solo una serie di rigetti, ci sono addirittura caso di detenuti in articolo 21 esterno da parecchio tempo, che si vedono rigettare l’istanza perché ritenuto pericoloso o poco affidabile. Vogliamo puntualizzare che chi accede ad una reclusione attenuata ha sicuramente cessato la pericolosità sociale ed associativa e chiede di accedere ad un percorso trattamentale che possa consentire un reinserimento in società. La legge 199, che prevede di scontare gli ultimi 18 mesi di pena a casa propria, viene quasi sempre concessa negli ultimi giorni di pena. Teniamo a precisare che tutte le richieste di beneficio che noi detenuti inviamo, son sempre avallate dall’area trattamentale e dalla direzione, che dopo aver valutato ogni singolo caso, vede vanificare tutto il suo operato. Riteniamo di riscontrare dei magistrati di sorveglianza un atteggiamento che sembra ostile e prevenuto nei nostri confronti, un chiaro modo di fare di chi non crede assolutamente nel reinserimento dei detenuti o ostacola il ricongiungimento famigliare. I colloqui con i magistrati dovrebbero essere quasi mensili, qua non sono più di 2 volte l’anno e nelle poche occasioni, quasi sempre in video conferenza. Il magistrato risponde che non ha il fascicolo a portata di mano e che valuterà in seguito la richiesta. Il giorno 3 giugno 2019 i 2 magistrati assegnati al carcere di Barcaglione sono venuti per controllare le nostre condizioni e se qualche detenuto avesse problemi. Sono a malapena entrati nei reparti detentivo senza neanche darci il buongiorno, sono passati a testa bassa e non hanno controllato né visitato nessuna camera di pernottamento. Alla fine di questa falsa visita, sono andati via senza fare colloqui individuali con noi. Questo istituto potrebbe essere un fiore all’occhiello, invece ci sono molte richieste di trasferimento in carceri fuori dalle Marche. Abbiamo sbagliato e vogliamo scontrare la nostra condanna, ma vogliamo dignità e speranza e vorremmo che tutti capissero che un detenuto senza speranza è un detenuto morto. Chiediamo un’ispezione da parte degli organi preposti al fine di verificare l’operato dei giudici di Sorveglianza nel caso si configurino comportamenti illegittimi”. L’Aquila: sciopero della fame nel carcere, solidarietà a Silvia e Anna di Carmelo Musumeci pressenza.com, 27 giugno 2019 Dal mio diario dal carcere: “Nel pomeriggio dalle finestre abbiamo sentito la solidarietà colorita e festosa degli anarchici e delle anarchiche fuori dal muro di cinta. Loro arrivano sempre prima di tutti e ci hanno riscaldato il cuore. La mia cella è lontana dal muro di cinta e io non li ho potuti sentire, ma i miei compagni dell’altro lato mi hanno detto che scandivano il mio nome e mi sono commosso.” In più di un quarto di secolo di carcere ho fatto tanti scioperi della fame, e la notizia che due donne detenute lo stiano facendo da più di 28 giorni contro il regime di tortura del carcere duro mi fa stare male. E mi torna in mente quando ero io al loro posto. Ecco il diario di alcuni di quei giorni: Alle sette del mattino, all’apertura del blindato della cella, ho comunicato alla guardia in modo ufficiale l’inizio dello sciopero della fame. È il primo di dicembre! Lo sciopero della fame degli ergastolani in lotta per la vita per l’abolizione dell’ergastolo è iniziato. Qui nel carcere di Spoleto hanno aderito tutti gli ergastolani e per solidarietà anche i non ergastolani. Questa volta siamo più determinati dell’anno scorso. Siamo più incazzati! Questa volta gli ergastolani in lotta ce la metteranno tutta. Quando lotto non sento il mio corpo prigioniero. Non mi sento più un uomo ombra, mi sento un uomo libero e vivo. Al passeggio, fra una nebbiolina, un freddo pungente e un’aria triste di feste natalizie, abbiamo parlato del nostro sciopero della fame: “Pensi che servirà a qualcosa questa protesta?” “Non lo so! Ma fra il fare e non fare è meglio fare”. “Fra la sofferenza e gli incubi che ci aspettano per una pena che non finirà mai sarebbe meglio farsi morire subito di fame…”. “Dopo 33 anni di carcere mi hanno respinto di nuovo la condizionale. Poi dicono che l’ergastolo esiste solo sulla carta. Mi avevano fatto capire che questa volta me l’avrebbero data… “L’Assassino dei Sogni è capace di farti sognare la libertà per rubartela subito dopo, per farti soffrire di più, per colpirti più in profondità…”. “Se solo avessimo un fine pena!”. “È inutile pensarci, quest’anno ho deciso di non attaccare più nessun calendario in cella.” “Io non voglio neppure più sapere in che anno siamo. Che c’importa?”. Sesto giorno di digiuno: Un ergastolano dal regime del 41bis scrive: “Cristo può vedere i detenuti, loro non possono vedere lui perché c’è la grata che esclude la visione del cielo. Lo sciopero della fame continua compatto. Per strada abbiamo perso il povero zio Totò, 85 anni, ha resistito quattro giorni, ma è malato di diabete e non ce la faceva più ad andare avanti. Siamo un po’ delusi dai mass media che non stanno dando visibilità alla nostra lotta. Di giorno spesso indosso una maschera di serenità e di allegria per far coraggio ai miei compagni che stanno dimagrendo a vista d’occhio; la sera, quando la tolgo, resto solo con le mie preoccupazione e i miei pensieri… mi sento responsabile della sofferenza dai morsi della fame dei miei compagni. Forza Silvia e Anna, un sorriso da parte mia e uno da parte del mio cuore. Napoli: verso l’istituzione del Garante comunale dei diritti dei detenuti Il Mattino, 27 giugno 2019 È stata approvata ieri nella seduta del consiglio comunale la delibera a firma dell’assessore alle politiche sociali Roberta Gaeta per l’istituzione della figura del Garante dei diritti dei detenuti. “Presto sarà possibile procedere alla nomina della figura del Garante - commenta l’assessore Gaeta - un Paese veramente civile è quello teso a tutelare e far rispettare i diritti inalienabili di ogni uomo, compresi quelli dei detenuti. Il carcere deve rappresentare uno strumento detentivo di rieducazione, non il luogo in cui l’individuo è alienato: come recita l’articolo 27 della nostra Costituzione, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. “I valori di uguaglianza e solidarietà guidano l’azione amministrativa - conclude l’assessore - e il Comune di Napoli con l’istituzione del Garante per i diritti dei detenuti vuole dare seguito proprio alla Carta Costituzionale, individuando così una figura che possa contribuire alla salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone incarcerate, garantendone la dignità ed eliminando ogni forma di marginalità sociale”. Forlì: “Mi prendo cura di me”, un progetto per la dignità per le donne anche in carcere forlitoday.it, 27 giugno 2019 Il progetto prevede, nella Casa Circondariale di Forlì, una serie di incontri per favorire il recupero della dimensione femminile delle donne carcerate, attraverso la valorizzazione di queste come donne. Le donne vivono la prigione in modo diverso rispetto agli uomini. La reclusione, porta svalorizzazione e la convinzione che si vivrà per sempre con la macchia della carcerazione. Per questo, il Centro Donna e Pari opportunità del Comune di Forlì, vuole creare un percorso di relazione con le donne recluse che possa aiutarle ad avere maggiore consapevolezza di sé in quanto donne, attraverso il linguaggio e la cura del corpo, per costruire relazioni e soprattutto per stimolare la fiducia in sé stesse. Il progetto prevede, presso la Casa Circondariale di Forlì, una serie di incontri per favorire il recupero della dimensione femminile delle donne carcerate, attraverso la valorizzazione di queste come donne. “Quando il Centro Donna mi ha contattato come presidente Europeo delle Estetiste per presentarmi il progetto, sono stata da subito colpita ed entusiasta, perché gli obiettivi del progetto di accrescere l’autostima evitando isolamento e passività delle donne in carcere, è il lavoro quotidiano che conducono tutte le estetiste sulle proprie clienti contrastando la sensazione di inadeguatezza attraverso la cura della propria immagine e della propria figura”, afferma Laura Grilli, presidente della Confederazione Europea delle Estetiste che vive e lavora a Forlì. Il progetto prevede un totale di sei incontri a cadenza settimanale ai quali Grilli, per fornire l’esempio di chi si impegna in prima persona, con la consapevolezza che le conoscenze e capacità delle estetiste possono essere di grande utilità anche in contesti sociali fortemente svantaggiati, ha fornito la propria personale disponibilità. Sarà, quindi, la presidente europea delle estetiste la partner professionale di questa prima edizione del progetto a cui potranno seguire ulteriori edizioni con una partecipazione di altre professioniste dell’estetica del territorio forlivese. “Sarà necessario, per questi primi incontri, assumere un atteggiamento analitico che possa consentire di mettere a punto tutti i dettagli - spiega Grilli -. Al fine di gettare solide basi per iniziative future che permettano il coinvolgimento di altre colleghe”. L’iniziativa è importante ed il Centro Donna auspica che questa prima edizione serva da stimolo non solo per il mondo professionale dell’estetica ma anche per il coinvolgimento di partner che favoriscano, con il loro contributo, la possibilità di consolidare per prossime edizioni queste iniziative che potranno stimolare nelle donne la possibilità di un futuro diverso. Gorgona (Li): l’isola-carcere dove si è “liberi” di fare il vino di Nicola Dante Basile Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2019 L’isola che non c’è non è solo una favola. Esiste, è in Italia e non ha niente che faccia pensare all’allegra comitiva dei folletti e Peter Pan. Qualcosa di magico però vi accade su quest’isola. Tanto più che nelle sue viscere nasconde un vero tesoro che si rinnova ogni santo giorno dell’anno, mentre una linfa vitale sale e ramifica per diventare grappolo d’uva. Regalando un nettare che ha il colore del sole e il sapore del mare. È il vino Gorgona, dal nome dell’isola che fronteggia a qualche decina di miglia marine la costa livornese. Lo producono un manipolo di vignaioli opportunamente formati dal team di agronomi ed enologi delle tenute Frescobaldi di Firenze, un nome che dal Medioevo incrocia un bel pezzo di storia del BelPaese. Per certo, un protagonista della moderna e qualificata vitivinicoltura italiana. Proprio quella di cui aveva bisogno la bella e inaccessibile Gorgona, grande quanto può esserlo un fazzoletto di roccia vulcanica spunta milioni di anni fa dal profondo mare blu, con le scogliere che la rendono inavvicinabile ai più. Ad esclusione dei reclusi in regime di “custodia attenuata”, ospiti a fine pena del locale penitenziario, nonché ultimo nel suo genere ancora in attività su un’isola della Repubblica. Con loro e per loro, anche un folto numero di agenti di sorveglianza. Con un’unica e civile eccezione: la deliziosa nonnina Luisa dai lunghi capelli bianchi, a un passo dal secolo, che su questo scoglio è nata e, con determinazione, tiene a far sapere di non avere la minima intenzione di trasferirsi altrove. “Né qui nessuno pensa di doverla convincere diversamente”, chiosa l’agente che ci accompagna in visita speciale all’isola penitenziario senza inferriate e lucchetti di sicurezza. Gorgona è la più piccola delle sette isole dell’arcipelago Toscano, ed è merito di questo suo naturale e forzato isolamento se ancora oggi preserva un equilibrio ambientale esemplare, con i verdi pini marittimi scolpiti dal vento che la coprono per una buona parte, il profumo persistente della macchia mediterranea e le rocce a strapiombo che la rendono habitat ideale per i gabbiani che vi nidificano. Un dono della natura rimasto tale anche per merito dei pochi esseri che in passato l’hanno abitata per scelta - gli eremiti benedettini, certosini, basiliani - o incentivati a farlo dai governanti toscani del tempo, interessati ad avere un avamposto strategico nel controllo dei traffici, quand’anche per tentare di avviare in loco attività agricole e zootecniche. Che poi sono le stesse attività che impegnano quotidianamente i 92 ospiti di varie nazionalità della colonia penale agricola, che conta un centinaio di capi tra ovini, suini e mucche da latte; campi terrazzati coltivati a uliveti, ortaggi, piccoli frutti destinati alla mensa del carcere. E, appunto, i vigneti di cui si hanno tracce antiche, ma che solo più di recente hanno assunto la funzione produttiva di uve da vino. Tutto nasce una manciata di anni fa con l’allora direttrice della Colonia penale, Maria Grazia Giampiccolo, che scrisse alla folta comunità dei vinattieri toscani invitandoli a prendere in considerazione l’idea di coltivare in modo professionale un piccolo appezzamento di vecchie e malmesse vigne. L’idea prefiggeva lo scopo di dare un senso alla funzione stessa del carcere, in quanto luogo di recupero e preparazione al reinserimento nella società dei detenuti a fine pena. Esattamente ciò che hanno detto e scritto proprio in questi giorni il presidente Sergio Mattarella e Papa Francesco, che ha inviato una lettera ai detenuti di Gorgona che quest’anno compie esattamente 150 anni di attività di isola-carcere. Un’idea che dev’essere apparsa stramba ai vinattieri contattati, visto che nessuno di loro ebbe la cortesia di rispondere alla missiva. Meno uno: Frescobaldi che, con non poco coraggio e visione d’insieme, mise a punto per l’occasione un progetto formativo di aiuto ai detenuti denominato “Frescobaldi per il sociale”. Era il 2012 e quel progetto che partiva con un piccolo appezzamento, nel frattempo è cresciuto arrivando a 2,3 ettari. Soprattutto non ha più nulla delle vecchie piante spennacchiate, divenute rigogliose spalliere di Vermentino, Ansonica e una punta di Sangiovese affidate alla cura di Andrea, Asa e Hostrid, mentre altri loro colleghi si occupano della cantinetta completamente attrezzata per la vinificazione. In tutto sono diciotto i detenuti che, a rotazione e a discrezione e scelta della direzione del carcere, lavorano per il progetto “Frescobaldi per il sociale”. Persone che la casa vinicola fiorentina provvede di volta in volta ad addestrare, formare e quindi assumere con regolare contratto civile di categoria. Contratto che, come tiene a dire il presidente Lamberto Frescobaldi, in alcuni casi è stato rinnovato in assunzione vera e propria e impiegato in aziende del gruppo, una volta che la persona ha scontato la pena. Novemila in tutto le bottiglie di Gorgona 2018 con etichetta disegnata gratuitamente dallo Studio Doni di Firenze. Per buona parte sono già prenotate da grandi ristoranti nazionali ed esteri, a cominciare dall’Enoteca Pinchiorri nella cui ricchissima cantina non poteva mancare una primizia come questa di Gorgona. Per Carlo Mazzerbo, direttore del penitenziario, “la collaborazione tra noi e Frescobaldi, ancorché essere una bella iniziativa e dare buoni frutti, come si può ben vedere gustando questo bianco di grande personalità, ci ha aiutati a cambiare modello di gestione della vita trascorsa su quest’isola. Qui si lavora per la formazione e la crescita delle persone, e di questo non possiamo che essere entusiasti”. E allora, “se mi si chiede di questa nostra esperienza - risponde Lamberto Frescobaldi (foto, accanto mentre stappa la prima bottiglia e sopra con il direttore del penitenziario) all’interlocutore che ha appena apprezzato l’ottimo pranzo preparato dai detenuti - dico che siamo noi a dovere essere grati all’Amministrazione penitenziaria, al direttore Mazzerbo con tutti i suoi collaboratori e ai detenuti per l’opportunità di lavorare con loro. E aggiungo anche, a tutte quelle altre aziende che non risposero all’invito della dottoressa Giampiccolo”. D’altra parte si sa che non è da tutti riconoscere subito le opportunità che il fato ci riserva. Brescia: l’associazione Vol.Ca., la mano fraterna in carcere di Laura Di Palma lavocedelpopolo.it, 27 giugno 2019 Il Vol.Ca (Volontariato Carcere) nasce a Brescia nel 1987 dal volere dell’allora Vescovo, Mons. Bruno Foresti, come gruppo di persone laiche impegnate nel volontariato e come espressione ed appoggio della Pastorale Carceraria della nostra Diocesi, che opera nei due istituti carcerari della città. Era il 1994 quando il gruppo si costituì come associazione Onlus. Nel 2018 l’associazione Vol.Ca. si è impegnata per la propria riorganizzazione, eleggendo un nuovo Consiglio Direttivo, entrato in carica il 5 aprile dello scorso anno e che vede Caterina Vianelli come presidente e Luisa Ravagnani, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale dal 2015, come vice-presidente. Durante lo scorso anno, nonostante la scomparsa di alcuni soci fondatori, tra cui lo storico presidente Angelo Canori, (che è stato ricordato, il 25 giugno, durante una santa messa all’Istituto Comboni, nel primo anniversario della sua nascita al Cielo), l’associazione bresciana ha portato avanti, con impegno, le sue numerose attività. Il 2018 ha visto quindi la ridefinizione dell’associazione e la creazione di vere e proprie Commissioni per ogni attività svolta, una riunione al mese, la partecipazione a varie conferenze ed eventi e la formazione continua dei 44 soci volontari. Il Vol.Ca. ha sede in Via Pulusella 14, in città, dov’è attivo uno sportello al quale si presentano numerose persone, per richiedere informazioni o aiuti economici. Presso la sede è attivo inoltre un servizio di domicilio postale ed un magazzino. L’associazione gestisce anche 4 appartamenti, che fanno capo alla Congrega per la Carità Apostolica e al Comune di Brescia, tre dei quali sono destinati all’ospitalità maschile ed uno a quella femminile di persone in misura alternativa alla pena o in permesso premio. Per decisione del Consiglio Direttivo gli ospiti degli appartamenti non contribuiscono alle spese se non in forma volontaria e vengono assistiti con vitto e medicine. Durante l’anno i volontari del Vol.Ca. effettuano numerosi colloqui con i detenuti nei carceri “Nerio Fischione” e “Verziano” e sostengono i loro famigliari con visite a domicilio. Dalla fine del 2016, è inoltre attivo il Segretario Sociale promosso dalla Caritas Diocesana e sostenuto anche dall’associazione Carcere e Territorio. Compito del Segretariato Sociale è lo smistamento e la risoluzione delle richieste portate dai carcerati. All’interno dei due carceri sono anche presenti magazzini per il vestiario e i generi di prima necessità, si svolgono incontri di catechesi, si celebra la S. Messa e sono stati attivati i corsi di arte-terapia e sartoria. Il tutto nella certezza che la persona vada distinta dal suo reato e in ogni volto sofferente si possa e si debba vedere quello del Signore Gesù. Gela (Cl): la scrittura come libertà; nasce “Transity”, il giornale dei detenuti di Daniela Pellegrino accentonews.it, 27 giugno 2019 Si parla di cibo, di strade, del lungomare, ma anche di momenti tristi e malinconici, specie quelli legati alle festività, in cui ai ragazzi manca, più degli altri giorni, il contatto con la famiglia e i propri cari. È stato presentato “Transity”, un giornale scritto proprio da coloro che non sempre hanno la possibilità di far sentire la propria voce oltre le sbarre. “La scrittura come libertà”. Motivati da questo bisogno e guidati dalla dottoressa Viviana Savarino, dal giornalista Jerry Italia e dalle insegnanti Rosanna Marchisciana e Daniela Ferro, i detenuti hanno messo nero su bianco i loro pensieri, le loro sensazioni e le loro impressioni della città, evidenziandone pregi e difetti. Si parla di cibo, di strade, del lungomare, ma anche di momenti tristi e malinconici, specie quelli legati alle festività, in cui ai ragazzi e agli uomini di Balate manca, più degli altri giorni, il contatto con la famiglia e i propri cari. A partecipare al giornale sono stati Emanuele Lauretta, Rosario Perna, Salvatore Noviziano, Francesco Novembrini, Daniele Puccio, Carmelo Tomaselli, Carmelo Antonuccio, Liuboslav Garev, Mohamed Ibrahim e Giuseppe Valenti. “È stato un modo per raccontarci - hanno detto - è importante per noi mettersi in gioco con queste attività. Qui abbiamo il tempo per riflettere e meditare sui nostri sbagli e progetti come questo ci aiutano sicuramente e ci permettono di essere comunque protagonisti di qualcosa di bello”. Il giornale, data la risonanza che ha avuto, riprenderà sicuramente a settembre. L’iniziativa era già stata ben accolta dall’ex direttrice della Casa circondariale Gabriella Di Franco e poi sposata pienamente dall’attuale Cesira Rinaldi. Milano: il viaggio con Frida Kahlo di Ambra e delle detenute attrici di San Vittore di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 giugno 2019 L’attrice Ambra Angiolini sarà l’artista ospite della performance teatrale “Viva la vida, in viaggio con Frida Kahlo”, per la regia di Donatella Massimilla, direttrice artistica del Centro Europeo Teatro e Carcere (Cetec), in programma a Milano venerdì 28 giugno alle 21 alla VII edizione dell’Estate Sforzesca. Il tributo alla pittrice messicana, nato anche in attuazione del protocollo d’intesa del Cetec con l’Associazione di Alta Giustizia messicana per realizzare scambi di esperienze e buone pratiche, ha coinvolto nella scrittura di testi e di poesie le detenute del laboratorio teatrale Cetec Dentro/fuori San Vittore. Alcune di loro saranno venerdì tra le interpreti delle sedici Fride che invaderanno il palcoscenico, cantando, danzando e recitando pagine dedicate all’artista nelle loro lingue d’origine, accompagnate dalla traduzione anche in LIS, grazie al contributo del Pio Istituto dei sordi di Milano. Ambra Angiolini, che da tempo sta compiendo una ricerca sulla pittrice messicana, leggerà pagine dal diario di Frida. “Il lavoro autoriale delle attrici Fride detenute, conosciuto attraverso la mostra Frida, oltre il mito allestita al Mudec - spiega Donatella Massimilla - ha emozionato Ambra ed è bastato un attimo perché si sentisse coinvolta, decidendo di esserci e di condividere con noi la performance al Castello”. Sul palco anche Gilberta Crispino, voce di Chavela Vargas, la cantante originaria della Costa Rica amata da Frida, la danzatrice Sonia Cortopassi ed Elodie Lebigre, cantante e ideatrice del carro del carnevale di Viareggio “Adelante” ispirato alla pittrice. Frida Kahlo è stata anche la creatrice di uno stile divenuto iconico, ispiratore di abiti, acconciature, dettagli, accessori e oggettistica. “Viva la vida” ha voluto rendere omaggio anche a questo aspetto dell’universo della pittrice: dalle 19 saranno attivi una postazione “Truccofrida” realizzato dalla make-up artist Tania Sartini e uno stand con lavori ispirati all’artista di Uliano e Linda Grittini i cui proventi andranno a sostegno dei laboratori teatrali tenuti dal Cetec. “Viva la vida” è inserito anche nel Programma del Milano Pride 2019. Roma: lo sport veicolo di rieducazione per i minori ristretti vita.it, 27 giugno 2019 Un pomeriggio speciale per i detenuti dell’Istituto Penitenziario Minorile di Casal del Marmo a Roma: hanno potuto incontrare e giocare insieme a due grandi Campioni dello Sport Mondiale, Ciccio Graziani per il Calcio e Andrea Lucchetta per il Volley. “Campioni sempre” è un’iniziativa realizzata con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in collaborazione con la Direzione dell’IPM Casal del Marmo di Roma, che mira a trasmettere attraverso pratiche sportive, con il coinvolgimento di testimonial d’eccezione, valori educativi e di impatto sociale per il recupero di giovani detenuti. Pensando alla pratica sportiva è abitudine associare termini come vittoria, sconfitta, sacrificio, allenamento, squadra. Lo sport però è anche un formidabile veicolo educativo perché consente a qualunque individuo di mettersi in gioco e crescere, perfezionando la propria identità, come sportivo e come persona. Ecco perché è importante che lo sport si pratichi in tutti i contesti sociali, dai circoli, ai quartieri, dalle palestre ai campetti, sino all’interno degli istituti penitenziari. “Campioni sempre” è un’iniziativa promossa da Sport3000, associazione senza scopo di lucro che opera nel mondo degli eventi sportivi, con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che mira a coinvolgere giovani detenuti in attività di animazione sportiva, con l’obiettivo di sostenere, insieme alle direzioni penitenziarie, un processo di recupero e di rieducazione. L’esempio di importanti campioni sportivi e i valori che lo sport incarna, sono uno strumento fondamentale per generare condivisione e percorsi evolutivi, personali e di gruppo. Nella giornata di Martedì 25 Giugno, all’interno dell’Istituto Penitenziario Minorile di Casal del Marmo di Roma, si è assistito ad un evento davvero unico: due Campioni del Mondo, il calciatore Ciccio Graziani e il pallavolista Andrea Lucchetta, hanno condotto prima un allenamento e quindi organizzato un torneo insieme ai giovani detenuti, che hanno anche avuto la possibilità di iniziare un percorso di avvicinamento al ballo e danze popolari. Un pomeriggio di festa e di animazione, ma anche di “sfida sportiva” che ha consentito ai ragazzi di comprendere quanto lo sport sia importante per recuperare un proprio equilibrio e ristabilire un fondamentale ponte di contatto e di recupero nei confronti della società. “Iniziative come queste - ha dichiarato la direttrice dell’IPM di Casal del Marmo, Liana Giambartolomei - sono centrali per la riformulazione dello stile di vita del gruppo e ovviamente dei singoli. Lo sport d’altronde è un elemento fortemente ingaggiante e di grande supporto valoriale in termini di rieducazione. Il coinvolgimento di grandi campioni come è successo nel pomeriggio di ieri presso la nostra struttura è un’opportunità importante per trasmettere ai ragazzi i valori fondanti dello sport, che non sono solo la vittoria o la sconfitta, ma è capacità di sacrificarsi, di stare in gruppo e di credere in se stessi e nelle proprie capacità”. Andrea Lucchetta e Ciccio Graziani al termine del pomeriggio di allenamento hanno dichiarato: “È stato importante riuscire a coinvolgere questi ragazzi in attività sportive, nello specifico nel calcio, nel volley e nell’allenamento al ballo e alla danza popolare, perché qualsiasi iniziativa di carattere sportivo rappresenta un veicolo educativo e rieducativo fondamentale per il reinserimento di questi ragazzi nella società. Lodevole sono le tante progettualità che l’Istituto di Casal del Marmo promuove per il recupero dei detenuti e quella di oggi è stata una testimonianza concreta e molto positiva”. Carinola (Ce): conclusione corso formazione, incontro dei detenuti con i figli e concerto Ristretti Orizzonti, 27 giugno 2019 In data 27.06.2019, dalle ore 10, presso la sala teatro dell’Istituto penitenziario di Carinola, si terrà l’evento conclusivo della progettualità dell’Associazione Akira, finanziata dalla Tavola Valdese. Momento clou sarà la consegna degli attestati ai partecipanti alle due edizioni del corso di formazione di “Animatore turistico”. Durante la consegna ci sarà anche una performance degli animatori principianti. Interverranno i referenti della Tavola Valdese e sono stati invitate le autorità del territorio. Nel pomeriggio, dalle ore 15 alle ore 17, nell’ambito del mese della genitorialità in carcere, vi sarà l’evento “Animare la famiglia” che prevede la possibilità, per i detenuti che hanno partecipato ai percorsi sul tema della genitorialità, di passare del tempo insieme ai propri figli, in uno spazio diverso dalla usuale sala colloqui. Saranno presenti le psicologhe dell’Associazione Akira, Associazione che ha curato gli incontri sulla genitorialità, che animeranno e faciliteranno il tempo dei papà con i figli, aiutandoli a giocare bene insieme. Durante l’evento, verranno consegnati ai detenuti che hanno partecipato ai laboratori con i figli, i “disegni della famiglia fatti dalla famiglia”. Durante l’incontro verrà offerta la merenda da parte del cappellano dell’istituto, Don Luigi Manica. I giornalisti interessati potranno accedere presso la casa di reclusione accreditandosi all’indirizzo cc.carinola@giustizia.it. Coro Carinola In-canto Nella giornata di venerdì 28 giugno, alle ore 15, presso la sala teatro della Casa di reclusione di Carinola, si terrà un concerto per coro, solisti e tastiera, dal titolo “Sognando Broadway”. Lo spettacolo è offerto a titolo gratuito dal coro dell’Associazione Carinola In-canto, la cui presidente, la prof.ssa Livia Tatta, ed il direttore artistico, Fabio Veneziano, hanno manifestato vivo interesse a condividere con gli ospiti dell’istituto un momento di solidarietà, per alleggerire la quotidianità detentiva e rendere meno penosa la distanza dalla famiglia. Allo spettacolo parteciperanno circa 70 detenuti e sono state inoltre invitate le autorità politiche del territorio. Il coro è formato da 60 elementi, tutti di Carinola e frazioni, e per l’occasione ne entreranno circa 38. La preparazione musicale è affidata alla prof.ssa Marilù De Santo, anch’essa carinolese, docente presso il conservatorio di Salerno. L’associazione Carinola In-canto è nata lo scorso anno, con il patrocinio del Comune di Carinola ed il coro, già durante le scorse festività natalizie, si è esibito con brani a tema. Olte al coro, l’associazione cura l’organizzazione di eventi vari, tra i quali vanno menzionati “la giornata contro il bullismo”, “la giornata contro la violenza sulle donne” ed il Carnevale 2019. I giornalisti interessati potranno accedere presso la casa di reclusione accreditandosi all’indirizzo cc.carinola@giustizia.it. Migranti. La grande ipocrisia di Fabio Tonacci La Repubblica, 27 giugno 2019 Il Viminale cavalca da mesi lo slogan dei porti chiusi, ma a giugno ci sono stati mille sbarchi sulle coste italiane. Eppure si parla soltanto dei 42 migranti salvati dalla Ong. Mentre Salvini indica il dito, l’Italia non vede la Luna. E la Luna sono 344 migranti arrivati con barche e barchini direttamente sulle nostre coste, negli stessi giorni in cui il ministro si è esibito in direttive contro la Sea-Watch 3 e nella propaganda dei porti chiusi, orchestrando la più asfissiante manovra a tenaglia contro una Ong mai vista finora. La grande ipocrisia di Matteo Salvini sta tutta qui, nella realtà dei fatti. E in quel suo tentativo di illudere l’opinione pubblica di aver risolto un fenomeno epocale qual è quello delle migrazioni dall’Africa, bloccando una sola nave a quindici miglia da Lampedusa. Lì dove per quattordici giorni ha galleggiato la coscienza sporca dell’Europa. Il 19 giugno, per esempio. Settimo giorno dello stallo. A fine giornata, Salvini in diretta Facebook racconta che a lui “il rifugiato vero non pone alcun problema”, e che, invece, “il problema sono le centinaia di migliaia di furbi e spacciatori che arrivano in Italia a far casino”. Poi un saluto all’equipaggio di Sea-Watch 3, alla sua maniera: “In Italia non si arriva”. Peccato che in Italia, e proprio a Lampedusa, siano appena arrivati 45 migranti (kenioti, somali, ivoriani, senegalesi) su una barca di legno, portati a terra da una motovedetta della Guardia di finanza. Però il problema è la Sea-Watch. Il 24 giugno, dodicesimo giorno di stallo. “Caro parroco - scrive Salvini su Twitter, rivolgendosi a don Carmelo che protesta dormendo sul sagrato della chiesa - io non cambio idea: porti chiusi a chi aiuta i trafficanti di esseri umani. Dorma bene”. E sono appena arrivati, sempre a bordo di barchini, 59 migranti a Crotone e tre (tunisini) a Lampedusa. Tre sono quelli che sono stati rintracciati, gli altri sono spariti appena hanno toccato terra. Ma il problema è la Sea-Watch. Ancora ieri, 26 giugno, quattordicesimo giorno di stallo: Salvini defmisce la capitana Carola “sbruffoncella” e “fuorilegge”, mentre a Crotone un veliero monoalbero di 16 metri si incaglia sulla spiaggia, con 47 migranti sopra (iracheni, pakistani, curdi). Porti diversamente chiusi, vien da dire. Dall’inizio dell’anno i conteggi del Viminale segnano 2.511 arrivi (quasi 1.000 solo a giugno), di cui 1.159 direttamente sulle spiagge italiane, senza interventi di soccorso di navi mercantili o militari. Le Ong hanno salvato e portato 185 persone (escludendo i 42 ancora sul ponte della Sea-Watch 3, e per i quali la capitana Carola Rackete ha ricevuto rifiuti allo sbarco da Italia, Malta, Olanda e Francia). E che sia una questione tutta politica, e non di accoglienza, lo si capisce perché per quelli della Ong tedesca ci sono una cinquantina di città tedesche che vogliono ospitare i richiedenti asilo salvati il 12 giugno scorso, e anche l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia si è detto disponibile. Ma Salvini fa finta di non sentire, non li fa scendere. Perché il problema, il suo problema, è la Sea-Watch. Migranti. Le domande oltre Lampedusa di Francesco Bei La Stampa, 27 giugno 2019 Una ragazza coraggiosa che da sola sfida uno Stato e “disobbedisce” alla legge in nome di un imperativo morale superiore: salvaguardare la vita di chi ha raccolto dal mare. Chiunque abbia un cuore non ci mette molto a capire da che parte stare tra la capitana Carola Reckete della Sea Watch e il ministro dell’Interno che sbeffeggia una donna che prova da due settimane a far sbarcare in un porto sicuro i suoi naufraghi. È dai tempi di Antigone e Creonte che ci dividiamo tra chi pensa che si debbano rispettare le leggi morali superiori che ci definiscono come essere umani e chi invece ritiene più importanti i codici. Siamo ancora lì. E davvero, di fronte alla sofferenza di tanta gente, benché con la pelle di un colore diverso dal nostro, appaiono fuori luogo le sparate di Salvini, la sproporzione di un apparato di sicurezza mobilitato contro 42 immigrati mentre ogni giorno su quella stessa isola sbarca chiunque (basta sentire le sagge parole del sindaco di Lampedusa), il capovolgimento dei fatti, i sospetti sul “chi la paga”, il considerare scafisti dei ragazzi che offrono loro stessi, le loro vite, il loro tempo, per aiutare i più deboli e si battono per gli ideali in cui credono. Detto tutto questo, dato a Salvini il suo, è chiaro però che non si può considerare il caso Sea Watch come un unicum e ripartire ogni volta da zero. Il capo della Lega ha trovato un filone elettorale redditizio e lo sfrutta al meglio, ma tolto Salvini resta la grande questione. Una questione gigantesca: l’Italia ha diritto oppure no a controllare chi entra nei suoi confini? Tutti i cuori intrepidi che giustamente palpitano oggi in sincro con l’equipaggio della Sea Watch, tutti i parlamentari che in queste ore affollano la banchina di Lampedusa, sanno dare una risposta a questa semplice domanda? Esiste al mondo uno Stato che fa entrare chi vuole? Non parliamo di naufraghi, attenzione. Chi affonda in mare va salvato e punto. Ma nel 2016 e nel 2017 le Ong “soccorsero” al limite delle acque libiche e trasportarono in Italia rispettivamente 46.796 e 46.601 immigrati. Con questi numeri, che traggo dal rapporto del comando generale della Guardia costiera, parlare di naufraghi è ipocrisia: legittimamente, dal loro punto di vista, le Ong avevano aperto un canale di ingresso che prescindeva dalle leggi italiane sui visti. Nel 2017 le nazionalità di arrivo erano le seguenti: Nigeria, Guinea, Costa D’Avorio, Bangladesh e Mali. Si tratta, nella stragrande maggioranza, di immigrati economici. La capitana Rackete, Mediterranea, la Sea Watch e coloro che si sforzano di fare entrare nella “Fortezza Europa” tutti quelli che lo desiderano, teorizzano il No Border, una politica di accoglienza che costruisca un ponte aperto tra il nostro Continente e l’Africa. Ma alle ultime elezioni Europee i tre partiti che sposavano apertamente queste tesi (ci perdonino gli interessati, ma le semplificazioni sono necessarie), ovvero +Europa, Verdi e Sinistra, complessivamente hanno preso l’8,2 per cento. Segno che oltre il 90 per cento dell’elettorato italiano - a prescindere da destra, sinistra e centro - ritiene invece che uno Stato, per dirsi tale, non può far entrare uno straniero solo perché in stato di bisogno. Non è un problema facile da risolvere, l’immigrazione. L’Unhcr ieri ha fornito a Bruxelles qualche indicazione utile. Quando i migranti arrivano in Libia, è troppo tardi, non c’è più niente da fare per fermarli. Bisogna agire prima, nei paesi di transito e di partenza. Scoraggiare le partenze con progetti mirati. Prevedere un modo legale per arrivare in Europa, perché è giusto, perché conviene a loro ma anche a noi. E infine, perché uno Stato serio fa anche questo, rimpatriare chi è arrivato qui e non ne aveva diritto. Ovvero due cose che Salvini e il governo Conte non stanno facendo. Il ministro dell’Interno inizi a presidiare Bruxelles per cambiare il trattato di Dublino e convincere l’Europa a negoziare trattati di rimpatrio Ue-Africa. Prendersela con la “sbruffoncella” della Sea Watch è certamente più facile, abbia il coraggio di affrontare i suoi pari. PS: ieri il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha scritto al presidente del Consiglio una lettera interessante e condivisibile. Chiede a Conte un “incontro urgente” per discutere di immigrazione in maniera “responsabile e istituzionale”. Fosse l’inizio di una politica bipartisan su una questione tanto seria sarebbe da salutare con squilli di tromba. Il Pd, tuttavia, dovrebbe chiarirsi al suo interno se la linea è quella di Marco Minniti oppure di Pietro Bartolo, se aiutare la guardia costiera libica è la cosa giusta da fare oppure un crimine contro l’umanità. Se si guarda alla sinistra danese oppure alla Ocasio-Cortez. Prima dell’incontro con Conte, magari. Migranti. Mauro Palma: “La sentenza di Strasburgo su Sea Watch ha un doppio profilo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 giugno 2019 Abbiamo intervistato Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, per avere un parere sulla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto al caso dei migranti a bordo della Sea Watch 3. Come interpreta la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo? La decisione ha un doppio profilo. Va tenuto presente che si tratta di una sentenza sull’urgenza di un provvedimento da parte della corte, in base all’articolo 39 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), cioè rispetto a una situazione urgente da interrompere. Su questo, da un lato la Corte è giudicabile molto cauta, dall’altro è in linea con analoghe sentenze. Cioè afferma che non c’è l’urgenza di intervenire perché nei casi drammatici l’Italia ha provveduto a far scendere le persone. Poi però dice al governo di continuare a fare il possibile, perché controllerà l’evolversi della situazione. Questa seconda parte mi pare la più interessante perché afferma esplicitamente che rispetto allo sviluppo di quella situazione, e quindi rispetto alle persone sulla nave, c’è una responsabilità italiana. Cosa significa? Che quando la Corte entrerà nel merito, perché questa è solo l’urgenza, per esempio sulla violazione dell’art. 3 (quelle condizioni possono essere definite come trattamenti inumani e degradanti) o del 5 (le persone erano private della libertà in maniera informale e senza possibilità di ricorso) partirà dal fatto che la responsabilità è italiana. E qui ci potrebbero essere valutazioni diverse da quelle espresse l’altro ieri. Mi pare si sia colta solo mezza parte della questione. Quindi la sentenza non le pare contraddittoria, come hanno scritto gli avvocati di Sea Watch? La considero in linea con altre della stessa Corte. Non chiude le porte a possibili decisioni future nella valutazione del merito di natura differente. Non è singolare che una Corte auspichi che un governo si prenda cura delle persone senza ordinarlo? In qualche modo lo ordina, seppur implicitamente. Metterlo nella sentenza equivale a dire che se non viene fatto cambia il quadro. È chiaro che è una sentenza sulle procedure. Voglio vedere come sarà definito il trattenimento in mare per 14 giorni di persone deboli quando si esaminerà il merito. Poi è vero che la sentenza poteva essere più coraggiosa, poteva dire “intervengo già sul momento”. Ma è un po’ come il caso della Diciotti, sebbene quello sia stato tutto italiano. Quando la procura salì a bordo ci si chiese perché, se c’era una violazione, non è stata interrotta immediatamente facendo scendere le persone. La procura non lo ha imposto però poi ha ritenuto che si dovesse aprire un procedimento. La Corte potrebbe fare un po’ la stessa cosa. Non ha imposto di scendere adesso ma vedremo cosa deciderà sulla situazione di fatto. Droghe. L’appello di Mattarella: “Ai ragazzi serve prevenzione” di Viviana Daloiso Avvenire, 27 giugno 2019 L’emergenza droga, le istituzioni battono un colpo. Almeno nella Giornata mondiale che s’è celebrata ieri, in cui a farsi sentire più forte di tutte è stata la voce del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in visita al Centro italiano di solidarietà voluto da don Mario Picchi a Roma per accogliere - tra gli ultimi - proprio i giovani risucchiati nel vortice della dipendenza, sempre più numerosi. “Servono strumenti di prevenzione, è essenziali che i nostri bambini e i nostri ragazzi siano messi al corrente del valore della vita” è l’appello del capo dello Stato, che si unisce idealmente a quello del segretario generale dell’Onu Guterres lanciato a tutti i Paesi delle Nazioni Unite. “Il punto chiave è scardinare le solitudini per recuperare la vita - ha aggiunto. Ogni recupero restituisce un patrimonio inestimabile”. Gli ospiti della comunità lo ascoltano e gli stringono la mano commossi, qualcuno racconta la sua storia di rinascita, il presidente Roberto Mineo lo ringrazia aggiungendo che purtroppo “il fenomeno droga è lungi dall’affievolirsi”, e che quindi “non bisogna mai abbassare la guardia e cedere all’idea di pericolose liberalizzazioni che puntualmente si riaffacciano in parte dell’opinione pubblica”. Proprio nella giornata contro la droga, d’altronde, è stata pubblicata anche la decima edizione del Libro Bianco promosso dalla Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni che rivela come se nel mondo la media degli arresti per reati connessi alle droghe è intorno al 20%, in Italia siamo stabili al 30%. Un fenomeno che - questo il punto di vista del fronte di sigle - incide sul sovraffollamento delle carceri al punto che “senza gli arresti dovuti al proibizionismo il sistema penitenziario italiano rientrerebbe nella legalità costituzionale”. “Nessuna pietà per i venditori di morte e per le mafie che fanno affari con lo spaccio” sono invece le parole del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che promette di moltiplicare “i nostri sforzi per contrastare sempre di più la vendita di droga: controllo del territorio, prevenzione, pene più severe”. Un approccio securitario che poco interessa al mondo delle comunità e degli operatori, che hanno lanciato un allarme sui tagli all’assistenza e ai servizi specialistici (garantiti soltanto a una vittima su tre) e hanno chiesto a gran voce al governo la convocazione della Conferenza nazionale sulle droghe, lo strumento che permetterebbe all’intero sistema di presa in carico delle dipendenze di riorganizzarsi e ripartire. “In quest’ anno di lavoro - la replica arrivato dal ministro per la Famiglia e le Disabilità con delega alle Politiche antidroga, Lorenzo Fontana - abbiamo investito 7 milioni di euro per la prevenzione dall’uso di droghe, 3 per progetti nelle scuole, 2,2 per il sostegno alle comunità. Abbiamo inoltre attivato tavoli tecnici in vista della prossima Conferenza nazionale sulle droghe”. Tavoli che tuttavia, ancora a ieri sera, non risultavano convocati. Droghe. Libro Bianco: solo l’1% degli incidenti stradali avviene a causa di sostanze quotidianosanita.it, 27 giugno 2019 Carceri piene di persone da aiutare (30%)”. Il Libro Bianco. Se nel mondo la media degli arresti per reati connessi alle droghe è intorno al 20%, in Italia siamo stabili al 30%. E ancora, 14.118 dei 47.258 ingressi in carcere nel 2018 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 (detenzione a fini di spaccio) della legge. Dei quasi 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2018 ben 14.579 lo erano per detenzione a fini di spaccio. “Senza gli arresti dovuti al proibizionismo il sistema penitenziario italiano rientrerebbe nella legalità costituzionale”. Il rapporto presentato oggi alla Camera dall’Associazione Coscioni e altre organizzazioni. In occasione della giornata internazionale contro il Narco Traffico è stato presentato presso la Camera dei Deputati il X Libro Bianco sulle droghe promosso da Associazione Luca Coscioni, la Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca con l’adesione di A Buon Diritto, Arci, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd, Lega Coop Sociali, Lila. Alcuni dati del Decimo Libro Bianco “La Guerra dei Trent’anni”, che passa in rassegna 30 anni di leggi e politiche in materia di droga, oltre a raccogliere dati relativi al 2018: - Si conferma che, da tre decenni, il Testo Unico, noto ancora come Jervolino-Vassalli, è la causa principale di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Se nel mondo la media degli arresti per reati connessi alle droghe è intorno al 20%, in Italia siamo stabili al 30%. Il testo smonta anche molte delle mistificazioni spesso utilizzate per generare paura contro riforme anti-proibizioniste. Giusto per fare un esempio, solo l’1.14% degli incidenti stradali (dati della Polizia Stradale 2018, Istat e Dpa) avviene in violazione dell’art. 187 del codice della strada (guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti). Anche i dati della sperimentazione dello screening rapido su strada indicano che a poco più dell’1% dei conducenti risulta positivo ai test. Di questi una media superiore al 20% viene “scagionato” dalle analisi di laboratorio. -14.118 dei 47.258 ingressi in carcere nel 2018 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 (detenzione a fini di spaccio) della legge. Si tratta del 29,87%, un’inversione di tendenza dal 2013 quando a seguito della sentenza Torreggiani della CEDU e dalle modifiche occorse a seguito della decisione della Consulta di cancellare buona parte della legge “Fini-Giovanardi” furono registrati numeri di arresti con la media mondiale. - Dei quasi 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2018 ben 14.579 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 5.488 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti), solo 940 esclusivamente per l’art. 74. Questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili (anzi diminuiscono di alcune decine di unità). Nel complesso vi è però un aumento secco del 6,5% rispetto all’anno precedente. Senza gli arresti dovuti al proibizionismo, si spiega, il sistema penitenziario italiano rientrerebbe nella legalità costituzionale. “Questo studio indipendente - dichiara Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, una delle organizzazioni promotrici del documento - continua a rappresentare uno dei pochi documenti seri, se non l’unico, capaci di analizzare il fenomeno nella sua dimensione reale senza pregiudizi ideologici. Tutte le associazioni che hanno contribuito hanno sicuramente posizioni molto critiche circa le leggi e politiche in materia di droga nel nostro paese, ma al momento dell’analisi si concentrano laicamente sui dati forniti dai ministeri per far emergere la realtà italiana. Il X Libro Bianco denuncia una gravissima situazione relativa ai procedimenti penali per violazione della Legge sulla droga e al numero degli arresti anche per la sola detenzione che contribuiscono significativamente alla sovrappopolazione carceraria”. “Il governo continua a non far tesoro degli sviluppi positivi in materia di regolamentazione, in particolare di cannabis, che iniziano a venire dai vari Stati degli Usa e dal Canada e Uruguay, mentre il Parlamento è immobile sulla nostra proposta di legge d’iniziativa popolare presentata alla camera nel 2016 per la legalizzazione della cannabis. Infine - ha concluso Filomena Gallo - il quotidiano stillicidio di dichiarazioni contrastanti da parte di membri del Governo su canapa e cannabis, contribuisce a creare un generale clima d’incertezza che va contro il diritto alla salute di migliaia di persone che dai cannabinoidi potrebbero trarre giovamento e colpisce piccoli e medi imprenditori di un settore agricolo tradizionale”. Gli altri numeri del Libro Bianco - 16.669 dei 59.655 detenuti al 31 dicembre del 2018 sono ritenuti tossicodipendenti, si tratta del 27,94% del totale. Una percentuale che supera il picco raggiunto dall’entrata in vigore della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), numeri successivamente riassorbiti grazie a interventi legislativi correttivi. Preoccupa poi l’ulteriore l’impennata degli ingressi in carcere di tossicodipendenti che toccano il record del 35,53%. Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 178.819 (+5.005 e +2,9% rispetto a un anno prima) e 43.335 (+1.154 e +2,7%), un dato che si allinea ai peggiori anni della Fini-Giovanardi”. Unico dato positivo sono le misure alternative in lieve ma costante crescita lieve negli ultimi anni grazie alla revisione di dei massimi e minimi di pena del 2014”. Le sanzioni amministrative riguardano il 36% delle segnalazioni, anche qui la percentuale è in aumento rispetto all’anno precedente. La segnalazione al prefetto dei consumatori ha quindi natura principalmente sanzionatoria. La repressione colpisce per quasi l’80% i consumatori di cannabinoidi (79,18%), seguono a distanza cocaina (14,34%) e eroina (4,39%) e in maniera irrilevante le altre sostanze. Dal 1990, anno dell’entrata in vigore del Testo Unico sulle droghe, 1.267.183 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste 926.478, il 73,11% per derivati della cannabis. Infine, malgrado il ritorno sensibile degli arresti, si registra il crescente numero delle persone segnalate ai prefetti per consumo di sostanze illecite: 39.278 nel 2018 con un’impennata relativa ai minori di +394,4% in tre anni. Dopo aver già notato il dato nel Nono Libro Bianco si consolida il numero delle sanzioni: 15.126. Allo stesso tempo pare del tutto irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al Prefetto: su 39.278 persone segnalate solo 82 sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento sociosanitario - nel 2017 erano 3.008. Cinque strumenti di tortura che devono essere messi al bando di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 giugno 2019 Oggi è la Giornata internazionale per le vittime di tortura. A oltre 60 anni dalla proclamazione del divieto internazionale di tortura e a più di 40 anni dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, questa atroce pratica resta diffusa in numerosi paesi e, particolare aberrante, strumenti atti a torturare vengono ancora pubblicamente offerti sul mercato e commerciati in tutto il mondo. Nelle scintillanti fiere delle armi e dei prodotti di sicurezza, i governi esibiscono ai loro stand oggetti il cui unico scopo è di causare dolore e paura. Negli ultimi anni, il divieto europeo di esportazione ha reso più difficile commercializzarli ma non esiste ancora a livello internazionale il consenso necessario per metterli al bando. Questa settimana l’Assemblea generale delle Nazioni Unite metterà ai voti una risoluzione per porre fine al commercio di strumenti di tortura. Amnesty International auspica che sia adottata e che vengano rafforzati i blandi controlli che finora hanno permesso a tale commercio di prosperare. Ecco cinque strumenti di tortura da vietare immediatamente. Le cinture elettriche - Sono utilizzate per “controllare” i detenuti in Sudafrica e in alcuni stati degli Usa. Mediante elettrodi collocati vicino ai reni, rilasciano scariche ad alto voltaggio causando dolori atroci. Spesso sono fatte indossare per parecchie ore al giorno, con la minaccia di essere attivate a distanza. Possono causare debolezza muscolare, minzione e defecazione involontarie, aritmie cardiache, collassi e piaghe sulla pelle. Vengono prodotte negli Usa, a Singapore, in Cina e in altri paesi. Fornitori sono stati individuati in India e in Israele. I manganelli elettrici - Anche in questo caso, sono prodotti che rilasciano potenti scariche elettriche premendo semplicemente un pulsante. In caso di uso ripetuto, soprattutto sulle parti sensibili del corpo, possono procurare enormi dolori senza lasciare tracce fisiche permanenti. Per questo sono tra gli strumenti preferiti di tortura, tanto che Amnesty International ne ha documentato l’uso in ogni parte del mondo. Sono prodotti e ampiamente usati in Cina. Un’azienda russa ha commercianti e rappresentanti in Bielorussia, Kazakistan, Ucraina, Uzbekistan, Iran, Israele, Arabia Saudita, Sudafrica e Vietnam. Omega Research ne ha rinvenuto la produzione in diverse aziende che hanno sede nell’Unione europea. Sono usati in molti paesi, tra cui Kirghizistan, Filippine, Russia e Cina. Tre anni fa, Amnesty International ha raccolto testimonianze di migranti e rifugiati colpiti coi manganelli elettrici all’arrivo in Italia, per costringerli a rilasciare le impronte digitali nelle stazioni di polizia. I manganelli acuminati - Si tratta di manganelli o bastoni dotati di punte acuminate in plastica o metallo che non hanno altro scopo se non infliggere intenzionalmente dolore e sofferenza. Alcuni modelli hanno le punte sparse su tutto il prodotto, altri solo sulla punta. Il principale produttore di questo strumento di tortura è la Cina. L’Unione europea ha emesso un divieto, valido per tutti gli stati membri, di importare, esportare o promuovere questi prodotti. Ma ciò nonostante, nel 2017 erano in vendita a Parigi, presso una fiera delle armi, insieme ad altri prodotti illegali. A usarli sono soprattutto le forze di polizia in Cambogia, Nepal e Thailandia. I collari - Si tratta di strumenti di costrizione che stringono il collo. Alcuni modelli bloccano insieme il collo e i polsi. Sono degradanti e pericolosi e producono molto dolore. La pressione esercitata sul collo può causare soffocamento o danni alla gola. Le ricerche di Amnesty International e di Omega Research hanno individuato almeno un produttore in Cina, che è il paese che li usa maggiormente. Le sedie di contenzione - In queste sedie i detenuti sono bloccati da manette o altri strumenti di costrizione ai polsi, alle spalle, al petto, alle anche, ai gomiti, alle cosce o alla vita. Sono spesso usate per compiere altre torture, come pestaggi e alimentazione forzata. Se una persona viene lasciata incustodita per lunghi periodi di tempo, questa rischia gravi ferite se non la morte. Non vi è alcun legittimo uso che le forze di polizia possano rivendicare. Lo stesso risultato, rendere inoffensiva una persona impedendone i movimenti, può essere ottenuto con strumenti meno dannosi. Di nuovo, la Cina è tra i principali produttori e utilizzatori ma le sedie di contenzione sono prodotte anche negli Usa e ne è stato documentato l’uso nel centro di detenzione di Guantánamo Bay. Sono usate ancora nelle prigioni per adulti dell’Australia, mentre ne è stato sospeso l’uso nelle carceri minorili dopo che nel 2016 avevano fatto il giro del mondo le sconvolgenti immagini di un minorenne incappucciato e bloccato a una sedia di contenzione nei Territori del Nord. Libia. Restare a Tripoli di Daniele Raineri Il Foglio, 27 giugno 2019 Tra il piano Minniti in Libia e Salvini ci sono grosse differenze, ma nel caos non capiamo più nulla. Il piano Minniti prevedeva l’arrivo dell’Onu per svuotare i campi, il governo gialloverde s’è tenuto solo gli accordi sui barconi. Quando si parla degli accordi tra l’Italia e la Libia ci sono alcuni equivoci che vanno chiariti. L’equivoco più grande è che il cosiddetto piano Minniti fosse a favore dei campi di prigionia in cui i migranti sono rinchiusi in condizioni spaventose. Il piano Minniti in realtà era articolato in fasi successive che prevedevano l’intervento delle Nazioni Unite in Libia per svuotare i campi e per spostare tutti i migranti sotto la protezione internazionale. È chiaro che per i migranti - che a centinaia di migliaia arrivano da sud fino alla costa libica e lì sono detenuti anche per anni - passare dalle mani dei libici a quelle delle Nazioni Unite avrebbe significato la salvezza. Avrebbero abbandonato la condizione di prigionieri sottoposti a torture e abusi per tornare esseri umani sotto la responsabilità di un’organizzazione internazionale. Prevedeva anche che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) cominciasse in Libia il lavoro per capire quanti fra gli immigrati avessero diritto allo status di rifugiato perché in pericolo e aprisse per loro un corridoio umanitario verso l’Europa - quindi saltando il passaggio del traffico di persone sui barconi, in mano alla criminalità e a rischio naufragio. E allora perché non è successo? Che cosa non ha funzionato? Il piano Minniti si è fermato alla prima fase, quella del blocco delle partenze dei barconi, perché il governo di Tripoli sponsorizzato dalle Nazioni Unite non ha mai raggiunto il livello di stabilità necessario a continuare. Anzi, adesso è a rischio estinzione perché da tre mesi è assediato dalle milizie del generale Khalifa Haftar, che nei primi giorni di aprile ha lanciato un blitz per catturare la capitale - l’attacco doveva durare ventiquattr’ore, invece si è trasformato in una guerra civile che finora ha fatto settecento morti. Eppure l’unica speranza di chiudere i centri di detenzione in Libia sarebbe avere a Tripoli un governo forte e stabile, che possa approvare una missione delle Nazioni Unite, e invece accade il contrario: il governo sponsorizzato dalle Nazioni Unite è stato abbandonato quasi da tutti e di fatto sopravvive ancora soltanto perché alcune milizie disprezzano Haftar e non vogliono finire sotto il suo regime e anche perché Turchia e Qatar lo tengono in vita per ragioni politiche che non c’entrano nulla con i rifugiati. Se alcuni deputati del Partito democratico pensano che eliminare gli impegni dell’Italia migliorerà la situazione, non hanno capito che servirebbero più accordi e non meno. Nel frattempo in Italia è arrivato il governo gialloverde a cui delle fasi successive del piano non importava, gli è bastato ereditare l’accordo per limitare le partenze dei barconi dalla costa libica. L’esecutivo italiano mostra di non capire la gravità del problema. A novembre il premier Giuseppe Conte aveva annunciato che il 2019 sarebbe stato l’anno della svolta in Libia, quello della pace, e invece è chiaro a tutti gli osservatori che la situazione peggiora di settimana in settimana. La riconciliazione della Libia cercata con forza da Paolo Gentiloni, prima da ministro degli Esteri e poi da presidente del Consiglio, non era un obiettivo astratto oppure “buonista”: la Libia stabilizzata era il requisito necessario ma non sufficiente per realizzare il resto del piano, che prevedeva l’arrivo delle Nazioni Unite, la fine dei centri in cui sono rinchiusi i migranti in condizioni orrende e il controllo del flusso di migranti verso l’Italia. La linea Minniti prevedeva anche accordi nel sud della Libia e una missione militare al confine sud del paese, quello con il Niger, in modo che ci fosse una prevenzione a più strati. I trafficanti di persone dovevano essere bloccati molto più a sud, in modo da evitare che i migranti arrivassero fino alla costa libica, e quelli sulla costa non dovevano partire sui barconi, in modo da diminuire al massimo le traversate (e gli annegamenti in mezzo al mare). Di nuovo: tutto questo non si è realizzato, anzi è proprio sparito dall’orizzonte. C’è poi la questione dell’ospedale da campo a Misurata, sulla costa duecento chilometri a est della capitale. Di fatto, è uno dei pochi simboli dell’impegno dell’Italia verso il governo di Tripoli. Potremmo pure chiuderlo, ma poi non si capisce perché qualche libico dovrebbe ancora ascoltare cosa abbiamo da dire su quello che succede nel loro paese. Tenere i canali di comunicazione aperti invece ci servirebbe - e non poco. Messico. La foto di padre e figlia annegati: ora ci commuoviamo, ma poi faremo qualcosa? di Franco Venturini Corriere della Sera, 27 giugno 2019 L’immagine del papà e della bimba morti in Messico ricordano quella di Alan, e come quella colpiscono. Ma l’emozione dura poco: da che cosa sarà seguita? Ci sono immagini che sembrano coltellate, che ti lacerano, che innescano una profonda tristezza chiamata emozione. Come non provare orrore, davanti a questo padre e alla sua bambina affogati in un fiume di confine tra Messico e Stati Uniti, a faccia in giù come il piccolo siriano Alan portato dalla corrente sulla spiaggia turca di Bodrum nel 2015. Ma le emozioni, anche davanti agli scatti più terribili, non colpiscono quasi mai la sfera della razionalità, del pensiero, dell’iniziativa, e per questo durano poco. Per questo, rimarginata la ferita, ci affrettiamo a rientrare nel nostro quotidiano. Che orrore, anche questo. Possono durare così poco, i nostri valori? Può essere a tal punto egoista, la nostra vita ben protetta? Il dibattito è antico. Per alcuni la prima cosa da difendere è la nostra democrazia, e una immigrazione incontrollata la metterebbe in crisi favorendo svolte autoritarie sancite dalle urne. Per altri i valori di tolleranza e di accoglienza vengono prima dei sistemi politici. Per altri ancora, e noi siamo tra questi, esistono sempre vie che possono essere percorse. Ma per provarci, per porsi soltanto il problema dell’azione davanti alle sfide globali, servono qualità che non tutti i politici e non tutti i popoli hanno. I rigoristi fautori dei “muri” citano volentieri l’esempio di Angela Merkel. L’esempio di uno slancio emotivo che in politica è finito male, dicono. Ma il giudizio potrebbe presto cambiare, perché la Germania trasforma i rifugiati in risorse economiche, in nuova manodopera, e organizza l’insegnamento della lingua, l’inserimento sociale. Si chiama integrazione. Donald Trump non sembra essersi posto questi problemi. Ha promesso un muro contro i centro-americani e un muro esige prima delle elezioni del novembre 2020. Negli Usa, era ora, è scoppiato lo scandalo dei bambini non accompagnati che i servizi federali fanno vivere in condizioni oltraggiose. Ma Trump non cambierà rotta. A lui interessano le elezioni e i problemi americani, non quelli globali. Il nostro trumpismo lo abbiamo anche noi, e le divisioni europee non aiutano le azioni comuni. Ma superare le prese di posizione strumentali che conosciamo (mentre centinaia di migranti arrivano nel silenzio con piccole imbarcazioni) diventa possibile soltanto in presenza di una forte volontà indipendente dalle immagini strazianti. I “nostri” migranti giungono in massima parte dalla Libia. Ebbene, chi ricorda che in Libia si combatte e si muore ogni giorno? Quali iniziative abbiamo preso, noi che siamo i primi interessati? Abbiamo per caso cercato seriamente di fermare i rifornimenti di armi alle parti, beninteso in accordo con Paesi più influenti di noi? Non domina l’impotenza, oppure il disinteresse? Eppure in una Libia senza spari un piano efficace potrebbe forse essere concepito. L’Onu potrebbe assumere la sorveglianza di quei “campi” dove i futuri migranti vengono spesso torturati. Percorsi legali di immigrazione potrebbero essere creati, limitati nei numeri e sorvegliati. Una politica di integrazione potrebbe nascere, in una Italia che continua ad invecchiare. Nuovi accordi per i rimpatri potrebbero essere conclusi. Quel papà e quella bimba non sono morti sull’uscio degli Usa, sono morti anche a Lampedusa, anche in Turchia come Alan, anche sulle coste siciliane. Spetta a noi la scelta tra emozioni brevi e volontà tenaci. Russia. Committee Against Torture: un cittadino su dieci è stato torturato cdt.ch, 27 giugno 2019 Le prove indicano che le forze dell’ordine fanno spesso uso di violenza contro i detenuti per punire ed estorcere confessioni. Un cittadino russo su 10 afferma di essere stato torturato dagli agenti delle forze dell’ordine. Lo riporta un sondaggio dell’istituto demoscopico indipendente Levada Center. I risultati offrono “prove spaventose che le forze dell’ordine usano la violenza contro i detenuti e la usano spesso”, ha detto il Centro Levada. Il sondaggio è stato commissionato dall’ong Committee Against Torture e pubblicato ieri. Tre quarti di chi ha affermato di essere stato torturato ha detto che le forze dell’ordine hanno usato la violenza per umiliare e intimidire. La metà ha detto che le autorità li hanno torturati per estorcere confessioni e un terzo ha dichiarato che la violenza è stata inflitta come punizione. Le forze dell’ordine russe sono state colpite da diversi scandali di torture, con vittime tra le persone LGBT in Cecenia, Testimoni di Geova e carcerati. Nel 2018, gli investigatori dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno chiesto alla Russia di fermare le frequenti torture di detenuti e perseguire i responsabili. Lo riporta il Moscow Times. Mentre il 60% degli intervistati ha dichiarato di opporsi alla tortura in tutti i casi, il 30% ha dichiarato che la pratica è accettabile in rare occasioni. Allo stesso tempo, il 40% ha affermato che evitare la tortura renderebbe più difficile per le forze dell’ordine trovare i criminali. “Questi risultati sono spiacevolmente sorprendenti”, ha detto l’avvocato dell’ong Dmitry Kozakov al quotidiano Kommersant. Levada ha condotto il suo sondaggio, pubblicato nella Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, tra 3400 intervistati in 53 regioni russe in gennaio e febbraio. In America latina ora il golpe si fa in tribunale di Adolfo Pérez Esquivel Il Manifesto, 27 giugno 2019 La guerra giudiziaria è diventata oggi lo strumento statunitense per modificare gli equilibri politici nello storico “cortile di casa”. Si denigrano ex governanti progressisti per evitare che tornino a crescere alternative popolari alle politiche neoliberiste Usa. Papa Francesco ha di recente lanciato l’allarme sul ricorso al lawfare, alla guerra giuridica, come meccanismo di intervento nello scenario politico. Nel suo discorso al Vertice dei giudici panamericani ha spiegato che “il lawfare, oltre a mettere in grave pericolo la democrazia dei paesi, generalmente viene utilizzato per minare i processi politici emergenti e propendere alla violazione sistematica dei diritti sociali”. Il lawfare è stato definito dal Comando Sud degli Stati uniti parte della strategia per assicurare l’influenza e tornare allo stato di subordinazione del continente che per Washington è sempre stato il “patio trasero” (cortile di casa). Una strategia utilizzata nei colpi di Stato, come quelli contro i governi di Honduras e Paraguay. Quando i golpe “bianchi” istituzionali falliscono, cercano di imporla con la forza come fatto storicamente orchestrando colpi di Stato insurrezionali o minacciando interventi militari diretti come nei confronti del Venezuela, un paese costretto ad affrontare pressioni e sabotaggi di ogni tipo contro la sua popolazione, con il blocco statunitense che causa la penuria di alimenti e farmaci. L’attuale amministrazione statunitense ha accentuato il proprio interventismo nella regione, cercando di recuperare lo spazio egemonico perso dopo il fallimento delle politiche neoliberiste negli anni 90 con l’ascesa di governi progressisti che hanno messo in essere strategie all’insegna di una maggiore sovranità e giustizia sociale. Per garantire i propri interessi, Washington non può permettere che un paese indipendente e sovrano esca dalla sua orbita di dominio. Il ritorno alle politiche neoliberiste in diversi paesi della regione favorisce la ricolonizzazione del continente, l’acuirsi della dipendenza, l’esclusione sociale, la concentrazione della ricchezza, finendo per rendere spurie le democrazie latinoamericane. La guerra giuridica è utilizzata per denigrare e attaccare ex governanti progressisti, per evitare che tornino a crescere alternative popolari alle politiche neoliberiste. Non si tratta di fatti isolati: rispondono a politiche imposte dagli Usa in tutto il continente; è quello che accade in Brasile contro Lula e Dilma Rousseff, la perversa impalcatura giuridica e politica usata per impedire la candidatura di Lula alle elezioni. Le denunce del giornalista statunitense Glenn Greenwald, vincitore del Premio Pulitzer nel 2014 insieme allo staff del Washington Post, hanno rivelato com’è stato costruito il processo contro Lula, la perversione e le falsità del giudice Sergio Moro, di Bolsonaro e dell’ambasciata statunitense. In Argentina è stata costruita un’architettura politica basata sull’intervento della giustizia attraverso lo spionaggio, con l’intervento diretto e parastatale di agenzie di intelligence, con un grande impegno da parte dei media, concentrati in poche mani, e di giornalisti diventati spie. Come è stato possibile che un autista come Oscar Centeno abbia avuto a sua disposizione informazioni e dati tali da costruire un piano per denunciare Cristina Kirchner, i suoi figli ed ex funzionari del suo governo? Il popolo non è stupido. L’inganno e la bassezza messi in campo assomigliano all’operato nefasto del giudice Moro contro Lula in Brasile o a quanto è stato compiuto in Ecuador contro l’ex presidente Rafael Correa. I nostri popoli credono nella giustizia, ma non credono più nel potere giudiziario. Il governo minaccia e condiziona i giudici. Certi magistrati temono le minacce e le rappresaglie, hanno paura che si inventino ragioni per sottoporli a un giudizio politico o per insabbiare il loro lavoro. Quando un giudice indaga su fatti che coinvolgono funzionari dell’amministrazione giudiziaria e alleati del governo, come Marcelo D’Alessio, il procuratore Stornelli, i presunti repubblicanisti come il giudice Bonadío, la ministra della sicurezza sociale Patricia Bullrich, deputati della coalizione di governo, settori della corporazione dei giudici, i media mainstream e lo stesso presidente della nazione avviano una campagna feroce contro i giudici indipendenti, come Alejo Ramos Padilla, mirando a squalificarli e distruggerli per evitare che proseguano le inchieste. Il presidente Macri, forte della sua impunità, invita il procuratore Stornelli a un evento pubblico nella giornata delle forze armate, come per dargli manforte di fronte ai cinque rinvii a giudizio decisi dal giudice Padilla; burlandosi così di quella giustizia che dovrebbe servire. Le accuse in serie avanzate dal giudice Bonadío contro l’ex presidente Cristina Fernández, benché siano evidenti le falsificazioni, come ad esempio nella causa relativa all’importazione di gas liquefatto, mettono in evidenza la strategia del lawfare. A importare non sono verità, obiettività, giustizia, ma obiettivi politici al servizio del potere. I servizi segreti delle ambasciate degli Stati uniti e di Israele continuano a tramare nell’ombra, con giudici che vanno e vengono per essere “formati”: imparano come demolire qualunque opposizione politica e come indurre e manipolare campagne elettorali e opinione pubblica, sostenuti da una stampa canaglia che agisce nella totale impunità. L’obiettivo è arrivare a condannare prima dei giudici e instillare nella popolazione gli effetti di queste condanne mediatiche, sollevando sospetti e accuse. Le prove dell’appartenenza di Marcelo D’Alessio alla Dea, con legami stretti negli Stati uniti, in Israele, con la ministra Bullrich e il procuratore Stornelli, la sua partecipazione al vertice dei capi di Stato del G20 sono fatti gravi che attentano alla sicurezza del paese. Nel corso di una perquisizione, sono stati trovate in possesso di D’Alessio armi sofisticate che non esistono nel paese, in dotazione alle forze armate statunitensi, e documentazione che attesta le sue responsabilità e connivenze con il governo. È molto grave che si permetta ad agenzie di intelligence parastatali di operare, come hanno fatto - lo si apprende dalla documentazione sequestrata - D’Alessio e la sua équipe in Venezuela e Uruguay, violando i diritti sovrani di paesi fratelli. È necessario denunciare il lawfare e chiarirne i meccanismi all’opinione pubblica. Ma non basta. Nella ricerca di alternative dovremmo mettere in atto strategie di maggiore trasparenza e controllo nella gestione pubblica e nell’amministrazione della giustizia e istituzionalizzare con maggiore determinazione efficaci meccanismi di controllo e democratizzazione della società.