Sovraffollamento e suicidi: il carcere in Italia è un’esperienza disumana di Pietro Mecarozzi linkiesta.it, 25 giugno 2019 Nonostante il calo dei reati sono quasi 10mila i detenuti in più presenti nelle carceri italiane. Tra strutture senza acqua calda e riscaldamento e celle al di sotto del parametro dei 3mq, emerge anche un alto tasso di suicidi tra i detenuti. Ma non solo: il problema adesso è la mafia nigeriana. Sovraffollate, disumane e fatiscenti. Le carceri italiane, nonostante il calo dei reati, non migliorano la loro condizione. Poche settimane fa è arrivata l’ennesima bacchettata da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo sul giro di vite applicato per la legge che regola il carcere a vita. L’ergastolo italiano è stato descritto come disumano, e nel caso non fosse abbastanza a sottolineare la gravità della situazione, nel giro di due giorni nelle carceri italiane sono morti tre detenuti (due dei quali si sarebbero suicidati). Sommosse soffocate come quella avvenuta a Napoli nel carcere di Poggioreale, dove in poche ore i detenuti hanno preso il sopravvento sulla gestione del presidio detentivo, sono benzina in questo scenario infuocato che da un momento all’altro rischia di esplodere. Secondo l’ultimo report, “Il carcere secondo la Costituzione”, dell’associazione Antigone, una delle maggiori organizzazioni in difesa della tutela dei diritti dei carcerati, sono 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019: quasi 10.000 in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili, per un tasso di affollamento ufficiale che sfiora il 120%. Numeri che lasciano poco spazio all’immaginazione e riportano la Nazione indietro nel tempo, precisamente al 2013, ai giorni della sentenza Torreggiani emessa della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ci condannava per la violazione dell’art. 3 della Cedu per i “trattamenti inumani e degradanti” subiti dai detenuti in alcuni istituti penitenziari italiani. Un’onta che ha pesato sull’onore dell’intero Paese ma che, da quanto emerge in quest’ultimo report, non ha fatto sì che la situazione cambiasse poi molto. Salvo per la parentesi dell’indulto del 2006 e l’onda d’urto provocata dalla sentenza di Strasburgo nel 2013, la popolazione detenuta è stata tendenzialmente in continuo aumento e in piena dissonanza con i dati che registrano la frenata dei reati. “Ciò è spiegabile con diverse considerazioni, tra cui sicuramente una riduzione del fenomeno cosiddetto delle ‘porte girevoli’, vale a dire delle permanenze in carcere di arrestati in flagranza di reato per periodi brevissimi in attesa dell’udienza di convalida”, argomenta il report. Allo stesso tempo, la tendenza a emettere pene più lunghe comporta una diminuzione del flusso di uscita e pertanto l’aumento della popolazione carceraria. La medaglia d’oro per la regione con il maggior numero di detenuti va alla Lombardia (8.610), seguita da Campania (7.844), Lazio (6.528) E Sicilia (6.509). Mentre quella dove il tasso di affollamento è maggiore è la Puglia (160,5%), seguita dalla Lombardia (138,9%). Le uniche regioni virtuose sono la Sardegna e le Marche. Più significativi i numeri assoluti dei detenuti rispetto ai posti letto disponibili: a Poggioreale sono alloggiati 731 detenuti in più di quelli che l’istituto potrebbe contenere, per l’altro penitenziario napoletano, Secondigliano, sono 418. Anche il romano Rebibbia Nuovo Complesso ospita oltre 400 detenuti in più della sua capienza, mentre Regina Coeli “solo” 381. Storia analoga per Milano, Lecce, Torino, Taranto e Bologna. “Gli obiettivi che la Costituzione assegna all’esecuzione penale sono importanti: assicurano la dignità dei detenuti e favoriscono la loro risocializzazione”, afferma Gianmarco Gori, membro de L’altro diritto, il centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità. “Le risorse disponibili tuttavia non sono mai sufficienti. Il compito di L’altro diritto pertanto è quello di colmare questa costante condizione di carenza in quanto è estremamente importante fornire gli strumenti necessari per conoscere i propri diritti. In particolare per i detenuti di origine straniera che spesso si trovano in una condizione ancora più svantaggiata, mancando di quella rete sociale sul territorio (colloqui con esterni, avvocato, etc) che gioca un ruolo fondamentale per assicurare la possibilità di una detenzione umana e per progettare qualche forma di reinserimento”. Deleterio e inumano, il sovraffollamento tuttavia non è il solo morbo che affligge le carceri italiane. Nel 35,3% di quest’ultime, infatti, non c’è acqua calda, il 7,1% non dispone di un riscaldamento funzionante, nel 20% non ci sono spazi per permettere ai detenuti di lavorare e nel 27,1% non ci sono aree verde per i colloqui coi familiari. Risulta inoltre che il 18,8% degli istituti presentano celle dove non si rispetta il parametro dei 3mq per detenuto (soglia minima secondo la Corte di Strasburgo), le quali per giunta nel 54,1% dei casi non dispongono neanche della doccia. A gravare sul bilancio ci sono poi i dati sul tasso di suicidi e malattie mentali. La perdita della libertà personale e le condizioni in cui spesso si è obbligati a scontale la pena, hanno portato a 28,7 la percentuale di detenuti che assume una terapia psichiatrica e, dall’analisi del portale Ristretti Orizzonti, a ben 67 il numero dei suicidi (69 se si contano i recenti avvenimenti). Scende invece il tasso di omicidi dietro le sbarre, mentre dal 2015 crescono gli atti di autolesionismo, che lo scorso anno sono arrivati a 10.368. Contro ogni previsione, l’Osservatorio Antigone smorza ogni tipo di allarme stranieri nelle carceri italiane. Negli ultimi 10 anni le presenze straniere negli istituti penitenziari sono diminuite di oltre 1.000 unità: ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia, lo 0,36% finisce in carcere (considerando anche gli irregolari). Resta il fatto, che i detenuti stranieri compongono il 33,6%, circa 20mila unità, tra cui si distinguono per entità i marocchini e i nigeriani (in netto aumento in questi ultimi anni), mentre calano le presenze dei rumeni e di filippini (a prevalenza femminile). C’è poi la questione dei reati. Perché di fatto riusciamo ad avere uno tra i peggiori sistemi penitenziari europei e allo stesso tempo un crollo del numero dei reati? L’effetto collo di bottiglia ha portato l’Italia a essere il primo paese dell’Ue per incremento della popolazione detenuta tra il 2016 e il 2018, in quanto di mix come il nostro, leggi che inaspriscono le pene e giudici che emettono sentenze più dure, è difficile trovarne altrove. Nell’ultima decade le condanne inferiori ai 5 anni sono diminuite del 30% mentre quelle più lunghe sono aumentate del 53%. La prima ragione per cui si viene messi “al fresco” restano comunque i reati di droga: in media, i carcerati in Europa per questi tipi di reati sono il 18%, in Italia il 35%. Facendo un passo all’esterno dello schema statistico con il quale viene analizzato il mondo penitenziario, però, la realtà assume un respiro ancora più greve. “Nel corpo di polizia penitenziaria mancano all’appello circa 5mila unità. In aggiunta alle altre 5mila tagliate dalla legge Madia, per un totale complessivo di 10mila assenti”, spiega Gennarino De Fazio, segretario nazionale dell’organizzazione sindacale Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “L’affollamento è solo uno dei problemi: il più grave, ovviamente, da cui discendono gli altri. Quello che è all’origine di tutto, però, rimane il fallimento dell’intero progetto e del modello in cui lo Stato ha investito. Il paradosso è tale: l’inasprimento delle pene all’esterno ha innescato un allargamento delle maglie all’interno dei carceri, in quanto non c’è coerenza tra misure restrittive e risorse del sistema penitenziario”. Insomma, se la funzione degli istituti penitenziari è quella di rieducare nel rispetto della dignità umana, in Italia siamo ben lontani dall’obiettivo. E in primis lo si deve a un fattore puramente economico: nonostante il lieve aumento di circa 17 milioni per i fondi destinati all’Amministrazione Penitenziaria, il costo per il detenuto è sceso in modo drastico passando da 137,02 euro nel 2018 a 131,39 euro al 30 aprile 2019 (causa e conseguenza, l’aumento delle persone recluse). Come se non bastasse, il Difensore Civico di Antigone nel corso del 2018 ha trattato 120 nuovi casi, praticamente un nuovo caso ogni tre giorni, relativi ad abusi, maltrattamenti, diritti non rispettati e condizioni strutturali allarmanti. A rimetterci, però, non sono solo i detenuti. “La sola analisi numerica non è sufficiente per capire le dinamiche di un istituto penitenziario”, afferma Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Penitenziari. “Sono aumentate le violenze carnali tra detenuti e circa del 400% le aggressione nei confronti dei poliziotti penitenziari. Ma la cosa più drammatica è il fatto che lo Stato in carcere non comanda più. Oggi i detenuti comunicano con l’esterno con una facilità enorme e il sistema rieducativo è praticamente assente”. Ma non solo. Se l’allarme stranieri secondo Antigone è del tutto controllato, per Di Giacomo le cose sono decisamente differenti. “Oltre che sul territorio campano e siciliano, la mafia nigeriana è anche e soprattutto all’interno delle carceri, dove detta legge agli altri detenuti. Specializzata in atti di violenza meschini nei confronti dei carcerati, questo tipo di mafia è sottovalutata dalla sfera politica e a mio avviso molto pericola fuori e dentro gli istituti”. Beh, se come chiosava Fedor Dostoevskij “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, allora l’Italia deve davvero cominciare a preoccuparsi. Emergenza carceri, giornata di protesta dei penalisti italiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2019 “In nome di una idea sgrammaticata di “certezza della pena”, si insegue un consenso popolare costruito sulla sollecitazione delle emotività più rozze e violente della pubblica opinione: il detenuto “marcisca in carcere”. Una vocazione “carcero-centrica” in spregio della Costituzione, che non certo a caso fa riferimento alle “pene” (art. 27) e non alla “pena”: dunque non solo carcere, ma anche altre sanzioni e misure che possano responsabilizzare il condannato in un percorso punitivo-rieducativo che consenta il suo recupero”. Sono gli avvocati dell’Unione delle Camere penali italiane a dirlo e, con delibera del 20 giugno scorso, hanno proclamato una giornata di astensione dalle udienze di tutti gli avvocati penalisti per prossimo 9 luglio 2019. Le ragioni della astensione, sono connesse alle ormai perenne emergenza in cui si trovano le carceri italiane, afflitte da sovraffollamento e condizioni di vita assolutamente inaccettabili; peraltro, per come già riconosciuto dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva invitato l’Italia a porvi rimedio. Ebbene, a fronte di questa situazione e dei moniti sovranazionali, secondo i penalisti “il legislatore si barcamena in idee assolutamente confuse se non, addirittura, in atteggiamenti di ottusa intransigenza per fare fronte alle sempre maggiori sollecitazioni populistiche”. Il risultato, sempre secondo l’Unione delle Camere penali è sotto gli occhi di tutti. “Una situazione talmente insostenibile - sostengono gli avvocati - da rischiare di essere esplosiva; e ciò per come registratosi nei giorni scorsi nel carcere di Poggioreale”. L’Unione delle Camere penali, nella loro delibera, evidenzia la riforma incompleta dell’ordinamento penitenziario. “I Decreti Legislativi emanati - si legge nella delibera - hanno reso operativa solo una minima parte del lavoro delle Commissioni ministeriali chiamate ad indicare percorsi di modernizzazione del sistema detentivo”. Viene sottolineato che quel poco che è rimasto “non potrà trovare concreta applicazione perché non si è intervenuti per eliminare l’ingravescente sovraffollamento”. Gli avvocati delle Camere penali aggiungono che “non si è voluto mettere mano all’anacronistico sistema delle ostatività, al contrario implementandolo, così comprimendo la discrezionalità dei Magistrati di Sorveglianza nella concessione di misure alternative”. Ed ancora, si legge sempre nella delibera, “non si è voluta realizzare la riforma sull’”affettività”, che avrebbe consentito una detenzione più serena e rispettosa di elementari diritti del detenuto e dei suoi familiari”. Gli avvocati contestano anche linee programmatiche annunciate dal Ministro della Giustizia e dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, spiegando che “più carcere e meno misure alternative” è “contrario al percorso di riforma che si era intrapreso e che ci veniva chiesta dall’Europa”. L’Unione Camere penali italiane, con l’Osservatorio Carcere, ha più volte denunciato la disastrosa ed esplosiva condizione carceraria del Paese. Nel 2018 sono morti 148 detenuti, tra questi ben 67 suicidi. Nel 2019, ad oggi, 60 morti, tra questi 20 suicidi. La media è quella di un decesso ogni 3 giorni. Nella delibera viene evidenziato anche il discorso dell’assistenza sanitaria, la quale - sempre secondo l’unione delle camere penali - “è negata quasi dovunque e per i ricoveri urgenti in ospedale spesso non vi è possibilità di effettuare le traduzioni”. Proprio per queste e altre ancora ragioni, la giornata di astensione sarà anche caratterizzata da una manifestazione pubblica che si terrà a Napoli proprio per discutere delle problematiche auspicando una sensibilizzazione sul tema. Csm, la necessità di cambiare il sistema elettorale di Edmondo Bruti Liberati Corriere della Sera, 25 giugno 2019 Va ridotto il peso degli apparati allargando la possibilità di scelta di chi continua a far riferimento a una o altra corrente. Il monito di Mattarella “voltare pagina nella vita del Csm” potrà trovare attuazione se i magistrati italiani sapranno muoversi sul percorso indicato dallo stesso Presidente: modifica dei comportamenti e rigore deontologico. Il sistema elettorale in vigore, che si proponeva di scardinare il sistema delle correnti, ha ottenuto l’effetto opposto. Il sorteggio è il sistema proposto nel 1972 dall’on. Almirante, ma con modifica costituzionale; i tentativi di costruirne oggi declinazioni variamente mitigate evidenziano il limite insuperabile. La elettività dei componenti, posta in Costituzione, mira a far vivere il Csm ai magistrati come organo di cui portano la responsabilità. Si fonda anche sulla esigenza di valorizzare l’attitudine per una funzione, che richiede, oltre a tutte le qualità del buon magistrato, anche una ulteriore: la capacità di misurarsi con la organizzazione di un sistema complesso come quello della giustizia. I sistemi maggioritari, nelle elezioni politiche generali, favoriscono la aggregazione di maggioranze stabili in prospettiva di governabilità: esattamente l’opposto si deve auspicare per il Csm. Puntare, con collegi ristretti, su un rapporto più diretto tra elettori ed eletti, può paradossalmente costituire un incentivo alle deviazioni che abbiamo visto. Si avrebbe un Csm di “notabili”, attenti alle esigenze localistiche del “collegio” e, nell’inevitabile confronto con gli altri eletti per la formazione di maggioranze, una volta svincolati da ogni riferimento a impostazioni generali sulla organizzazione giudiziaria, ancora più sensibili al demone dell’esercizio del potere e delle pratiche di accordi occulti. Il sistema elettorale del Csm è stato il terreno sul quale il sistema politico, dietro la bandiera del contrasto al “correntismo”, ha perseguito in realtà l’obbiettivo di recuperare momenti di influenza della politica sull’organo di governo autonomo della magistratura. In tutti i Paesi europei operano associazioni di magistrati, espressione di un diritto di libertà. Raccomandazione (2012) 12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa: “I giudici devono essere liberi di formare o aderire a organizzazioni professionali che abbiano come obbiettivo di difendere la loro indipendenza, proteggere i loro interessi e promuovere lo stato di diritto” (art. 25). In Francia, Spagna, Belgio e Germania, senza che ciò desti alcuno scandalo, sono attive diverse associazioni di magistrati, che concorrono alle elezioni dei Consigli superiori o Consigli di giustizia. Nel nostro Paese l’Associazione Nazionale Magistrati è in realtà una federazione di associazioni, le “correnti”. All’Anm è iscritta la quasi totalità dei magistrati e le elezioni interne vedono una partecipazione elevatissima. Pur a fronte di aspetti degenerativi, non si deve dimenticare che il pluralismo che si manifesta con le diverse correnti ha operato negli anni come controspinta alla chiusura della corporazione. Le clamorose vicende che hanno investito il Csm (più precisamente alcuni componenti ed alcuni esponenti di alcune correnti) indicano come le peggiori derive sono conseguenza di ambigui occulti rapporti tra “notabili” che si muovono del tutto trasversalmente rispetto a quello che dovrebbe essere l’aperto e trasparente confronto nelle sedi proprie. Non si possono sopprimere le “correnti” finché hanno un radicamento; il sistema elettorale deve mirare a ridurre il peso degli apparati allargando le possibilità di scelta degli elettori che continuino a fare riferimento ad una o altra corrente. Qualunque riforma deve misurarsi con principi fondamentali: la libertà di opinione e di associazione e il contributo che i corpi intermedi apportano alla vita di un ordinamento democratico, in tutte le sue articolazioni. Intercettazioni tra previsione normativa e realtà dei fatti di Nicola Galati (Avvocato) extremaratioassociazione.it, 25 giugno 2019 Il tema delle intercettazioni è da tempo una costante del dibattito pubblico sulla giustizia. Dopo lo scandalo CSM si è ricominciato a parlarne. Ci sarà davvero una svolta sul tema? Con questo esecutivo è molto difficile che avvenga. Intanto, ecco un’analisi sulle “patologie” e sui rischi dell’abuso di questo strumento. Per analizzare lo strumento delle intercettazioni non si può che cominciare prendendo atto dell’ elevatissimo il numero delle intercettazioni disposte, o meglio dei “bersagli” sottoposti ad intercettazioni: nel 2017 ammontavano ad oltre 127.000 (ultimi dati aggiornati forniti dal Ministero della Giustizia) per una spesa di 168,8 milioni di euro. Enormità dei dati che emerge comparandoli con quelli di altri Stati. Secondo un rapporto del 2004 del centro studi tedesco Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law in Italia vengono sottoposti ad intercettazioni 76 abitanti ogni 100.000, in Francia 23,5, in Germania 15, in Gran Bretagna 6, negli Stati Uniti 0,5. Numeri che dimostrano un’evidente anomalia italiana, seppure al netto delle profonde differenze esistenti tra i Paesi confrontati, che può forse trovare giustificazione, almeno in parte, nella scarsa diffusione della cultura liberale e nella conseguente subordinazione dei diritti dell’individuo nei confronti dell’invadenza del potere dello Stato e dei suoi possibili abusi. Eppure la disciplina normativa pone numerosi limiti e controlli alle intercettazioni. Queste sono ammesse solo nei procedimenti aventi ad oggetto alcune gravi fattispecie di reato stabilite dalla legge. Le operazioni, richieste dal P.M., devono essere autorizzate dal G.i.p. mediante un decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. Inoltre è posto alle operazioni un limite temporale di 15 giorni seppur prorogabili. Il problema riguarda pertanto la prassi applicativa. Le intercettazioni vengono spesso autorizzate senza un controllo effettivo ed incisivo. Fenomeno che può ricondursi alla più ampia problematica dell’introduzione di finestre di controllo giurisdizionale nella fase delle indagini di cui è dominus il P.M. Ma ancor di più può ricondursi alla crisi della cultura della giurisdizione che solo la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante può frenare. Nel tempo le intercettazioni hanno assunto un ruolo sempre più preminente tra i mezzi di investigazione, sostituendo altri mezzi tradizionali, fino ad essere considerate ben più che un mero strumento di ricerca della prova, acquisendo una forza probatoria eccessiva senza tener conto dei possibili fraintendimenti legati alla decontestualizzazione di una conversazione orale. Problematiche che permangono ed anzi si ampliano con riferimento alle intercettazioni mediante captatori informatici (i cosiddetti “trojan horse”), software-spia installati in dispostivi elettronici (ad esempio smartphone) che permettono di controllare e attivare da remoto i dispostivi (così da poter registrare e riprendere quanto avviene in prossimità del dispositivo), di effettuare dei pedinamenti mediante sistema satellitare e di acquisire i dati contenuti nel dispositivo stesso. Com’è facile immaginare, tali nuovi strumenti hanno potenzialità invasive smisurate e pongono nuove dilemmi da risolvere (è ad esempio possibile modificare i dati contenuti in un dispositivo ed eliminare le tracce delle operazioni compiute). Sul punto la reazione del legislatore, resasi necessaria data la difficoltà di ricondurre i nuovi strumenti a norme pensate per realtà diverse, è stata timida, parziale e tardiva. È recentissima la “Segnalazione al Parlamento e al Governo sulla disciplina delle intercettazioni mediante captatore informatico” del Garante per la protezione dei dati personali. L’autorità di garanzia ha posto l’attenzione sulle criticità tecniche e legali tuttora esistenti legate all’utilizzo di questi nuovi strumenti intercettativi, indicando alcune possibili soluzioni adottabili ed invocando interventi normativi incisivi. Il Garante ha fatto espresso riferimento ad un preoccupante fatto di cronaca, esemplificativo dei possibili abusi legati all’utilizzo dei trojan. Secondo un’inchiesta giornalistica, per un errore tecnico, un software spia sarebbe stato inserito in programmi informatici connessi ad app poste su piattaforme accessibili a tutti. Il rischio denunciato dal Garante è che queste app-spia si trasformino in “pericolosi strumenti di sorveglianza massiva”. Se l’introduzione dei trojan è l’unica novità in materia, un problema costante è quello della divulgazione arbitraria del contenuto delle intercettazioni sui mass media. Fughe di notizie da parte della Polizia Giudiziaria o delle Procura permettono ai giornalisti di pubblicare intercettazioni che dovrebbero invece essere riservate. Gli effetti sono ben noti: fomentare il circo mediatico-giudiziario, instaurare processi sommari, mettere alla gogna dei presunti innocenti (e spesso anche delle persone neppure indagate). Il tutto sulla base di intercettazioni, spesso penalmente irrilevanti, di cui vengono strumentalizzate frasi decontestualizzate ed a volte fraintese o mal riportate. Fenomeno che ha evidenti risvolti negativi non solo sulla reputazione e sulla vita privata del soggetto interessato ma anche in ambito processuale in quanto contribuisce a tratteggiare il profilo personologico dell’indagato, creando una suggestione nell’opinione pubblica ed esercitando una forte pressione nei confronti dei giudicanti, contribuendo a fomentare la deriva verso un diritto penale d’autore. Negli anni si sono succedute numerose proposte di intervento legislativo per porre un freno a tale deriva, mai andate in porto anche per le critiche mosse ed i paventati timori di una censura nei confronti della stampa. In realtà non si tratta di limitare la libertà di stampa ma di trovare un giusto equilibrio tra vari interessi in conflitto di eguale rilevanza, anche costituzionale, quali il diritto di cronaca e la tutela della riservatezza. L’introduzione di nuove norme non è però necessaria, basterebbe l’effettiva applicazione delle norme vigenti. Ad esempio, l’art. 114 c.p.p. che dispone il divieto di pubblicazione di atti e di immagini, divieto punito blandamente a titolo di contravvenzione, o l’art. 115 c.p.p. in forza del quale la violazione dell’art. 114 c.p.p. costituisce illecito disciplinare. Vi sono gli artt. 684 c.p., che punisce la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale ma con una pena irrisoria, e 326 c.p., che punisce la rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio, norme di fatto raramente applicate, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale. Le problematiche legate alle intercettazioni son ben note da tempo, le cause non vanno ricercate nella disciplina vigente ma nella sua concreta attuazione da parte di tutti gli operatori interessati. Pugno duro contro chi truffa gli anziani di Giulia Provino Italia Oggi, 25 giugno 2019 Reclusione da 2 a 6 anni e multe fino a 2.065 euro. Approvato in Senato il disegno di legge contro chi abusa dell’età di una persona. Il ddl n. 980 “Modifiche al codice penale in materia di circonvenzione di persone anziane”, approvato all’unanimità dal Senato, il 12 giugno 2019, introduce nel codice penale il nuovo articolo 643-bis, appunto dedicato alla circonvenzione di persone anziane, che aumenta le pene contro chi commette tale fattispecie di reato. Il provvedimento è volto a punire con la reclusione da due a sei anni e una multa da 206 a 2.065 euro “chiunque, abusando della condizione di vulnerabilità dovuta all’età di una persona, induce qualcuno a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lui o per altri dannoso”. L’iniziativa legislativa introduce così un’ulteriore categoria di persone tra le vittime del delitto, colui che, in ragione dell’età, versa in una condizione di debolezza e vulnerabilità. La finalità del disegno di legge è, infatti, quella di assicurare una più adeguata tutela alle persone anziane, i quali sempre più frequentemente sono vittime di truffe, la più classica delle quali è quella di falsi funzionari di enti pubblici o privati, oppure di aziende, che si presentano presso l’abitazione di persone anziane con l’obiettivo di derubarle o estorcere loro denaro con contratti per l’acquisto di merci, beni o servizi, o contratti telefonici. Attualmente, la circonvenzione degli anziani ricade nel reato di truffa, con pene da uno a cinque anni di carcere e multa da 51 a 1.032 euro (art. 640 c.p.) o di circonvenzione di incapace (art. 643 del c.p.), che prevede la reclusione da due a sei anni e una multa da 206 a 2.065 euro. La proposta di legge iniziale prevedeva una multa da 500 a 2.000 euro, tuttavia la Commissione giustizia ha propeso verso l’adeguamento della multa con quella della circonvenzione di incapace. Inoltre, con l’introduzione di un nuovo comma all’articolo 165 c.p. (relativo agli obblighi del condannato) è previsto anche il risarcimento integrale del danno alla persona offesa. Infatti, in caso di condanna, le nuove regole prevedono che la sospensione condizionale della pena per chi ha commesso il reato sia subordinata al risarcimento integrale del danno alla persona offesa. Dopo l’approvazione unanime in Senato, il disegno di legge è stato assegnato, il 18 giugno scorso, alla seconda Commissione giustizia della Camera in sede referente, dove si attende ora l’esame del testo. Intanto, il 23 maggio 2019, è partita in via sperimentale l’iniziativa per il contrasto e la prevenzione delle truffe agli anziani, che prevede uno stanziamento di due milioni di euro per i venti capoluoghi di regione, attraverso il Fondo unico giustizia del ministero dell’Interno. Il provvedimento, adottato nella circolare n. 11001/110/25 del 22 maggio 2019, su direttiva del ministro degli interni, Matteo Salvini, ha ad oggetto l’erogazione di contributi per la realizzazione di progetti di carattere informativo/divulgativo e formativo, con la finalità di introdurre misure di prossimità ed interventi di supporto, anche psicologico, per sventare situazioni di rischio. Il giudice bilancia i singoli illeciti nel reato complesso prima di applicare il favor rei di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2019 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 24 giugno 2019 n. 27816. Il giudice penale prima di irrogare la sanzione, in applicazione del favor rei, deve analizzare se le varie condotte che costituiscono un reato complesso siano più o meno gravi rispetto alle singole ipotesi di reato per l’imputato. Ci deve essere quindi un vero e proprio bilanciamento in applicazione del favor rei. La vicenda - La Cassazione, con la sentenza n. 27816/19, ha precisato come i giudici di merito avessero errato a contestare il reato di violazione di dimora visto che dopo l’introduzione del n. 3bis del terzo comma dell’articolo 628 del codice penale(un reato complesso come il furto aggravato), nell’illecito rimane assorbito il delitto di violazione del domicilio che costituisce reato-mezzo, legato da nesso di strumentalità a quello di furto in abitazione. I Supremi giudici hanno precisato che nel reato di furto aggravato sussistono una serie di condotte che - come stabilito dall’articolo 84 del Cp-, non si applicano alle norme sul concorso dei reati col conseguente cumulo delle pene, ma va aggiunta la sola pena prevista per il reato complesso. In definita è corretta la impostazione che si evince da precedenti decisioni secondo cui l’individuazione della disciplina più favorevole va fatta in concreto ovvero in conseguenza dell’esito del giudizio di bilanciamento poiché soltanto laddove il giudice di merito ritenga nella sua discrezionalità di dover bilanciare l’aggravante con le concorrenti circostanze attenuanti, la disciplina potrà essere in effetti concretamente più favorevole. Le conclusioni - Si tratta però di una valutazione, quella di bilanciare o meno l’aggravante, che è all’evidenza riservata al giudice di merito il quale pertanto dovrà, alla luce del risultato di bilanciamento, verificare quale disciplina sia nel caso di specie più favorevole all’imputato, se quella vigente al momento del fatto oppure quella sopravvenuta in quanto entrata qualche giorno dopo. Solo con questo tipo di “equilibrio” si attua il principio del favor rei. Emilia Romagna: carceri, torna il sovraffollamento ed è carente la parte rieducativa modenatoday.it, 25 giugno 2019 Nella Regione le celle sono più affollate del consentito e anche della media nazionale. A Modena solo un educatore ogni 168 detenuti. Dopo alcuni anni di deflazione, il tema del sovraffollamento penitenziario è nuovamente cruciale. E l’Emilia-Romagna non fa eccezione. A fine marzo sono 3.641 i detenuti presenti, pari al 6% della popolazione carceraria nazionale. La regione è sopra la media nazionale per indice di sovraffollamento: al 31 marzo 2019 è al 129,8% contro il 120% del nazionale. Ciò significa che in regione gli spazi previsti in termini di capienza regolamentare per cento detenuti ne vedono presenti 130 con un’eccedenza di un terzo circa. È quanto emerge dal Rapporto sulle condizioni di detenzione in Emilia-Romagna realizzato dalla sezione regionale di Antigone. “Il sovraffollamento incide sulla qualità della vita detentiva e puo’ contribuire a comprimere diritti e aspettative dei detenuti, riducendo le possibilità di accesso alle attività trattamentali, ai servizi sanitari e scolastici, alle opportunità ricreative - si legge nel Rapporto - Considerando i dati da noi raccolti nel 2018, è difficile sostenere l’idea che sia l’eccesso di detenuti a determinare tale drammatico sbilanciamento: questo dato imbarazzante riflette piuttosto il dimensionamento strutturale delle attività rieducative e di supporto”. In media il rapporto tra detenuti ed educatori (lo staff dell’area giuridico-trattamentale) è di 80 a uno con picchi di 168 a uno nella casa circondariale di Modena dove ci sono tre educatori in organico, e di 118 a uno a Bologna dove gli educatori sono sette. A titolo di paragone si consideri che il rapporto medio tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria è di 2 a 1 con picchi di 1,4 a 1 a Rimini e Ravenna. Meno di un terzo dei detenuti presenti nei dieci istituti penitenziari della regione lavora: 1.097 a fine 2018, di cui 36 per datori di lavoro esterno (in Veneto questi ultimi sono 350 e in Lombardia 287). Ricco, invece, il quadro su corsi di formazione qualificata: 17 attivati nel secondo semestre del 2018 con 156 iscritti, di cui 89 stranieri, ovvero il 4% dei reclusi. “Numeri contenuti che però collocano l’Emilia-Romagna al quinto posto in ambito nazionale dopo Lombardia, Puglia, Lazio e Piemonte”. Nello stesso periodo sono 20 i corsi conclusi con 166 iscritti e 149 promossi con titolo accreditato. In media l’11,1% dei detenuti è coinvolto in corsi professionali: sopra la media Ravenna con il 32,4% e Ferrara con il 14,2%. Scolarizzazione primaria e secondaria inferiore garantite ovunque: il 23,9% va a scuola, percentuali più elevate a Bologna (50,1%), Castelfranco Emilia (30,6%) e Ravenna (27%). Offerta sportiva disomogenea ma in otto istituti su dieci è garantito ai detenuti che lo chiedono almeno un accesso settimanale alla palestra. Il regime a celle aperte è applicato in modo parziale, mentre in quasi tutti gli istituti è possibile cucinare in cella. Gli spazi destinati ai congiunti sono “tendenzialmente dignitosi”. Quelli per la pratica di culti non cattolici sono presenti solo a Ferrara, Modena, Piacenza e Reggio Emilia, mentre il menù specifico per i detenuti musulmani sarebbe garantito ovunque. Sette detenuti su dieci in Emilia-Romagna hanno una condanna definitiva, i restanti sono equamente distribuiti tra soggetti in attesa di primo giudizio e altri non definitivi (appellanti, ricorrenti, posizioni miste). Sono 581 i reclusi in circuiti specifici: 41 bis, alta sicurezza, collaboratori di giustizia, semiliberi, ex articolo 21, isolamento disciplinare e sanitario, transgender. “In regione sono detenuti solo esponenti dell’area antagonista (matrice anarchica), mentre non sono presenti imputati o condannati per delitti connessi al terrorismo di matrice jihadista”. Sono 7 i detenuti in AS2, il circuito dedicato alle forme di eversione politica, a Ferrara. Sono 65 i detenuti in regime di 41 bis a Parma, 28 quelli in AS1 (sempre a Parma) e 281 in AS3 tra Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma. I soggetti residenti in regione in carcere sono 2.494 su 3.641, tra loro anche molti stranieri residenti in Emilia-Romagna. Napoli: dopo la rivolta, deputati Pd e Leu in visita nel carcere di Poggioreale ottopagine.it, 25 giugno 2019 Il Garante Ciambriello: “Serve riforma vera delle strutture, detenuti protestino pacificamente”. Ieri mattina una delegazione formata da parlamentari ed esponenti del Consiglio regionale campano, accompagnata dal Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, si è recata al carcere di Poggioreale per un sopralluogo, a pochi giorni dalla rivolta scoppiata nel Padiglione Salerno. “Le condizioni strutturali e sanitarie del penitenziario continuano a destare preoccupazione: urge trovare una soluzione tempestiva per garantire dignità e vivibilità ai detenuti”. È questo l’accorato appello lanciato da Michela Rostan, vicepresidente della Commissione Affari sociali della Camera, Paolo Siani, deputato del Partito democratico, Bruna Fiola, consigliere regionale della Campania e dal Garante Ciambriello al termine della visita. “Per agire sul fronte della rieducazione bisogna mettere i detenuti i condizioni tali da poter svolgere determinate attività. In alcuni padiglioni si fa fatica addirittura a respirare e c’è una difficoltà oggettiva a sopravvivere - ha dichiarato Michela Rostan a margine del sopralluogo nella struttura penitenziaria - Ci attiveremo fin da subito per presentare un’interrogazione parlamentare che riguarderà sia i fondi stanziati dal Ministero per le Infrastrutture per il riordino dei padiglioni (12 milioni) e mai utilizzati, sia la stabilizzazione dei precari, in particolar modo del personale medico e degli operatori socio sanitari con la previsione in loro favore di un’indennità di rischio”. Criticità, quelle di Poggioreale, a cui bisogna trovare la quadra: “Nonostante una dirigente straordinaria, la situazione è preoccupante. C’è bisogno di riflettere per dare una mano concreta, è inammissibile che siano in servizio duecento agenti in meno rispetto al previsto”, ha commentato Paolo Siani. “La mia proposta sarà quella di incentivare il diritto alla salute in carcere. La privazione della libertà non deve diventare anche privazione della dignità - ha sottolineato Bruna Fiola - In questo modo si perde il fine ultimo della rieducazione, rischiando poi un maggiore incattivimento al termine della pena”. “Occorre una riforma vera delle strutture penitenziarie che ormai sono invivibili - è il monito di Samuele Ciambriello - Sono grato alla delegazione per la visita odierna, sono sicuro che sveglieranno dal torpore le istituzioni locali e nazionali. Mi sono raccomandato con tutti i detenuti affinché mettano in atto solo proteste pacifiche. Poggioreale non deve diventare una polveriera e gli agenti non sono la panacea di tutti i mali; il problema è strutturale e in questi termini deve essere affrontato a partire dall’utilizzazione dei fondi disponibili e dall’assunzione di personale di agenti di polizia penitenziaria, educatori e figure sociali di riferimento. A Poggioreale sono operative dieci associazioni di volontariato e sono evidenti gli sforzi che quotidianamente la direzione mette in campo per progetti di reinserimento sociale”. L’Aquila: le detenute anarchiche digiunano da 28 giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2019 Anna Beniamino e Silvia Ruggeri manifestano per la detenzione. Solidarietà da parte delle detenute al 41bis. Il Dap, intanto, ha disposto il trasferimento di Natascia Savio, un’altra del movimento. Sono passati 28 giorni e le due donne anarchiche Anna Beniamino e Silvia Ruggeri, ancora continuano a fare lo sciopero della fame all’interno dell’alta sicurezza del carcere de l’Aquila, una sezione dove vigono regole restrittive che però non si discostano addirittura dalle cosiddette aree riservate del 41 e, teoricamente, ciò non dovrebbe accadere, così com’è stato denunciato dall’avvocata Caterina Calia tramite un reclamo al tribunale. “Bevono solo una tisana, non prendono nemmeno un integratore, nulla”, fa sapere il legale di Anna Beniamino. Uno sciopero della fame, così prolungato, che sta debilitando inevitabilmente sempre di più il loro corpo. Una di loro attende il medico autorizzato dal gip, ma da almeno 20 giorni - fanno sapere i legali - ancora non è giunto per la visita, nonostante più volte i difensori si sono recati in carcere per poter parlare, invano, con chi di dovere. Ma nel frattempo si è aggiunto un altro episodio. Nonostante il clamore mediatico, almeno regionale, e la presa di posizione di alcuni politici della regione Abruzzo, in quella sezione è stata trasferita dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria un’altra donna. Si chiama Natascia Savio, 35enne, anarchica anche lei, ed è stata arrestata il 21 maggio in Francia e tradotta nel carcere di Bordeaux. Dopodiché è stata estradata in Italia, di passaggio nel carcere di Rebibbia, per poi essere trasferita nella sezione As2 de L’Aquila. Anche Natascia ha intrapreso lo sciopero della fame. Questo trasferimento, agli occhi delle detenute, è apparso come una provocazione visto che l’obiettivo dello sciopero è il trasferimento immediato presso un altro carcere e la chiusura della sezione dove sono recluse. Più passa il tempo, più aumenta a macchia d’olio la solidarietà da parte di altre detenute Oltre ai loro compagni anarchici reclusi in altre carceri, Infatti, sempre nel carcere de L’Aquila, le donne recluse al 41bis, apprendendo la notizia dello sciopero della fame tramite il tg regionale, hanno cominciato ad intraprendere la battitura delle bottigliette di plastica come forma pacifica di solidarietà. Uno sciopero della fame che non è una novità nella galassia anarchica. Negli anni 70 l’attuò Pasquale Valitutti, conosciuto per essere l’unico testimone della morte di Giuseppe Pinelli, volato dalla finestra dal quarto piano della questura di Milano. Oggi, malgrado da anni sia costretto a vivere su una sedia a rotelle, continua a manifestare e partecipare alle lotte politiche. Ma la sua storia, appunto, riguarda anche lo sciopero della fame che intraprese, quando, durante i cosiddetti anni di piombo, finì in prigione con l’accusa di lotta armata. Intraprese uno sciopero della fame che durò oltre un mese ed è lì che si ammalò. Ma lo sciopero della fame è un metodo che fu applicato anche dagli anarchici degli anni 20. In primis da Errico Malatesta, il fondatore del famoso quotidiano “Umanità nuova” e uno dei principali teorici del movimento anarchico. Venne arrestato, ingiustamente, nel 1920 e intraprese uno sciopero della fame che gli minò le sue condizioni fisiche. Una pratica che però non va sempre a buon fine. Si può morire anche. L’ultima morte a causa dello sciopero della fame in carcere è avvenuta nel 2017. Parliamo di Salvatore “Doddore” Meloni, l’indipendentista sardo di 74 anni che stava scontando alcune condanne per reati fiscali. Dopo 50 giorni di carcere e 50 giorni di sciopero della fame aveva ricominciato a bere, ma quel corpo da gigante era gravemente fiaccato e morì in ospedale. Sassari: suicida agente della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Vigevano adnkronos.com, 25 giugno 2019 Un assistente capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, di circa 50 anni, originario di Sassari e da molti anni in servizio nel carcere di Vigevano, si è tolto la vita nel tardo pomeriggio, sparandosi con la pistola d’ordinanza, in Sardegna, dove trascorreva un periodo di ferie. A darne notizia è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Siamo sconvolti - continua - L’uomo era benvoluto da tutti, molto disponibile ed era sempre a disposizione degli altri. Per questo risulta ancora più incomprensibile il suo terribile gesto”. Capece non entra nel merito delle cause che hanno portato l’uomo a togliersi la vita, ma sottolinea come sia importante “evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto. Non sappiamo se, in questo, era percepibile o meno un eventuale disagio che viveva il collega. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l’Amministrazione penitenziaria e il ministero della Giustizia sono in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta. Al ministro Bonafade ed ai sottosegretari di Stato Morrone e Ferraresi chiedo un incontro urgente per attivare serie iniziative di contrasto al disagio dei poliziotti penitenziari”. “Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria - conclude Capece. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della polizia penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria. Non si perde altro prezioso tempo nel non mettere in atto immediate strategie di contrasto del disagio che vivono gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria è irresponsabile. Vorrei fare un appello al ministro Bonafede: se ci sei, batti un colpo”. L’Aquila: invalido per infezione legionella, ministero dovrà risarcirlo con un milione abruzzoweb.it, 25 giugno 2019 Il Ministero della Giustizia dovrà risarcirlo con un milione di euro, essendosi gravemente ammalato di cuore a causa di un’infezione di legionella, contratta mentre era in servizio nel carcere dell’Aquila. A stabilirlo è stato il Tribunale amministrativo regionale. A riferirlo il quotidiano Il Centro. Protagonista della vicenda un aquilano 60enne, assistente capo della polizia penitenziaria del carcere delle Costerelle. A fine ottobre del 2011 l’uomo ha contratto la legionella bevendo l’acqua della caserma del carcere dove prestava servizio. L’infezione gli ha poi provocato una polmonite, che a sua volta ha determinato un grave scompenso cardiaco. Ora l’uomo ha un’invalidità del 100% e sta attendendo il trapianto di cuore. Da oltre otto anni l’uomo ha ingaggiato una battaglia legale. Determinante per la sentenza a lui favorevole una perizia del 2014, che ha confermato oltre ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di un nesso di causa tra la legionellosi e la grave malattia cardiaca, e dunque con il danno biologico e l’invalidità permanente. Fuori di dubbio che la contrazione dell’infezione è avvenuta nel carcere come accertato dalle analisi di laboratorio eseguite sui campioni d’acqua prelevati nel novembre 2011. Il Tar non ha potuto far altro che condannare il ministero della Giustizia al maxi risarcimento del codice civile, che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica dei propri dipendenti. Barcellona Pozzo di Gotto (Me): i deputati M5S Villarosa e D’Angelo in visita al carcere 24live.it, 25 giugno 2019 “La struttura va potenziata”. I deputati nazionali del Movimento 5 Stelle, Alessio Villarosa e Grazia D’Angelo sono stati in visita istituzionale alla Casa Circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, riscontrando la criticità segnalate dagli operatori e la necessità di messa in sicurezza da parte del Ministero della Giustizia. “Non permetteremo che fatti come quelli accaduti di recente - ha dichiarato il sottosegretario del Ministero dell’Economia e delle Finanze Alessio Villarosa - possano continuare a destabilizzare una struttura efficiente ma che va potenziata e messa in sicurezza al più presto, utilizzando i fondi destinati all’edilizia carceraria, ancora in larga parte non sfruttati”. La Casa circondariale Vittorio Madia di Barcellona Pozzo di Gotto al momento ospita 230 detenuti, suddivisi in 5 reparti, ed ha bisogno di un reale potenziamento sia nell’organico, sia nelle misure di sicurezza. “Come promesso - spiega Villarosa - dopo un primo incontro informale con i lavoratori, oggi insieme alla collega Grazia D’Angelo abbiamo visitato ufficialmente tutta la struttura carceraria, grazie alla disponibilità della direttrice, che ci ha fornito un report dettagliato illustrandoci le principali criticità dei plessi, tre dei quali sono ancora chiusi in attesa dei lavori di ristrutturazione”. “Il nostro obiettivo - chiarisce la senatrice Grazia D’Angelo, componente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama - è quello di intervenire nell’immediato sottoponendo le problematiche riscontrate al sottosegretario Vittorio Ferraresi e al Ministero. Le priorità sono quelle di garantire dei collegamenti fra i vari edifici presenti all’interno della struttura, ovviamente nel rispetto dei vincoli imposti dai Beni culturali, e di far fronte a tutte le difficoltà organizzative, lavorative e strutturali di una realtà complessa che ospita inoltre circa 70 detenuti con problemi psichici”. Porto Azzurro (Li): giornata d’orientamento agli studi per i detenuti di Letizia Cini iltelegrafolivorno.it, 25 giugno 2019 “Lo studio è l’evasione della mente”. Il braccio tatuato sbuca fra le sbarre della finestra. La mano stringe il lembo di un paio di pantaloncini azzurri: molletta, filo. Bucato steso. Sopra, una fila di scarpe da ginnastica appoggiate sul cemento del davanzale, messe lì a prendere aria, mentre nei corridoi risuonano le note di un brano del melodramma napoletano. Un’operazione quotidiana, ordinaria all’interno di un carcere. In un giorno che ordinario non è. Nel cortile della Casa di reclusione De Santis di Porto Azzurro, nota a chiunque abbia una certa frequentazione con l’Isola d’Elba con il nome di Porto Longone, è appena iniziato l’open day di orientamento alla scelta dei corsi di laurea per i detenuti diplomati o in procinto di prendere la licenza superiore. Insieme ai maturandi, Saverio, Santino, Gianfranco, Alì, Giuseppe, Manlio, Leonard. Studenti detenuti, ragazzi che già frequentano un corso di laurea e ambiscono a un futuro migliore passando attraverso la porta della conoscenza. “Sono 7”, spiega con orgoglio Licia Baldi, presidente dell’associazione “Dialogo”, motore dell’iniziativa, che da anni collabora con la casa di reclusione e - fra le tante iniziative - ha dato vita anche a “Universo Azzurro”, che ha l’obiettivo di accompagnare i detenuti al conseguimento della laurea. Composto, attento, il gruppetto di studenti speciali ascolta i docenti arrivati dall’Università di Pisa per consegnare nelle loro mani gli strumenti e i supporti capaci di aprire quella porta. Consigli e impegni concreti sui corsi di studio universitari. “Sono troppo vecchio ormai, qualche anno fa ci avevo pensato, ma poi è capitata un’opportunità di lavoro e ho lasciato stare”, rompe il ghiaccio Lorenzo Bozano, l’ex biondino della spider rossa condannato per l’omicidio di Milena Sutter. Oggi vive in regime di semilibertà, facendo volontariato. Per Giuseppe, invece, un futuro è ancora possibile. “Sono dentro per omicidio, avevo 22 anni e da quasi sette sono in carcere - spiega - Frequento filosofia, ho dato due esami; durante il giorno lavoro, in regime di semi libertà in un ristorante. Cosa mi ha spinto a mettermi sui libri? Il mio corpo è chiuso, ma la mia mente no”. Grazie all’uso di Skype garantito dal direttore della Casa di reclusione Francesco D’Anselmo, gli studenti possono sostenere gli esami senza lasciare lo Scoglio: non tutti godono dei benefici di legge. Lo sa bene M., 33 anni e 30 ancora da trascorrere dietro le sbarre: “Questo è l’unico luogo in cui la mente va indietro studiare è l’unico modo per evadere”. Larino (Cb): detenuti a scuola di biodiversità quotidianomolise.com, 25 giugno 2019 L’assessore Nicola Cavaliere: “Il potere educativo dell’agricoltura non ha confini”. Stamane a Larino conferenza stampa di presentazione di un progetto importante che unisce cultura, lavoro e sociale e che rivela il valore più profondo e non solo economico dell’agricoltura. “Dalla conoscenza alla tutela del patrimonio ambientale” è il nome dell’iniziativa, promossa dalla Direzione della casa circondariale del centro basso molisano e approvata dall’Arsarp e dalla Regione Molise, che si sviluppa in due fasi: teoria e pratica per entrare a stretto contatto con la biodiversità e per educare alla difesa dell’ambiente e del territorio. Il territorio è proprio uno dei settori in cui la malavita negli ultimi anni coltiva maggiormente i propri interessi, quindi è importante ripartire proprio da qui e coinvolgere i detenuti del carcere di Larino, dove tra l’altro è presente da oltre un quinquennio anche una sezione dell’istituto Agrario, in un percorso esperienziale che aiuterà loro a guardare le cose da un’altra prospettiva. “Si tratta - ha commentato l’assessore Nicola Cavaliere, presente stamattina alla conferenza - di un progetto nobile e ambizioso che merita il massimo sostegno da parte della Regione. Sono convinto che il programma otterrà ottimi risultati e l’auspicio è che tali forme di collaborazione possano evolversi in futuro per valorizzare sempre di più e a tutti i livelli il potere educativo dell’agricoltura”. Opera (Mi): l’esame di maturità, latino e greco, un ergastolano affronta i prof di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 25 giugno 2019 Già avanti negli anni, sconta la massima pena per mafia: è in isolamento e non ha diritto a benefici, ma si è preparato al diploma classico. La commissione del liceo Berchet in carcere per fargli sostenere l’esame. L’esame di maturità sostenuto da una cella, con la prospettiva di non uscirne mai. Un uomo condannato all’ergastolo ostativo, dopo un tempo lunghissimo al carcere di Opera, sceglie di cambiare la sua testa, non potendo cambiare la sua vita. Apre i libri di greco, latino, filosofia. Studia solo, per anni, immaginando di essere tra i banchi del liceo classico. E in questo modo adesso può riscuotere quello che si è conquistato: l’attenzione di una schiera di professori che oggi lo ascolteranno, per circa mezz’ora. Interessati a capire (forse) non solo che cosa ha imparato delle varie materie, ma anche come è cambiato in tutti questi anni. E chi è diventato adesso, come persona. I commissari del Berchet entreranno nel penitenziario. Saranno lì apposta per lui, che non incontra mai nessuno. Un po’ emozionati, come lo è senz’altro quel maturando/detenuto per cui la legge esclude a priori benefici penitenziari ma soprattutto la possibilità di un “riesame” della situazione generale: non gliela concederanno mai, durante l’infinito sforzo di rieducazione in cella. È così per sette ergastolani su dieci, inchiodati alla pena perpetua “rigida e immodificabile” dell’ostativo (regime per cui la Corte europea ha appena condannato l’Italia affermando che viola la Convenzione dei diritti dell’uomo). In carcere ci si dovrebbe riabilitare: ma da dove dovrebbe trarre motivazione il detenuto, se sa che nessuno riconoscerà i progressi che ha fatto nel percorso rieducativo? Ecco allora la cultura che in un certo senso libera (la radice della parola “libro” sta proprio lì…) da quell’orizzonte chiuso. L’ergastolano chiamato dalla commissione d’esame ha già conquistato proprio questo: la speranza di essere finalmente visto da qualcuno (i professori?) per come è diventato, “riconosciuto” come uomo diverso da prima, valutato per ciò che dimostra oggi e non solo per il reato che ha commesso ieri. È un diritto, in fondo: l’aspettativa al riconoscimento dell’avvenuta rieducazione. Se lo sguardo degli altri ci definisce, è una opportunità tutt’altro che banale, anzi preziosa, vitale. “Libertà è credere ostinatamente che ci sia una strada diversa e possibile. È scegliere attimo per attimo, nel presente, sapendo che nessuna scelta è mai definitiva: il perdono più difficile è quello che viene (o non viene) da noi stessi, ma sempre ci si può correggere, si può riparare”, ripeteva Carmelo Musumeci, ex boss della Versilia diventato simbolo degli uomini ombra, i condannati all’ergastolo ostativo. Lui ha scontato trent’anni di carcere, molti durissimi, in isolamento completo, dovendo chiedere il permesso per tutto, persino per un foglio su cui scrivere, e senza nemmeno l’ora d’aria. Solo, fermo a guardare il muro della sua stanza con la branda e una valigia che non poteva preparare mai. Lui - caso unico ed eccezionale - è riuscito incredibilmente a ribaltare la propria storia, distogliendo lo sguardo da quel muro e puntando altrove. La sua scarcerazione, che pareva impossibile, è avvenuta. Libertà è partecipazione anche rispetto al proprio destino, insegna la storia unica di Musumeci. Il maturando, già avanti con gli anni, è solo all’inizio del cammino. Porta sulla coscienza il peso di una condanna per criminalità organizzata e continua a scontare la sua pena, privato del diritto più prezioso: la libertà di movimento, di espressione, di viversi gli affetti. Eppure almeno per oggi, almeno per mezz’ora, qualcuno lo guarda nel presente, qualcuno lo ascolta. E lui spera. Roma: a Rebibbia il primo ristorante dentro un carcere romano di Giuseppe China interris.it, 25 giugno 2019 Inaugurato lo scorso 7 giugno alla presenza di Virginia Raggi e Francesco Basentini. Il vialone chilometrico che costeggia l’istituto, l’attesa di fronte all’ingresso dell’edificio fatto di cemento armato e mattoncini, il controllo della prenotazione effettuata giorni prima, le espressioni un po’ stranite degli uomini della Polizia penitenziaria, il divieto di portare il telefonino al tavolo e la camminata di qualche minuto, prima che si apra davanti agli occhi incuriositi dei commensali, un ampio spazio incastrato tra l’area verde e la parrocchia dove si trovano i tavoli. È una percezione in crescendo e imprevedibile, come in una sinfonia, quella che travolge i desinanti dell’Osteria Uccelli In Gabbia. Il “locale” del carcere romano di Rebibbia che consente ai detenuti di essere per i venerdì sera estivi, cuochi e camerieri. Inaugurato il 7 giugno 2019 alla presenza della sindaca Virginia Raggi e Francesco Basentini, capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La storia dell’iniziativa - Men at work è una cooperativa sociale, presieduta da Luciano Pantarotto, che dal 2003 gravita intorno al progetto cucina a Rebibbia. L’obiettivo è la formazione e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate nelle attività di preparazione e somministrazione pasti, grazie all’utilizzo in comodato d’uso delle cucine dell’istituto di pena. L’idea prende corpo dalla semplice volontà di cambiare la qualità del vitto dei detenuti. I quali servono un menu degno dei migliori ristoranti: lasagnetta di acciughe e patate alla tellarina, tentacolo di piovra e seppia con patate, gamberoni in lardo di colonnata e zucchine gratinate, mille foglie con crema e lamponi. E per chiudere, oltre alle bevande, l’immancabile “caffè galeotto”. Queste le portate servite lo scorso venerdì 21 giugno. È corretto precisarlo dato che ogni cena ha una serie di piatti differente. L’importanza del lavoro per i detenuti - Va da sé che trovare un impiego per chi è stato privato della libertà personale è un aspetto fondamentale in ottica del reinserimento sociale e non solo. “Perché - spiega Luciano Pantarotto - da una parte crea capacità economica per il detenuto e al contempo amplia la sua libertà di movimento rispetto alla quotidianità della vita carceraria”. Tra i 1500 detenuti di Rebibbia, ne lavorano circa 150. Non solo nella ristorazione, ma anche nelle pulizia o nella manutenzione. E tutto ciò avviene grazie al contratto di categoria applicato alle cooperative sociali, la maggior parte delle quali, se non la totalità sono di ispirazione cattolica. “Per l’abbattimento della recidiva è essenziale - aggiunge Pantarotto - non solo l’aspetto lavorativo, ma anche soprattutto il tentativo di ricostruire il tessuto familiare che normalmente si lacera con l’inizio della detenzione”. Dunque la cooperativa, per opera degli educatori che vi lavorano, funge da “gancio” tra detenuto e famiglia, in particolare favorendo il rincontro. “Per queste persone è importantissimo sapere che quando rientreranno in società ci sarà qualcuno ad aspettarle”, conclude Pantarotto. La selezione per servire ai tavoli - I camerieri dell’Osteria degli Uccelli In Gabbia vengono selezionati attraverso un bando pubblico. Per poter partecipare devono rispettare solo due requisiti: il loro fine pena non deve essere corto e non devono essere reclusi nelle divisioni di alta sicurezza. Per essere più precisi, la Men at work scarta coloro che non possono garantire il servizio per più di un anno. Altrimenti il percorso che si intraprende difficilmente compie i suoi effetti. Quando la detenzione sta per terminare alcuni chiedono: “E dopo cosa succede?”. Questa è la cartina di tornasole, ossia un buon segnale sul ravvedimento del soggetto ormai pronto a iniziare una nuova vita. La squadra che si prende cura del servizio è composta da otto persone. Tra loro c’è chi ha tentato di commettere un omicidio, chi c’è riuscito ed ha occultato il cadavere, chi è stato membro di organizzazioni criminali e chi era dedito al narcotraffico. Eppure quando a fine serata, stringi loro la mano pronunciando “grazie”, di quel passato non c’è traccia. Fossano (Cn): voci dal carcere… a ritmo di musica di Luigina Ambrogio* Ristretti Orizzonti, 25 giugno 2019 Suggestivo concerto finale a conclusione del corso tenuto dalla Fondazione Fossano Musica. Il progetto è stato finanziato dalla Fondazione Alessio; docenti i componenti dei “Rebel bit”. Hillary Israel è simpaticissimo: si muove sul palco in modo del tutto naturale portando avanti e indietro, con passi ritmati come solo gli afro-americani sanno fare, il suo peso non indifferente. Tutto in lui fa simpatia: la sua stazza che fatica a stare dentro la camicia troppo stretta, il suo faccione che si allarga in risate strepitose, i suoi movimenti ritmati che fanno ballare tutta quell’abbondanza e la sua voce che va un po’ per conto suo rispetto alla musica… Ma tant’è: l’obiettivo non è la perfezione. I docenti della Fondazione Fossano Musica, che hanno tenuto il corso di canto corale all’interno del carcere di Fossano lo sanno bene: il corso si è posto sin dall’inizio ben altri obiettivi. “Questo progetto, finanziato dalla Fondazione Alessio, è dedicato alla voce come strumento e momento di inclusione, di confronto, di socializzazione, di allentamento delle tensioni e dei conflitti - ha spiegato il direttore della Fondazione Fossano Musica Gianpiero Brignone introducendo il concerto che si è tenuto venerdì sera nel cortile del carcere di Fossano a conclusione del corso di canto corale. Abbiamo scelto, come insegnanti, persone preparate e motivate: si tratta di docenti della Fondazione Fossano musica che formano un quartetto, i Rebel Bit, molto conosciuto in Italia e all’estero”. “Il nostro lavoro con questi ragazzi è iniziato in ottobre - hanno spiegato i docenti del quartetto facendo salire sul palco i quindici allievi; il percorso ha coinvolto persone che non avevano mai avuto esperienze con il canto. È stato molto interessante sia per noi che per loro. La musica è un collante molo efficace”. I Rebel Bit si sono alternati sul palco al coro dei detenuti stupendo il pubblico con la loro eccezionale bravura. “Tutto quello che ascoltate è prodotto esclusivamente dalle nostre voci supportate da elaborazioni elettroniche” - hanno spiegato gli artisti -; non ci sono basi musicali”. Lo spettacolo di venerdì scorso (“Oltre le barriere - Voci dal carcere”) rientra infatti nella rassegna “Vocalmente off” che precede la manifestazione Vocalmente, il festival dedicato alla musica a cappella che Fossano ospita a fine estate. Al termine della serata il presidente della Fondazione Fossano musica ha ringraziato la Fondazione Alessio per aver sostenuto economicamente il progetto e ha dato la parola alla presidente Annamaria Cevolani che ha consegnato una targa ricordo al coro. La Fondazione Alessio, che sostiene anche la manifestazione Vocalmente, si propone di incentivare, attraverso la musica, la comunicazione interpersonale tra i giovani e di promuovere le realtà musicale sul territorio (e non solo). A conclusione Gianni, a nome di tutti gli allievi, ha ringraziato i docenti per l’impegno dedicato al progetto e soprattutto per la bella armonia che hanno saputo creare nel gruppo. *Funzionario Giuridico Pedagogico Velletri (Rm): “l’impresa di riuscire a far sorridere un’umanità dolente” di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 giugno 2019 Era emozionato Max Paiella al termine dell’esibizione nella Casa circondariale di Velletri, organizzata, in occasione della Festa della Musica, dall’Ordine degli avvocati di Roma. Con lui c’era l’inseparabile Attilio Di Giovanni, tastierista di cantautori esilaranti creati e interpretati da Paiella in quindici anni di presenza alla trasmissione radiofonica Il Ruggito del Coniglio, come il brasiliano depresso Vincius du Marones, il greco imbroglione Demetrios Parakulis, il virilizzatore russo Nikola Tkorkov. Applausi e risate dal pubblico conquistato dalla sua comicità, dalle ballate parodistiche e dallo swing coinvolgente. “Era la prima volta che entravo in un carcere e intrattenere un pubblico di persone in stato di detenzione - racconta l’artista romano - è stata un’esperienza faticosa ma al tempo stesso molto intensa, in cui ho incontrato un’umanità dolente, difficile ma piena di voglia di vivere. Sono rimasto colpito anche dalla grande disponibilità del personale che lavora nella casa circondariale per la grande gentilezza”. L’evidente emozione, inaspettata in un implacabile dissacratore che ha sorpreso anche operatori penitenziari e organizzatori, porta a evitare domande “scanzonate” e a lasciare spazio ad altri tipi di quesiti. Ci rivolgiamo dunque al Paiella attento osservatore del sociale, degli aspetti belli e brutti della nostra società. Un artista interessato a promuovere quella che definisce la “sostenibilità del bene” e che lo ha portato di recente a dedicare un audiolibro a Rodari per le tante risposte che danno le sue storie “a domande poste con profondità e leggerezza dai bambini su temi importanti che ci riguardano tutti”. Come è stato imbracciare la chitarra sul palcoscenico di un carcere? “Mi ha colpito la grande disponibilità ad apprezzare la musica e l’intrattenimento da parte dei detenuti. Ho notato la necessità di vivere a pieno ogni momento e comunicare le proprie emozioni, questo mi ha commosso, mi ha fatto apprezzare maggiormente la libertà e la possibilità di esprimermi. Lo stato di detenzione è una condizione in cui la verità più profonda dell’essere umano esce fuori con tutta la sua forza”. Lei è nato e vive a Roma e gran parte dei suoi personaggi hanno caratteristiche (vizi, cinismo, espressioni…) tipicamente romane, apprezzati comunque ormai anche dal pubblico di tutta Italia. Nel carcere di Velletri però ci sono anche molti detenuti stranieri. È riuscito a coinvolgere anche loro? “Credo di esserci riuscito. La musica e le parole possono essere un veicolo di messaggi importanti ma prima di tutto veicolano emozioni. In caso contrario non potremmo apprezzare canzoni in inglese di cui spesso non capiamo a pieno il significato”. Oggi Max Paiella sarà in un altro inconsueto contesto, lo Spazio We Gil di Largo Ascianghi, a Roma, evento dedicato ai temi dell’inclusione e della partecipazione dove alle 17,30 leggerà alcuni brani tratti dal Libro dei Perché di Gianni Rodari. A chi gli ha chiesto (al Salone del libro di Torino dove l’audiolibro è stato presentato) il motivo di questa scelta ha risposto: “Perché è un trattato sull’altruismo, sulla tolleranza, sulla comprensione dell’umanità, nel bene e nel male, sull’importanza dell’aiutare le persone diverse e disagiate”. Una risposta che spiega in fondo anche perché abbia accettato di esibirsi di fronte “all’umanità dolente” del carcere, un pubblico diverso eppure con tanto bisogno di risate, musica ed emozioni positive. Migranti. Il male sotto il sole di Mattia Feltri La Stampa, 25 giugno 2019 Se la notte scorsa è rimasta senza soluzione, oggi sarà il tredicesimo giorno in cui ai quarantadue naufraghi della Sea Watch sarà impedito di sbarcare in Italia. C’è stato un tempo, non tanto lontano, nel quale una decisione del genere, così irrimediabile, sfrontatamente cinica, disumana, avrebbe sollevato le rimostranze di molti. Le rimostranze ci sono ancora, sempre qualcuna in meno, sempre meno vibranti o meno divulgate: tutto invecchia rapidamente, viene a noia, diluisce nella ripetitività, anche le regole di una politica che afferma la sua vigoria su un manipolo di migranti indegni non si dice dell’accoglienza, ma del soccorso. Senza accorgersi si arretra, e intanto che Matteo Salvini non arretra affatto, dice e di conseguenza fa, nell’approvazione febbrile dei suoi sostenitori - colmi di appassionata intensità, diceva il poeta. Siamo arrivati a un punto imprevedibile, poiché a chi ha portato la responsabilità della politica è sempre successo di fare il male in nome di un bene successivo. Non è mai una buona scelta: fare il male per il bene è illudersi che male e bene siano merci di un buon baratto. E però è successo, e chi sceglieva il male in nome di un bene successivo brigava nell’ombra per scampare al giudizio morale degli elettori, che quando sono giudici, si sa, non prevedono attenuanti. Salvini no, lui fa tutto sotto il sole, vuole essere visto, vuole essere investito da quel giudizio morale perché è un giudizio favorevole e crescente. Fare il male in nome di un male immediato, che appaghi il desiderio di spietatezza e lo commuti in consenso. Migranti. Quei profughi dimenticati di Luigi Manconi La Repubblica, 25 giugno 2019 In mezzo al mare c’è un bastimento” (canto popolare). Nella sovrapposizione tra realtà e fantasia, che non è prerogativa della sola infanzia, il governo deve essersi convinto che quella nave, la Sea Watch 3 e i suoi 42 naufraghi siano un prodotto onirico o il frutto di una fervida immaginazione. Qualcosa destinato a evaporare oppure, secondo la recente vocazione mariana del ministro dell’Interno, a risolversi grazie all’intervento di quella “colonna” che è “la Madonna dei marinai” (altro verso di quel canto). Dunque, la strategia a cui sembra ispirarsi Matteo Salvini, persegue con modi brutali un sofisticato processo di rimozione (anche in senso propriamente psicoanalitico). Si fa, cioè, come se quel “bastimento” semplicemente non esistesse. Non si spiega altrimenti il paradosso del 20 giugno scorso, Giornata internazionale del Rifugiato: mentre veniva ribadito che i 42 della Sea Watch 3 dovessero rimanere lì dove si trovavano, altri 45 naufraghi venivano soccorsi, proprio nelle stesse ore, da motovedette Italiane e fatti sbarcare a Lampedusa. Insomma, i porti italiani erano e restano aperti per ragioni giuridiche interne e internazionali e vengono chiusi esclusivamente in base alla puerile volubilità di un ministro. Il quale, come unica mossa politico-diplomatica, scrive ai governanti olandesi che la Sea Watch 3 è affare loro, dal momento che la nave batte la bandiera di quel Paese. Ma il processo di rimozione ha già ottenuto che la nave e il suo carico di sofferenza venissero rinchiusi all’interno di una bolla che sembra galleggiare fuori dal tempo e dallo spazio e, soprattutto, dalla politica e dalla sensibilità collettiva. Mentre si attende che, nelle prossime ore, si pronunci la Corte Europea dei Diritti Umani, tornano utili alcune informazioni o rimaste riservate o, se note, totalmente trascurate. Domani è il quattordicesimo giorno di permanenza della Sea Watch 3 ad appena 15-20 miglia dalle coste Italiane e, in tutto questo tempo, il governo non ha preso la minima iniziativa, non ha proposto una soluzione e nemmeno avviato alcuna mediazione. Per capirci, non una telefonata. É giustificabile tutto ciò? Quarant’anni fa, in tempi di ferro e fuoco, il rifiuto di trattare corrispondeva alla volontà di non riconoscere in alcun modo dignità politica alle formazioni terroristiche. Ma oggi? Oggi siamo in presenza di organizzazioni che - qualunque sia il giudizio che se ne dà - salvano vite umane; e si rifiutano di consegnare i profughi soccorsi agli apparati militari di un regime che, per valutazione unanime (e con la sola eccezione di Salvini e Di Maio), viola sistematicamente i diritti fondamentali della persona. Ebbene, il governo italiano fa come se non esistessero, né i soccorritori né i soccorsi. Eppure, se un rapinatore, entrato in una banca, sequestra impiegati e clienti, il ministro dell’Interno invia un suo qualificatissimo mediatore, al fine di trattare per salvare i sequestrati, al prezzo di un accordo con il sequestratore. È questo che suggerisce la saggezza dell’arte del comando e della politica razionale. E qui, dove sono i “rapinatori” se, in quasi 5 anni e dopo le indagini di numerose procure, non è stata formulata una sola richiesta di rinvio a giudizio a carico di queste Ong? Oltre una settimana fa, il comune di Rottenburg, aderente alla rete tedesca delle “città accoglienti”, ha dichiarato la propria disponibilità a ricevere i naufraghi e a organizzare una missione che, immediatamente dopo lo sbarco, ne curasse il loro trasferimento in Germania. Nessuna risposta da parte del nostro governo. E ancora: il ministero degli Esteri e quello dell’Interno tedeschi hanno avviato contatti verso i corrispettivi italiani, ma senza ottenere alcun segnale di interesse. Questo mentre le chiese protestanti tedesche e la chiesa Valdese italiana da giorni e giorni mobilitano tutte le proprie energie e le proprie risorse per indurre l’Italia a consentire lo sbarco dei naufraghi, assumendosi la responsabilità e l’onere, anche economico, del loro inserimento là dove si ritenesse più opportuno (in Germania o in Italia). Tutto ciò viene ignorato dal nostro ministro dell’Interno che può comportarsi così non semplicemente perché il decreto sicurezza bis sembra consentirglielo, ma perché - altra informazione taciuta - ha chiesto e ottenuto una delega assoluta per la gestione del problema degli sbarchi. Dunque, quella bolla nella quale la Sea Watch 3 è immersa sembra destinata a galleggiare ancora nel vuoto, cancellata dall’agenda politica e, appunto, rimossa dalla coscienza nazionale. Se si osserva bene questa scena, si scoprirà che, tra tutti gli attori, manca il principale: il profugo con il suo dolore e la sua inesausta speranza. Migranti. Ora si può superare la Bossi-Fini di Liana Vita Il Manifesto, 25 giugno 2019 Ai più sarà sfuggito ma in Parlamento da alcune settimane si sta discutendo di riformare e finalmente superare l’impianto della legge Bossi-Fini, grazie all’iniziativa tenace di 90.000 cittadini e di decine di organizzazioni impegnate nella campagna “Ero straniero” che, di fronte all’immobilismo delle forze politiche nelle ultime legislature, hanno deciso di prendere in mano la situazione ed elaborare e depositare in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare. Quella proposta, dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”, è ora all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera. Relatore è il deputato Riccardo Magi, che come Radicali italiani è stato promotore dell’iniziativa popolare insieme a Casa della Carità di Milano, Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto, Cild, con il sostegno di decine di sindaci e organizzazioni, laiche e religiose, tra cui Legambiente, Oxfam, ActionAid, Scalabriniani, Chiese evangeliche e tante altre. Domani alcuni dei promotori saranno ascoltati in Commissione per raccontare com’è nata l’iniziativa popolare e cosa si prefigge, nell’ambito di una serie di audizioni di approfondimento e confronto sui punti proposti. Oggi più che mai è indispensabile l’avvio di un confronto nel dibattito pubblico e nell’agenda politica sul tema dell’immigrazione centrato finalmente sui due aspetti centrali per il nostro Paese, al di là degli schemi securitari abusati su cui si insiste in maniera strumentale: gli ingressi dei cittadini stranieri per lavoro e l’integrazione di quanti in Italia già vivono e lavorano. La proposta di legge vuole superare i limiti di un sistema, introdotto nei primi anni 2000, che ha ormai dimostrato di non funzionare, principalmente perché non rispondente alla realtà del nostro paese e al fabbisogno del mondo produttivo italiano. E così i canali d’ingresso attuali sono inutilizzati e criteri troppo rigidi impediscono a chi è in Italia di emergere dal nero e mettersi in regola. La proposta in discussione, invece, prevede l’introduzione di nuovi meccanismi di ingresso per lavoro ricorrendo all’intermediazione tra domanda e offerta, svolta da parte di enti pubblici o privati per facilitare l’incontro dei datori di lavoro italiani con i lavoratori stranieri selezionati, i quali avrebbero un permesso per venire in Italia e sostenere il colloquio di lavoro. Quanto al secondo aspetto, il pieno inserimento nella società della popolazione straniera residente nel nostro Paese, oltre a una serie di garanzie di parità di accesso alle prestazioni sociali per gli oltre cinque milioni di stranieri regolarmente residenti, la proposta di iniziativa popolare cerca di sanare alcune situazioni di irregolarità dovute essenzialmente alla poca duttilità del sistema in vigore, non più adeguato alla realtà italiana, soprattutto dopo l’intensificarsi degli arrivi negli ultimi anni. Migliaia di richiedenti asilo, per esempio, in attesa della risposta alla loro domanda di protezione, in questi anni hanno trovato una propria sistemazione e incontrato datori di lavoro che li hanno formati e assunti. Se alla fine hanno ricevuto una risposta negativa alla richiesta d’asilo, quei richiedenti sono diventati irregolari e sono probabilmente rimasti sul nostro territorio senza però poter lavorare e sperare di ottenere un titolo di soggiorno perché la legge attuale non lo permette. In pratica non possono più né essere assunti né sanare la propria posizione e difficilmente verranno rimpatriati. Cosa prevede invece la proposta popolare per chi si trova in questa situazione? Un permesso di soggiorno per comprovata integrazione, che permetterebbe di mettersi in regola a fronte della disponibilità di un lavoro o di legami familiari, sottraendo così decine di migliaia di persone alla precarietà e all’illegalità, con un apporto positivo per tutti. Del resto, anche in Germania, su proposta del governo e dello stesso ministro dell’interno Seehofer - non di certo sostenitore della linea “Accogliamoli tutti!” - è stata da poco approvata una legge sull’immigrazione che promuove nuovi ingressi di lavoratori stranieri e offre la possibilità di rimanere ai richiedenti asilo che hanno ricevuto un diniego a patto che abbiano un lavoro. Ai decreti sicurezza, ai trattenimenti forzati di persone in mare, alla contrazione delle forme di protezione, all’abolizione dei servizi per chi è in accoglienza, con tutte le conseguenze sulle persone e sui territori, non ci può essere risposta migliore e più tempestiva. Migranti. Sea Watch, la Corte di Strasburgo chiede chiarimenti al governo italiano di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 25 giugno 2019 L’intervento dell’organismo di giustizia sollecitato dalla ong che ha soccorso i migranti da 12 giorni bloccati al largo di Lampedusa. La risposta dovrà arrivare nel pomeriggio. Altri 59 arrivati in Calabria. La Corte di Strasburgo ha reso noto di aver ricevuto una richiesta di “misure provvisorie” da parte della Sea Watch 3 per chiedere all’Italia di consentire lo sbarco dei migranti. La Corte ha rivolto una serie di domande sia alla Sea Watch 3 che al governo italiano. L’una e l’altro dovranno rispondere entro oggi pomeriggio. La Corte in base ai suoi regolamenti può chiedere all’Italia di adottare quelle che vengono definite “misure urgenti” e che “servono ad impedire serie e irrimediabili violazioni dei diritti umani”. Giorgia Linardi, portavoce di Sea watch ha precisato che il ricorso è stato presentato da alcune delle persone costrette a bordo contro un trattamento ritenuto “disumano e degradante” In attesa dai chiarimenti chiesti ad ambo le parti dalla Corte europea, la diocesi di Torino ha fatto sapere di essere pronta ad accogliere i 43 della Sea Watch “senza oneri per lo Stato”; lo ha fatto sapere l’arcivescovo del capoluogo piemontese Cesare Nosiglia durante le celebrazioni per la festa patronale di San Giovanni. Da 12 giorni 43 migranti soccorsi dalla ong tedesca al largo della Libia sono fermi a 15 miglia da Lampedusa: è l’effetto dell’ennesimo braccio di ferro tra le organizzazioni umanitarie e il vicepremier Salvini che chiede invece un intervento del governo olandese. Il quale ha ribadito la sua linea di chiusura totale: “L’Unione europea vuole risolvere il problema Sea Watch? Facile. Nave olandese, Ong tedesca: metà immigrati ad Amsterdam, l’altra metà a Berlino. E sequestro della nave pirata. Punto”. Ma la Ue non ha competenze dirette in materia di immigrazione, sono i singoli governi a doversi accordare. Questa volta l’approdo è stato negato dal Viminale sulla base del decreto sicurezza bis che dà facoltà di impedire l’accesso nelle acque territoriali italiani a imbarcazioni “indesiderate” o considerate dal ministero dell’interno fonte di pericolo. La Ong replica che prevalgono le leggi del mare (che obbligano sempre a prestare soccorso ai naufraghi) e i trattati internazionali che da un lato obbligano a sbarcare i richiedenti asilo al più presto nel porto sicuro più vicino. L’Europa nella strategia nucleare del Pentagono di Manlio Dinucci Il Manifesto, 25 giugno 2019 Gli Usa si preparano a schierare nel vecchio continente missili nucleari a gittata intermedia con base a terra, analoghi a quelli degli anni Ottanta che furono eliminati dal Trattato firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan. I ministri della Difesa della Nato (per l’Italia Elisabetta Trenta, M5S) sono stati convocati a Bruxelles domani per approvare le nuove misure di “deterrenza” contro la Russia, accusata senza alcuna prova di aver violato il Trattato Inf. In sostanza si accoderanno agli Stati uniti che, ritirandosi definitivamente dal Trattato il 2 agosto, si preparano a schierare in Europa missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km) con base a terra, analoghi a quelli degli anni Ottanta (i Pershing 2 e i Cruise) che furono eliminati (insieme agli SS-20 sovietici) dal Trattato firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan. Le maggiori potenze europee, sempre più divise all’interno dell’Unione europea, si ricompattano nella Nato sotto comando Usa per sostenere i loro comuni interessi strategici. La stessa Unione europea - di cui 21 dei 27 membri fanno parte della Nato (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla Ue) - ha bocciato alle Nazioni Unite la proposta russa di mantenere il Trattato Inf. Su una questione di tale importanza l’opinione pubblica europea è lasciata volutamente all’oscuro dai governi e dai grandi media. Non si avverte così il crescente pericolo che ci sovrasta: aumenta la possibilità che si arrivi un giorno all’uso di armi nucleari. Lo conferma l’ultimo documento strategico delle Forze armate Usa, “Nuclear Operations” (11 giugno), redatto sotto la direzione del Presidente degli Stati maggiori riuniti. Premesso che “le forze nucleari forniscono agli Usa la capacità di conseguire i propri obiettivi nazionali”, il documento sottolinea che esse devono essere “diversificate, flessibili e adattabili” a “una vasta gamma di avversari, minacce e contesti”. Mentre la Russia avverte che anche l’uso di una singola arma nucleare di bassa potenza innescherebbe una reazione a catena che potrebbe portare a un conflitto nucleare su vasta scala, la dottrina statunitense si sta orientando in base a un pericoloso concetto di “flessibilità”. Il documento strategico afferma che “le forze nucleari Usa forniscono i mezzi per applicare la forza a una vasta gamma di bersagli nei tempi e nei modi scelti dal Presidente”. Bersagli (chiarisce lo stesso documento) in realtà scelti dalle agenzie di intelligence, che ne valutano la vulnerabilità a un attacco nucleare, prevedendo anche gli effetti della ricaduta radioattiva. L’uso di armi nucleari - sottolinea il documento - “può creare le condizioni per risultati decisivi: in specifico, l’uso di un’arma nucleare cambierà fondamentalmente il quadro di una battaglia creando le condizioni che permettono ai comandanti di prevalere nel conflitto”. Le armi nucleari permettono inoltre agli Usa di “assicurare gli alleati e i partner” che, fidando su di esse, “rinunciano al possesso di proprie armi nucleari, contribuendo agli scopi Usa di non-proliferazione”. Il documento chiarisce però che “gli Usa e alcuni alleati Nato selezionati mantengono aerei a duplice capacità in grado di trasportare armi nucleari o convenzionali”. Ammette così che quattro paesi europei ufficialmente non-nucleari - Italia, Germania, Belgio, Olanda - e la Turchia, violando il Trattato di non-proliferazione, non solo ospitano armi nucleari Usa (le bombe B-61 che dal 2020 saranno sostituire dalle più micidiali B61-12), ma sono preparati a usarle in un attacco nucleare sotto comando del Pentagono. Tutto questo tacciono governi e parlamenti, televisioni e giornali, con il complice silenzio della stragrande maggioranza dei politici e dei giornalisti, che invece ci ripetono quotidianamente quanto importante sia, per noi italiani ed europei, la “sicurezza”. La garantiscono gli Stati Uniti schierando in Europa altre armi nucleari. Bachelet, Onu: “Processare o rimettere in libertà i combattenti dell’Isis” La Repubblica, 25 giugno 2019 Un problema legato ai 55 mila detenuti in Siria e in Iraq. I figli degli ex combattenti stanno subendo “gravi violazioni” dei diritti umani. “Processare o rimettere in libertà” gli ex combattenti dello Stato Islamico, per evitare che persone innocenti continuino a vivere in condizioni di vita inaccettabili: è l’avvertimento lanciato il 24 giugno da Ginevra dal capo dell’Agenzia Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. Nei centri di prigionia in Siria e Iraq sono circa 55 mila le persone detenute, tra ex combattenti dello Stato islamico e loro familiari. In questo numero rientrano anche molti bambini. Michelle Bachelet ha invitato i Paesi ad assumersi la responsabilità dei propri cittadini che hanno preso parte allo Stato Islamico, e a riprenderseli indietro quando non colpevoli. Si tratta dei sospetti foreign fighters che provengono da 50 Paesi nel mondo. A riportare la notizia è la Bbc che spiega che spesso c’è riluttanza da parte degli Stati d’origine a rimpatriare gli ex-militari dello Stato Islamico, per non infastidire l’opinione pubblica. Secondo Michelle Bachelet queste persone meritano dei processi equi: “Continuare a detenere persone non sospettate di crimini non è accettabile. I familiari stranieri dovrebbero essere rimpatriati, a meno che non vengano perseguiti per crimini in conformità con gli standard internazionali”. Un altro delicato problema è quello dei figli di questi ex combattenti, che spiega Bachelet, stanno subendo “gravi violazioni” dei loro diritti umani: “Gli Stati dovrebbero fornire lo stesso accesso alla nazionalità per i bambini nati dai loro cittadini nelle zone di conflitto. Infliggere l’apolidia ai bambini che hanno già sofferto così tanto è un atto di crudeltà irresponsabile”. Secondo le stime dell’Unicef i figli dei foreign fighters sarebbero 29 mila, la gran parte dei quali sotto i 12 anni. Uruguay. Il boss Morabito evade dal carcere, doveva essere estradato in Italia di Michele Sasso La Stampa, 25 giugno 2019 Rocco Morabito, boss della ‘ndrangheta calabrese arrestato nel settembre 2017 in Uruguay, è evaso dalla prigione di Montevideo. Il boss, 53 anni, considerato al vertice dell’omonima cosca calabrese, era stato catturato dopo 23 anni di latitanza. Da un carcere della capitale uruguaiana è riuscito a evadere con altri tre detenuti. La loro fuga è avvenuta attraverso un passaggio creato nel tetto, da dove si sono calati in una fattoria confinante, dove hanno rubato denaro alla proprietaria. L’associazione mafiosa Il boss calabrese deve scontare una condanna a 30 anni in Italia per associazione mafiosa, traffico internazionale di droga e altri gravi reati, ed era in attesa di estradizione, concessa appena tre mesi fa. Dopo la conferma dell’estradizione concessa in Appello, i legali di Morabito hanno presentato, come ultima opzione, un ricorso alla Corte suprema di giustizia. Il boss ha cercato di evitare in ogni modo il suo trasferimento nel nostro Paese giungendo perfino ad insultare durante il dibattimento in tribunale la giudice per far sospendere il processo. Morabito, boss di primissimo piano nell’organigramma delle ‘ndrine, è nato ad Africo, in provincia di Reggio Calabria, il 13 ottobre del 1966, e da una decina d’anni ed era inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità stilato dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale. È accusato di aver importato per anni ingenti quantitativi di droga sulla rotta Sud America-Calabria: nel 1992 e nel 1993 furono intercettati due carichi di cocaina da 592 e 630 chili. Nel 1994 fu condannato a 30 anni e da quel momento diventò latitante, entrando nell’elenco dei latitanti più pericolosi. Ha vissuto per molti anni in Sudamerica: per almeno 13 anni a Punta del Este, la famosa località balneare uruguaiana dove grazie a un documento falso brasiliano aveva ottenuto la carta d’identità uruguaiana. Al momento della cattura a settembre 2017 era ricercato da 23 anni, trascorsi in varie parti d’Italia e del mondo. “È sconcertante che un criminale come Rocco Morabito sia riuscito a fuggire da una galera dell’Uruguay mentre era in attesa di essere estradato - dice il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che aggiunge: “Mi prendo due impegni: far piena luce sulle modalità dell’evasione e continuare a dargli la caccia per sbatterlo in galera”.