Giornalisti alla scoperta del “pianeta carcere” di Marcello Lazzerini lindro.it, 26 giugno 2019 Fra i tanti temi dimenticati dal dibattito che infiamma ormai da mesi la politica italiana, ve n’è uno che riguarda le condizioni di vita di migliaia di persone, particolarmente disagevoli in questi torridi giorni: è quello delle carceri italiane, dove non si è mandati a “marcire”, come un ministro ha detto, ignorando la funzione che la Carta costituzionale assegna al sistema carcerario, che è quello dove si è reclusi per scontare una pena, ma anche dove si svolgono attività formative ed educative allo scopo di favorire il recupero e il reinserimento dei detenuti nella società. Anche l’informazione è spesso carente e approssimativa, ignorando talvolta le reali condizioni dei vari istituti di pena. È perciò con particolare interesse umano e professionale che un cospicuo gruppo di giornalisti si è incontrato con gli operatori all’interno del carcere di Sollicciano, a Firenze, uno dei sei istituti di pena pilota in Italia del progetto per il contrasto alla radicalizzazione jihadista, nell’ambito del percorso di aggiornamento professionale promosso dall’Ordine e dall’Associazione Stampa Toscana, d’intesa con il Direttore del carcere Fabio Prestopino. Tema: “Le competenze e l’operatività del Corpo di Polizia penitenziaria e il ruolo dell’informazione sul pianeta carcere”. Quella di Sollicciano è una delle realtà forse più vicine ai compiti istituzionali, anche se pure qui dentro si avvertono carenze che appartengono all’intero sistema. Già l’edificio si presenta con un’architettura gradevole, quasi uno stadio, un’arena con spazi verdi all’interno e un andamento circolare che, invece, nelle intenzioni dei costruttori doveva rappresentare la forma di un giglio, simbolo della città. Ma proprio questa struttura esteticamente apprezzabile sembra non del tutto adeguata alle attuali esigenze dell’Istituito. La recente proiezione di un docu-film, alla presenza del Presidente della Repubblica, che racconta il viaggio nelle carceri della Corte Costituzionale, mostra realtà ben diverse, assai più pesanti. Durante questo nostro incontro, si sono appresi alcuni numeri che danno un’idea generale dei nostri carceri. Intanto, sono circa 60 mila i detenuti in Italia, un terzo dei quali (20.300 circa) stranieri in gran parte provenienti soprattutto dal Maghreb (Marocco e Tunisia, reati prevalenti: droga), ma anche da Albania, Romania, Nigeria (fenomeno in ascesa), Senegal, Algeria. Una proporzione che a Firenze è del tutto invertita poiché su circa 800 detenuti, solo un terzo sono italiani. Da altre fonti si apprende che in carcere ci sono più di 22 mila persone con meno di tre anni di pena, ma con una recidiva per chi esce che sale di continuo, fino a raggiungere il 70%. È evidente che il problema non è solo dentro il carcere, ove ci sono tante persone - personale penitenziario, medici, educatori, volontari - che si prodigano per garantire condizioni di vivibilità e speranza. Quali i problemi affrontati? Eccoli: il ruolo di reinserimento dei detenuti, la scoperta di uno dei corpi più giovani e più attivi tra le forze di polizia, la Polizia penitenziaria, i compiti di monitoraggio che negli istituti di pena vengono svolti per contrastare il terrorismo internazionale, le criticità che si presentano nella gestione della collettività dei detenuti talvolta in situazioni di sovraffollamento, il difficile compito dei cronisti che devono raccontare l’universo carcerario. Quello di Firenze è infatti uno dei sei istituti di pena pilota in Italia del progetto per il contrasto alla radicalizzazione jihadista. E qui si tocca un tema complesso. “È noto che il carcere è un bacino di reclutamento jihadista, sia per il basso livello culturale dei detenuti che per la loro condizione di povertà” - dice Massimo Mencaroni, Comandante del reparto della Polizia penitenziaria della Casa circondariale. “Si tratta” - precisa - “di soggetti vulnerabili, tra i quali anche italiani. Per quanto riguarda l’azione di contrasto, stiamo monitorando il fronte del proselitismo per mettere in atto interventi adeguati, intanto adottando vari livelli di classificazione (ad es. gli islamici praticanti sono circa il 12% dei maghrebini), è chiaro che prestiamo grande attenzione alle condizioni ambientali attraverso incontri con i rappresentanti delle rispettive comunità esterne e associazioni varie, compresa quella di S. Egidio. Il controllo del fenomeno richiede contatti con l’Europa. Attenzione prestiamo anche ai fenomeni di radicalizzazione dell’area anarchica”. Da quanto si apprende, all’interno del carcere si svolge una costante attività di intelligence, che richiede personale specializzato. Ecco l’altro aspetto che sfugge spesso ai media: il ruolo che svolge il personale di polizia penitenziaria, corpo di recente istituzione, la cui attività - ricorda il Direttore - “è un modello sotto il profilo della sorveglianza, della custodia, della sicurezza, riconosciuto manche a livello europeo”. Una testimonianza preziosa quella del Procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Creazzo, che ha evidenziato anche il ruolo investigativo di un corpo di polizia che non ha soltanto il compito della custodia, ma anche quello del monitoraggio dell’insieme dei detenuti e che, in molti casi, si è tradotto in un contributo importante alle indagini della magistratura. In particolare ha ricordato il ruolo svolto da “un semplice agente di polizia giudiziaria” nell’intercettare un ‘pizzino’ che un boss mafioso detenuto stava passando ai familiari, così come in altri casi istruiti dallo stesso Procuratore contro le mafie. Un lavoro prezioso, di alta qualità. Sandro Bennucci, Presidente dell’Ast (Associazione Stampa Toscana), ricorda come il primo contatto tra il sindacato dei giornalisti e la Polizia penitenziaria fosse avvenuto quando gli agenti fornirono la scorta d’onore alla sorella della collega Dafne Caruana Galizia, due anni fa ricevette a Firenze il premio Giornalisti Toscani assegnato alla memoria della giornalista uccisa a Malta. “Da allora” - ha detto Bennucci - “è cresciuto l’interesse professionale per il mondo carcerario, del quale dobbiamo spesso scrivere, e verso gli uomini e le donne che con il loro lavoro ne assicurano la funzionalità”. Sul funzionamento del carcere importante anche la testimonianza del comandante del Nucleo traduzioni e piantonamenti di Sollicciano, Giuseppe Simone: “il funzionamento del carcere è un lavoro complesso, se davvero vogliamo renderlo sempre più adeguato al dettato costituzionale. E infatti la nostra istituzione” - aggiunge il Direttore Prestopino - “vede la presenza all’interno della struttura oltre ai 450 agenti della polizia giudiziaria, di 250 volontari esterni al mese: medici, educatori, psicologici, sportivi, tecnici, per lo svolgimento delle attività di formazione professionale, per uomini e donne, l’aiuto psicologico, le attività culturali, cinematografiche e teatrali, librarie di sport. Recentemente si è consentito ai detenuti di fede islamica - circa 140 - di celebrare il Ramadan”. Quanto al sovraffollamento, fenomeno spesso lamentato, nel carcere di Sollicciano, il principale della Toscana, la situazione vede la presenza di 800 detenuti, i posti letto regolamentari sono 500, mentre 760 quelli tecnicamente disponibili. Il personale di custodia è di 486 persone, meno rispetto ai 696 previste. Dopo la cosiddetta ‘sentenza Torreggiani’ della Corte europea dei diritti dell’uomo, che fissa in tre metri quadrati lo spazio minimo per ogni detenuto, paradossalmente, e per fortuna solo teoricamente vista la particolare configurazione architettonica di Sollicciano, i posti letto potrebbero essere 1.500. Dunque, anche qui i problemi non mancano. Riassumibili nel dato: eccesso di detenuti, carenza di personale. Ma, come dicevamo, l’impegno ad affrontare le varie problematiche è costante, così come la richiesta di un aiuto non solo da parte dello Stato ma anche del mondo esterno. E qui il Direttore Prestipino lancia un appello : visto il rapporto con la città e con il tessuto sociale, che come detto oltre agli agenti di polizia penitenziaria, al personale educativo e amministrativo, dei detenuti si occupano anche addetti al sistema sanitario della Asl, docenti scolastici, decine di volontari impegnati nelle attività culturali, pittura, grafica, discipline sportive e sportive dell’Arci e di varie società. Rimane il fatto che solo un terzo è impegnato in attività rieducative e circa 160 in attività lavorative. “Questo non ci basta” - dichiara il direttore Prestopino - “perché il lavoro è una componente fondamentale della vita in carcere e della vita che attende i detenuti una volta fuori. E per migliorare” - ecco l’appello - “abbiamo bisogno della collaborazione delle imprese”. Raccogliendo l’appello, a nome dei giornalisti, Stefano Fabbri richiama i colleghi al rispetto delle procedure di approccio alle “fonti” per i giornalisti che si occupano di carcere, a cominciare proprio dai detenuti che è possibile intervistare previa autorizzazione, ma come prevedono le norme deontologiche dell’Ordine e dalla Carta di Milano occorre sempre il rispetto sostanziale della persona privata della libertà personale. Un aggiornamento sul campo, che ha consentito di conoscere più da vicino, si può dire dall’interno, la realtà di un esperienza pilota nel quadro del sistema carcerario italiano. Intorno alle carceri una nuova forma di partecipazione civica di Marco Belli gnewsonline.it, 26 giugno 2019 “PlusValue” si dedica, in qualità di partner, alla valutazione dell’impatto sociale ed economico del Programma 2121, l’accordo promosso dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con il gruppo multinazionale di sviluppo immobiliare “Lendlease” e finalizzato a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti presenti negli istituti penitenziari della Lombardia attraverso la promozione di inserimenti lavorativi. L’intesa è stata firmata nel settembre 2018 nel carcere di San Vittore. Abbiamo chiesto a Filippo Addarii, co-fondatore e amministratore delegato della società, di raccontarci come è nato e come si è evoluto questo programma. Com’è nata l’idea del Programma 2121? “Nasce da un’esigenza concreta legata al Progetto Mind - Milano Innovation Discrict, per la riqualificazione dell’area dell’Expo 2015. In particolare, poiché di fianco all’area interessata dal progetto c’è l’istituto penitenziario di Bollate, al momento di fare la gara insieme a Lendlease ci ponemmo il problema di come inquadrare il carcere, sulla carta non proprio il vicino ideale per uno sviluppatore. Così decidemmo di trasformare quella vulnerabilità in un elemento caratterizzante, e poiché la vocazione di Mind è quella di essere un centro dell’innovazione, pensammo a un laboratorio di innovazione per la giustizia, creando un programma che permettesse l’integrazione professionale e sociale dei detenuti sia presso i cantieri sia nelle diverse realtà che prenderanno vita sul sito. Questo per noi è un elemento importante perché rappresenta l’incontro di un interesse pubblico e di un interesse privato”. A che punto è il progetto? “Nel novembre 2018 il Programma 2121 è stato lanciato in fase pilota con 10 detenuti: sei inseriti con tirocinio semestrale, tre con tirocinio trimestrale e uno con contratto di lavoro a tempo determinato. I detenuti sono stati selezionati in base al requisito della buona condotta e a colloqui svolti dalle aziende coinvolte nel progetto. La fase pilota si è chiusa lo scorso aprile con un esito positivo per il 90% dei tirocini attivati. Le nostre rilevazioni dimostrano che, grazie al programma, i detenuti hanno migliorato notevolmente le proprie competenze lavorative e ne hanno acquisito di nuove. E di questo hanno testimoniato anche loro, se è vero che l’apprezzamento per il progetto è passato dal 79,1% della fase iniziale al 95,8% a conclusione della fase pilota. Il prossimo passo sarà quello di aumentare i numeri: perché il Programma 2121 è partito con l’industria delle costruzioni, non limitandosi alle mansioni nei cantieri, ma anche a lavori d’ufficio e a servizi di supporto come la ristorazione. Anche perché fra i detenuti esistono competenze di tutti i tipi: da persone che hanno una formazione di base e quindi possono essere impiegate in lavori di tipo manuale, a persone con livelli elevati di preparazione, in alcuni casi anche laureate, per le quali ci sono altre possibilità di lavoro. È giusto massimizzare il potenziale di ciascuno identificando l’opportunità di lavoro più adeguata al caso specifico”. Esistono programmi simili in altri Paesi? “Sì, ne sono stati avviati diversi, ma c’è una differenza importante che distingue il programma italiano da altri che si concentrano solo sull’efficientamento della lotta alla recidiva, come nel Regno Unito, o sul benessere percepito dal detenuto, come in Finlandia. A questi elementi noi abbiamo aggiunto anche una terza dimensione: quella delle competenze professionali. Il nostro Programma vuole aiutare i detenuti a reinserirsi nella società, ma come cittadini che possono contribuire attivamente attraverso il proprio lavoro. Accompagnarli in un percorso di formazione professionale è quindi un elemento molto importante sia per l’integrazione della persona sia per il successo del Programma. Questi detenuti lavoratori vengono trattati come qualsiasi altro lavoratore: si parte da un tirocinio e poi man mano, secondo la valutazione dell’impresa, il detenuto prosegue nel percorso professionale. Nei loro confronti non viene fatta alcuna forma di discriminazione, né negativa né positiva: sono persone che lavorano e se non lavorano non continuano il percorso. Non c’è nulla di filantropico in questo”. Cosa ci guadagna il detenuto? “In questo percorso, oltre alla formazione professionale, al detenuto viene data una retribuzione equiparabile ad una borsa di tirocinio extra-curriculare, che gli permette di estinguere il proprio debito con lo Stato. Al tirocinio segue auspicabilmente una vera e propria assunzione da parte dell’azienda. Questo vuol dire che nel momento in cui esce dal carcere, non solo la persona non ha alcun debito verso il sistema giudiziario, ma probabilmente ha anche una disponibilità economica minima per rendersi indipendente. Addirittura alcuni di loro, una volta fuori, si ritrovano ad avere già un lavoro. Nel caso del Programma 2121, l’impatto sociale positivo si riassume essenzialmente nella formazione lavorativa dei detenuti, nell’incremento della soddisfazione per la loro condizione di vita e nell’inserimento lavorativo con relativa retribuzione. Questo è molto importante perché contribuisce ad alleggerire il sistema giudiziario, a dimostrare ai cittadini che un detenuto può essere reintegrato nella società con tutti i vantaggi e gli oneri relativi, incluso il regolare pagamento delle tasse e così via. Quello che si genera è un sistema che viene definito dall’espressione inglese win-win, nel quale in sostanza tutti vincono traendo beneficio dal programma, inclusi i detenuti, la società, la pubblica amministrazione, e le aziende, che contribuiscono a formare una forza lavoro qualificata per la loro filiera”. Dove può portare questa strada? “Io credo che lo sviluppo futuro di questo progetto sia la costituzione di una vera a propria impresa. Perché un conto è svolgere un servizio che potremmo definire occasionale come nel caso del Programma 2121, un conto è costituire un’organizzazione per gestire queste risorse, in modo da dare continuità al lavoro, sia durante che dopo il carcere. Sarebbe importante iniziare a pensare a una forma organizzativa strutturata, che potrebbe inoltre raccogliere anche capitali privati con la forma dell’impact investing, in grado di intervenire per fornire una risposta adeguata a queste esigenze. Il mondo britannico, dove si è sperimentato molto in questo ambito, ha utilizzato soprattutto dei meccanismi finanziari: il primo “social impact bond” ha finanziato proprio un programma sperimentale di riduzione della recidiva. Mentre il Regno Unito ha applicato un modello e si distingue per l’innovazione nel modello finanziario, l’approccio italiano all’innovazione sociale è invece di tipo imprenditoriale. Ad esempio, nel caso di Programma 2121 non si sono utilizzate particolari architetture finanziarie, ma si è sviluppato un modello innovativo che mette insieme da una parte i bisogni, ma anche le risorse, lo spirito di iniziativa e la buona volontà di soggetti dell’amministrazione pubblica nazionale e locale, così come nel settore privato. Il Programma 2121 ha messo a sistema le competenze di una compagine di attori, fra cui PlusValue, che da questo punto di vista è davvero notevole: Ministero della Giustizia, Regione Lombardia, Comune e Città Metropolitana di Milano, Agenzia Anpal, Arexpo Spa, Risanamento Spa, Fondazione Fits, Fondazione Triulza e naturalmente Lendlease srl, promotore dell’iniziativa insieme al Ministero. Quello italiano è certamente un approccio diverso, che sopperisce alla mancanza di risorse finanziarie con l’individuazione di soluzioni innovative di tipo partecipativo”. Un po’ come capita con i lavori di pubblica utilità… “I lavori di pubblica utilità e il Programma 2121 appartengono alla stessa famiglia, anche se non sono la stessa cosa. Rispetto ai lavori di pubblica utilità, il Programma 2121 ha due differenze sostanziali: prima di tutto il lavoro viene svolto all’interno delle aziende private e poi è un lavoro retribuito. Tuttavia, tanto il Programma 2121 quanto i lavori di pubblica utilità costituiscono una nuova forma di partecipazione civica, dove attraverso il lavoro, addirittura in un percorso di riscatto rispetto alla pena, si innesca una nuova forma partecipativa nella quale ciascuna parte, compresi gli agenti che svolgono la sorveglianza, sono chiamati a fare un pezzetto in più rispetto all’ordinario. Un sistema che costringe tutti a diventare, in qualche modo, un po’ più imprenditori e un po’ più cittadini attivi nella comunità. In Europa questa pratica si colloca nel contesto di un’innovazione sociale che non è di per sé tecnologica o solamente privata, ma anzi è un’innovazione collettiva, tanto nelle forme che nelle finalità. In questo senso, sia il Programma 2121 sia i lavori di pubblica utilità si iscrivono in un movimento generale internazionale dell’innovazione sociale, una policy riconosciuta e sostenuta dall’Unione Europea fin dal 2010, con la quale si restituisce slancio e iniziativa alle istituzioni e alla dimensione dell’azione collettiva. Una contromisura al pessimismo e al nichilismo diffuso: un fattore importante perché restituisce legittimità e senso alle istituzioni e all’iniziativa privata per il bene comune. La peculiarità di un’iniziativa come Programma 2121 è che si iscrive nel sistema della giustizia. L’innovazione sociale è, infatti, frequente e diffusa in ambiti più vicini agli interessi dei cittadini (salute, educazione, servizi sociali per gli anziani o i minori); mentre la giustizia è raramente un campo di innovazione sociale, proprio perché è normalmente percepita come un sistema punitivo, diversamente da quanto afferma la Costituzione italiana, che all’art. 27 indica che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato. Il lavoro che stiamo portando avanti si pone quindi culturalmente in controtendenza, perché al contrario porta l’innovazione - con notevole potenzialità d’impatto, visti gli interlocutori coinvolti - in uno dei terreni più delicati e difficili. Questo, secondo me, rende il Protocollo 2121 particolarmente meritorio e caratterizza, come elemento distintivo, il modello italiano di innovazione sociale”. Genitori in carcere, come supportare i loro figli? di Anna Spena vita.it, 26 giugno 2019 Si dice che un bimbo con la mamma o il papà in carcere sia “un bimbo con un segreto”. Il genitore in prigione diventa, nelle parole del bambino, “malato”; “in viaggio”; “assente per lavoro”. Finanziato dal Bando Prima Infanzia, approvato dell’impresa sociale Con i Bambini, “la barchetta rossa e la zebra” vuole combattere la povertà educativa minorile dei figli di genitori detenuti nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Ponte Decimo di Genova. L’iniziativa sviluppata in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna, il Comune di Genova e le Associazioni territoriali del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova. Si avvale inoltre del supporto dell’Associazione BambiniSenzaSbarre Onlus, impegnata nella tutela dei diritti dei figli dei detenuti. La Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus è promotore del progetto e la Cooperativa Sociale il Cerchio delle Relazioni ne è Capofila. Dopo una prima fase del progetto che prevedeva la ristrutturazione di alcuni spazi, la seconda fase, dove i bimbi possono attendere il momento del colloquio in un ambiente bello, sereno, adatto alla loro esigenze. È in atto una terza fase che fa da collante tra le prime due dove si sono organizzati dei momenti di formazione per i genitori detenuti, per gli assistenti sociali, e per la polizia penitenzia per spiegare qual è la strada più idonea per entrare in relazione con i minori che vivono un momento delicato del loro percorso di crescita accentuato dall’assenza di uno o di entrambi i genitori. La pedagogista Vanessa Niri e la coordinatrice del lavoro degli operatori che seguono gli adulti, Livia Botto, spiegano com’è lavorare con questo tipo di fragilità. Quello dei bambini con i genitori in carcere è un racconto che si fa poco. Ma come vivono i bambini in questa condizione che pur non essendo orfani vivono l’assenza di uno o entrambi i genitori? VN: Non esiste una condizione omogenea, tra i bambini che vivono l’assenza del papà o della mamma perché in carcere. Ogni famiglia si relaziona all’evento in modo diverso: ci sono quelli che non dicono la verità ai figli, e sono moltissimi, raccontando che il papà è andato a lavorare all’estero per un periodo. Ci sono quelli invece che scelgono la via della verità, con tutta la fatica che questa comporta. Ci sono poi le famiglie che scelgono una via di mezzo, ed è spesso il caso dei genitori con figli sotto i sei anni, che in qualche modo contano sulla parziale comprensione delle cose dei bambini: sono i casi delle famiglie che portano il bambino alle visite in carcere, ma che raccontano una realtà parallela, come ad esempio che il luogo dove vanno a trovare papà (o la mamma) è una caserma, un centro segreto controllato dalla polizia, un luogo misterioso dove il genitore deve lavorare per un periodo. In che modo il progetto la barchetta rossa e la zebra sostiene questi bambini? VN: Il progetto sostiene sia i bambini che i genitori. Per i bambini, e in particolare i più piccoli, tra gli 0 e i 6 anni, il progetto La barchetta rossa e la zebra, ha innanzitutto ristrutturato lo spazio accoglienza delle famiglie della Casa circondariale di Marassi, e presto ristrutturerà anche quella di Pontedecimo. Sono spazi all’interno dei quali i bambini e le famiglie passano almeno un’ora a settimana, in attesa di entrare in carcere per la visita al familiare, ma spesso anche due o tre. Il progetto Barchetta ha permesso di ripensare questo luogo come accogliente nei confronti dei bambini, non soltanto dotandolo di giochi, tavolini, fasciatoio, libri e cuscini morbidi, ma anche garantendo la presenza di educatori sempre presenti negli orari di visita. Gli educatori che lavorano con i bambini, si mettono a loro disposizione, facilitando il loro accesso ai giochi e diventando un punto di riferimento adulto presente esclusivamente per relazionarsi con loro. Questa presenza ribalta la consuetudine dei bambini in carcere, abituati a stare ai margini dei bisogni dei genitori, che hanno una sola ora di colloquio a disposizione per parlarsi e gestire tutte le difficoltà economiche, burocratiche, familiari e legate al processo o alle misure alternative alla pena. LB: Il lavoro sui genitori mira proprio a rafforzare le competenze genitoriali “recluse” e a far chiarezza sulle zone d’ombra: “cosa penserà mio figlio di me? Sarò ancora autorevole? fin dove e cosa, posso raccontare a mio figlio?” Queste domande che ogni genitori si pone, se affrontate nella solitudine, generano una situazione di ansia che a sua volta è portata in sede di colloquio con i figli, innescando un ingorgo nella comunicazione che in molti casi viene poi interrotta dall’una o dall’altra parte. Il grande merito del progetto Barchetta nei confronti dei bambini, io credo, è quello di rimettere al centro il tema della cura, dell’attenzione e dell’ascolto dei bambini figli di detenuti e di valorizzare il ruolo del genitore sebbene deviante. È un progetto di accoglienza in un luogo le cui inevitabili regole risultano respingenti e spaventose, per i più piccoli: nello spazio, invece, i bambini trovano non solo dei giochi, ma soprattutto la possibilità di costruire una relazione con un adulto a prescindere dalla propria condizione di figli di detenuti. Parimenti l’adulto trova uno spazio di ascolto e di confronto che non può che essere di giovamento per il benessere del bambino. Quali sono le attività che fate con loro? Come le avete strutturate e perché avete pensato a questo tipo di intervento VN: Inizialmente avevamo immaginato lo spazio come un luogo dove poter organizzare laboratori e giochi strutturati. La quotidianità ci ha invece insegnato che i bambini sono spesso perfettamente capaci di auto-organizzarsi, di scegliere tra i giochi e i materiali a disposizione quelli con cui vogliono relazionarsi, permettendo agli adulti di mettersi più in una posizione di facilitatori che di animatori sociali. Attraverso il gioco e i disegni, spesso i bambini scelgono di raccontare qualcosa agli educatori - le loro paure, i loro dubbi, le loro fatiche - e la nostra presenza permette di non lasciar cadere questi bisogni, ma di intercettarli, raccoglierli e prendercene cura, nei limiti di un tempo inevitabilmente limitato dall’organizzazione interna. Le mamme che accompagnano i bambini settimanalmente nello spazio sono unanimi nel rappresentarci l’aumento del benessere dei bambini, da quando esiste lo spazio, e la diminuzione delle loro ansie all’idea di portare i figli nella casa circondariale. A partire da aprile di quest’anno, inoltre, abbiamo provato a far fare un passo ulteriore al progetto: grazie alla grande disponibilità della Direzione e degli Agenti, abbiamo iniziato ad organizzare un appuntamento al mese per le famiglie. Per due ore, i papà detenuti, le mamme e i figli si incontrano all’interno del campetto di Marassi, dove trovano gli educatori dello spazio accoglienza che propongono loro una semplice attività laboratoriale, sportiva o di ascolto. Sono momenti davvero magici, perché sono gli unici nei quali il nucleo familiare si riunisce intorno al bambino, che riconquista una centralità, e si mette in gioco giocando, dipingendo, ascoltando una storia. Per molte di queste famiglie, l’idea di dedicare due ore a giocare tutti insieme con il figlio, non esisteva neppure al di fuori delle mura del carcere. Quali sono invece le attività previste per gli adulti? Come vive il genitore in carcere il fatto che non può partecipare attivamente al percorso di crescita del proprio figlio? LB: Parallelamente vi sono operatori specializzati che seguono i genitori detenuti, in esecuzione penale esterna o liberi, aiutandoli a rimettere in discussione la propria dimensione genitoriale. Il progetto prevede incontri individuali, di gruppo e formazione. La dimensione della genitorialità in carcere è comunque difficoltosa. Quello che ogni genitore libero può fare(e spesso dà per scontato) per il genitore detenuto è interdetto: sa che un figlio, per esempio, è malato, non può però sapere se è guarito o è peggiorato se non con la telefonata programmata o il colloquio, quindi possono passare giorni. Se, alla base, la capacità genitoriale del genitore recluso (al di là del comportamento deviante) è buona o anche molto buona, il carcere devasta la relazione innescando sentimenti di abbandono nel bambino e auto-colpevolizzazione nell’adulto che spesso non vengono affrontati né tantomeno risolti. Nel caso di genitori fragili e poco “attrezzati” a crescere il proprio figlio, talvolta la carcerazione è l’evento che interrompe il rapporto. Nel mezzo vi è un’ampia casistica, ma tutte le situazioni hanno in comune che la vittima è sempre il bambino. Il lavoro sull’adulto non è quindi finalizzato ad un generico benessere del genitore, ma fortemente incentrato a restituire al minore un genitore il più possibile capace di interloquire con lui. Al genitore, con la formazione viene anche fornito un quadro teorico semplificato attraverso la formazione. Quanti sono i beneficiari del progetto? VN, LB: I bambini coinvolti in questo primo anno di progetto sono un centinaio. Il turn over è abbastanza alto, e a breve partiremo con le attività anche nel Carcere di Pontedecimo. Pensiamo di coinvolgere quindi più di duecento minori da qui alla primavera del 2020. Gli adulti, ad oggi sono circa 60. Campagna europea “Carceri aperte” Ufficio Stampa Bambinisenzasbarre, 26 giugno 2019 Come ogni giugno, Bambinisenzasbarre promuove con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la campagna Carceri aperte, arrivata alla decima edizione. La campagna è attiva, negli istituti penitenziari, con eventi di sensibilizzazione sul tema della relazione figli-genitori (conversazioni, mostre, rappresentazioni, feste, ecc.), dove “l’incontro” è lo strumento fondamentale per conoscere, capire, approfondire e acquisire consapevolezza. Obiettivo della campagna è la sensibilizzazione sul tema dei figli dei detenuti in Italia e in Europa. Tema che parte dalle Convenzioni dell’Onu e dell’UE, che sanciscono il diritto di ogni bambino di mantenere un legame continuativo con i propri genitori, anche se detenuti, perché tale legame è la base della crescita di ogni bambino. Carceri aperte si inscrive nella campagna europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna” (“Not my crime still my sentence”) promossa da Cope (Children of Prisoners Europe), network di organizzazioni europee. Una “condanna” che vuol dire spesso emarginazione, angoscia, stigmatizzazione, da parte della società nei confronti dei bambini, figli di detenuti (oltre centomila ogni anno in Italia e oltre 2,1 milioni nell’Europa dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa). Sono 21 le organizzazioni che fanno parte della rete europea COPE; Bambinisenzasbarre è il rappresentante dell’Italia e fa parte anche del Board of Directors. A queste organizzazioni si aggiungono 20 “individual members”, 6 “applicant members” e 50 “affiliati” per un totale di quasi 100 soggetti. Bambinisenzasbarre Onlus - L’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus è impegnata da oltre 15 anni per il mantenimento della relazione figlio genitore detenuto. È attiva in rete sul territorio nazionale con il modello di accoglienza Sistema Spazio Giallo e Campagne nazionali di informazione. Il modello di accoglienza rappresenta il punto di partenza per sviluppare un intervento organico di sostegno ai bambini e alle famiglie che entrano in carcere per incontrare il papà o la mamma, una pratica che sensibilizza la polizia penitenziaria, ogni giorno impegnata a ricevere i bambini che accedono in carcere riconoscendone i bisogni. Membro della direzione della rete europea Children of Prisoners Europe (ex Eurochips) e della Federazione dei Relais Enfants Parents con sede a Parigi, è Consultant Member di Ecosoc dell’Onu. In stretta connessione con l’intervento negli istituti penitenziari, l’Associazione ha sviluppato un forte impegno sul piano dell’advocacy, che ha portato nel 2014 alla firma col Ministro di Giustizia e l’Autorità garante dell’infanzia e dell’adolescenza della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti (rinnovata nel 2016 e il 20 novembre 2018), la prima in Europa nel suo genere. La Carta riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla non discriminazione e alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione degli artt. 3 e 9 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Da allora Bambinisenzasbarre Onlus è impegnata nella diffusione e nel monitoraggio dell’applicazione delle linee guida della Carta negli istituti penitenziari italiani, organizzando e partecipando a seminari e convegni, creando una rete di attenzione nazionale di realtà istituzionali e del Terzo Settore e fornendo consulenza sui temi della genitorialità in carcere. A rafforzare l’impatto del Protocollo - e del ruolo dell’Associazione a livello italiano ed europeo - si è anche imposta la Raccomandazione CM/Rec(2018)5, adottata ad aprile 2018 dal Consiglio d’Europa e rivolta al Comitato dei Ministri dei 47 stati membri. La Raccomandazione ha assunto come modello la Carta italiana per preservare i diritti e gli interessi dei bambini e ragazzi figli di detenuti. I responsabili delle carceri in Italia sudamericane a scuola di “41bis” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 26 giugno 2019 Incontro in Italia dei responsabili delle amministrazioni penitenziarie di Spagna, Portogallo, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Poi una piattaforma di lavoro comune per contrastare le attività criminali nelle prigioni. La clamorosa evasione del boss ‘ndranghetista Rocco Morabito dal carcere di Montevideo ha riacceso i riflettori sulla carenza di misure di sicurezza per i detenuti di maggior spessore criminale nei penitenziari dell’America latina. Come avviene in questi casi, c’è chi punta il dito sulla mancata cooperazione giudiziaria, chi sulle strutture “colabrodo” e chi invece sulla malapianta della corruzione. Pochi sanno però che, col problema, i governi di diversi Paesi latinonamericani hanno già iniziato a confrontarsi. E lo hanno fatto ragionando sull’adozione di un modello di detenzione di massima sicurezza, quello definito dall’articolo 41bis, inventato proprio in Italia. Il loro assunto è che tenere i boss in sezioni zioni separate, controllati a vista e con precauzioni più elevate, possa non solo ridurre il rischio di evasione (anche se non del tutto, come provano le due clamorose fughe, nel 2001 e nel 2015, del narco-boss Joaqufn Chapo Guzmàn da altrettante supercarceri messicane), ma serva anche a limitare contatti con altri criminali reclusi e con l’esterno, evitando che i penitenziari si trasformino in “succursali” dei traffici e luogo di scontro fra bande. Oggi, purtroppo, questo avviene in diversi penitenziari latinoamericani, dove i narco-cartelli le bande o le maras agiscono quasi come a casa propria. Tanto che, quando operano in concorrenza, divampano guerre sanguinose. Le ultime due stragi, in Paraguay e in Brasile, risalgono ai giorni scorsi: a metà giugno, nel carcere di San Pedro, a 400 chilometri dalla capitale paraguaiana Asunción, sono rimasti sul terreno 10 cadaveri, in parte legati al gruppo brasiliano Primeiro Comando da Capital. Lo stesso cartello che, a fine maggio, era stato protagonista di violenze in quattro carceri della città amazzonica di Manaus, in un sanguinoso confronto col Comando Vermelho che ha causato 57 vittime. In quegli stessi giorni, Fabiano Bordignon si trovava qui in Italia. È il direttore del Sistema penitenziario del Brasile, nel quale si trovano oltre 700mila detenuti. E insieme a una delegazione di colleghi di altri Paesi latinos, era venuto in visita di “studio” presso il Dipartimento italiano dell’amministrazione penitenziaria. Lo scambio d’informazioni è previsto da El Paccto, un programma quinquennale di assistenza tecnica contro il crimine transnazionale, che vede la collaborazione di Unione Europea e America Latina. È nato nel 2018 e la sua parte europea è stata affidata a un consorzio di agenzie di Italia (fila), Francia (Expertise France), Spagna (Fiiapp) e Portogallo (Instituto Camoes). Il programma è nato con l’obiettivo di contrastare il crimine organizzato in 18 Paesi dell’America Latina, dal Messico fino a quelli del Cono Sur. Un accordo rispetto al quale l’Italia gioca un ruolo cruciale nel settore penitenziario, nel quale ha un know how da esportare: “Vogliamo conoscere a fondo il funzionamento del sistema chiamato “41bis” e degli strumenti a esso collegati”, dice ad Avvenire Bordignon, interessato anche alle “esperienze di gestione dei detenuti”, al funzionamento della Polizia penitenziaria italiana e agli “strumenti per bloccare l’uso dei telefoni cellulari”, prediletti dai narco-padrini per comunicare con l’esterno. Ad accogliere la delegazione di esperti stranieri è stato il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Mentre Giovanni Tartaglia Polcini, magistrato italiano in servizio presso la direzione generale per la mondializzazione della Farnesina, ha fatto loro da mentore: “Una delle principali criticità latino americane riguarda il sistema penitenziario - conferma - l’abdicazione, de facto, del controllo istituzionale all’interno delle carceri, in larghe parti dell’emisfero, ha reso quelle strutture potenzialmente in grado di favorire lo sviluppo della criminalità organizzata. Inoltre, in molte di quelle strutture c’è un forte sovraffollamento e ciò aumenta le difficoltà per le autorità”. A differenza di quanto avviene in casa nostra dal 1986 (anno in cui venne introdotto, con la legge Gozzini, l’articolo “41bis” per i detenuti mafiosi), negli ordinamenti penitenziari di quei Paesi non è prevista una netta separazione tra criminalità comune e organizzata in ambiente carcerario. E purtroppo, continua il magistrato italiano (che coordina il settore sistemi penitenziari di El Paccto), così si rischia che quelle carceri diventino “luogo di proselitismo, reclutamento, radicalizzazione e addestramento di nuove leve”. Fino a diventare delle università del crimine, tanto che “in alcuni istituti, i padiglioni prendono il nome dei gruppi d’appartenenza dei detenuti più pericolosi”. Uno è, appunto, il Primeiro Comando da Capital, potentissimo narco-cartello brasiliano che, secondo Tartaglia Polcini, “costituisce un esempio paradigmatico” proprio per i suoi meccanismi di nascita e affiliazione dietro le sbarre, che ricordano “la nuova camorra organizzata e la vicenda criminale di Raffaele Cutolo”. Istituire un “41bis” nelle carceri di Paesi latinoamericani di riflesso porterebbe vantaggi nella lotta alle mafie italiane, permettendo di limitare la possibilità che alcuni broker nostrani della cocaina, reclusi in quei Paesi, approfittino delle “maglie larghe” per dirigere i traffici da quelle latitudini, come è già accaduto. O che riescano a evadere, come avvenuto appunto col boss calabrese Morabito. Grazie alla cooperazione di Raffaella Pezzuto, capo dell’ufficio di coordinamento delle attività internazionali del ministero di Giustizia, a maggio in Italia sono venuti- oltre al brasiliano Bordignon -i responsabili delle amministrazioni penitenziarie di Spagna, Portogallo, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. “Stiamo dedicando particolare attenzione alla supervisione e al trattamento dei criminali collegati al narcotraffico e ai gruppi mafiosi - argomenta Julio Javier Ríos, ministro della Giustizia del Paraguay. C’è la ferma intenzione di creare unità detentive con regime di massima sicurezza per gli appartenenti a gruppi criminali”, fra cui i soliti “brasiliani del Primero Comando Capital e del Comando Vermelho, fra gli altri”. La missione in Italia, ribadisce Ríos, “è servita a fornirci conoscenze empiriche e scientifiche sul sistema italiano” insieme alle norme en materia de seguridad vigilada nei confronti di alcuni boss. In Italia, all’inizio del 2019, in regime di 41bis erano detenute 748 persone, più altre 5 in “case di lavoro” ma sottoposte allo stesso trattamento. La delegazione sudamericana ha visitato il carcere dell’Aquila, dove sono custoditi in regime speciale 153 uomini e 10 donne, in molti casi boss di mafia o condannati per reati efferati. “Qualsiasi tipo di intervento - ragiona Tartaglia Polcini - necessita anzitutto di un’attenta analisi”. Visitando di persona una sezione di massima sicurezza italiana, gli inviati sudamericani hanno potuto rendersi conto de visu del suo funzionamento. Inoltre, hanno potuto confrontarsi su alcuni aspetti con esperti come il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e il capo del Dap Francesco Basentini, ma anche col Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma sulla questione del necessario rispetto dei diritti umani, anche quando si tratta di narco-padrini o criminali incalliti. Dopo la missione in Italia, a dimostrazione di come la strada avviata non sia intessuta solo di affermazioni retoriche, è stato raggiunto un ulteriore risultato. I ministri del Mercosur hanno firmato a Buenos Aires una dichiarazione che, partendo da El Paccto, ha dato vita a una “piattaforma di lavoro congiunto” chiamata “Redcopen” e pensata appositamente per contrastare “l’infiltrazione del crimine organizzato transnazionale” nelle carceri. Un’iniziativa senza precedenti in America latina. E grazie alla quale in futuro, si spera, evasioni sconcertanti come quella del boss Morabito saranno più difficili da compiere. 41bis. Nel 1992 anche un magistrato di sorveglianza denunciò i pestaggi a Pianosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2019 Al carcere di Pianosa ci sono “metodi di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntati al rispetto della persona ed i principi di umanità”. A rivelarlo - denunciando pestaggi, violenze fisiche, ma anche psicologiche - fu l’allora magistrato di sorveglianza di Livorno, il dottor Rinaldo Merani. Parliamo del 5 settembre 1992, in pieno emergenzialismo scaturito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Si parla tanto della famosa lettera dei familiari detenuti al carcere di Pianosa inviata a tutte le personalità dello Stato per denunciare le vessazioni nei confronti dei reclusi nel carcere speciale. Lettera che più volte viene indicata come una delle prove della presunta trattativa Stato mafia. Ma in tutte le discussioni e libri sull’argomento, non si fa quasi mai menzione che a denunciare il mancato rispetto dei principi costituzionali fu un magistrato, serissimo, dedito al suo lavoro di sorveglianza. “Nel corso della permanenza in sezione - così scrive Merani nel rapporto del 1992 - si è notato l’utilizzazione di metodiche di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntate nel rispetto della persona e principi di umanità”. E fa un elenco di casi che cristallizzavano talune violenze. Parla di detenuti, che nel camminare, vengono obbligati a tenere la testa bassa e lo sguardo fisso per terra, oppure “al momento in cui i ristretti vengono inviati al cortile di passeggio, aperta la porta che vi dà accesso, devono andare di corsa sino ad infilarsi nel corridoio che conduce al cortile” e sottolinea un episodio emblematico: “Di tale pratica si è chiesto conto ad uno sottoufficiale che ha risposto, per verità molto seccato e iattante, che trattatasi di scelta dei detenuti: il che francamente appare quanto meno poco credibile”. Ma il magistrato va oltre e denuncia un fatto oscuro. “Si è avuto notizia - scrive Merani - che due detenuti sono stati recati fuori della sezione, l’uno interno alla carriola da muratore, certamente non in grado da camminare da solo, l’altro ammanettato e trascinato per le braccia: entrambi venivano portati verso il blocco centrale dove non è dato sapere cosa sia successo poi”. Ma poi continua denunciando un episodio di violenza. “Si è altresì avuto notizia - scrive il magistrato nel rapporto del 5 settembre del 1992 - dell’uso dei manganelli all’interno della sezione, evidentemente non in relazioni a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’Ufficio da parte della Direzione: i manganelli sarebbero stati adoperati sia per sollecitare le gambe dei detenuti negli spostamenti all’interno della sezione, sia per effettuare veri e propri pestaggi in celle”. L’allora magistrato di sorveglianza ha voluto sottolineare sempre nel rapporto che “altri episodi di iattanza e violenza, psichica più che fisica, nonché una serie di umiliazioni tanto inutili quanto ingiustificate, sono state inflitte ai detenuti comuni impegnati nei lavori di ristrutturazione della diramazione”. Il magistrato Merani, sempre nel suo rapporto, ha scritto chiaro e tondo che “il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose” e aggiunge che “non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione”. Ricordiamo che sia il carcere di Pianosa che quello dell’Asinara, furono riaperti nei primi anni 90. In quel momento particolare della vita dello Stato, per stroncare sul nascere quello che fu definito l’attacco della mafia al cuore dello Stato, il regime del carcere duro, ossia il 41bis, rappresentò la risposta più dura e radicale da parte delle istituzioni. A seguito del verificarsi della strage di Capaci e di Via D’Amelio, il governo di allora, in piena emergenza, varò il decreto legge n. 306/1992, che introduceva il secondo comma all’art. 41bis. Contestualmente, nel giro di qualche giorno, furono immediatamente riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, che fino a quel momento avevano avuto funzioni di colonie agricole, adatte più ad una popolazione detenuta di livello attenuato di sorveglianza. Quando venne barbaramente ammazzato Borsellino, la risposta dello Stato fu dura e vennero trasferiti in massa tutti i detenuti mafiosi nelle carceri speciali. Diversi ergastolani denunciarono le vessazioni e portarono il caso (Sentenza Labita c. Italia, 6 ottobre 2000, n. 26772/94) alla Corte europea dei diritti umani che dovette prendere atto che, in effetti, all’epoca dei fatti, nel carcere di Pianosa persisteva una situazione allarmante seppur di carattere generale. Solo nel 1997 venne chiusa, grazie all’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. Gherardo Colombo: “Intercettazioni, trojan e filmati. Quanta voglia di controllo” di Carlo Fusi Il Dubbio, 26 giugno 2019 Le regole ci sono, anche piuttosto dettagliate. Ma prima ancora delle regole - ed è l’elemento che determina e scandisce il loro funzionamento - viene ciò che le sottende: ossia la cultura, lo spirito che codifica e impregna i comportamenti sociali. Non basta. Ancora più in profondità c’è la fiducia: sia dei cittadini verso le istituzioni che viceversa. “Il cerchio si stringe”, mormora Gherardo Colombo seguendo il filo del suo ragionamento. Un filo che parte dalle leggi e si dipana a cerchi concentrici per ricomprendere i comportamenti. È il filo che tiene unite le aggregazioni sociali e che oggi presenta evidenti (e pericolosi) segmenti di logoramento. Partiamo dalle intercettazioni, dottor Colombo. Dove bisogna porre il discrimine tra esigenze d’indagine e rispetto della privacy? Esattamente quanto ampio è il campo di lavoro dei trojan? “Ci sono due diritti costituzionalmente garantiti: quello alla riservatezza e quello alla sicurezza. Da una parte il diritto dei cittadini ad avere una vita non esposta all’intrusione; dall’altra limitazioni alla libertà personale per tutelare altri diritti che hanno il medesimo rango costituzionale. Per le intercettazioni la legge dispone limiti come per tutti gli strumenti investigativi. Possono essere effettuate solo per reati di una specifica gravità. Quando ci sono gravi indizi di reato e quando risultano assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini. Quanto all’uso dei trojan, cambia a seconda se le intercettazioni riguardano persone presenti oppure conversazioni con altri. Se ricordo bene, le prime possono essere autorizzate solo se nel luogo si sta commettendo attività criminosa. Poi vanno contemplate le norme della legge Spazza-corrotti, che prevede l’agente sotto copertura e che io invece chiamerei agente provocatore. Dunque ricapitolando. Le intercettazioni possono essere autorizzate solo per determinati reati; solo se esistono gravi indizi di colpevolezza; solo se risultano assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini e infine, se nel domicilio, solamente se si sta consumando l’attività criminosa”. Questo il perimetro normativo. E la sostanza, almeno dal suo punto di vista, qual è? “Per me il punto principale è la fiducia. Che non riguarda solo le intercettazioni ma investe in generale il tema sociale del controllo. Con le telecamere negli asili, negli ospedali, negli ospizi e così via. Quando e dove succede che si ricorra così pesantemente a strumenti di controllo di questo genere? Lei, come me, avrà sicuramente visto il film Le vite degli altri. Perché la Stasi operava in quel modo? Perché esisteva un grandissimo scollamento tra il cittadino e le istituzioni. Queste non si fidavano per niente del cittadino e viceversa. Lasciamo perdere le ragioni di questa sfiducia reciproca. Sta di fatto che era venuto meno il collante della società e si ricorreva a qualunque forma allora ipotizzabile di controllo. A mio avviso oggi noi stiamo seguendo, almeno un po’, la medesima tendenza. Il ricorso così frequente a qualsiasi forma di controllo possibile dipende dalla sfiducia che esiste da parte delle istituzioni verso i cittadini; dei cittadini nei riguardi delle istituzioni e dei cittadini tra di loro”. E questo dove porta? Qual è il rischio che si corre? “A mio avviso il rischio più forte è che più si utilizzano questi strumenti e maggiormente quell’utilizzo concorre a diminuire la fiducia. Ad un certo punto ci troveremo ad essere obbligati al loro uso perché nessuno si fida più di nessuno. Peraltro non dimentichiamo che si tratta di forme di controllo assai incerte. Perché fotografano, filmano o registrano dei momenti completamente avulsi dal resto. Quando facevo il magistrato affrontavo le intercettazioni con grandissima cautela perché un conto è leggere e un conto è sentire. E con ancora un rischio ulteriore. Pensiamo alle telecamere negli asili. In quel caso sembra diventi più importante acquisire la prova rispetto all’esigenza di tutelare le persone. La telecamera filma, per dire, per tre mesi i maltrattamenti verso i bambini e solo dopo tre mesi si fa la notizia di reato. Così viene privilegiata la repressione rispetto alla prevenzione. La ricerca della prova in questo modo confligge con la prevenzione del maltrattamento”. Stiamo dicendo che le intercettazioni cosiddette a strascico sono una violenza? “A rigore dovrebbero essere impossibili. Se infatti leggiamo le disposizioni del Codice del 1989, dovremmo essere garantiti da quel pericolo. Forse non è sempre così. Poi ovviamente bisogna fare delle distinzioni. Se pensiamo ai reati di associazione - mafiosa, terroristica, delinquenziale - è giustificabile l’idea che l’intercettazione possa essere legittima praticamente sempre. Perché l’attività dell’associazione a delinquere è continua. L’interrogativo si pone se si tratta di un reato singolo. E si pone sempre più pesantemente quanto più lo strumento è invasivo. Senza dimenticare un’altra questione decisiva, e cioè se le intercettazioni al di fuori del processo penale sono utilizzabili oppure no. Forse non sarebbe male organizzare un convegno su questo”. E quali devono essere - se ci devono essere - i limiti alla diffusione e pubblicazione delle intercettazioni? “Io penso che bisognerebbe tornare allo spirito originario del Codice di procedura penale dell’ 89. Prevedeva che tutto quello che stava prima della formazione della prova non esistesse. Che l’informazione di garanzia mai e poi mai equivaleva alla contestazione di un reato, e tanto meno di una condanna. Che la prova si formasse in dibattimento e non prima. Come dovrebbe essere anche adesso”. E invece non è. Il vento spira in senso opposto. E mette paura. “Sa qual è il problema vero? È della cultura. Del modo di intendere le cose. La Costituzione dice che tutte le persone sono degne e sono degne quanto tutte le altre. Invece succede, spesso anche da parte dei media, che la dignità della persona sia considerata un incidente, un bene calpestabile. E anzi più la notizia sconvolge la dignità di una persona e più è considerata ghiotta. Le norme esistono. Anche riguardo la pubblicabilità delle notizie e delle intercettazioni. Invece sembra che un po’ di persone lavorino per fini opposti. Ai giornalisti le intercettazioni arrivano da qualche parte, no? Non è che vengono comunicate ufficialmente”. Infatti. Peraltro quel tipo di pubblicazione in taluni casi sarebbe anche un reato... “Beh però se qualcuno vi chiede come vi sono arrivate, avete la facoltà di non rispondere”. Dottore, quel difetto culturale, come lo chiama lei, come si supera? “Secondo me siamo messi male. Oggi è dominante una cultura che punta alla discriminazione. Che vuole considerare chi commette un reato una specie di diverso, un deviante: un indegno. Al contrario la Costituzione dice che le pene non devono ledere la dignità, devono tendere al recupero. Anche chi ha commesso un reato per cui è stato condannato in via definitiva comunque non potrebbe essere sottoposto a trattamenti inumani e non potrebbe subire violenze fisiche o psicologiche. Se oggi invece la cultura si muove su piani opposti, qualsiasi disposizione venga emanata risulta fallace. Solo che un intervento culturale può avere effetti solo in tempi non brevi, né medi. Per questo la vedo abbastanza male”. Recuperando il concetto di fiducia. Come fa la magistratura, dopo le vicende del Csm, a recuperare autorevolezza, prestigio, attendibilità? “Guardi, può apparire paradossale rispetto a tutto quel che ho detto finora. Può apparire paradossale, cioè, che io mi richiami alle procedure. Se mettiamo insieme due cose, la trasparenza e le procedure, allora certi comportamenti, certe degenerazioni diventano più difficili. Facciamo un esempio su un piano totalmente diverso. Mettiamo che si debbano stabilire alcune regole, condivise, per la convivenza dentro casa: a che ora si pranza, chi fa la spesa e come, chi si occupa di pagare le bollette eccetera. Si condividono e si stabiliscono delle procedure. Per quel che riguarda il Csm, per esempio, le domande di trasferimento devono essere decise secondo l’ordine cronologico”. Non a pacchetto... “Secondo l’ordine cronologico punto e basta. E tutto si deva fare in maniera trasparente”. Cioè come, che significa? “Significa che l’attività svolta deve essere pubblica, chiunque deve essere messo in grado di verificare se la procedura è stata seguita, e deve conoscere il perché della decisione alla quale la procedura ha portato. Poi potranno magari esserci anche momenti, rari e temporanei, di necessaria segretezza. Ma la regola generale deve essere la trasparenza. E attenzione: se ci sono delle eccezioni, devono poter essere spiegate. Ritorno al punto principale: è una questione di cultura, altrimenti è inutile”. Ma secondo lei è davvero il carrierismo il male oscuro della magistratura? “Guardi, quando il carrierismo non era così esasperato e le nomine tendenzialmente seguivano il criterio dell’anzianità, penso che in ogni caso chi non era coerente con il pensiero dominante veniva comunque escluso. Il posto di Procuratore, dopo un breve periodo in cui identificava il Dirigente, è ritornato ad essere più un posto di comando che di coordinamento. Capo e Dirigente son due cose diverse: a noi italiani il Dirigente non piace, ci piace molto il Capo. La spinta ad occupare posizioni di comando era meno sentita. Adesso la tendenza è opposta. C’è l’affermazione del Sé ma c’è anche tanto altro”. Ma in conclusione, dottor Colombo. Lei ha fatto il magistrato in periodi, diciamo così, assai complicati. Cos’ha provato leggendo cosa succedeva nel Csm per le nomine? “Ma, sa: io sono rotto a tutte le esperienze. Nel 1981, quando abbiamo scoperto la P2, il vice presidente del Csm risultava avere il suo nome tra gli appartenenti alla Loggia di Gelli. E il ministro della Giustizia dell’epoca aveva presentato domanda per entrarvi. Abbiamo trovato la sua richiesta autografa di adesione. Per cui, ormai, non sono particolarmente portato allo stupore”. Sorpresa al Csm, la corrente di Davigo candida Di Matteo di Liana Milella La Repubblica, 26 giugno 2019 Nino Di Matteo correrà per il Csm. Nelle elezioni suppletive che si svolgeranno il 6 e il 7 ottobre. Correrà, ma come indipendente, per il gruppo di Piercamillo Davigo, Autonomia & Indipendenza. A proporlo non è il vertice della corrente, ma la sua base. Richiesta ovviamente accolta. Noto per aver sostenuto la pubblica accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia, concluso con anni di condanne in primo grado, e conosciuto per il suo lavoro a Palermo che costa a lui e alla sua famiglia una vita blindata per le pesanti minacce di Cosa nostra, Di Matteo conferma la sua candidatura. Che cade in un duplice momento particolare, per lui, ma anche per la magistratura italiana. Partiamo dal secondo aspetto. Le elezioni suppletive per due posti da pm tra i 16 togati di palazzo dei Marescialli si tengono per via dell’inchiesta di Perugia sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara accusato di corruzione. Tra i togati coinvolti, e costretti a dimettersi, anche Luigi Spina (Unicost) e Antonio Lepre (Mi). In assenza di una lista dei non eletti (per 4 posti di pm corsero a luglio 2018 solo 4 pm), la via delle elezioni suppletive è obbligata. A proporre che si superino le correnti per il voto di ottobre è stato Eugenio Albamonte di Area, ex presidente dell’Anm. La prima candidatura fuori dalle dinamiche correntizie, anticipata dal Dubbio, è proprio quella di Di Matteo. Che solo qualche giorno fa è stato destinatario di un attestato di stima e solidarietà da oltre un centinaio di suoi colleghi che hanno scritto al presidente Sergio Mattarella per sollecitare una presa di posizione del Csm sulla decisione del capo della Procura nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho di escluderlo dal gruppo che indaga sui mandanti delle stragi per via di una sua intervista. Di Matteo si è rivolto al Csm per contestare la decisione e ribadire di non aver rivelato alcuna pista investigativa segreta, ma di aver solo ripetuto fatti noti da anni. 11 Csm non si è ancora occupato della vicenda. Ma il gruppo che apertamente ha difeso Di Matteo è stato A&I con le dichiarazioni del componente del Csm Sebastiano Ardita. Amanda Knox, definitiva la condanna dell’Italia: “Violati i diritti della difesa” di Angela Geraci Corriere della Sera, 26 giugno 2019 La Corte di Strasburgo ha rigettato il ricorso del governo italiano. La Corte di Strasburgo ha rigettato la richiesta del governo italiano di pronunciarsi di nuovo sul caso di Amanda Knox. L’Italia, a gennaio, è stata condannata per aver violato il diritto alla difesa dell’americana che fu accusata, condannata e poi assolta per il delitto di Perugia. Il panel che ha valutato la richiesta ha rifiutato infatti di inviare il caso alla Grande Chambre, una specie di Cassazione della Corte. La sentenza emessa contro l’Italia diventa quindi definitiva. Il risarcimento: 18.400 euro - Il nostro Paese dovrà dunque versare ad Amanda 10.400 euro per danni morali - lei ne aveva chiesti invece 500mila - e 8mila euro per le spese legali. La giovane aveva anche chiesto 30mila euro per la procedura davanti alla Corte e più di due milioni di euro per le spese sostenute dai suoi genitori per i tanti processi in Italia: in tutto sette anni di battaglie legali in cui i verdetti sono stati ribaltati più volte fino all’assoluzione finale. Oggi per il delitto di Meredith Kercher resta in carcere Rudy Guede, condannato a 16 anni. L’interrogatorio incriminato - La sentenza della Corte di Strasburgo riguarda la procedura con cui la giustizia italiana ha condannato Amanda Knox per calunnia: durante l’interrogatorio al centro del ricorso - quello del 6 novembre 2007 - l’americana accusò Patrick Lumumba, cittadino congolese, di avere ucciso Meredith ma dopo pochi giorni l’uomo fu assolto e lei condannata per calunnia a tre anni di reclusione. Durante quell’interrogatorio però non erano presenti né legali né interpreti che potessero aiutare la ragazza, da poco in Italia. In tutto Amanda ha trascorso in carcere quattro anni. Da innocente. Lo scorso 15 giugno è tornata per la prima volta nel nostro Paese, ospite del festival della giustizia penale di Modena. Adesso la principale occupazione della 31enne è la lotta agli errori giudiziari attraverso l’associazione “Innocent project” e, soprattutto, la sua testimonianza. “Metodo mafioso” se l’estorsione avviene con modalità che rievocano la forza del clan di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2019 Corte d’appello di Napoli - Sezione I penale - Sentenza 16 ottobre 2018 n. 6421. La circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, prevista in generale dall’articolo 7 del Dl 152/1991 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata), può ritenersi sussistente anche a carico di un soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso. Per la sua configurabilità, infatti, è necessario che l’autore del reato, attraverso la metodologia criminale mafiosa, riesca a coartare effettivamente la volontà della vittima, ovvero riesca a consumare il reato per mezzo di un comportamento comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un clan mafioso. Questo è quanto emerge dalla sentenza 6421/2018 della Corte d’appello di Napoli relativa ad un episodio di estorsione aggravata. I fatti - La vicenda prende le mosse da un episodio risalente a venti anni fa, quando due uomini appartenenti alla associazione camorristica del clan dei casalesi, avvalendosi della forza di intimidazione derivante dalla loro notoria appartenenza al sodalizio criminale, costringevano un imprenditore a versare due milioni delle vecchie lire, commettendo il fatto con le modalità indicate dall’articolo 416bis cp, ovvero pressandolo con diverse “visite” e minacciando la chiusura dell’attività. All’esito delle indagini e dopo il processo di primo grado, i due imputati venivano condannati per il reato di estorsione, aggravata dalla circostanza soggettiva del far parte di un’associazione mafiosa (articolo 628 comma 3 n. 3-629 comma 2 cp) e da quella oggettiva dell’utilizzo del metodo mafioso (articolo 7 Dl 152/1991). Il metodo mafioso - I giudici d’appello confermano il verdetto di condanna, rimodulando il trattamento sanzionatorio, e si soffermano sulla contemporanea sussistenza delle due aggravanti, entrambe ritenute correttamente sussistenti dal Tribunale. Ebbene, afferma la Corte, le due circostanze aggravanti ben possono concorrere essendo le stesse ancorate a presupposti fattuali differenti: quella extra codicistica “presuppone l’accertamento che la condotta di reato sia stata commessa con modalità di tipo mafioso, pur non essendo necessario che l’agente appartenga al sodalizio criminale”; quella codicistica “si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza la necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio di tali violenza o minaccia né che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall’appartenenza alla associazione”. Ciò posto, nel caso di specie giustamente è stata contestata l’aggravante mafiosa sia sotto il profilo soggettivo, dunque dell’appartenenza al clan, sia sotto il profilo oggettivo, dunque del metodo mafioso. Quanto a quest’ultimo, sottolinea il Collegio, è sufficiente che l’agente “riesca a coartare effettivamente la volontà della vittima ed a consumare il reato ed abbia un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere”. Mano pesante sulle sanzioni per l’abuso del processo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 25 giugno 2019. Più spazio ai risarcimenti punitivi, se gli avvocati non svolgono la loro funzione di primo filtro. L’abuso del diritto all’impugnazione scatta quando i motivi, oltre ad essere confusi, non sono coerenti con il contenuto della sentenza impugnata o non autosufficienti, quando si richiede una rivalutazione nel merito, o quando si solleva un vizio non invocabile secondo il codice di rito civile. In questi casi, oltre al pagamento delle spese si aggiunge una somma da versare alla controparte. E questo a prescindere dal dolo o dalla colpa grave. Con la sentenza 16898, la Cassazione usa la mano pesante, nei confronti del ricorrente che aveva presentato un ricorso incomprensibile e teso ad ottenere un terzo grado di giudizio, nell’ambito di un procedimento per il reato diffamazione - di cui si riteneva vittima - dal quale era già uscito sconfitto nei gradi di merito. La Suprema corte torna sulla funzione sanzionatoria per lite temeraria, prevista dall’articolo 96 del Codice di rito civile calcando la mano - anche in virtù dell’evoluzione dei principi in materia dei danni punitivi - sulla funzione sanzionatoria, allo scopo di contenere l’abuso del processo. I giudici chiariscono che la condanna alle spese in caso di soccombenza, prevista dal terzo comma dell’articolo 96, configura una sanzione di tipo pubblicistico, autonoma e indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata indicata dai primi due commi. Ed con queste cumulabile, in nome del contenimento dello strumento processuale. Senza che, per la sua applicazione sia necessario, riscontrare l’elemento soggettivo del dolo e della colpa grave: basta che la condotta rientri nell’abuso del diritto. Il maggiore spazio attribuito dalla giurisprudenza ai “risarcimenti punitivi” si giustifica perché la responsabilità civile ha anche uno scopo deterrente e non il solo fine di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione. Per queste ragioni la Cassazione allarga la sfera del non consentito “punendo” oltre ai ricorsi pasticciati e non legati alla sentenza da impugnare, anche le richiesta di una revisione dei “fatti” e i vizi infondati. Nel mirino dei giudici finiscono i ricorsi non finalizzati alla tutela dei diritti e a ottenere giustizia, ma destinati a far lievitare il volume del contenzioso “ostacolando la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione”. Nello specifico il ricorrente oltre alle spese, e al contributo unificato, paga anche 2.500 euro alla controparte. I suoi motivi erano tutti inammissibili ed esposti in un modo non più compatibile con un ordinamento che deve contemperare l’esigenza di un accesso universale alla giustizia, con il principio della durata ragionevole del processo. Nella necessità di dissuadere azioni dilatorie e defatiganti va valorizzata la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario. Per dare spazio alla tutela dei soggetti meritevoli, il primo filtro è affidato alla prudenza degli avvocati che va unita alla responsabilità delle parti. Sicilia: emergenza idrica nelle carceri, scatta la protesta dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2019 In alcune carceri italiane c’è un problema relativo alla mancanza di acqua. Nel carcere siciliano di Enna, ad esempio, si teme una esplosione dal punto di vista igienico sanitario a causa dell’emergenza idrica. Per questo motivo, e non solo, decine di detenuti del carcere siciliano di Enna hanno protestato pacificamente rifiutando di entrare nelle loro celle. L’acqua è solitamente garantita dalla presenza di una cisterna che a causa di perdite, da qualche mese, nelle tubature non riesce a riempirsi completamente. Nel periodo invernale la situazione è stata risolta grazie ai Vigili del Fuoco che hanno utilizzato le loro autobotti per garantire il rifornimento idrico al carcere ma nel periodo estivo a causa del carico di lavoro l’operazione è praticamente impossibile. La gestione del carcere ha più volte sollecitato un intervento da parte di Acquaenna (società per azioni che gestisce il servizio idrico di Enna) che ha sempre sostenuto di non avere nessuna competenza in quanto si tratterebbe, in base a delle ispezioni effettuate, di un danno in una zona di non sua competenza. I detenuti chiedono aiuto affinché si possa risolvere al più presto una situazione che potrebbe anche degenerare soprattutto dal punto di vista igienico- sanitario. Così come al carcere Pagliarelli di Palermo dove, da qualche giorno, i detenuti dell’alta sicurezza hanno deciso di rifiutare il cibo della mensa a causa della mancanza d’acqua nelle docce. Le uniche pietanze accettate sono quelle che provengono dall’esterno, cioè dai familiari. Parliamo di un carcere non semplice da gestire, anche perché c’è un sovraffollamento che complica le cose: 1380 persone recluse in una struttura per 700 posti. Questo è anche il motivo del perché l’acqua non basta per farsi le docce. A causa del caldo, amplificato dalla struttura, l’acqua è indispensabile per rinfrescarsi tutti i giorni. Ma così non è possibile. Così come, sempre in Sicilia, è stata la volta del carcere agrigentino, dove alcuni giorni fa, alcuni detenuti hanno appiccato un incendio nelle celle dov’erano ristretti, dando fuoco ai materassi. Il motivo? La mancanza d’acqua. Da non dimenticare, questa volta in Campania, la situazione della mancanza perenne dell’acqua nel carcere di Santa Maria Capua Vetere visto che parliamo di una struttura costruita senza alcun allaccio idrico. I reclusi sono costretti a passare un’altra estate senza l’acqua potabile e la gara d’appalto europeo per far fronte a questo problema è ancora in alto mare. A vivere il disagio sono 1049 detenuti, a fronte di una capienza di 819 posti, che sono ospitati nella struttura, prossimamente ampliata grazie alla prevista costruzione di due nuovi padiglioni. Il tasso di affollamento è oltre 120%, in linea con il dato nazionale sul sovraffollamento delle carceri italiane. Enna: i detenuti protestano per la mancanza d’acqua e non rientrano in cella vivienna.it, 26 giugno 2019 Quarantasei detenuti del carcere circondariale di Piazza Armerina ieri sera hanno rifiutato di rientrare nelle loro celle. La pacifica protesta è dovuta dai disagi causati dalla mancanza di acqua all’interno della struttura carceraria che rende ancora più problematica la permanenza forzata di chi sta scontando una pena. L’acqua è solitamente garantita dalla presenza di una cisterna che a causa di perdite, da qualche mese, nelle tubature non riesce a riempirsi completamente. Nel periodo invernale la situazione è stata risolta grazie ai Vigili del Fuoco che hanno utilizzato le loro autobotti per garantire il rifornimento idrico al carcere ma nel periodo estivo a causa del carico di lavoro l’operazione è praticamente impossibile. La gestione del carcere ha più volte sollecitato un intervento da parte di Acquaenna che ha sempre sostenuto di non avere nessuna competenza in quanto si tratterebbe, in base a delle ispezioni effettuate, di un danno in una zona di non sua competenza. I detenuti chiedono aiuto affinché si possa risolvere al più presto una situazione che potrebbe anche degenerare soprattutto dal punto di vista igienico-sanitario. Napoli: Poggioreale, la dignità dei detenuti di Paolo Siani La Repubblica, 26 giugno 2019 Domenica, in qualità di parlamentare e insieme alla mia collega Michela Rostan e alla consigliera regionale Bruna Fiola, ho fatto una cosa che il garante dei diritti dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello mi aveva più volte invitato a fare: sono stato al carcere di Poggioreale. Così, dopo la visita al carcere di Lauro, sono entrato in quello che viene definito l’inferno di Poggioreale. La direttrice Maria Luisa Palma ci ha accompagnato in alcuni padiglioni che hanno tutti il nome di una città, ci ha mostrato le celle, quelle vecchissime, inguardabili, quelle nuove appena ristrutturate, guardabili, e quelle che gli stessi detenuti stanno ristrutturando. Tutte, le vecchie e le nuove, sono sovraffollate. Ho contato anche 14 detenuti in una cella, con una sola finestra. Non si respirava. Da poco la Regione ha dotato ogni cella di un frigorifero. Ho visto le varie infermerie ad ogni piano con dottoresse volenterose e valorose e la psicologa che, con le sue colleghe e un gruppo di detenuti, cura un bellissimo giardino all’interno del carcere. E ancora piccole biblioteche con libri antichi e meno antichi. E poi ho visto i volti delle guardie carcerarie che vivono in quell’inferno e che lo affrontano con una carenza di 200 unità. Sì, avete letto bene, duecento unità in meno. Durante la visita la direttrice aveva una parola per tutti i detenuti, sembrava li conoscesse tutti, uno per uno. Conosceva le loro storie e si rammaricava di quello che oggi rappresenta Poggioreale, ma ci ha raccontato di tanti progetti messi in campo, di tanto volontariato. Ma è tutto troppo poco. Le condizioni di detenzione sono durissime e non credo che in tale contesto i detenuti possano uscire da qui come persone migliori. Come ci siamo detti durante la visita con Michela Rostan, come me profondamente colpita ed emozionata, a chi ha sbagliato è giusto togliere la libertà ma non la dignità. Altrimenti falliremo nell’obiettivo di recuperarne il più possibile per togliere criminali dalla strada. Abbiamo visto uomini alla prima detenzione provare a raccontarci la loro storia, tra le lacrime. Sostenevano, come è logico, che la loro detenzione è ingiusta. Quelle lacrime me le ricorderò sempre. A quegli uomini va data una possibilità di riscatto. Sono uscito profondamente turbato ma grato a Samuele Ciambriello di avermi fatto conoscere un mondo difficile. Tutti sapevano di Samuele, che trascorre molto del suo tempo con i detenuti. Ognuno aveva una richiesta per lui e lui ascoltava tutti. Appena usciti ci siamo detti che adesso dobbiamo metterci al lavoro per far sì che i 12 milioni messi a disposizione dal ministero per le Infrastrutture (già tempo fa) per riqualificare il penitenziario siano finalmente spesi per ottenere condizioni di vivibilità più decenti per detenuti e polizia penitenziaria. Soldi già impegnati che non siamo in grado di spendere. Dobbiamo metterci al lavoro perché lo “spesino” venga rivisto, perché nelle biblioteche arrivino libri belli, attraenti, nuovi. Gli autori napoletani potrebbero inviare ogni loro nuovo libro al carcere di Poggioreale: sono certo che Maurizio De Giovanni, Lorenzo Marone e tanti altri lo farebbero con gran piacere. A loro dico di parlarne con Samuele. E poi ci siamo impegnati per fare in modo che in ogni cella ci sia un ventilatore. Troveremo un modo per far arrivare 400 ventilatori a Poggioreale per rendere questa estate meno bollente. Napoli: istituito il Garante comunale dei detenuti Ristretti Orizzonti, 26 giugno 2019 Il Consiglio comunale di Napoli ha istituito il Garante cittadino dei detenuti, una figura presente già in altre realtà italiane che si affiancherà al già esistente Garante regionale. Il 25 giugno 2019, giorno in cui è stata discussa e approvata in Consiglio Comunale la delibera di giunta (promossa dall’assessore alle politiche sociali, Roberta Gaeta) risalente ad agosto di un anno fa, può essere una data storica per i Radicali per il Mezzogiorno Europeo, da tempo impegnati sulla questione. A commentare la notizia dell’istituzione del Garante cittadino dei detenuti è stato l’avvocato Raffaele Minieri, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani, esponente di spicco dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo nonché ideatore della proposta che ha visto la sua realizzazione nel voto dell’assemblea di via Verdi, dopo una lunga battaglia iniziata un anno e mezzo fa con la raccolta firme all’esterno del carcere di Poggioreale. “Accogliamo con grande soddisfazione la notizia dell’istituzione del Garante cittadino dei diritti dei detenuti - ha dichiarato l’avvocato Minieri - Abbiamo investito le nostre energie in questa proposta sin da gennaio 2018, mentre il Paese si avviava ad una campagna elettorale assurda. Tuttavia il Garante è solo una tappa di un impegno più lungo e profondo che è finalizzato ad assicurare ai cittadini detenuti e ai loro familiari il rispetto dei loro diritti. Dobbiamo assumerci la responsabilità di far conoscere al Paese le condizioni di emergenza in cui versano le carceri italiane, partendo da Napoli che è l’emblema della gravità della situazione. Ora attendiamo che venga individuato subito il profilo migliore perché è urgente mettersi al lavoro. Intanto noi non ci fermiamo e a breve saremo di nuovo in visita ispettiva a Poggioreale perché la situazione è di nuovo critica”. Fabrizio Ferrante Roma: taglio alle classi scolastiche a Rebibbia, sciopero dei prof di Madi Ferrucci Il Manifesto, 26 giugno 2019 Rifiutate oltre 50 iscrizioni per l’istituto tecnico. Stessi comportamenti nel resto d’Italia. Lo chiamano “ozio forzato” nel gergo del carcere. È una condizione che vivono molti detenuti quando mancano attività di rieducazione all’interno delle strutture carcerarie. Ieri mattina il sindacato degli insegnanti Rsu-Sgb dell’istituto tecnico-industriale “J. Von Neumann” di Rebibbia ha comunicato lo stato di agitazione e ha inviato una lettera alle autorità competenti contro il taglio delle iscrizioni. Secondo i dati del sindacato saranno solo 32 le classi concesse al distaccamento dell’Istituto presente all’interno del carcere. Le classi necessarie sarebbero 40 ma l’ufficio scolastico regionale è stato categorico: l’indirizzo tecnico commerciale potrà accogliere solo 100 nuove iscrizioni a fronte delle 157 richieste, mentre per l’indirizzo commerciale ci sarà un taglio di altri 37 posti. Al momento gli studenti del distaccamento carcerario dell’istituto sono circa 800. Molti insegnanti hanno cercato di ridurre le iscrizioni alla fonte contenendo le richieste, altri invece si sono opposti con forza: “Siamo pronti a scioperare a settembre se non ci verrà data risposta. I tagli sono stati decisi dall’ufficio scolastico regionale e rappresentano un’applicazione in senso rigido della riforma Gelmini. L’istruzione però è un diritto e la nostra Costituzione parla di una pena che deve tendere alla rieducazione del condannato. Com’è possibile farlo senza scuola?”, denuncia Barbara Battista, insegnante e sindacalista dell’Rsu-Sgb. Un caso simile è stato denunciato di recente dall’associazione Antigone, che dal 1998 gestisce un osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia. L’allarme riguarda 4 istituti superiori in provincia di Cosenza nelle carceri di Castrovillari, Paola, Rossano e Cosenza, dove le classi tagliate sono ben 32. L’associazione ha scritto al Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per la Calabria ma per il momento nessuna risposta. Nel 2018 degli 86 istituti visitati da Antigone, solo il 26,9 % dei detenuti risultava coinvolto nei percorsi di formazione scolastica e in 3 istituti quest’offerta risultava del tutto assente. Non va meglio nel 2019, dove la percentuale scende al 22,6 % ed altri 5 istituti risultano privi di qualsiasi offerta formativa. “Non è solo questione di rieducazione, si tratta di un diritto. Se si vuole sicurezza bisogna essere certi di riconsegnare alla società persone che hanno avuto la possibilità di riadattarvisi costruendo un percorso diverso rispetto a quando sono entrati. Non a caso il diritto all’istruzione è previsto anche dall’ordinamento penitenziario”, dichiara Claudio Paterniti dell’Osservatorio di Antigone. Un libro, un corso di inglese, un laboratorio di informatica: sono modi di garantire a ciascun detenuto la dignità di essere umano. Se è vero che un uomo non si definisce solo per quel che mangia, togliere la possibilità di studiare a un detenuto non sembra meno grave del privarlo di un pasto caldo. Per il diritto allo studio nella periferia e nel carcere di Rebibbia (sindacatosgb.it) Lo scorso anno scolastico oltre 150 studenti reclusi non hanno avuto una classe, stessa sorte ai tanti studenti “liberi” che si sono visti rifiutare l’iscrizione alle sedi di San Basilio e Tiburtino. Quest’anno a Rebibbia le iscrizioni “scomparse” sono 94, delle sole classi prime per giustificare il diniego delle classi necessarie. Con questa amara constatazione il Collegio Docenti dell’IISS “J. von Neumann” di Roma (con sedi a San Basilio, Tiburtino e Rebibbia) il 12 giugno ha decido di non riconfermare l’Accordo con il Centro Provinciale dell’Istruzione per gli Adulti, fintanto il Miur e l’Ufficio Scolastico Regione Lazio non si impegnino ad accordare un incontro sulla situazione della loro scuola. È stata una decisione importante vista l’insistenza del Miur a pretendere una firma, di fatto un consenso alla Riforma Gelmini che ha provocato tagli alle ore di lezione e alle classi non solo all’istruzione per gli Adulti: lo scambio che si vuole è un aumento del lavoro burocratico in cambio di una riduzione da 5 a 3 anni del corso di studi per gli studenti/adulti. L’USR del Lazio ha addirittura scritto che le classi saranno al massimo 32 per Rebibbia, senza alcuna considerazione su numero di studenti o sulle condizioni strutturali! La logica dei “risparmi” sulla scuola sta producendo ben altri costi sociali in tutto il territorio della periferia romana, in termini di abbandono scolastico tra i figli dei lavoratori e delle fasce popolari. Lo spostamento dei finanziamenti dalle ore di lezione su progetti e progettini, sull’alternanza scuola lavoro o alla finta meritocrazia sta minando la funzione di riscatto che la scuola per le giovani generazioni dentro e fuori il carcere. Altro che “legalità”, altro che impegni per l’educazione, l’istruzione per tutta la vita o la rieducazione. I lavoratori rivendicano classi in più, aumento dei docenti di sostegno, del personale Ata (collaboratori scolastici, tecnici, e amministrativi). Rivendicano, il rispetto della trasparenza amministrativa, della democrazia e della collegialità nella gestione della scuola: il minimo per poter assolvere ai propri compiti in sicurezza per gli studenti, le famiglie. Per rompere il muro dell’indifferenza delle istituzioni e della connivenza di dirigenti e sindacati collaborazionisti, SGB sostiene la mobilitazione dei lavoratori e degli studenti, proclamando lo stato di agitazione di tutto il personale e se necessario fino allo sciopero. San Benedetto del Tronto: detenuti al lavoro sui giardini della Riviera lanuovariviera.it, 26 giugno 2019 Due mesi a disposizione della città. È il progetto finanziato al quale il comune di San Benedetto ha aderito e che vedrà tre detenuti in affidamento che lavoreranno al fianco degli operai del Comune di San Benedetto su aree verdi e per la manutenzione. Una iniziativa sperimentale che ha visto l’assessorato diretto da Emanuela Carboni raccogliere l’invito dell’associazione “Il Germoglio” a mettere in campo un progetto che assicurerà un concreto lavoro di supporto, organizzazione e sostegno nell’attuazione di misure alternative alla pena e alla detenzione. “Un progetto - spiega l’assessore Carboni - che abbiamo abbracciato volentieri e per il quale ci siamo subito mossi al fine di trovare i fondi necessari alla sua realizzazione”. Ieri mattina, alla presentazione dell’iniziativa in Comune, erano presenti anche il presidente ed il vice presidente dell’associazione “Il Germoglio”, vale a dire Cosimo Bleve e Giuseppe Giuliano che hanno rimarcato quanto sia necessario credere nella possibilità di reintegrazione ringraziando il comune per aver accolto questo progetto. L’iniziativa vedrà coinvolti, ovviamente, il settore dei servizi sociali con Antonio Di Battista e quello dei lavori pubblici con Lanfranco Cameli. I detenuti lavoreranno per quattro ore al giorno, tre giorni alla settimana per ventisette giorni lavorativi. “Questo significa - ha spiegato Di Battista - che l’iniziativa coprirà circa due mesi”. Il costo complessivo dell’operazione ammonta a circa 2.250 euro che saranno a carico del Comune. Aosta: concluso il progetto “Itinerari di consapevolezza”, arte-terapia per i detenuti gaiaitalia.com, 26 giugno 2019 Si è concluso con un riscontro quanto mai soddisfacente il progetto dedicato ai detenuti della casa circondariale di Brissogne “Itinerari di consapevolezza”, organizzato dall’Associazione socio culturale “Il Calicanto” di Hône in collaborazione con il Consiglio regionale della Valle d’Aosta e l’Assessorato regionale della sanità, salute e politiche sociali. L’iniziativa, che si è svolta dal 5 aprile al 21 giugno 2019, si è articolata in due attività educativo culturali: “Chi sono io?”, una serie di incontri per approfondire la conoscenza di se stessi da un punto di vista olistico (mente, corpo, spirito), e un laboratorio di “arte-terapia”, strutturato in quindici appuntamenti. Per perseguire lo scopo di ampliare la conoscenza del percorso svolto e della sua valenza, nonché per sensibilizzare la collettività sulla realtà carceraria, l’Associazione “Il Calicanto” ha deciso di allestire una mostra dei lavori eseguiti, con l’illustrazione dei passaggi dei vari incontri. L’esposizione, prima ospitata nel carcere di Brissogne, da mercoledì 26 a sabato 29 giugno è visitabile nei locali della caffetteria della Cittadella dei Giovani di Aosta, aperta dalle 7.30 alle 12 e dalle 18 alle 20.30. L’obiettivo di “Itinerari di consapevolezza” è consistito nel creare per le persone detenute occasioni di occuparsi concretamente, di acquisire conoscenze e abilità in diversi settori, di sviluppare capacità e competenze relazionali. Entrambe le attività proposte hanno ottenuto un risultato positivo, incontrando il favore e l’interesse dei partecipanti, che hanno dimostrato disponibilità, concentrazione ed impegno crescenti e hanno manifestato gratitudine per l’opportunità offerta. Il ciclo di incontri “Chi sono io?” si è tenuto dal 5 al 17 aprile, affrontando diversi argomenti: i Chakra (relatrici Maria Teresa Aliberti e Silvia Fusinaz), la cura del sé (relatrice Cristina Faoro), il senso della vita (con Paolo Recaldini), le costellazioni familiari (a cura di Leonardo Vidale), onora il padre e la madre (con Andrea Penna). Ad ogni appuntamento hanno preso parte dalle 10 alle 17 persone. Il laboratorio di “arte-terapia”, articolato dal 30 aprile al 21 giugno, è stato condotto da Daniela Crisafi. I 10 iscritti hanno lavorato con costanza, riuscendo a rielaborare i loro vissuti, esprimendo attraverso la pittura emozioni anche legate ad esperienze o ricordi dolorosi. In tal modo, l’esperienza del processo creativo, individuale e di gruppo, è diventata fattore terapeutico. Venezia: “Maschere di libertà”, il progetto che punta sulle arti dei detenuti di Nicola Munaro Il Gazzettino, 26 giugno 2019 Un fumetto, sullo stile di quello che fu Corto Maltese; un profumo e la creazione di maschere, un’arte tipica di Venezia. Tutto di provenienza dalle carceri cittadine di Santa Maria Maggiore e della Giudecca. Eccolo “Maschere di libertà”, il progetto nato all’interno delle due case di reclusione di Venezia e che punta forte sulle arti di alcuni detenuti. Sono stati loro, infatti, a volere a gennaio l’apertura di un corso per la realizzazione di maschere, dando così il via ad altre idee che hanno trovato terreno fertile nella volontà dei volontari che ogni giorno varcano i cancelli di Santa Maria Maggiore e della Giudecca per far sembrare il più normale possibile quella che è, di fatto, una vita impossibile. Partendo dalle maschere, si è poi sviluppata anche l’idea di un fumetto, grazie all’abilità nel disegno di uno degli ospiti della struttura. È stato lui a tratteggiare - sullo stile del fumetto di Hugo Pratt - a dare forma e visi ai protagonisti di una storia d’amore impossibile che ha la sua ambientazione perfetta nella Venezia del Settecento, lì dove un pescatore si innamora di una nobildonna. Storia e fumetto che verranno presentati - assieme alle maschere - venerdì pomeriggio al negozio di Mestre Il Fontego, in via Paruta. Quella sarà anche l’occasione per dare alla luce il terzo step del progetto realizzato all’interno delle mura del carcere veneziano, ovvero il Profumo di Venezia, lo stesso nome anche del fumetto: si tratta della quintessenza della città d’acqua. Note di testa del profumo saranno legno di cedro del Libano, camomilla del Marocco e bergamotto; note di cuore: pepe rosa, rosa damascea, ylang ylang e come note di fondo: myrra (un omaggio alla protagonista della storia d’amore, ndr), incenso legno di sandalo mysore, legno di guayaco del Perù. “Maschere di libertà - spiega Fabrizio Longo, tra i promotori del progetto - dà una possibilità ai detenuti di imparare un mestiere che ancora offre buone opportunità di lavoro esterno, favorisce un dialogo costruttivo e rilassato tra le etnie, richiama l’interesse di laboratori esterni e l’impegno durante il corso, allontana detenuti e detenute da pensieri negativi rispetto alla loro condizione”. Alessandria: la birra nata dietro le sbarre che sostiene progetti solidali di Valentina Frezzato La Stampa, 26 giugno 2019 Brindare, sorridere e sentirsi sazi con i prodotti che arrivano dalle carceri d’Italia: nel fine settimana ad Alessandria si mangerà e si berrà bene, aiutando anche chi cerca di reinventarsi una vita al di là degli sbagli. In piazza Don Soria, di fronte alla casa di reclusione in centro città, due giorni di degustazioni con prodotti creati dietro le sbarre e la prima spillatura della birra solidale nata dalla collaborazione fra l’associazione Ises, Fuga di Sapori, Dolci evasioni e il Birrificio Trunasse a sostegno del progetto Social-Wood. Insieme hanno pensato a una ricetta di “riqualificazione”: grazie alla vendita della birra, si potrà ripensare all’intero giardino della piazza. Che, così, sarà recuperato e diventerà angolo verde per tutti. “Questa birra - spiega Andrea Ferrari, presidente Ises - nasce per sostenere i progetti sociali e solidali di Social Wood: da pochi giorni gestiamo, insieme alla cooperativa sociale Kepos e agli istituti di pena della città, il verde di questa piazza. L’evento ci permetterà di raccogliere fondi per questo progetto. L’obiettivo è fare in modo che la piazza torni a essere il salottino urbano di un tempo”. A pochi metri c’è l’ospedale, si fa qualche passo in più per arrivare in piazza della Libertà, sede di uffici. Sarebbe il primo parco vivibile del centro storico, in una zona da riqualificare. “Al progetto lavoreranno due detenuti appositamente formati che periodicamente usciranno per tagliare l’erba, aggiustare le panchine e mantenerla pulita”. Con i fondi raccolti nel weekend, si potrà pensare alla costruzione di fioriere e giochi per bambini, con materiale di recupero. “I detenuti che decidono di intraprendere un percorso di cambiamento - aggiunge Elena Lombardi Vallauri, direttore degli istituti penitenziari di Alessandria - devono poter dimostrare cosa sanno fare e come intendono contribuire al benessere della comunità. Se queste strade non si aprono il tempo trascorso all’interno del carcere produce un circolo vizioso in cui gli errori diventano fallimenti e la mancanza di speranza riconduce ai comportamenti del passato”. Una volta sistemata, pulita, rinnovata, potranno essere organizzati pomeriggi per bambini e famiglie. S’inizia da sabato e domenica: gli stand gastronomici, gestiti dal locale Hop, serviranno solo prodotti che arrivano dalle carceri italiane, attualmente in vendita nella bottega di Social Wood. Domenica ci saranno i laboratori di apicoltura dell’associazione Cambalache e quelli sul riciclo del centro gioco Bianconiglio. Perché quello spazio non sarà solo verde, ma anche green: “Ogni bambino riceverà una borraccia del Gruppo Amag, sponsor della giornata, per sensibilizzare la cittadinanza alla riduzione dell’utilizzo delle bottiglie di plastica”. Vittime di tortura: decine di migliaia nel mondo ogni anno di Roberta Gisotti vaticannews.va, 26 giugno 2019 Oggi è la Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, una pratica aberrante, ancora largamente diffusa nel mondo. Intervista con Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty International. La tortura è un crimine sancito dal diritto internazionale, non è mai consentita né giustificata, nemmeno in casi di emergenza, instabilità politica, minaccia di conflitto armato e perfino stato di guerra. Lo ricorda l’Onu, in vista della Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, che ricorre il 26 giugno, istituita nel 1997 per rimarcare quanto stabilito già 70 anni fa nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, proclamata nel dicembre del 1948: “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Una grande sfida non ancora vinta dalle Nazioni Unite - Eliminare la pratica della tortura è stata tra le prime e maggiori sfide affrontate dalle Nazioni Unite, fino all’approvazione nel 1984 della Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti, entrata in vigore nel 1987 ed oggi ratificata da 163 Paesi, gran parte dei quali si rende però colpevole di trasgressioni, come denunciato da diverse organizzazioni umanitarie. Oltre 50 mila le vittime registrate ogni anno - La lotta a questa pratica aberrante e vigliacca, che mira ad annientare la personalità della vittima e a negare la dignità della persona, deve continuare e rafforzarsi così come il sostegno a quanti, centinaia di migliaia di donne, uomini, giovani, sono stati in passato e sono ancora oggi torturati. Il Fondo dell’Onu per le vittime della tortura - sorto nel 1981 e finanziato con contributi volontari degli Stati - assiste ogni anno oltre 50 mila persone. Sono vittime di torture fisiche e psichiche, ed è difficile stabilire se i danni permanenti alla persona siano più gravi, in un caso o nell’altro. La tortura persiste anche negli Stati sviluppati - Allo scopo di prevenire la tortura le Nazioni Unite hanno attivato un sistema di visite regolari nei Paesi da parte di organismi internazionali e nazionali indipendenti, ma l’alto numero di vittime sopravvissute, molte delle quali non riconosciute e non sostenute, è la prova della drammatica persistenza di questa pratica in tutto il mondo, sovente tollerata anche nei Paesi democratici nel contesto della lotta al terrorismo. Altissima resta l’impunità, tanto che in molti Stati le prove d’accusa ottenute con la tortura sono ammesse nei tribunali, nonostante studi in materia ed opinioni di criminologi abbiamo dimostrato l’incertezza e l’infondatezza di questo ‘strumento’ coercitivo d’indagine: sotto tortura la vittima sovente fa il primo nome che ricorda, incolpa chiunque perfino se legato da vincoli affettivi, confessa reati non commessi. Maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica. La strada per eliminare la tortura nel mondo è ancora lunga e richiede nuovi interventi e maggiore consapevolezza nella pubblica opinione della gravità del fenomeno, come spiega Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty International R. - Purtroppo non siamo a un punto incoraggiante perché buona parte dei Paesi che hanno firmato e ratificato la Convenzione dell’Onu contro la tortura, negli anni successivi alla sua adozione, si sono resi responsabili di torture saltuarie o sistematiche, non dando la minima idea di voler rispettare il dettato di quel trattato. La tortura in altre parole è universalmente vietata e quasi universalmente praticata. Ogni anno Amnesty International ha riscontrato casi di maltrattamenti e torture in un centinaio di Paesi. Certamente il continente in cui la tortura è maggiormente impiegata resta l’Asia, l’Oriente considerato come vicino e lontano, quindi dal Medio Oriente in poi è pratica sistematica, quasi politica di governo di molti Paesi. Però non c’è un continente nel quale la tortura sia stata definitivamente messa al bando. Può esserlo nelle forme più rudimentali delle torture fisiche. Però oggi in molti Stati, soprattutto quelli più sviluppati, ci sono forme di tortura che non prevedono il contatto tra il torturatore e il torturato. Penso all’isolamento sistematico o a tutta una serie di tecniche di deprivazione sensoriale che sono state praticate a Guantanamo da parte degli Stati Uniti, così come in altri Paesi, come la Cina, nei confronti di prigionieri politici. La tortura è anche un business… R. - È un grande business. Questo chiama in causa i Paesi più ricchi, quelli che dovrebbero essere all’avanguardia dal punto di vista dello sviluppo di una civiltà giuridica in favore del rispetto dei diritti umani. Questi Stati, invece, usano l’avanzamento tecnologico per produrre marchingegni infernali dalle sedie di contenimento fino ai manganelli elettrici, dalle cinture elettriche ai manganelli acuminati e altre diavolerie che oggi sono da tortura moderna, quella che lascia poche tracce visibili sui corpi delle persone ma segni indelebili nella psiche. Se penso all’orrore di alcuni strumenti, come le sedie o le cinture elettriche - usate in molti Stati negli Usa o nel Sudafrica - che scaricano alta tensione sui reni del prigioniero che ha queste cinture costantemente intorno alla vita… Ci sono pochi altri strumenti dell’orrore come quelli. La tortura è ancora largamente praticata però se ne parla poco… R. - È vero, è quasi un tabù ma è quasi come non esistesse più. Oppure c’è la consapevolezza che esiste ma è qualcosa che allontaniamo da noi perché incompatibile con il livello di civiltà e sviluppo che abbiamo raggiunto e devo dire anche perché sempre di più la tortura ha obiettivi mirati, serve contro le minoranze, contro i dissidenti, contro i cittadini stranieri, contro gli appartenenti a fedi religiose minoritarie, contro le donne, contro le persone Lgbt. Persone che nella maggioranza dei casi non suscitano grande attenzione o solidarietà. È come se venisse riservata in qualche modo agli ‘altri’ e dunque c’è un parte della società che non se ne interessa. Quest’anno qual è l’impegno di Amnesty su questo importante fronte dei diritti umani? R. - C’è un’importante scadenza. In questi giorni nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite si discute una risoluzione per stringere e rafforzare i controlli sull’esportazione di strumenti di tortura. Nel mondo non c’è ancora un consenso sul fatto che queste ‘diavoleriè non debbano essere prodotte o commercializzate; perfino l’Unione europea ha regolamenti molto blandi con un sacco di scappatoie. Allora, questa risoluzione dovrebbe rafforzare tutti i controlli impedendo che si facciano soldi letteralmente sulla pelle delle persone e quindi l’intento di questi giorni è di arrivare all’adozione di questa risoluzione all’Onu. Diritti umani estinti nel mondo per effetto dell’apartheid climatico di Marco Boccitto Il Manifesto, 26 giugno 2019 La dura denuncia del relatore speciale sulla povertà estrema Philip Alston: solo i ricchi potranno permettersi di fuggire da fame e conflitti. A metà tra un discorso di Thomas Sankara e un aggiornamento degli Olocausti tardovittoriani di Mike Davis, sull’innesco politico prima ancora che climatico di fenomeni devastanti come El Niño, lo special rapporteur dell’Onu per la Povertà estrema, Philip Alston, ha illustrato con la giusta dose di apocalittico realismo i termini della faccenda. Ripetendo, con toni forti e autorevoli, quanto è e sarà sotto gli occhi di tutti, che saranno i più poveri a subire i danni causati dai più ricchi, che i mutamenti climatici in atto travolgeranno chi vi ha meno contribuito. E che oltre alla scarsità di cibo, acqua e luoghi sicuri in cui vivere, con conseguenti conflitti, migrazioni di massa e vie di fuga che solo i ricchi potranno permettersi, a rischiare seriamente l’estinzione di fronte “agli sconvolgimenti che sono in arrivo” sono gli stessi diritti umani. “Apartheid climatico” è la calzante definizione usata dallo studioso australiano, parte di un gruppo di esperti indipendenti che ha lavorato a una sorta di sintesi delle ricerche condotte fin qui su una materia così incandescente. Le conclusioni sono sdegno allo stato puro per il modo in cui Donald Trump sta “silenziando attivamente” la ricerca sul climate change e per come Jair Bolsonaro sta svendendo l’Amazzonia alle società minerarie. Ma sono anche una condanna senza appello per i passi “palesemente inadeguati” intrapresi dalle Nazioni unite e dallo stesso Consiglio Onu per i diritti umani - nella cui sede il rapporto verrà presentato, venerdì a Ginevra - che per Alston “non può più limitarsi a organizzare panel di esperti, produrre inutili rapporti, esortare gli altri a fare di più quando di per sé fa ben poco. Spuntare caselle non salverà l’umanità dal disastro imminente”. Decimo Libro Bianco, trenta anni di guerra alla droga di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 26 giugno 2019 I dati che saranno presentati oggi alla Camera confermano l’aumento degli ingressi e le presenze in carcere sia per detenzione sia di soggetti classificati come tossicodipendenti. Oggi sarà presentato alla Camera dei Deputati il Decimo Libro Bianco sugli effetti collaterali della legge antidroga sul carcere e la giustizia. Quest’anno, oltre a presentare i dati assai eloquenti sugli ingressi in carcere e sulle presenze negli istituti penitenziari per violazione della legge antidroga, il Libro bianco si caratterizza per la ricostruzione storica della politica sulle droghe lungo un trentennio. Trenta anni sono passati dall’inizio della War on drugs in Italia, da quando Bettino Craxi - reduce da un viaggio negli Stati Uniti - alzò il vessillo della tolleranza zero contro la droga e fece compiere ai socialisti italiani una torsione proibizionista inconcepibile per il partito che fu di Loris Fortuna. La polemica fu molto accesa e l’obiettivo strumentale del segretario del Psi divenne la cosiddetta “modica quantità”, prevista dalla legge come condizione di non punibilità del possesso di sostanze stupefacenti ai fini di consumo personale. Frutto di quella legge fu l’esplosione delle presenze in carcere di tossicodipendenti e per detenzione o piccolo spaccio di sostanze stupefacenti: così si passò rapidamente dai 35000 detenuti dei primi anni ‘90 agli oltre 60000 degli ultimi anni. Dato che non c’è limite al peggio, nel 2006 fu approvata con un colpo di mano la cosiddetta legge Fini-Giovanardi, che stringeva ancora di più la repressione, scegliendo la equiparazione di tutte le sostanze, leggere e pesanti, e prevedendo per tutte la stessa pena, da sei a venti anni di carcere. La politica non raccolse i richiami al rispetto della Costituzione e si dovette aspettare la decisione della Corte Costituzionale che nel 2014 smantellò gli aspetti più duri della legge. I dati che presentiamo confermano l’aumento degli ingressi e le presenze in carcere sia per detenzione sia di soggetti classificati come tossicodipendenti. Aumenta a dismisura il numero delle segnalazioni ai prefetti. È un quadro impressionante perché il sovraffollamento che riprende a mordere è dovuto anche alla legge proibizionista e punitiva. In questi mesi abbiamo assistito a una campagna di Antonio Polito sul Corriere della Sera, caratterizzata dall’anatema contro le canne e lo spinello, che non sarebbe più “leggero”, come quello di una volta: fandonie che erano state propalate al tempo di Giovanardi, che avevamo smontato e che ora vengono riciclate da pulpiti sedicenti laici e democratici. Non ci si può dunque stupire delle proposte del ministro Fontana e del ministro dell’Interno Salvini, che propone di aumentare le pene per i fatti di lieve entità. La conseguenza sarebbe quella di affollare ancora di più le nostre carceri e di intasare i tribunali, ma questo non preoccupa chi ignora deliberatamente i vincoli dello stato di diritto e della Costituzione. Resta lo scandalo della inadempienza del governo rispetto all’obbligo di convocare una Conferenza nazionale sulle droghe ogni tre anni, allo scopo anche di suggerire al Parlamento le necessarie modifiche alla legislazione. L’ultima conferenza, per altro blindata e senza contraddittorio, risale al 2009, l’ultima di reale confronto al 2000 a Genova. Una discussione libera e intelligente non sarà realizzata da questo Governo, ma in Parlamento sono state depositate importanti proposte di riforma della legge sulle droghe e di legalizzazione della cannabis. Per questo ci impegniamo a rilanciare una Conferenza autoconvocata. Il Libro Bianco rappresenta uno strumento per una iniziativa politica e culturale di vero cambiamento, che veda protagonisti i giovani, i consumatori, gli avvocati e i magistrati democratici, gli operatori del pubblico e del privato sociale, tutti uniti nel respingere la deriva proibizionista e punitiva, per conquistare diritti e responsabilità. Alcol e droghe, attenzione ai giovani fra i 10 e i 14 anni di Fabio Di Todaro La Stampa, 26 giugno 2019 Si punta alla prevenzione: importante il ruolo dei pediatri e dei medici di base per riconoscere i primi segnali. Oltre che dalla comunità scientifica, l’appello adesso arriva dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. “Serve un piano d’azione per proteggere i minori dalle droghe e dall’alcol”, ha scritto la Garante Filomena Albano al Governo, alla Conferenza delle Regioni e a quella Stato-Città. “Sono sempre più numerosi i giovanissimi che fanno uso di sostanze stupefacenti e alcoliche - si legge nella lettera -. Bisogna aumentare la frequenza dei controlli periodici, i cosiddetti bilanci di salute, tra i 10 e i 14 anni. E poi vanno rafforzati, a livello locale, i controlli sul rispetto dei divieti di vendita ai minori di 18 anni”. Tra queste, quella di riconoscere precocemente i preadolescenti a rischio di dipendenze, assegnando un ruolo importante ai pediatri di libera scelta e ai medici di famiglia. Come testimoniano sovente le cronache, sono sempre più numerosi i giovanissimi che fanno uso di sostanze stupefacenti e alcoliche. E, come testimonia la comunità scientifica, si comincia sempre prima. “È cambiato il modo di consumare droga, si allunga sempre di più l’elenco delle sostanze che eludono le norme vigenti e che possono essere reperite via internet”, si legge nella lettera, redatta dopo mesi di confronto con istituzioni, operatori e professionisti del settore. Dalle audizioni è emerso un quadro con esperienze di rilievo, ma con un’offerta disomogenea sul piano nazionale. Come agire, allora? “Prevenzione e presa in carico, pure se precoce, sono solo due dei possibili interventi”, prosegue Albano. Oltre all’incremento dei controlli tra i 10 e i 14 anni, l’Autorità suggerisce che, al momento del passaggio dalle cure del pediatra a quelle del medico di base, il primo rediga e trasmetta una scheda clinica per ogni ragazzo. Obbiettivo: individuare precocemente i ragazzi che rischiano di sviluppare una delle dipendenze sopra citate. Alcol e giovani - L’abitudine a consumare alcol, fino a ubriacarsi, emerge infatti a partire dall’adolescenza. Fondamentale rimane pertanto l’impegno in termini di sensibilizzazione, portato avanti da molte associazioni ed enti non profit. Oltre che sulle droghe, l’Autorità ha alzato la voce soprattutto relativamente al consumo di bevande alcoliche da parte dei giovanissimi. Molti di loro ignorano i rischi: dalla possibilità di provocare un incidente stradale alle progressive alterazioni nella fase di maturazione cerebrale. L’Italia, nel contesto europeo, vanta un triste primato: assieme ad altri, è il Paese in cui sia le ragazze sia i ragazzi (soprattutto) bevono di più, in assoluto. Nel 2017, il 42,3 per cento delle prime e il 52,5 per cento dei secondi (11-25 anni) ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno. Tutto ciò nonostante il divieto di vendita in vigore fino ai 18 anni (speso non rispettato) e le indicazioni provenienti dalla comunità scientifica (i giovani non dovrebbero mai bere almeno fino ai 21 anni, dal momento che il loro cervello è in formazione). Lo schiaffo di Strasburgo ai migranti di Sea-Watch di Alessandra Ziniti La Repubblica, 26 giugno 2019 Adesso alla comandante Carola non resta che decidere se e quando mandare avanti le macchine della Sea-Watch, infrangere il divieto d’ingresso in acque italiane ed entrare in porto a Lampedusa. “So che perderò la nave, ma devo portare a terra queste persone”, aveva annunciato ieri in un’intervista a Repubblica consapevole delle conseguenze della sua decisione: multa fino a 50.000 euro e confisca della nave. La Ong, cui questa prospettiva non piace, non ha ancora deciso se avallare la decisione della comandante, che sembra ormai inevitabile dopo il verdetto della Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo hanno respinto il ricorso dei 42 migranti, che invocavano un intervento urgente per porre fine a un trattamento disumano al quattordicesimo giorno a bordo. Per la Corte, non ci sono i “motivi eccezionali” che possono discendere dal rischio di “danni irreparabili alle persone”. Un brutto e forse inatteso colpo per la Ong, che ha commentato così: “La Corte ritiene che le condizioni a bordo non costituiscano un danno imminente e irreparabile all’incolumità dei naufraghi e chiede però all’Italia di prestare supporto alla nave. Resta la responsabilità del comandante di portare in salvo i naufraghi”. Parole che suonano come un via libera alle scelte della giovane capitana. Rackete ha sperato fino all’ultimo in un verdetto che sollecitasse l’Italia a consentire lo sbarco immediato. Ma così non è stato. Le controdeduzioni fornite dal Viminale sono bastate ai giudici di Strasburgo per emettere una sentenza che si limita a invitare l’Italia “a continuare a fornire l’assistenza necessaria” alle persone a bordo “vulnerabili” per età o condizioni di salute. Come dire che, finché la nave continuerà a pendolare di fronte a Lampedusa, l’Italia dovrà garantire generi di prima necessità e eventuali cure mediche. Come nei giorni scorsi, quando il Viminale ha consentito l’evacuazione di 11 tra donne incinte, bambini, uomini in gravi condizioni di salute. Salvini, che già prima del verdetto aveva annunciato: “La nave in Italia non arriva, per me può restare in mare fino a Natale”, dopo si ringalluzzisce: “Anche la Corte di Strasburgo conferma la scelta di ordine, buon senso, legalità e giustizia dell’Italia: porti chiusi ai trafficanti di esseri umani e ai loro complici”, mentre il suo sottosegretario Molteni si lascia andare a un attacco a chi sostiene le ragioni umanitarie: “Aspettiamo con ansia le reazioni di Boldrini, Saviano e compagni vari”. A bordo, il no di Strasburgo è stato accolto con scoramento. Difficile per la comandante tenere tranquilli i 42 migranti, che ieri avevano fatto arrivare a terra un drammatico videomessaggio: “Siamo scappati dalle prigioni libiche e oggi siamo prigionieri su questa nave. Vi chiediamo aiuto, fateci sbarcare. Non è più possibile vivere qui in queste condizioni, seduti o sdraiati. Non c’è spazio per tutti”. Appello raccolto dal Garante dei detenuti Mauro Palma, che ha presentato un esposto alla procura di Roma chiedendo di valutare se - nella decisione del governo di vietare lo sbarco - possa ravvisarsi una condotta penalmente rilevante di violazione della libertà personale. Il moltiplicarsi di appelli, da don Ciotti a Emma Bonino, a questo punto, non sembra però in grado di sbloccare la situazione. Il timone è in mano a Carola Rackete. Sarà lei a decidere se regalare la libertà a quei 42 migranti, nelle stesse ore in cui il Parlamento è chiamato a votare il rinnovo degli accordi con il governo libico per il controllo dei flussi migratori. Una questione sulla quale si è espresso ieri il Consiglio supremo di difesa, riunito al Quirinale dal presidente della Repubblica: “La Libia resta una priorità per il nostro Paese. Solo il ripristino del dialogo tra tutte le parti potrà creare le condizioni per un reale processo di pace e di conseguente stabilità e controllo del territorio”. Ma il voto sul rinnovo della missione finisce per spaccare il Pd con un’ala del partito, capofila Matteo Orfini, che firma con Leu e Radicali una risoluzione per l’immediata sospensione di quegli accordi, voluti dall’ex ministro Pd Marco Minniti: “Vanno strappati, la Libia è un Paese in guerra e rimandarci chi scappa è illegale e disumano”. Migranti. Sea Watch, il Garante nazionale dei detenuti presenta un esposto alla Procura di Dario Pasquini* Ristretti Orizzonti, 26 giugno 2019 I migranti soccorsi in mare dalla nave Sea Watch 3 si trovano da più di dieci giorni a bordo di tale imbarcazione, che staziona in acque internazionali, al limite della “frontiera” italiana. La situazione di stallo si è creata per effetto di tre diverse scelte. La prima è quella del Comandante della nave, che, sulla base di valutazioni che trovano conferma nell’orientamento di Organizzazioni internazionali come il Consiglio d’Europa, ha considerato non sicuro il porto indicato dalle Autorità libiche e ha indirizzato all’Italia molteplici richieste di indicazione di un porto sicuro, senza ottenere alcun riscontro positivo. La seconda scelta è stata operata dalle Autorità dell’Olanda, Paese del quale la nave batte bandiera, che non hanno ritenuto di inviare alcun tipo di supporto alla propria imbarcazione bloccata in mare. La terza è stata operata dalle Autorità competenti italiane, che il 16 giugno hanno notificato alla nave Sea Watch 3 un divieto di ingresso, transito e sosta nelle nostre acque. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà non può né intende intervenire su scelte politiche che esulano dalla propria stretta competenza. Tuttavia, è suo dovere agire per fare cessare eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale. In particolare, ribadisce che le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati. Ritiene inoltre che la situazione in essere richieda la necessità di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue Autorità competenti, stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave. Ricorda in tal senso che la Corte europea dei diritti umani nella sentenza di condanna dell’Italia nel caso “Hirsi Jamaa c. Italia” (2012), ha argomentato che tutte le forme di controllo dell’immigrazione e delle frontiere sono sopposte alle norme in materia di diritti umani, qualunque sia il personale incaricato di queste operazioni e il luogo in cui esse si svolgano. Il Garante nazionale si interroga se nel caso della Sea Watch 3, sia proprio il pur legittimo esercizio della sovranità da parte del nostro Paese a determinare giurisdizione e responsabilità nei confronti delle persone, incluso almeno un minore non accompagnato, bloccate in condizioni sempre più gravi al confine delle sue acque. Del resto, l’esercizio stesso del divieto e la sua attuazione implicano che il Paese garantisca l’effettività dei diritti derivanti dagli obblighi internazionali alle persone bloccate: di non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti; di non essere rinviati in Paesi dove ciò possa avvenire; di avere la possibilità di ricorrere contro l’attuale situazione di fatto di non libertà davanti all’autorità giudiziaria; di richiedere protezione internazionale. L’esercizio della giurisdizione italiana sull’imbarcazione sembra inoltre confermato dalla valutazione delle vulnerabilità delle persone a bordo a cui è stato permesso lo sbarco: non può essere però questa la sola via d’uscita dalla situazione presente che, a parere del Garante, sta degenerando. Anche in osservanza dell’obbligo che questa Autorità di garanzia ha nel proprio Codice etico, che impone di trasmettere tempestivamente all’Autorità giudiziaria eventuali ipotesi di reato ai danni di persone detenute o private della libertà di cui abbia avuto conoscenza, il Garante nazionale nei giorni scorsi ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma per richiedere una verifica su eventuali aspetti penalmente rilevanti nell’attuale blocco della Sea Watch 3. *Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Migranti. Il Pd alla Camera si spacca sull’accordo con la Libia di Giovanna Casadio La Repubblica, 26 giugno 2019 Orfini, Migliore e altri deputati si oppongono al documento preparato da Quartapelle. “È invotabile, gli accordi con Tripoli vanno stracciati”, dice l’ex presidente del partito. E il gruppo dei dissidenti sottoscrive il testo presentato dalla sinistra e dai radicali. Quartapelle replica: “Tripoli da sola non ce la fa”. A colpi di risoluzioni sulla Libia la sinistra si divide. Domani alla Camera si vota la proroga delle missioni internazionali, incluso il punto in cui si parla degli accordi con la Libia per contenere il flusso dei migranti. Motovedette, centri di permanenza, addestramento. Sulla scia della linea di Gentiloni-Minniti, a cui ora sono però aggiunte alcune avvertenze, quegli accordi sono confermati anche dal Pd, oltre che dalla maggioranza giallo verde e da Forza Italia. Ma un gruppo di sei dem più Liberi e uguali e i Radicali ha chiesto si voti domani una risoluzione contro: “Gli accordi con la Libia vanno stracciati. È un paese in guerra, è illegale prorogare le intese, in palese violazione dei diritti umani “. Capofila della risoluzione è Matteo Orfini, ex presidente del Pd, che già nelle settimane passate aveva chiesto una presa di posizione diversa e una discussione con Nicola Zingaretti. Oggi in un post su Facebook, spiega e attacca l’altra risoluzione, quella ufficiale del partito: “Il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica per la gestione dei flussi migratori è per me invotabile. Gli accordi vanno cassati. La Libia è un paese in guerra e rimandarci chi dalla guerra scappa è illegale. Oltre che disumano. Nel Pd ci sono su questo idee diverse. Secondo alcuni, nonostante oggi in quel paese sia scoppiata una guerra, vanno difesi a oltranza. Una posizione per me incomprensibile e proprio per questo avrei voluto discuterla, per capirne le motivazioni. Dico avrei voluto perché purtroppo una riunione su questo non è mai stata convocata”. Orfini sostiene che non si possono ignorare i lager libici e che le avvertenze dell’altra risoluzione dem firmata tra gli altri da Marco Minniti e da Lia Quartapelle sono all’acqua di rose: “ Una risoluzione in cui sostanzialmente si dice che quegli accordi vanno bene, ma bisogna avere garanzie che le motovedette non vengano usate per fare la guerra e che i diritti umani vengano rispettati. Come se tutto il resto andasse bene. Non so chi l’abbia discussa e dove. Immagino che il segretario Zingaretti ne sia stato informato e che questa sia la linea della segreteria. Ma so che per me è invotabile. Perché continuare a fingere di non vedere i lager, le torture, le morti nel Mediterraneo davvero non si può”. Il documento che chiede di cancellare gli accordi con la Libia è stato preparato e sottoscritto anche dal leader della Sinistra-Leu Nicola Fratoianni insieme con Erasmo Palazzotto e Laura Boldrini, Luca Pastorino, Roberto Speranza di Articolo 1, il radicale Riccardo Magi e i dem Gennaro Migliore, Giuditta Pini, Luca Rizzo Nervo, Fausto Raciti, Enza Bruno Bossio. Una risoluzione che prende le mosse dalla grave instabilità che caratterizza la Libia dal 2011, anno della cattura e uccisione del colonnello Gheddafi. “Oggi, in Libia, gli sfollati interni che non possono tornare alle proprie case sono circa 193.600, circa 57.600 sono i rifugiati e richiedenti asilo attualmente registrati presso l’Unhcr in Libia; a Tripoli sono quasi 94.000 gli sfollati a causa del conflitto in corso dallo scorso 4 aprile mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità ha precisato che i combattimenti hanno causato finora 653 morti, tra cui 41 civili e 3.547 feriti, tra cui 126 civili”. “L’Unhcr - prosegue il testo - stima che oltre il 48% degli sfollati sia composto da bambini con meno di 18 anni; l’attuale condizione libica ha contribuito ad aggravare la situazione migratoria in particolare per quanto riguarda le condizioni di permanenza dei migranti e dei rifugiati nei centri di detenzione sommando alla ferocia del trattamento dei migranti ampiamente documentata i rischi oggettivi di uno stato di guerra”. Naturalmente la presa di posizione del gruppetto di Orfini non piace a Lia Quartapelle che insieme a Minniti ha preparato il testo “ufficiale” del gruppo. “Il Pd - spiega la deputata - chiede che l’Italia si assuma le sue responsabilità verso un paese che da solo non può cavarsela. Spiace che Orfini e gli altri colleghi non condividano questo punto di vista e trovo singolare che firmino una risoluzione alternativa con altri gruppi parlamentari senza averne discusso con chi ha lavorato nel merito sul provvedimento”. E comunque, dice la Quartapelle, “leggo che il Pd sarebbe spaccato perché 6 deputati su 111 hanno firmato un testo sulle missioni internazionali e specificatamente sulla Libia diverso quello già votato in commissione dal Partito democratico. Il testo del Pd dice una cosa molto semplice: abbandonare la Libia, votando contro le missioni internazionali in quel paese, vuole dire destabilizzarla”. Stati Uniti. Choc dei bimbi-migranti, detenuti in stato pietoso di Loretta Bricchi Lee Avvenire, 26 giugno 2019 Un gruppo di legali è entrato nel centro di El Paso: è scoppiata la bufera che ha travolto le autorità Gli oltre 300 piccoli, da tempo reclusi dopo la separazione dai genitori, sono stati trasferiti dal Texas. Si dimette il capo delle frontiere. Sporchi, abbandonati, malati. Così un gruppo di avvocati ha trovato oltre 300 baby-migranti detenuti nel centro di Clint, vicino alla texana El Paso, dopo essere stati separati dalle loro famiglie. L’effetto del loro racconto, raccolto dai media, è stato dirompente. L’indignazione dell’opinione pubblica ha “costretto” le autorità a prendere misure immediate. I piccoli sono stati trasferiti e, perfino, la Casa Bianca, attraverso il vicepresidente, Mike Pence, ha condannato l’accaduto. Il problema, però, resta. La politica di “tolleranza zero” inaugurata da Donald Trump, con la decisione di recludere minori e famiglie in attesa dell’esame della richiesta d’asilo, ha mandato in tilt il sistema. I luoghi di detenzione sono al collasso. Lo dimostra il fatto che un gruppo di cento bambini portati via da Clint sono poi ritornati al punto di partenza, ieri, senza alcuna spiegazione. La vicenda è cominciata lunedì quando un gruppo di legali ha ottenuto l’autorizzazione di visitare il centro. Gli avvocati si sono trovati di fronte una situazione sconfortante: i bimbi erano chiusi “celle orrende”, sovraffollate, e “gravemente trascurati”, tanto che gli adolescenti si prendevano cura dei più giovani. Evidenti le pessime condizioni igienico- sanitarie: non solo mancavano docce, sapone, dentifricio e spazzolini, ma pure cibo e coperte. I piccoli erano sporchi, con indosso gli stessi indumenti con cui avevano oltrepassato il confine, infestati di pidocchi e malati per aver dormito per settimane per terra su pavimenti di cemento. In un primo tempo, i funzionari del dipartimento dell’immigrazione Usa hanno cercato di difendersi sostenendo che nulla di quanto riportato rappresentava una violazione delle regole. Hanno, però, dovuto ammettere che i centri in questione sono attrezzati per ospitare i migranti per un massimo di tre giorni, mentre ora la reclusione si prolunga. Le giustificazioni non hanno, però, convinto i cittadini e nemmeno le istituzioni. La stessa portavoce dell’ufficio del reinsediamento dei rifugiati - che è parte del ministero della Sanità - ha detto di essere di fronte a “una crisi umanitaria” che “peggiora di giorno in giorno”. Alla fine, il commissario temporaneo per la sicurezza delle frontiere, John Sanders, ha presentato le dimissioni. Nelle stesse ore, i legislatori dibattevano una misura di emergenza per far fronte all’esaurimento dei fondi per la gestione dei centri di detenzione prevista per la fine del mese. Il finanziamento di 4,5 miliardi di dollari - tra cui 2,9 miliardi di dollari per l’assistenza à rifugiati e ai migranti - deve essere autorizzato dalla Camera e dal Senato prima della scadenza del 4 di luglio. Il presidente Trump potrebbe, però, imporre il veto a meno di non ottenere dall’opposizione qualche concessione nella lotta all’immigrazione irregolare. Stati Uniti. 300 bambini trasferiti dai centri di detenzione dopo le denunce di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 26 giugno 2019 Dopo le denunce sulle drammatiche condizioni dei bambini di migranti nei centri di detenzione al confine con il Messico, raccontate anche in questo blog qui, le autorità americane hanno disposto il trasferimento di oltre 300 minori dalla struttura di El Paso. Lo ha riferito la deputata del Congresso Veronica Escobar. Vari media americani avevano rivelato nei giorni scorsi le condizioni a dir poco precarie dei bambini - separati dalle rispettive famiglie - in queste strutture, con quelli più grandi che si occupano dei più piccoli, compresi i neonati, il tutto a fronte di una grave mancanza d’acqua, insufficiente alimentazione e pessime condizioni igienico-sanitarie. Ai minori era impedito di fare la doccia per giorni, e come raccontava Newsweek, funzionari di governo hanno sostenuto di fronte ai dei giudici federali che non avere del sapone o degli spazzolini da denti e dormire per terra su pavimenti di cemento non rappresenterebbe una violazione della legge che regola e limita la permanenza di minori in centri di detenzione. Quindici bambini detenuti a El Paso si sono ammalati di influenza, altri 10 sono tenuti in quarantena medica, come hanno riferito alcuni avvocati che avevano visitato la struttura. Tuttavia, non è chiaro dove siano stati portati i bambini. La stessa Escobar afferma che sono stati sistemati in un altro edificio a El Paso. Ma a detta di Human Rights Watch in quel luogo le condizioni non sarebbero migliori: come afferma una delle legali dell’associazione per i diritti umani, le testimonianze parlano di bambini che dormono per terra e che anche qui non sarebbero sufficienti le condizioni igieniche. In Marocco c’è la legge della foresta per chi vede l’Europa di Lorenzo De Blasio Il Manifesto, 26 giugno 2019 Violenze, furti, arresti su base razziale da parte della polizia. Nei 15 campi sorti a ridosso di Ceuta e Melilla, i migranti diretti in Spagna sono sempre più esposti al ricatto dei trafficanti e alle politiche securitarie che garantiscono al Regno i soldi dell’Ue. Alle primissime luci dell’alba il posto di frontiera tra Beni Ensar e Melilla è gremito di lavoratori giornalieri in coda per recarsi nell’enclave spagnola e guadagnare qualche dirham in più rispetto alla paga offerta in Marocco. A loro fanno compagnia le centinaia di donne che si recano in Europa per fare il pieno di prodotti da rivendere poi nelle épiceries locali a prezzo maggiorato. Sono gli abitanti della provincia di Nador, i soli cittadini insieme a quelli di Tetouan a cui è permesso recarsi nelle limitrofe énclaves di Melilla e Ceuta senza bisogno di passaporto. Per tutti gli altri, marocchini e migranti provenienti da paesi terzi, scavalcare le quattro barriere che delimitano il confine rappresenta la sola alternativa all’attraversamento del mare di Alboran per raggiungere l’Europa. La militarizzazione della frontiera - lungo la quale ogni 50 metri si alternano tra filo spinato, telecamere e sensori notturni gabbiotti di guardia marocchini e torrette di avvistamento spagnole - ha reso il passaggio via terra sempre più difficoltoso, vedendo crescere esponenzialmente il numero delle partenze via mare, delle morti di chi tenta di attraversarlo e dei furti e violenze ai danni dei migranti. È quanto denuncia nel suo rapporto annuale l’Association Marocaine des Droits de l’Homme (Amdh) di Nador, che da anni si occupa di rilevare e combattere le violenze che avvengono nei 15 accampamenti situati nella foresta che si estende attorno alla città di confine, e in cui trovano rifugio circa 3000 persone in transito. “Dal 2015, anno in cui lungo il versante marocchino della frontiera è stata installata la quarta barriera di filo spinato, i tentativi di passaggio via terra - che avvenivano in maniera autorganizzata e spontanea - si sono ridotti drasticamente in favore di quelli via mare, organizzati per la quasi totalità da trafficanti che chiedono ai migranti cifre che possono raggiungere i 5mila euro. Questo cambiamento ha attirato molta delinquenza nella foresta, in quanto i migranti adesso non sono più visti come dei nulla tenenti ma un facile bersaglio per commettere furti ed estorsioni” dichiara Omar Naji, affermando che nel 2018 è stato registrato un aumento vertiginoso delle aggressioni ai danni dei migranti. Dalle 40 del 2015, si è passati alle 90 del 2016, 92 del 2017 fino alle 340 nel 2018. Secondo Amdh, le nuove politiche “hanno favorito il passaggio a una migrazione a pagamento permettendo la crescita di una rete di trafficanti che beneficiano di questo nuovo mercato, facendo diventare il diritto alla libera circolazione un bene che può essere comprato”. È per questo motivo, continua Naji, che “abbiamo denunciato più volte queste organizzazioni, fornendo alle autorità anche le foto, i nomi e i numeri di telefono dei trafficanti che agiscono nella regione, contribuendo a una serie di arresti che però non hanno intaccato minimamente le organizzazioni, che dirigono indisturbate il loro traffico da Rabat, Casablanca e Tangeri”. Come se non bastasse, i migranti sono vittime allo stesso tempo di ripetute incursioni negli accampamenti da parte delle forze ausiliarie e della gendarmerie royale, rimanendo vittime di reiterati episodi di racial profiling, arresti effettuati sulla base del colore della pelle. L’ultimo episodio in questo senso è stato denunciato dalla ong Droit et Justice il 20 giugno, quando un suo membro di origine guineana è stato arrestato nonostante fosse in possesso di regolare carta di soggiorno. Questo tipo di arresti secondo Amdh non sono il solo sopruso compiuto dalle forze dell’ordine, in quanto gli arresti effettuati non vengono mai notificati ai diretti interessati, andando contro le disposizioni previste dall’articolo 23 della legge 02/03, secondo il quale “chi è oggetto di una decisione di allontanamento alla frontiera può, nelle 48 ore successive alla notifica, domandarne l’annullamento”, e impedendo quindi ai destinatari del provvedimento di presentare regolare ricorso. Situazione resa ancora più grave se i diretti interessati sono donne incinta o minori, vittime anche loro di arresti e deportazioni alle frontiere nonostante l’articolo 28 indichi esplicitamente che “nessuna donna incinta o minore può essere condotto alla frontiera per l’espulsione”. Non sono queste però le notizie che giungono in Europa, per la quale il Marocco resta un partner affidabile nella gestione del dossier migrazione. A dimostrarlo ci sono le cifre che il Regno invia annualmente a Bruxelles per giustificare i fondi investiti nella cosiddetta prevenzione della migrazione irregolare. Poco importa che questi dati non rispecchino del tutto la realtà: degli 89 mila arresti dichiarati da Rabat nel 2018, 9mila (e 700 espulsioni) sono stati effettuati nella sola Nador, a fronte però di solo 3000 migranti presenti nella provincia. L’arcano è presto svelato: molte persone vengono arrestate e deportate anche 6 volte in un anno, ritornando poi puntualmente nel nord del paese in attesa di ritentare la traversata. “Qual è l’utilità di questi refoulements?” si domanda Omar Naji, concludendo che si tratta “di provvedimenti di facciata che servono a far numero per giustificare all’Ue l’ingente quantità di finanziamenti annualmente versati” e illustrando come questa situazione permetta al Marocco di continuare a giocare al ruolo del gendarme che vigila con successo alla sicurezza della frontiera sudoccidentale dell’Unione europea. A farne la spesa, ancora una volta, sono i migranti. Gran Bretagna. Un giardino biologico in prigione per combattere l’uso di droga innaturale.com, 26 giugno 2019 La prigione Hmp Rye Hill nel Northamptonshire in Inghilterra ha messo a disposizione dei detenuti un giardino biologico tra le sue mura per combattere l’uso di droga. Una risoluzione che, per quanto semplice, sembra stare ottenendo degli interessanti frutti… in tutti i sensi. Le origini del progetto risalgono al 2010 quando il governo inglese destinò nuovi fondi destinati alla lotta alla droga e alla dipendenza. Il carcere di Rye Hill in collaborazione dell’associazione benefica Garden Organic, impegnata a promuovere le pratiche biologiche; e il G4S Drug and Alcohol Recovery Team ha istituito un giardino biologico in prigione per combattere l’uso di droga tra i detenuti. Una scelta che nel tempo si è dimostrata vincente. Molti dei detenuti con problemi di dipendenza, oltre a venir presto coinvolti dall’attività di giardinaggio biologico, riuscivano a ottenere degli ottimi risultati nella lotta alla droga. I benefici di un giardino biologico in prigione sui detenuti, infatti, sono molteplici: dall’implemento dell’autostima, dell’autocontrollo, della salute e del benessere in generale. Anche i rapporti tra i detenuti sono migliorati, merito anche della capacità del giardinaggio di insegnare la pazienza. Rispetto a quest’ultimo punto, determinante risulta riuscire a far focalizzare i detenuti su obiettivi a lungo termine piuttosto che su ricompense immediate. In tal senso, niente nel giardinaggio è rapido e ciò ha la capacità di far assumere una prospettiva differente e nuova, anche rispetto alla dipendenza. Nel carcere i test antidroga risultati positivi sono calati del 30%. Un risultato in linea con quanto mostrato da uno studio del 2003 di Grimshaw and King in cui si mostrano i benefici di progetti come questo su un campione di 104 istituti penitenziari. I detenuti, dal canto loro, amano il giardino biologico in prigione e ne riconoscono un effetto positivo sul loro percorso riabilitativo. Il carcere di Rye Hill, oltre al giardino, possiede al suo interno anche delle arnie per la produzione di miele. Naturalmente la cura delle api è affidata ai detenuti. L’effetto di un contatto diretto con la natura e del lavoro in accordo con le sue leggi ha un potere di cui ancora non capiamo appieno il potenziale, ma che vale la pena scoprire.