Quelle emozioni dentro al carcere di Ornella Favero* e Nicola Boscoletto** La Repubblica, 24 giugno 2019 Caro direttore, abbiamo partecipato a Roma, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla proiezione del docu-film che racconta il viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. A questo evento siamo stati invitati in quanto espressione del volontariato e delle cooperative sociali che operano in carcere e nell’area penale esterna da quasi trent’anni. Questo nostro ruolo lo sottolineiamo perché all’inizio ci ha fatto pensare proprio l’assenza del volontariato e del privato sociale da questo viaggio: generalmente, quando fai un viaggio di conoscenza di una realtà nuova, cerchi infatti di farti accompagnare da tutti coloro che quella realtà la conoscono davvero per poterla esplorare in tutte le sue diverse facce. Abbiamo poi riflettuto che quel viaggio è stato soprattutto di incontri e di emozioni: noi possiamo offrire e condividere invece la nostra conoscenza profonda del carcere, perché siamo quei pezzi di società che entrano dentro per costruire percorsi di responsabilizzazione e per accompagnare le persone a rientrare nel mondo libero, e non certo per lasciarle “marcire in galera”. E sappiamo bene che il carcere oggi vive per lo più nella illegalità, disattendendo il dettato costituzionale. Pensare di educare alla legalità, al rispetto reciproco con modalità illegali e irrispettose delle regole e delle persone è una pura illusione. Quei giudici però hanno dimostrato grande coraggio nell’affrontare questo tema della galera “sporcandosi le mani” e “mettendoci la faccia”. Vedendo quelle carceri così poco rispettose della Costituzione viene da dire però: dove sono la politica e l’amministrazione penitenziaria, che spesso subiscono passivamente, quando va bene, se non addirittura ostacolano ogni tentativo di rendere un po’ più umano, e perciò più legale, il carcere? Gli esempi di cose che non funzionano, cioè illegali, disumane e degradanti sono un’infinità. Come pure è importante sottolineare che le cose non è che non funzionano da un giorno, o da un anno, nessuno si può chiamar fuori da questo fallimento. Occorre però partire da tutto ciò che di buono c’è, salvarlo e moltiplicarlo da una parte, e dall’altra eliminare, o se possibile curare, tutto ciò che non funziona. Se invece di essere 7 su 10 i detenuti che finita la pena escono peggiori di come sono entrati, fossero 7 malati su 10 che escono dagli ospedali mal curati le cose sarebbero affrontate in maniera diversa. Negli ospedali la colpa sarebbe ricercata nelle carenze relative alla struttura ed al personale, nelle carceri la colpa è sempre della persona detenuta, non di chi è pagato per “guarirla”. Che oggi l’intera Corte Costituzionale intervenga direttamente ed in maniera così autorevole, testimonia la gravità della situazione e la forte volontà di portare alla luce del sole un tema che di sicuro non dà alcun tipo di popolarità e di “guadagno”. Se ribadiamo con forza che il sistema di gestione delle carceri ha fallito è anche perché in carcere ci sono più di 22 mila persone con meno di tre anni di pena, e perché la recidiva reale di chi esce rimane altissima (70 % e più). Sicuramente ci sono nell’amministrazione moltissime persone che fanno o che cercano di fare bene il loro mestiere affrontando ogni giorno le perenni emergenze della vita detentiva, ma per guarire un malato, per risolvere un problema bisogna prima di tutto capire che cosa c’è che non va e dove stanno le responsabilità. E nel frattempo puntare su tutto ciò che funziona. Invece molto spesso succede il contrario, e cioè che si combatte proprio ciò che funziona, rendendo la vita difficile a tutti quelli che si impegnano veramente, con grande dedizione e spirito innovativo, alla soluzione dei problemi. Siamo tutti abituati, giustamente, a chiedere, a pretendere che le persone che hanno fatto del male si assumano la responsabilità dei loro gesti e scontino una pena significativa (bisognerebbe però ritornare a parlare di pene e non solo di carcere), ma il nostro desiderio rispetto al viaggio della Corte costituzionale è che questa iniziativa possa richiamare con forza tutti quelli che si occupano delle carceri alla propria responsabilità, a partire dall’amministrazione penitenziaria, la magistratura, ma anche il volontariato e il privato sociale, che, è meglio ricordarlo, in carcere non sono ospiti, ma entrano con quell’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario che pone al centro la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa. Cioè proprio a quella funzione della pena che la Costituzione esalta e valorizza. Tutti siamo invitati, da questa testimonianza dei giudici costituzionali ad essere un po’ meno autoreferenziali, a non difendere per principio il proprio orto. Qui l’orto è di tutti. *Presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia **Presidente cooperativa sociale Giotto Ricostruire il legame tra carceri e città di Patrizio Gonnella* antigone.it, 24 giugno 2019 Nelle ultime settimane abbiamo visitato alcune carceri italiane insieme ai sindaci delle rispettive città. Un’iniziativa che rientra nella campagna “Il carcere è un pezzo di città”, lanciata dalla nostra associazione. I Comuni possono avere un ruolo importante nella costruzione di legame tra carcere e comunità, fondamentale affinché la pena sia più vicina al dettato costituzionale. Perché ciò avvenga i primi cittadini devono essere inclusi tra i soggetti cui l’ordinamento penitenziario affida la possibilità di visitare le carceri. Anche sul terreno di questa modifica legislativa ci stiamo muovendo. Il carcere è un pezzo di città. È questa la campagna promossa da Antigone che punta ad includere anche i sindaci nell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario, vale a dire tra quelle autorità cui la legge riconosce il diritto a visitare gli istituti di pena. Per promuovere la campagna Antigone ha scritto ad alcuni sindaci italiani chiedendo la loro disponibilità a visitare insieme le carceri delle loro rispettive città. Sono diversi i primi cittadini ad aver risposto e nei giorni scorsi si sono tenute le prime visite a Livorno, con il sindaco Filippo Nogarin e a Torino con la sindaca Chiara Appendino, con i quali sono stati visitati rispettivamente gli istituti “Le Sughere” e “Lorusso-Cotugno”. Quando carcere e territorio comunicano fra loro, quando esistono dei trasporti che non isolano gli istituti di pena ma che consentono a familiari e volontari di recarvisi facilmente, quando i cittadini si rendono conto che il carcere è un pezzo di città, quando sul territorio esistono servizi territoriali adeguati, aumentano le chances che la pena non sia solo un momento di esclusione. Il reinserimento abbatte la recidiva. Il reinserimento sociale è sicurezza. Settanta anni fa Piero Calamandrei scriveva che bisogna aver visto. Bisogna aver visto per comprendere cosa significa la privazione della libertà e quale sia la composizione delle nostre carceri. Ma bisogna aver visto anche per trovare soluzioni concrete che diano effettività alla funzione che la Costituzione assegna alla pena. Il carcere non è un mondo a parte. Riflette, in tutto o in parte, la complessità e le problematiche di un territorio. Molti Comuni sono già impegnati in attività meritorie. Il nostro obiettivo è avvicinare il carcere alla società, contribuire alla sua non rimozione. Per questo è importante che i sindaci siano i primi a potersi interessare, e a poter essere messi nelle condizioni di farlo, a cosa avviene in questo loro pezzo di città. *Presidente di Antigone Ordinamento giudiziario e riforma, cosa è giusto attendersi dal Parlamento di Luigi Covatta Il Mattino, 24 giugno 2019 L’altro giorno il quotidiano che aveva condotto in prima linea la campagna contro “un uomo solo al comando” titolava “Sulle spalle di un uomo solo” la cronaca dell’intervento di Mattarella al Csm (ma riferendosi anche al ruolo che il capo dello Stato è costretto a svolgere nel confronto con l’Ue sui conti pubblici): e se il commento di Massimo Giannini segnalava “la metamorfosi di un Presidente”, i lettori più avveduti avranno invece notato la metamorfosi di un giornale. Intendiamoci: nelle stanze del Quirinale si sono consumate ben altre metamorfosi. Basti pensare a Cossiga, che nei primi anni del suo mandato non smentì lo stile notarile che ne aveva propiziato l’elezione quasi unanime, salvo poi, a partire dal 1990, dedicarsi ai colpi di piccone. La sua, tuttavia, fu una metamorfosi fin troppo plateale ed ostentata: quella della “Repubblica”, invece, è tutta implicita e preterintenzionale. Eppure nella cronaca politica dell’ultimo anno non mancano occasioni per indurre, se non alla resipiscenza, almeno a qualche riflessione sul funzionamento delle nostre istituzioni. A cominciare proprio dal ruolo del capo dello Stato, che dai tempi di Scalfaro ad oggi si è allargato oltre misura (benché non oltre la misura delle prerogative previste dalla Costituzione), senza peraltro essere ulteriormente legittimato da un’investitura diversa da quella parlamentare: tanto che oggi, fra le variabili che condizionano il travagliato cammino della legislatura in corso, c’è anche quella di chi teme (o auspica) che tocchi proprio ad essa eleggere il successore di Mattarella nel 2022. Ma anche il ruolo del governo è cambiato. Non solo perché il suo capo si vanta di non aver detto a nessuno per chi ha votato, con tanti saluti alla volontà popolare, alla trasparenza e perfino al vincolo di mandato, che uno dei due suoi danti causa continua a sostenere. Soprattutto perché si moltiplicano i conflitti di competenza fra i suoi membri, e fra essi e le altre istituzioni della Repubblica. Non è solo Salvini, che impedisce ad una nave militare italiana di approdare in un porto italiano, e che ora addirittura convoca al Viminale le parti sociali. È Di Maio, che arruola i suoi “navigator” senza aver concluso un preventivo accordo con le Regioni che dovranno poi utilizzarli. E Moavero Milanesi, che affianca silenziosamente il presidente del Consiglio nella trattativa sulla procedura d’infrazione lasciando a casa il titolare del Mef. Ed è quest’ultimo, che a settembre potrà scegliere solo se scrivere la prossima legge di Bilancio sotto dettatura della troika o sotto quella di Salvini e di Di Maio. Quanto al Parlamento (perfettamente bicamerale, s’intende), ormai funziona soltanto per convertire decreti, e quando gli viene concesso di votare almeno una mozione c’è perfino chi sbaglia a votare, come è capitato ai deputati del Pd e di +Europa a proposito dei “minibot”: salvo restare escluso dall’opaca trattativa che riguarda le “autonomie speciali”, e che avrebbe trovato sede più degna nel Senato delle regioni previsto dalla riforma Renzi; e salvo delegare alla piattaforma Rousseau l’esercizio di una prerogativa di rango giurisdizionale, quale è quella che regola la procedura per l’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri. Ovviamente non è il caso di fare del revanscismo rispetto ai risultati del referendum del 2016: e men che meno di riproporre il tema della riforma istituzionale ad una legislatura che non sembra la più adatta a svolgerlo. È il caso, semmai, di osservare che proprio una legislatura nata all’insegna dell’antipolitica si sta caratterizzando per un iper-politicismo di cui non c’è traccia nella storia della Repubblica (della seconda, ma anche della prima): si lottizza perfino la produzione normativa, alternando un provvedimento “di bandiera” a quello di un’altra bandiera senza nemmeno ricorrere a quel pizzico di ipocrisia che consente ai governi di giustificare sempre le proprie scelte in nome dell’interesse generale. Ora capita, tuttavia, che lo scandalo del Csm imponga di affrontare un tema, quello dell’ordinamento giudiziario, peraltro accuratamente eluso dai governi precedenti. Che Dio ce la mandi buona. Ma visto che si tratta di una materia intonsa almeno dai tempi della “bozza Boato” presentata alla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema, c’è da sperare che questa volta il Parlamento funzioni come deve funzionare: come sede, cioè, di un dibattito aperto e costruttivo animato, per una volta, da autentico spirito costituente. Da quell’atteggiamento, cioè, che secondo Rawls consiste nel coprirsi di un “velo d’ignoranza” circa le convenienze che le scelte operate determinano: ignoranza per ignoranza, meglio quella auspicata da Rawls. Intervista a Alfonso Bonafede: “basta con le porte girevoli tra politica e magistratura” di Luca Telese La Verità, 24 giugno 2019 Il ministro della Giustizia: “Un giudice che si candida sappia che deve abbandonare la carriera per sempre. Il trojan? Sarà uno strumento sempre più utile alle indagini”. Ministro, ha mai pensato in questi giorni che lo scandalo del Csm senza di lei non sarebbe scoppiato? “Se lei vuol dire che l’inchiesta è emersa grazie all’uso del trojan, non posso che confermare. Però non posso entrare nel merito di ciò che è stato rivelato”. Perché? “Per obblighi legati al mio ufficio. Non posso pronunciarmi sul merito del dibattito: “È stato legittimo o meno usare il trojan in quello specifico provvedimento?”. Come mai? “C’è un procedimento in corso, e io sono titolare, insieme alla Procura generale di Cassazione, dell’azione disciplinare”. Può intervenire sul senso di quanto emerge dall’inchiesta. Lo ha fatto anche Sergio Mattarella! “Certo. Lo scenario che ci si è rivelato è molto grave, noi dobbiamo dare due risposte”. Quali? “La prima è la sanzione dei comportamenti individuali censurabili emersi nel corso dell’inchiesta”. E la seconda? “È ciò a cui stiamo lavorando da molto prima che emergessero gli incontri notturni tra politici e membri togati: la riforma della magistratura e del Csm. Ossia il grande intervento che abbiamo promesso agli elettori per sbloccare la macchina della giustizia in Italia”. La riforma del Csm quando e dove prenderà corpo? “L’avevo introdotta di mio pugno, come tema, nel contratto di governo. Adesso diventa legge. Posso dirle che sarà inserita nel testo dove riformeremo sia il processo civile sia il processo penale”. Provi a spiegare in cosa la riforma del Csm può essere comprensibile ai cittadini. “Io voglio fare in modo che - al contrario di adesso - la meritocrazia diventi l’unico blindato perimetro che possa determinare la carriera di un magistrato”. Questo mi pare molto chiaro. Ma come evitare le commissioni tra politica e magistratura di cui questa inchiesta ci ha mostrato tutta la pericolosità? “La mia idea è semplice: sono convinto che vada chiusa, sbarrata, qualsiasi porta girevole tra politica e magistratura”. Come? “Innalzando un muro. Ogni magistrato può legittimamente candidarsi, perché è un diritto costituzionale. Ma deve sapere che quello è un viaggio senza ritorno”. Dimissioni obbligate. “Se ti candidi deve essere chiaro che rinunci alla toga e abbandoni definitivamente la magistratura”. Senza entrare nel merito dell’inchiesta su Luca Palamara, Luca Lotti e compagnia, perché avete voluto favorire l’utilizzazione del trojan? “Questo strumento si è rivelato - e si rivelerà - sempre più prezioso. Soprattutto nelle inchieste sulla criminalità organizzata, nella lotta alle mafie”. Perché? “Questo è un Paese che ha bisogno di verità. Il trojan è uno strumento che io considero irrinunciabile, fatti salvi gli interventi che sono necessari per salvaguardare la privacy dei cittadini coinvolti in modo indiretto. Ci stiamo lavorando”. Ministro, i giornali ci danno l’idea di una crisi imminente… “Io sono reduce da un vertice di maggioranza sulla riforma della giustizia. Posso dirle che il clima è molto positivo”. Forse anche lei se fosse al posto di Matteo Salvini, dopo il voto delle europee punterebbe ad elezioni anticipate. “Un buon leader capisce il clima. Quello che avverto io è questo: il Paese ci chiede di governare”. Il M5S sta vendendo male i suoi risultati, ad esempio il reddito? (Sorride) “Se lei ha questa impressione lo considero quasi un complimento”. In che senso? “Siamo molto impegnati nelle cose da fare. Molto preoccupati di quel che stiamo portando avanti, piuttosto di ciò che è già fatto”. È una risposta dialetticamente efficace: mi convinca che sia vero. “Potrei sequestrare mezz’ora del suo tempo per decantare le virtù dello spazza-corrotti”. E ci rinuncia? “Sì. Perché la bontà della legge emerge in ogni inchiesta di cui si legge sui giornali”. Secondo le opposizioni è un provvedimento “giustizialista”… “Ripetiamo lo stesso esercizio di prima: metta insieme tutte le notizie che riguardano vecchie e nuove Tangentopoli, episodi di corruzione e malcostume. Poi chiediamo alla gente che non pensa che sia giusto fare di tutto per reprimerli”. Lei che formazione ha avuto? “Non l’ho mai detto, credo, ma ero di centrosinistra. Ho fatto in tempo anche a votarli. Poi sono rimasto deluso”. Da cosa? “Dalla distanza dai valori che volevano rappresentare e da quello che facevano. A partire da legalità e questione morale”. Un esempio. “La delusione più grande? Sulla giustizia: il confitto di interessi. Quando il Pd è andato al governo non ha fatto la legge. Ora sulla prescrizione li vedo votare insieme a Forza Italia”. All’università ha scelto giurisprudenza. “Finisco a Firenze, quasi per caso”. In che senso? “Nel 1995 incontro una mia professoressa di filosofia del liceo, la Oliveri. La stimavo, era collega di mia madre. E lei mi dice: “Tu devi andare a Firenze!”“. Lei cosa ha fatto? “Ci sono andato!”. Si laurea. Diventa assistente universitario… “Faccio un dottorato di ricerca a Pisa. Collaboro con il mio maestro, il professor Giorgio Collura a diritto privato”. E il giovanissimo Bonafede conosce un giovane professore: Giuseppe Conte. “Fin dai primi convegni mi ha colpito per la sua disponibilità umanità. Io per lui non ero nulla, e invece era sempre curioso, attento a chiunque fosse intorno a lui”. Mi faccia un esempio… “Nulla di sorprendente: “Come va a casa? E il lavoro?”. Si preoccupava delle persone”. Lei era anche praticante avvocato, ma lui le chiese di collaborare. “Facevo esami con il mio professore e ogni tanto andavo a dargli una mano nelle sue sessioni d’esame”. Lei si ricorda di Conte quando nel 2013 dovete designare un nome nel Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa… “Esatto”. E c’è un dialogo cult! Lo ricostruisce? “Gli dico: “Professore, noi la stimiamo, vorremo lei”“. E Conte? “Ah ah ah... Fa una pausa. Mi guarda e mi dice: “Alfonso, ma tu lo sai che io non vi ho votato?”“. Aveva votato Pd. E lei? “Gli ho risposto una cosa di cui sono convinto: “A noi non ci interessa chi ha votato, ma come svolgerà l’incarico. Ci interessano i suoi valori e la sua libertà”. Sembra un dialogo scritto da uno sceneggiatore americano. “È esattamente quel che è accaduto. Lui da noi non ha ricevuto mai una telefonata. Solo dopo entra in rapporto con il gruppo parlamentare, sui temi tecnici”. L’ha suggerito come premier? “No! Lui presiede la commissione istruttoria sul giudice Francesco Bellomo. Bene. E nel 2015 conosce Luigi Di Maio”. Diventa ministro ombra del governo ombra. “Da indipendente era candidato alla Pubblica amministrazione”. E chi lo indica come premier? “Si cercava il famoso premier terzo. E il M5s fece il suo nome”. Cioè Di Maio. Tutti i pentastellati eletti nel 2013 erano passati per una sconfitta. La sua qual è? “Eh! Ero l’avversario del candidato sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Nel 2009”. E quanto ha preso? “Il 2%! Mi sembrò un trionfo. Lo era. In una Regione rossa, partendo da zero e spendendo zero”. Ma come era diventato il candidato sindaco? “Avevo fatto tutte le battaglie, a partire da quella contro l’inceneritore. Fui invitato da Michele Santoro a parlare per due minuti. Credo di essere stato efficace. Tornai a Firenze egli attivisti mi dissero: “Ti va di rappresentarci tu?”“. Quindi Conte non sarebbe premier senza la professoressa Oliveri e lei non sarebbe ministro senza Santoro? “Ah ah! Conte è premier soltanto grazie alle sue qualità, che i cittadini stanno conoscendo giorno dopo giorno. Quanto a me, mi piace pensare che me lo avrebbero chiesto lo stesso”. Lei ha avuto tanti duelli con Renzi. Ora come lo giudica? “Una persona che parlava tanto ma realizzava poco. Era in totale antitesi tra i valori che doveva rappresentare”. E Di Maio? “Luigi mi ha detto che ci eravamo conosciuti, nel 2010. Io, confesso, non me lo ricordavo. Siamo diventati amici nel 2013”. Lei è un fedelissimo “luigino”. Non le piace la linea Di Battista? “Ho maggiore sintonia con Luigi. Ma non ci sono linee. E condividiamo una amicizia forgiata nel fuoco”. In che senso? “Vada a rivedere in video dello scontro in Aula quando Laura Boldrini espulse Alessandro. Io mi alzo e le dico: “Lei non è né la mamma né la professoressa di Di Battista! “. S’è pentito di quando gridava: “Onestà!” ai colleghi del Pd? “Sono stato uno dei più duri. Mi hanno espulso almeno tre volte. Intervenivo contro perché credevo nei valori che portavamo avanti. Ho litigato con la Boldrini. E ne sono orgoglioso”. Era sicuro di diventare ministro? “No. Non ho mai chiesto un ruolo, né dato per scontato di averlo”. In un anno ha fatto abbastanza? “Il blocco degli sconti di pena, l’anticorruzione, le norme contro il voto di scambio tra politica e mafia. Lo spazza-corrotti. La class action... E stiamo approvando anche il codice rosso per tutelare le donne. Le basta?”. “Ci pensa Cosimo”. Così Ferri il puparo muoveva le sue toghe di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 24 giugno 2019 A Lecce, nella stessa inchiesta che ha già fatto scattare gli arresti per i magistrati Nardi e Savasta, ora compare anche il deputato del Pd: era considerato colui che poteva risolvere problemi e orientare nomine. Il rumore è assordante e alta è ancora la polvere. Ma se per un attimo si distoglie lo sguardo da Perugia e ci si spinge nel Salento, in quel della Procura di Lecce, si trova la conferma, ammesso ce ne fosse bisogno, che al centro della colata di fango che ha travolto il Csm e la magistratura italiana c’è e resta un toscano di quarantotto anni da Pontremoli che ne è la chiave e che si chiama Cosimo Ferri. Il Mercante in Fiera della giustizia italiana. L’architetto dell’operazione che doveva ridisegnare la geografia giudiziaria del Paese lungo la cosiddetta “TAV” delle Procure Italiane - Milano-Firenze-Roma-Napoli-Palermo - e i suoi affluenti (le Procure che hanno potere di indagine sui magistrati di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo). Un uomo tutt’ora integro nella sua capacità di ricatto politica e corporativa, come dimostra qualche recente intervista da “avviso ai naviganti”. E a cui, non a caso, da quando questa storia è cominciata, nessuno ha avuto la forza di chiedere davvero conto. Non il balbettante Pd, di cui è deputato e di cui è stato tre volte sottosegretario alla giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Non la sua corporazione, da cui si è ben guardato dal congedarsi una volta transitato nel Palazzo della Politica e che, in tre settimane, ha visto bene - nonostante il tenore delle intercettazioni che lo coinvolgono - di non interrogarsi (esattamente come il ministro di Giustizia) sulla rilevanza disciplinare (cui tutt’ora è soggetto essendo ancora magistrato sia pure in aspettativa) delle sue mosse. Eppure, appunto, come lo si tocca suona, Cosimo Ferri. Anche qui a Lecce, dove c’è un’altra inchiesta penale che sta illuminando il fondo limaccioso della magistratura italiana. E dove il suo nome - Ferri - torna a rimbalzare nell’inchiesta condotta dal Procuratore Leonardo Leone de Castris e dalla sostituta Roberta Licci, come il “puparo” delle nomine, l’aggiusta faccende delle grane disciplinari, la pantofola da baciare per progredire in carriera. A Lecce, dove hanno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, sono finiti in galera due magistrati le cui trastule, abusi e corruzioni, gli sono valsi l’accusa di associazione a delinquere. Roba da far declassare le disavventure di Luca Palamara a inciampo da educande. Per anni, in quel di Trani, Michele Nardi, gip di quell’ufficio e quindi ispettore ministeriale e pm a Roma, insieme ad Antonio Savasta, pm, hanno venduto processi e utilizzato la custodia cautelare come strumento di estorsione nei confronti dei loro indagati. Michele Nardi è in carcere. Antonio Savasta, reo confesso, è ai domiciliari. Ebbene, negli atti dell’indagine e nei verbali dell’incidente probatorio in corso in queste settimane, la catastrofe dei due magistrati sta investendo altri giudici. Dalla Cassazione ai tribunali ordinari. Ma, soprattutto, nell’informativa finale dell’indagine consegnata dai Carabinieri alla Procura di Lecce torna a fare capolino il nostro uomo. Cosimo. Cosimo Ferri. “Nardi - annotano i carabinieri nelle 592 pagine dell’informativa - dispone di una fitta rete di conoscenze influenti nell’ambito dei più disparati ambiti professionali e della pubblica amministrazione. Conoscenze, utili e referenziate, a cui si propone direttamente mettendo a disposizione la sua collaborazione per qualsiasi evenienza e da cui, evidentemente, riceve come contropartita, notizie e appoggi”. Nardi, per dire, ha rapporti diretti con i vertici della Massoneria attraverso i quali prova a indirizzare un processo che lo riguarda a Catanzaro. Ma soprattutto - documentano i carabinieri - trova una sponda preferenziale nel “nostro Cosimo”, come affettuosamente lo chiama la compagna di Nardi al telefono, suggerendogli di rivolgersi a lui per uno dei suoi guai al Csm. “Il nostro Cosimo”. Cosimo Ferri, appunto, con il quale Nardi, si legge ancora nell’informativa, “ha rapporti confidenziali, così come con alcuni esponenti del Csm e con alti funzionari del Ministero di Giustizia”. “Dovremmo interessare Cosimo”, dice ad esempio Nardi al giudice Antonio De Luce (rimasto estraneo a contestazioni penali nell’inchiesta) che a lui si era rivolto per avere un aiuto nella nomina a Presidente del Tribunale di Trani, cosa che per altro effettivamente otterrà. E soprattutto a Nardi si rivolge il compagno di merende Antonio Savasta per aggiustare i suoi guai disciplinari al Consiglio Superiore. Gli stessi per i quali sarà poi arrestato. “Sapevo che Nardi aveva ottime entrature al Csm”, ha raccontato Savasta nel corso dell’incidente probatorio. E che questo - ha aggiunto - gli consentiva di aveva notizie dirette e riservate da Palazzo dei Marescialli. Una circostanza confermata del resto dalle intercettazioni telefoniche condotte per mesi sui due magistrati e che i carabinieri così riassumono: “Nardi dice a Savasta di aver saputo che il Consiglio Superiore della Magistratura è male intenzionato nei suoi confronti e che ha intenzione di fare una pulizia radicale a Trani. Per questo, gli consiglia di trasferirsi immediatamente a Roma”. Del resto, che Nardi sia un investimento degno di questo nome per Savasta è nell’esito del suo procedimento disciplinare in Consiglio. Viene assolto dalla commissione in cui in quel momento siede anche Luca Palamara. E per gli stessi fatti per cui sarà successivamente arrestato, reo confesso, a Lecce. Non solo. Riuscirà a sottrarsi a un ulteriore procedimento per incompatibilità in Consiglio con un trasferimento a Roma deciso dalla Prima commissione di Palazzo dei Marescialli e grazie all’appoggio decisivo della corrente “Magistratura Indipendente”, quella di cui “l’amico Cosimo” era stato a lungo segretario. Cosimo qui, Cosimo lì. Ferri sembra essere ovunque. E di nulla è chiamato politicamente a rendere conto. Neppure dei suoi rapporti con un’associazione a delinquere in toga per giunta reo confessa. Per la cronaca, è al quarto giro. Già finito nelle inchieste di Calciopoli, della P3, nelle intercettazioni del Trani-gate (insieme a un “gruppo di amici giuristi” doveva mettere insieme gli argomenti giuridici per chiudere “Annozero”) è il campione di una classe dirigente evidentemente costruita sul ricatto politico. Ma chi lo ricorda - come ebbe a dire qualche anno fa “il nostro Cosimo” a Panorama - “sono dei maniaci”. Generazione antimafia, la comunità morale cresce con la memoria di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2019 Lo so, dei temi della maturità ho già scritto. Ma c’è una piccola perla di cronaca che vorrei offrire in più ai lettori del Fatto. E riguarda una speciale combriccola di candidati, fatta di tre ragazzi che hanno tra loro un legame affettivo particolare. Sono uno studente, Nicola Hasan, e due studentesse, Francesca Fiore e Valentina Corrao. Cognomi e città diverse. Il primo si è presentato al liceo scientifico “Fardella” di Trapani. Le ragazze, invece, rispettivamente al liceo scientifico internazionale “Capponi-Machiavelli di Firenze” e al liceo classico “Don Bosco-Ranchibile” di Palermo. Che cosa li lega, dunque? Una parentela impegnativa: sono tutti e tre nipoti di Paolo Borsellino. Tutti e tre appartenenti a quella grande nidiata di giovanissimi allevata nel nome del giudice, discendenti di Rita o di Adele, le sorelle. Quando mercoledì scorso ho ricevuto da Chiara Corrao, la nipote maggiore di Rita, il messaggio che “tutti i maturandi della famiglia Borsellino hanno fatto il tema sul tuo papà” ho riavvertito d’improvviso la forza dei fili magici che si sono formati nel tempo a costituire una grande comunità morale che attraversa le generazioni. Una comunità senza vincoli di sangue, salvo quello versato da centinaia e centinaia di persone in nome della democrazia italiana. E allora ho voluto sapere. E ho chiesto. Nicola ha intitolato il suo tema “La memoria che cambia il mondo”, Francesca “Antimafia: una memoria operante”, Valentina “Un passato presente”. Tutti e tre hanno messo al centro la memoria e il suo rapporto con la contemporaneità, la sua forza propulsiva per costruire un mondo più giusto. E questo nella società senza memoria, in cui i nomi trionfano e scompaiono, in cui si dissolvono i disastri dell’uomo e le sue sofferenze, in cui si è incapaci di trarre lezioni dal passato, come guerre, genocidi e dittature insegnano, non è banale affatto. È anzi il contrario di quel conformismo che Ernesto Galli della Loggia ha evocato a proposito delle tracce di italiano sul Corriere. I ragazzi non dovevano parlar bene dei protagonisti dei temi civili assegnati loro, ma trarre dalle loro storie insegnamenti per il presente. Spiega Nicola, per esempio, che “il solo ricordo non basta per portare avanti la loro battaglia, occorre una memoria che ci porti a far nostre le loro idee. Si faccia memoria, dunque: se ne parli in famiglia, la si insegni nelle scuole”, ovvero si costruisca esattamente quel “sapere” che Galli della Loggia giustamente reclama per le scuole, anche se su certi temi, chissà perché, il sapere è poi sempre un minus, perdita di tempo, divagazione un po’ cialtrona. E proprio l’importanza del sapere è stata sottolineata da Francesca, che perciò ha scelto di iniziare il suo tema con una breve storia della mafia. Per poi spiegare che i caduti per la democrazia non devono essere acriticamente considerati degli “eroi”, ma che occorre piuttosto interrogarsi sui loro valori e sui nostri doveri; tra cui quello, richiamato anche da Nicola, di fare “camminare le loro idee sulle nostre gambe”, secondo la celebre frase di Falcone. Nel tema di Francesca si trovano peraltro diversi passaggi sui problemi più acuti dell’oggi. Il suo essere siciliana anti-mafiosa in Toscana, ad esempio, con l’obbligo di contrastare i pregiudizi sui siciliani “mafiosi” quasi per definizione. E la domanda urgente, urgentissima, se “davvero si può scherzare su tutto?”. Valentina, invece, ha chiamato in causa la virtus stoica di Seneca e Lucano, l’apatheia da intendersi come controllo della paura, in un tentativo di leggere il generale dalla Chiesa alla luce della letteratura e della filosofia latina e greca. È tutto questo al di fuori della sfera del “sapere”? È pura ideologia? Di più: la cultura classica si mescola nel suo tema con il riferimento alle proprie letture sulla vita del generale (anche questo è un sapere...) e al tenero passaggio sulla nonna Rita (di cui non ha scritto di essere parente), ovvero la guida di cui sentirebbe ancora il bisogno, collegamento ideale - nella sua esperienza - tra il passato e il presente. Ecco, questo hanno scritto i nipoti di Borsellino, di questo hanno scelto di parlare all’insaputa l’uno dell’altra. Non per conformismo, ma anzi finalmente liberi dal conformismo di una scuola che di queste cose (vitali per loro tre, ma anche per un pezzo di nazione) non parla su ilibri di storia. P.S: A Milano, ho poi saputo, il tema sul generale è stato svolto, tra gli altri, anche da un ragazzo di nome Stefano Mattacchini. Curiosità: è il nipote di Giorgio Ambrosoli. Scioglimenti per mafia, ai Commissari servono più strumenti di Michele Di Bari* Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2019 Ai Prefetti della Repubblica non spetta interpretare, ma applicare le norme anche quando i loro effetti provocano diffuse critiche. Non potrebbe essere altrimenti poiché se non fosse così ci si troverebbe di fronte ad altrettante diffuse illegalità. Allora è necessario chiedersi se oggi gli istituti sui quali poggiano essenzialmente le leve di prevenzione antimafia, affidate ai prefetti, come le proposte di scioglimento dei consigli comunali e le interdittive, vadano modificati Non sono mancati disegni o proposte di legge in Parlamento. Anche recenti decisioni del Tar Lazio di annullamento dei provvedimenti di scioglimento di alcuni consigli comunali hanno innescato diverse prese di posizione che per certi versi possono rivelarsi proficue al dibattito. Occorre partire dalla complessità del procedimento di scioglimento del consiglio comunale, fondato su accertamenti progressivi che passano attraverso dettagliate notizie delle forze di polizia, dalle risultanze dell’accesso agli atti del Comune, dallo scrutinio in seno al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, a cui partecipa anche il Procuratore della Repubblica, fino ad arrivare, ove proposto dal prefetto, all’approvazione in consiglio dei ministri del provvedimento di scioglimento, adottato con Dpr. È evidente che l’articolato e rigido sistema di cautele, posto a presidio del consiglio comunale, ne consolida lo spirito democratico dell’istituzione. D’altra parte è anche vero che il rigore del procedimento e delle sue fasi ben circoscritte non impedisce che nell’immediatezza, in presenza di una conclamata situazione, fatti salvi i presupposti di legge, possa essere proposto lo scioglimento del consiglio comunale con maggiore celerità, senza la nomina della commissione di accesso agli atti del Comune. Ma anche la mancanza di concreti e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità di tipo mafioso rende agevole la proposta di archiviazione del procedimento. Un istituto che conserva una sua imprescindibile attualità sul quale, come detto, i provvedimenti di annullamento hanno nuovamente aperto il dibattito. E ciò purtroppo avviene ciclicamente quando uno scioglimento di un consiglio comunale desta clamore, oppure ci si ritrova dinanzi a una sentenza di annullamento. Su quest’ultimo punto, a dire il vero, la percentuale di provvedimenti di accoglimento dei relativi ricorsi è bassissima in primo grado, per poi quasi scomparire in appello. Quindi, si tratta di un istituto che a legislazione vigente conservale caratteristiche di una legge ben strutturata, di un robusto presidio di legalità in territori martoriati e vulnerabili dove lo Stato con pervicacia intende esserci. Ed oggi che le infiltrazioni mafiose nei gangli dell’amministrazione comunale assumono sempre più il volto raffinato della forza calma, delle intese che si perfezionano non più nei boschi, ma nei comodi studi professionali, non si può abbassare la guardia. Certamente è una sfida che esige rigore e lungimiranza, ma non per questo bisogna rassegnarsi. L’esperienza maturata, soprattutto negli ultimi anni, può guidare un processo di cambiamento. Si immagini che spesso i commissari già all’atto di insediamento sono nell’impossibilità di adottare anche i provvedimenti di ordinaria amministrazione, rendendosi conseguentemente necessario ipotizzare un nuovo assetto capace di consentire ai commissari di poter svolgere la loro attività a tempo pieno, con maggiori possibilità di incidere su posizioni giuridiche e economiche del personale comunale. Nelle materie dei lavori pubblici, dell’urbanistica e della contabilità si avverte il bisogno che i commissari possano svolgere la loro azione con speditezza ed efficacia. C’è la necessità cioè di provocare una cesura rispetto all’attività dell’amministrazione sciolta per conferire una più incisiva credibilità e autorevolezza all’istituto di cui all’articolo 143 del Tuel. *Capo del Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno Il ricorso per Cassazione dev’essere autosufficiente di Francesco Rubera Italia Oggi, 24 giugno 2019 Il ricorso per Cassazione deve porre il giudice di legittimità nelle condizioni di comprendere il significato delle censure rivolte ai motivi della sentenza impugnata. Pertanto, deve contenere l’iter processuale da cui origina la sentenza impugnata della quale si chiede una valutazione giuridica differente. È quanto ribadito dalla sezione V della Cassazione con sent. 13618/2019, depositata il 21/5/2019. Nella fattispecie, il contribuente ricorreva per la Cassazione della sentenza della Ctr di Palermo, contestando ben 7 motivi. La Cassazione rigettava le questioni di legittimità per infondatezza, avuto riguardo ai capi nn. 2, 4 e 6 della sentenza, mentre dichiarava inammissibili gli altri motivi per difetto di autosufficienza. E invero, nel processo tributario, secondo l’art. 62 del dlgs 546/92, al ricorso per Cassazione si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto. Il contribuente che non ha trascritto la parte integrale della sentenza impugnata è incorso in inammissibilità per difetto di autosufficienza (punti 1; 3; 5; 7). Riguardo al punto 1, come più volte ribadito dalla Suprema corte (ex multis: sent. 5185 del 2017) “in tema di ricorso per Cassazione, ove sia denunciato il vizio di una relata di notifica, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale del motivo che, se omesso, determina l’inammissibilità”. Quanto punto 3, non è stata evidenziata la trattazione delle contestazioni che riguardano l’interpretazione e l’applicazione delle norme di diritto e la ricostruzione del fatto di causa. Riguardo al motivo n. 5, la Corte di cassazione ha ribadito che l’esame delle censure riguardanti il vizio di motivazione dell’atto amministrativo deve riportare “testualmente” il contenuto che richiama asseritamente viziato, secondo la motivazione del giudice di merito. Anche per la censura riportata nel settimo motivo è stato confermato il vizio di autosufficienza. In conclusione, è onere del ricorrente operare una sintesi funzionale alla piena comprensione delle censure mosse alla sentenza impugnata, al fine di consentire un esatto parametro di valutazione chiaro legato alla riproduzione dell’intero contenuto degli atti processuali di cui si verte in merito alla motivazione della sentenza impugnata. Stupefacenti: non c’è concorso del convivente se è solo consapevole della detenzione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 2 maggio 2019 n. 18015. In ordine al reato di detenzione di sostanze stupefacenti rinvenute in un immobile nella proprietà o nel possesso in comune con chi è chiaramente dedito al traffico di stupefacenti, per poter affermare il concorso del comproprietario/codetentore è necessario distinguere da tale ipotesi quella della connivenza non punibile, e, a tal fine, occorre individuare il limite che il godimento comune dell’immobile comporta rispetto al concorso nella detenzione della droga, non essendo configurabile a carico del comproprietario o codetentore alcun obbligo giuridico di impedire l’evento ex articolo 40 del Cp. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 18015/2019. In proposito, ha argomentato la Cassazione, è da escludere il concorso, dovendosi ritenere la connivenza non punibile, in ipotesi di semplice comportamento negativo e inerte di colui che si limiti ad assistere passivamente alla perpetrazione del reato e non ne impedisca od ostacoli in vario modo la esecuzione, giacché il solo comportamento omissivo di mancata opposizione alla detenzione in casa di droga da parte di altri non costituisce segno univoco di partecipazione morale. Per converso, per la configurazione del concorso, occorre un quid pluris rispetto alla mera consapevolezza della detenzione delle sostanze stupefacenti da parte del convivente e, dunque, una volontà di adesione all’altrui attività criminosa, a integrare la quale è sufficiente una qualsiasi forma agevolativa della detenzione, che può manifestarsi nelle modalità più varie, comprendenti anche soltanto l’occultamento e il controllo della droga custodita nell’immobile comune, così da assicurare all’agente una certa sicurezza, ovvero garantendogli, anche implicitamente, una collaborazione su cui questi, in caso di bisogno, può contare, e comunque rivelatrice di un previo accordo sulla detenzione. Da queste premesse, nella specie, è stata annullata la condanna a carico dell’imputato cui era stato contestato il concorso con il fratello nella detenzione di n. 102 piante di marijuana rinvenute, appese a essiccare, all’interno di un box, ubicato nell’area di proprietà della famiglia dove insisteva un’azienda agricola, un’officina meccanica, nonché le abitazioni di entrambi: secondo la Corte, la mera ubicazione della droga nel box all’interno della azienda agricola di proprietà comune non consentiva di riferire la detenzione anche al ricorrente, in assenza di altri elementi idonei provare l’esservi stato un efficiente contributo causale alla condotta criminosa del fratello. Il principio affermato dalla Cassazione è consolidato nel senso che, appunto, in tema di detenzione illecita di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso di persone nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, nel concorso di persone è richiesto un contributo che può manifestarsi anche in forme che agevolino la detenzione, l’occultamento e il controllo della droga, assicurando all’altro concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare (tra le tante, sezione III, 4 aprile 2013, Bruccoleri, che, nella specie, ha ritenuto corretta e congruamente motivata la sentenza che aveva ravvisato il concorso di persone nella condotta dell’imputato, che risultava avere partecipato al viaggio, a bordo di un’autovettura, finalizzato all’acquisto della sostanza illecita, pur materialmente detenuta da altra correa, minorenne). “Continuazione” tra reati giudicati con il rito ordinario e con quello abbreviato Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2019 Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Reato continuato - Determinazione della pena - Applicazione della riduzione di pena - Modalità. Ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio del reato continuato allorquando, nella fase dell’esecuzione, tra i reati unificati ex articolo 81, comma 2, codice procedura penale ve ne siano alcuni giudicati con il rito abbreviato, la riduzione di pena a norma dell’articolo 442, comma 2, Cpp, deve precedere e non seguire la somma degli addendi della sanzione finale da irrogare per il reato continuato. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 giugno 2019 n. 26314. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Decisione - Riconoscimento della continuazione con reati giudicati in precedenza con rito ordinario - Aumento della pena ai sensi dell’articolo 81 cpv codice penale - Applicazione della diminuzione prevista dall’articolo 442 codice procedura penale per i reati cd. “satellite” anche ai reati giudicati con rito ordinario - Esclusione. L’applicazione della continuazione tra reati giudicati con il rito ordinario e altri giudicati con il rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi - siano essi reati cd. satellite ovvero reati che integrino la violazione più grave - deve essere applicata la riduzione di un terzo della pena, a norma dell’articolo 442, comma secondo, codice procedura penale. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 26 luglio 2018 n. 35852. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Decisione - Continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e reati giudicati con rito abbreviato - Riduzione di pena ex articolo 442 codice procedura penale - Applicazione sulla pena finale determinata dopo l’aumento ex articolo 81 codice penale - Condizioni. Nell’ipotesi in cui venga riconosciuta nel giudizio abbreviato la continuazione tra più reati, oggetto, alcuni, di condanna nel detto giudizio abbreviato e, altri, di condanna all’esito di giudizio ordinario, la riduzione ex articolo 442 codice procedura penale va applicata - qualora il reato più grave sia stato giudicato con il rito speciale - sulla pena finale determinata dopo l’aumento disposto per i reati satellite, anche se definiti con il rito ordinario; qualora invece il giudice procedente individui, quale reato più grave, quello giudicato con rito ordinario, la riduzione di pena dovrà essere disposta per i soli reati satellite giudicati con rito abbreviato. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 marzo 2017 n. 12592. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e reati giudicati con rito abbreviato - Aumento ex articolo 81 codice penale per quelli giudicati con rito ordinario - Riduzione di un terzo ex articolo 442 codice procedura penale - Operatività - Esclusione - Anche in caso di pena complessiva “temperata” ex articolo 78 codice penale. Riconosciuta, in fase di cognizione o di esecuzione, la continuazione tra più reati, oggetto, alcuni, di condanna all’esito di giudizio abbreviato e, altri, di condanna all’esito di giudizio ordinario, la riduzione ex articolo 442 codice procedura penale va applicata solo sulla pena determinata per i reati giudicati con rito abbreviato, anche nel caso in cui il reato più grave sia stato giudicato con il rito speciale e il cumulo di pene inflitte nei diversi procedimenti superi gli anni trenta di reclusione, e, quindi, risulti un’unica pena “temperata” ai sensi dell’articolo 78 codice penale, atteso che la diminuente di un terzo non può operare per i reati definiti con giudizio ordinario. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 13 novembre 2014 n. 47073. Napoli: da Poggioreale a Cavalleggeri, dietro le sbarre di Mariaconsiglia Flavia Fedele mardeisargassi.it, 24 giugno 2019 “Odio gli indifferenti”, affermava Antonio Gramsci. Per questo non possiamo più tacere. Da giorni, nelle carceri italiane e, in particolare, nel penitenziario di Poggioreale, nel cuore di Napoli, si sta consumando un’importante rivolta. I detenuti, infatti, come spesso accade con l’aumento delle temperature e del conseguente degrado dei luoghi di detenzione, chiedono maggiori diritti, condizioni migliori che consentano loro di preservare lo status di esseri umani. Chiedono, su tutto, l’accesso all’acqua. Molte delle strutture della Penisola, infatti, presentano tubature logorate dal tempo, dall’usura, da una manutenzione scarsa e inefficiente. Condutture incapaci, quindi, di garantire il giusto rifornimento a tutti gli ospiti - il più delle volte ben sopra il numero consentito - e a ciascun piano degli edifici in questione. Per tale motivo, in molti di essi si mettono in atto delle soluzioni alternative quali il limitare le forniture nelle ore notturne. Segnalazioni arrivano, come denuncia anche il Garante dei Detenuti della Campania Samuele Ciambriello, oltre che da Napoli, da Ariano Irpino, Salerno, Bellizzi Irpino e da Santa Maria Capua Vetere, penitenziario noto per essere stato inaugurato senza acqua potabile e per il quale nel 2015 - dunque quattro anni fa - la Regione Campania ha stanziato circa 2 milioni di euro per intraprendere i lavori di costruzione della condotta. Lavori attualmente non avviati perché, segnala l’Associazione Antigone, ancora non è stata indetta la gara d’appalto europea. Per un’altra estate, dunque, circa 1000 persone dovranno continuare ad arrangiarsi con un pozzo semi-artesiano munito di impianto di potabilizzazione. Come se non bastasse, il carcere del casertano dista appena 600 metri dallo Stabilimento di Tritovagliatura e Imballaggio Rifiuti, lo Stir, che con il caldo produce un olezzo talvolta insopportabile per i reclusi. Ma esempi di degrado simile, di acqua dilazionata o assente, non mancano in altre zone di Italia, come in Sicilia, nel carcere Petrusa di Agrigento. Per ovvi motivi, allora, tra le principali conseguenze dello scarso accesso al bene primario per eccellenza, il disagio maggiore si ha in termini di igiene, quindi di salute. Proprio come sta succedendo nel penitenziario partenopeo dove, dopo un malore che ha visto protagonista un giovane prigioniero, sono montate numerose proteste, in particolare nel padiglione Salerno, a opera di circa 200 detenuti comuni. I reclusi, infatti, spaventati dalla possibilità di un’epidemia - per fortuna scongiurata -, intendono denunciare le condizioni inumane in cui sono costretti a sopravvivere e a reclamare il loro diritto a uno sconto di pena nient’affatto degradante. A tal proposito, l’articolo 27 della Costituzione italiana si esprime in modo chiaro e deciso: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma se il condannato è costretto a sovraffollamento, carenza di personale penitenziario e medico, abiezione, degrado, miseria e promiscuità, si può concretamente auspicarne la riabilitazione? Allo stato attuale sembra piuttosto difficile. Il centro di detenzione di Poggioreale ospita circa 2400 persone, vale a dire 800 in più della sua capienza massima, per un totale di dieci padiglioni, di cui, al momento, due non agibili e uno per metà. I detenuti, quindi, sono costretti a vivere come bestie, ammassati gli uni agli altri tra pareti persino a rischio crollo, segnate dal tempo e dalla muffa. Come denuncia Ciambriello, però, per le aree Livorno, Salerno, Milano e Napoli il Ministero delle Infrastrutture ha stanziato circa 12 milioni di euro, fermi al Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche, impegnato nei sopralluoghi, con il rischio che i lavori vedano il via fra circa due anni, un tempo infinito per chi tra le mura della casa circondariale è costretto a trascorrere ancora molti giorni: “Chiedo ufficialmente il commissariamento, la nomina di un commissario ad acta per questi lavori con l’obiettivo di coniugare efficacia ed efficienza”, ha dichiarato il Garante dei Detenuti. Quella dello scorso 16 giugno, infatti, rischia di non essere una semplice protesta, bensì la miccia di una contestazione - stavolta finita senza gravi danni o feriti - che potrebbe perdurare o riaccendersi alla prossima occasione, mettendo in pericolo non solo i detenuti, ma anche gli agenti, in numero sempre ridotto rispetto al necessario: “Il sotto organico degli agenti, il cui lavoro è encomiabile, è il vero problema: di 4000 impiegati in Campania, 800 al giorno di media non lavorano per varie motivazioni, fra cui la principale è il logorio psicofisico professionale, per cui chi rimane fa dei turni massacranti. Stando ai dati, ci sono circa 12mila persone che devono fare il loro ingresso in carcere. Sono necessari, quindi, più agenti, più educatori, più assistenti sociali. Alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà, non alla dignità”. L’universo carcerario resta, comunque, un buco nero nell’informazione e nella legge italiana, entrambe grandi assenti quando si tratta di diritti, in questo caso di chi ha commesso un reato, per l’opinione pubblica un reietto mantenuto dallo Stato che gli garantisce vitto e alloggio. In fondo, se ci si limita a leggere quelle che dovrebbero essere le condizioni di vita galeotta secondo regolamento, il quadro che ne viene fuori è alquanto accettabile, con la dignità umana mai messa in discussione. Quando si oltrepassano le sbarre, invece, le porte dell’inferno si spalancano al nuovo inquilino con l’articolo 3 della Convenzione dei Diritti Umani - che proibisce la tortura e il trattamento o la pena disumani o degradanti, uno dei traguardi più importanti delle società moderne - del tutto depennato. Violazione che ha portato, anche recentemente, alla condanna da parte della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia, rea non solo di non garantire condizioni imprescindibili al recluso, ma anche di non impegnarsi in alcun modo alla sua riabilitazione, specie nei casi di ergastolo ostativo, dunque senza possibilità di condizionale. Un problema che, tuttavia, non riguarda soltanto le situazioni più gravi. Nel nostro Paese, infatti, in nome di una sicurezza del cittadino mai garantita ma sempre sbandierata e in barba a una Costituzione che parla di pene, in contrasto a un qualsiasi reato l’unica condanna si rivela la detenzione. Pensare a un processo di decarcerizzazione al fine di individuare un luogo e una modalità diversa di sconto della colpa, invece, sarebbe una prima importante soluzione, un tentativo di rispondere a esigenze e, soprattutto, a dignità di ogni singolo individuo coinvolto. Un concetto che, tuttavia, si rivela del tutto estraneo al legislatore italiano. A tal proposito, è di appena pochi giorni la notizia di un accordo interministeriale che consentirà al governo di costruire una casa circondariale negli spazi dell’ex Caserma Cesare Battisti di Cavalleggeri, quartiere periferico di Napoli, già storicamente bistrattato e complesso, trovandosi alle spalle dell’area un tempo occupata dall’Italsider e dall’Eternit, con conseguenti danni alla popolazione, vittima di amianto e abbandono. “Ci opporremo a questa scelta non condivisa. Realizzare una qualsiasi opera (a maggior ragione quando impattante) senza ascoltare le esigenze delle comunità mostra quanto sia profondo il solco tra governo e cittadini”, ha tuonato Diego Civitillo, Presidente della X Municipalità partenopea. Il protocollo è stato firmato il 13 giugno presso Palazzo Salerno, in Piazza del Plebiscito, dai Ministri Bonafede e Trenta, rispettivamente a capo della Giustizia e della Difesa, al fine di individuare aree militari inutilizzate dove possano essere realizzati nuovi penitenziari in modo da scongiurare il sovraffollamento: “Abbiamo ereditato una situazione carceraria drammatica. Invece di fare indulti e leggi svuota-carceri che non servono a nulla, abbiamo deciso di investire risorse nell’edilizia penitenziaria”, ha dichiarato Bonafede, chiarendo senza indugi la posizione in tema dell’attuale esecutivo, confermatosi distante dalla realtà e dalla Costituzione. Nello specifico, la struttura di Cavalleggeri verrà destinata a madri detenute o a minori, supportando così gli istituti di Pozzuoli e Nisida. L’accordo, ovviamente, soddisfa i firmatari i quali, massimizzando il risultato grazie a questa reciproca collaborazione, diminuiranno spesa e tempi di risoluzione dei rispettivi problemi, ma condannano la gente comune, come sempre inascoltata dalla politica. Ancora una volta, infatti, a non essere interpellati, sono stati i cittadini, in particolare quelli dell’area circostante che vedranno mutare il volto di un quartiere già lento nella sua proiezione nel futuro e debole in termini di offerta proposta a chi lo abita, con il rischio di ulteriore abbandono di una periferia che potrebbe farsi ancora più periferica. Così come potrebbe succedere altrove, considerando che le prossime costruzioni saranno quattro e altrettante le ulteriori sedi individuate. L’ex Caserma Cesare Battisti, inoltre, avrebbe potuto rappresentare un importante polmone verde per la zona, una vasta area in balia di se stessa da più di dieci anni che nessuno ha pensato di riqualificare e mettere a disposizione della cittadinanza. Soprattutto in una comunità come quella partenopea in cui i minori non hanno alcun luogo di aggregazione o socialità, parchi in cui giocare, trascorrere i propri pomeriggi e combattere la noia, spesso miglior alleata della micro e della macro criminalità. Al tempo stesso, avrebbe potuto farsi casa di donne costrette a rifugiarsi altrove per la propria sicurezza, per non rischiare di soccombere all’ennesimo marito violento o stupratore di turno. E, invece, tanto per cambiare, alle gabbie interiori che già affliggono le categorie più deboli, si sceglie di costruirne delle altre, come a tenerle sempre più lontane da un mondo che le rifiuta e nel quale sono inadatte ad ambientarsi senza alcun tipo di supporto. Odio gli indifferenti, affermava Antonio Gramsci. Per questo non possiamo più tacere. Per questo, dobbiamo smettere di pensare che soprusi, violenze, violazioni, diritti negati riguardino solo i delinquenti. Per questo, dobbiamo smettere di gioirne. Perché non siamo semplici esseri viventi, siamo esseri umani. Fuori e, ancor più, dietro le sbarre. Santa Maria Capua Vetere (Ce): stage di Diritto penitenziario alla Vanvitelli casertasette.com, 24 giugno 2019 Attestati, riconoscimenti, targhe ricordo e tanti apprezzamenti ed applausi nella gremita aula Franciosi, del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” a Santa Maria Capua Vetere, per la cerimonia di consegna - lo scorso 20 giugno - degli attestati di partecipazione agli studenti e corsisti dello stage di Diritto penitenziario e Giurisdizione di Sorveglianza alla presenza del Prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto. Presenti, il Direttore del dipartimento prof. Lorenzo Chieffi, il come Garante dei detenuti, prof. Samuele Ciambriello e gli ideatori del corso: il prof. Mariano Menna, titolare dello stage di diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza e la dottoressa Mena Minafra, referente del progetto “C’è tempo” svoltosi nell’ambito dello Stage. Una sala gremita di studenti e corsisti dove si sono riproposti temi legati alla vita carceraria, trattati durante lo stage conclusosi con la consegna di attestati ma anche di targhe e riconoscimenti. Presenti molti addetti ai lavori e alcuni protagonisti che hanno raccontato le loro storie durante gli stage, come l’ex detenuto e attore Cosimo Rega (con un contributo in video), Filomena Lamberti (la donna che fu aggredita con dell’acido), Marisa Diana, la sorella del prete anticamorra don Peppe Diana e tanti operatori che lavorano nelle carceri campane, educatori, agenti e il Giudice di Sorveglianza Marco Puglia, destinatario anch’egli di una targa. Applauditi in particolar modo il professor Mariano Menna e la dottoressa Mena Minafra per l’iniziativa che ha dato modo agli studenti di toccare con mano una realtà come quella carceraria spesso lontana dall’opinione pubblica. Durante l’evento dal titolo “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione”, il sindaco di Santa Maria Capua Vetere, Antonio Mirra, ha annunciato - come riferisce oggi il Mattino - anche la prossima gara per l’allacciamento della rete idrica della città al carcere. “La procedura per la realizzazione della rete idrica per il carcere di Santa Maria Capua Vetere è in dirittura di arrivo e la gara sarà bandita a breve. Purtroppo, ci sono stati dei passaggi burocratici da rispettare, come lo step della conferenza dei servizi ed altro ma, anche con lo sforzo del poco personale dell’ufficio tecnico, entro breve riusciremo a pubblicare il bando per consentire la partecipazione delle imprese interessate”. Come nella lezione del 10 maggio scorso, il Prefetto Raffaele Ruberto e tutti i partecipanti alla manifestazione hanno rivolto un caloroso applauso alla polizia penitenziaria che ogni giorno svolge il proprio lavoro con rigore e fatica: in particolar modo è stato rivolto un ringraziamento particolare al dottor Gaetano Diglio, comandante del carcere di Poggioreale per le vicende note degli ultimi giorni (di pochi giorni fa una protesta dei detenuti). Presenti anche il dottore Michele Lastella vicario del Prefetto di Caserta, il comandante del carcere di Secondigliano, Antimo Cicala e la dottoressa Antonella De Simone del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Presenti 120 studenti e alcuni detenuti dei penitenziari di Santa Maria e Pozzuoli. Il musicista Marco Zurzolo ha inviato un messaggio ai ragazzi così come ha fatto il fotografo Giovanni Izzo. La dottoressa Mena Minafra ha ringraziato pubblicamente tutti gli artisti che hanno contribuito alla realizzazione del la parte culturale ed artistica dello Stage, citando tutti i nomi: i Musicisti Marco Zurzolo, Marco De Tilla, Davide Davide Costagliola e Carlo Fimiani e Alessandro Tedesco; gli Attori: Pietro Bontempo, Corrado Taranto, Andreina Raucci e Cosimo Rega. Inoltre, un particolare ringraziamento è stato rivolto al Fotoreporter Giovanni Izzo “perché le sue non sono fotografie ma dipinti parlanti” e Paola Mattucci presidente dell’Associazione Mitreo Film Festival. Trieste: “Verità per Regeni”, Il Piccolo contro la scelta di rimuovere lo striscione La Stampa, 24 giugno 2019 La vicenda del cartello tolto dalla finestra del palazzo del Consiglio Regionale scatena la polemica. Il direttore del quotidiano triestino prende posizione a tutta pagina. Il caso Regeni fa ancora una volta discutere. Il quotidiano triestino Il Piccolo prende posizione a tutta pagina contro la decisione del governatore della regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, di far rimuovere da una delle finestre del palazzo del Consiglio Regionale di Trieste lo striscione dedicato al giovane ricercatore italiano torturato e ucciso in Egitto all’inizio del 2016. “Verità per Giulio Regeni”, si legge in prima pagina. Accanto, l’intervento del direttore: “Sul balcone di casa propria ognuno mette ciò che vuole - commenta Enrico Grazioli - sul balcone del Palazzo della Regione a Trieste fino a pochi giorni fa uno striscione ricordava e testimoniava il bisogno di verità intorno all’assassinio di Giulio Regeni. Ma è stato tolto, definitivamente nascosto, con la solerzia dei maggiordomi che oggi, nel dizionario della politica, viene nobilitata con il termine pragmatismo”. Malgrado la disposizione di Fedriga, “il cartello resterà esposto sulle finestre degli uffici del Gruppo Movimento 5 Stelle nella sede della Regione”, avevano comunque già annunciato i consiglieri regionali 5 Stelle del Fvg. Per i pentastellati Ilaria Dal Zovo, Mauro Capozzella, Cristian Sergo e Andrea Ussai il loro “è un gesto simbolico, per ribadire la vicinanza alla famiglia ed esprimere il sentimento di una comunità che non vuole smettere di credere alla ricerca della verità. La scelta del presidente Fedriga rappresenta un cattivo segnale, tanto più se la decisione non è stata condivisa con la famiglia di Giulio” hanno commentato. Il governatore ha motivato la propria scelta parlando in qualche modo di possibili “strumentalizzazioni” della tragedia. “Malgrado non condivida la politica degli striscioni e dei braccialetti - ha infatti detto il presidente leghista - non ho fatto rimuovere lo striscione per più di un anno per non portare nell’agone politico la morte di un ragazzo. Evidentemente questa sensibilità non appartiene a tutti e ad ogni occasione non si perde tempo per alimentare polemiche”, aveva scritto su Facebook. Il presidente della camera Roberto Fico, il quale ha in programma di occuparsi proprio del caso Regeni nel corso della due giorni della delegazione della commissione Affari esteri e comunitari di Montecitorio a Berlino, non ha voluto commentare la scelta del governatore Fedriga. Gli danno invece man forte Vannia Gava, coordinatore della Lega Fvg, che sottolinea il sostegno alla costituzione della commissione d’inchiesta in Parlamento: “Assurdo si usi la morte di un ragazzo come pretesto per legittimare la propria opposizione in Regione. Il vero schiaffo alla verità è quello di chi usa il caso Regeni per fare polemica”. E il deputato Massimiliano Panizzut: “Le strumentalizzazioni da parte del Pd dimostrano quanto basso sia il profilo di alcuni esponenti politici”. Durissimi invece i commenti di Letta e Boldrini. L’ex premier dem ha definito “vergognosa” la decisione di Fedriga, mentre l’ex presidente della Camera scrive su Twitter: “L’Egitto continua a sabotare le indagini su sequestro, la tortura e l’omicidio di Regeni. E la Lega che fa? Anziché ritirare l’ambasciatore italiano a Il Cairo ritira lo striscione dal balcone della Regione Fvg”. E intanto, sulla scia di quanto deciso dal governatore Fedriga, anche Gianfrancesco Menani, il nuovo sindaco di Sassuolo (Modena), sempre della Lega, ha fatto rimuovere dal balcone del palazzo comunale uno striscione dedicato al ricercatore italiano: “Resta ferma la nostra solidarietà alla famiglia Regeni, ma non aveva più senso tenere ancora lì quello striscione. È una vicenda non più di attualità e poi tra l’altro in centro storico ci stava anche male dal punto di vista estetico, tutto impolverato”, è stata la sua spiegazione. Vibo Valentia: “Bambinisenzasbarre”, il carcere apre le porte ai figli dei detenuti ilvibonese.it, 24 giugno 2019 Anche la casa circondariale vibonese, in collaborazione con Libera e Sbv, aderisce alla campagna di sensibilizzazione europea “Non un mio crimine ma una mia condanna”. “Non un mio crimine, ma una mia condanna” è il grido dei 100.000 bambini che ogni giorno entrano nelle 213 carceri italiane per incontrare il proprio papà o la propria mamma detenuti. Ogni giorno varcano il portone degli Istituti penitenziari per incontrare il proprio genitore, per mantenere il legame affettivo fondamentale per crescere; sono emarginati a scuola, nel quartiere dove vivono, nel gruppo sociale di appartenenza poiché sono figli di genitori detenuti. L’associazione Bambinisenzasbarre da 13 anni si occupa di questi bambini, ne accoglie 10.000 nei suoi “Spazi gialli” e difende il diritto di avere l’affetto dei propri genitori durante la detenzione; promuove il mantenimento della relazione figlio-genitore durante la detenzione e tenta di sensibilizzare la società civile perché si faccia carico dei diritti umani, sanciti dalle convenzioni internazionali, in favore dei minori separati dai propri genitori detenuti, affinché il diritto alla genitorialità venga garantito, culturalmente assimilato e reso parte del sistema valoriale. Quest’anno anche la Casa Circondariale di Vibo Valentia, grazie alla lungimiranza del direttore Angela Marcello, all’impegno di Chiara La Cava (responsabile area educativa) e del comandante Domenico Montauro, ed alla collaborazione del Sistema bibliotecario vibonese e di Libera Vibo Valentia, aderirà alla campagna di sensibilizzazione europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna”, riconoscendo la valenza trattamentale dell’iniziativa a sostegno delle relazioni familiari. Nella mattinata di domani, martedì 25 giugno, presso l’”Area verde” dell’istituto attrezzata per l’occasione, si svolgerà un momento di festa, di incontro tra genitori detenuti ed i loro figli, proprio per rimarcare il diritto dei bambini di frequentare i loro papà e sottolineare il concetto che la carcerazione interrompe molti aspetti della vita, ma non dovrebbe mai interrompere il legame figlio-genitore; ad animare l’evento, alcune volontarie di Libera Vibo Valentia e delle animatrici professioniste, che intratterranno con tanti giochi e sorprese i più piccoli; ci sarà spazio anche per le letture ad alta voce, condotte da Anna Caruso e Katia Rosi del Sistema bibliotecario vibonese. Inoltre, in occasione dell’iniziativa, il polo culturale vibonese diretto da Gilberto Floriani regalerà ad ogni bambino una copia del libro “Mago Mantello” di Francesco Domenico Giannino; l’autore, tra i fondatori dell’organizzazione di volontariato Compagnia del Mantello, unendo la sua esperienza di maestro alla sua attività di volontario ospedaliero ha deciso di portare il suo simpatico Mago dove c’è più bisogno di sorridere, ossia nei reparti di oncologia, nelle carceri, nelle ludoteche dei reparti pediatrici, dando vita ad un vero e proprio progetto nazionale. Le oltre 100 copie di “Mago Mantello” donate lo scorso maggio dalla Compagnia ai bambini calabresi saranno consegnate dal Sbv, oltre che ai figli di detenuti e a tutti i bambini del comune di Limbadi. Vercelli: i detenuti-chef del Billiemme convincono anche l’arcivescovo di Andrea Zanello La Stampa, 24 giugno 2019 Pranzo preparato per le autorità: l’esame di qualifica dopo il corso seguito con l’Alberghiero di Gattinara. La croccantezza e la ricchezza del tomino fritto opposto alla leggerezza della zucca accompagnata alla burrata, per passare poi alla freschezza di un gazpacho con riso Carnaroli e chiudere con la golosità di una sfogliata con salmone. Che languorino: roba da alta cucina, viene da pensare. Ed è solo l’aperitivo del pranzo preparato dai detenuti della casa circondariale di Vercelli che hanno sostenuto l’esame di qualifica dopo avere seguito il corso di studi dell’istituto alberghiero Mario Soldati di Gattinara. Dal 2004 la scuola ha attivato le lezioni con un progetto coordinato dal professor Paolo Baltaro. Facendo i conti, tra trasferimenti in altri penitenziari e rilasci per fine pena, in questi anni si sono diplomati decine di detenuti alla casa circondariale di Biliemme. Giovedì scorso l’ultima classe ha preparato un pranzo, guidata dal professor Lucio Salvatore. Oltre al ricco aperitivo, dalla cucina del carcere sono usciti per gli oltre venti commensali un’insalata d’orzo con clorofilla di rucola e una sfoglia con gelato e frutta di stagione. “Ragazzi, ricordatevi che qui siete giudicati solo come persone”, è stato il messaggio ai detenuti che hanno sostenuto l’esame di qualifica. Ad accogliere i partecipanti la direttrice del carcere Antonella Giordano. Il preside dell’istituto alberghiero Alberto Lovatto ha presentato l’attività mentre l’arcivescovo Marco Arnolfo ha benedetto il pranzo ricordando l’importanza “di avere cura di ogni fratello”. Presenti anche esponenti di Coop, Donne Riso e Assopace che hanno dato importanti contributi per il progetto. Quattro dei detenuti che hanno seguito e terminato il corso andranno a lavorare nelle cucine del carcere. Un quinto sarà trasferito a Verbania dove lavorerà all’interno del progetto di formazione per detenuti “Banda Biscotti”. Torino: liberata, da due giorni dorme su una panchina davanti al carcere di Carlotta Rocci La Repubblica, 24 giugno 2019 Una nigeriana di 24 anni arrestata alla stazione di Porta Susa si è sdraiata davanti all’ingresso della Casa circondariale. Da tre giorni vive davanti al carcere delle Vallette accampata su una panchina. “Voglio tornare dentro, non so dove andare”, ha detto agli agenti che venerdì l’hanno scarcerata dopo la convalida del suo arresto. La giovane è una nigeriana di 24 anni trovata la scorsa settimana senza documenti e arrestata per resistenza. È stata portata in cella e scarcerata dopo 36 ore ma lei ha cercato di opporsi anche alla scarcerazione. “Non so dove andare” ha detto. “Conosciamo la sua situazione e ci siamo attivati per risolverla - racconta la garante dei detenuti Monica Gallo che ha cercato enti e associazioni in grado di aiutare la donna - Questo pomeriggio ha provato a parlare anche una mediatrice culturale e i volontari della Boa tutte le notti passano a vedere se ha bisogno di qualcosa”. Anche gli agenti penitenziari questa mattina le hanno offerto la colazione. La donna, scalza e con un piumino bianco addosso nonostante il caldo, se ne sta seduta sulla panchina vicino alle cassette di sicurezza che ci sono davanti all’ingresso per i colloqui in carcere. Non parla e non risponde alle domande di nessuno. Ha una valigia blu e un sacchetto della spesa con i viveri che i volontari le hanno portato per sopravvivere. È rimasta all’addiaccio anche l’altro giorno durante il nubifragio. “Abbiamo provato in tutti i modi a darle assistenza - spiega il direttore del carcere, Domenico Minervini - Ci siamo attivati con chi è abituato a trattare in queste situazioni. Hanno provato a parlarle i cappellani, il dirigente sanitario, il garante dei detenuti, gli psicologi e i rappresentanti delle associazioni che si occupano di persone in difficoltà. È una situazione molto triste”. Genova: parole che liberano, confronto sui temi legati al mondo del carcere di Andrea Carotenuto Il Secolo XIX, 24 giugno 2019 Un incontro-seminario dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria sulla vita in carcere e sulle problematiche legate alla detenzione e al reinserimento dei detenuti. Dai luoghi comuni che viaggiano sui social a “sproposito” del carcere e dei suoi ospiti alla denuncia del mancato rispetto delle “pene alternative” che potrebbero ridurre la popolazione carceraria e sino agli interventi che molte associazioni portano all’interno delle mura carcerarie per rendere più umana e davvero riabilitativa l’esperienza della detenzione. “Parole che liberano” sono quelle pronunciate nella sala dei Chierici, alla Biblioteca Berio, dai molti ospiti del convegno, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti insieme a molte realtà collegate alle attività di recupero e volontariato e che ha affrontato il tema sotto più punti di vista ma con la stessa attenzione per i soggetti di cui spesso si parla - e a sproposito - ma senza voler approfondire. Il seminario ha ospitato al mattino i contributi dei protagonisti del lavoro in carcere, professionisti e volontari, nei diversi ruoli sociali, di sorveglianza e di recupero e reinserimento. Ad introdurre l’argomento la proiezione di un video informativo, realizzato dall’associazione Antigone per sfatare le “fake news” che circolano attorno alla Giustizia italiana e al mondo del carcere. Sfatato il mito secondo cui il numero dei reati è in costante aumento e le carceri sarebbero luoghi “di riposo” nei quali i delinquenti vivono “come in albergo”. L’associazione Antigone ha chiarito che il numero dei reati è in costante diminuzione e che il numero di indagati che finisce dietro le spalle in Italia è tra i più alti d’Europa, paragonabile a quello della Francia e più addirittura doppio rispetto alla Germania o al Belgio. Pochi e ben inferiori al possibile i “permessi” e le autorizzazioni a scontare la pena in modo diverso dal carcere. Un problema che anzi viene denunciato ad ogni occasione in quanto l’Italia è inadempiente rispetto a queste possibilità che, oltretutto, consentirebbero di alleggerire il peso del numero dei detenuti in ogni carcere. Luoghi dove non si vive come in un albergo visto che in buona parte di essi non c’è doccia nelle celle, il bagno è spesso vicino ai letti o addirittura ai luoghi dove si mangia e dove manca spesso persino l’acqua calda. Da sfatare anche la necessità di nuove carceri visto che si potrebbero invece attuare le leggi che consentono di scontare le cosiddette pene alternative che potrebbero anche ridurre il fenomeno della recidiva che si innesca con la detenzione in carcere. “Un nuovo carcere costa almeno 25 milioni di euro - è stato spiegato - ed ogni carcerato costa alla collettività circa 136 euro al giorno, sarebbe quindi preferibile lasciar scontare ai detenuti la pena in modo diverso e più “produttivo”, ad esempio con corsi di formazione e di reinserimento”. “Misure che già esistono - ha spiegato Ramon Fresta, educatore del Centro di Solidarietà di Genova (Ceis) da tempo impegnato in progetti di recupero - ma molto lavoro deve ancora essere fatto e deve cambiare la sensibilità comune sull’argomento. Noi crediamo in un percorso che porti a tener lontane le persone dal carcere anche e soprattutto fornendo una formazione e una preparazione al re-inserimento nella Società che passa anche attraverso il lavoro”. Nel pomeriggio c’è stato il confronto con due ospiti di Pontedecimo e Marassi autori di due libri testimonianza che vedono ufficialmente la luce proprio in occasione del seminario. Insieme a loro anche il contributo di don Giacomo Martino, cappellano in carcere a contatto con storie personali tragiche e profonde. Spazio anche all’esperienza terapeutica e formativa del Teatro Sociale dell’Arca, il primo teatro costruito direttamente dentro le mura di un carcere, a Genova. Anna Solaro, regista e teatro terapeuta, ha raccontato dell’esperienza straordinaria dei corsi di teatro e dell’attività di incontro e confronto con detenuti anche per reati particolarmente “odiosi” come le violenze sulle donne ed ha raccontato di persone in realtà fragili, spesso abusate a loro volta da piccole e con storie terribili alle spalle e che oggi si definiscono con il numero che identifica il reato che hanno commesso. Persone che possono e devono essere recuperate anche attraverso un percorso di rieducazione al sentimento e alla gestione delle proprie emozioni e che non possono semplicemente essere reclusi tra le sbarre di un carcere. Siena: il Conservatorio Franci porta la musica nel carcere sienafree.it, 24 giugno 2019 Musica ed emozioni oltre le sbarre. La Festa della Musica del Franci fa tappa nella Casa circondariale di Siena con uno speciale concerto dedicato ai detenuti dell’istituto di pena senese. Oggi in occasione della Festa europea della musica, evento nato in Francia per celebrare il solstizio d’estate, i giovani musicisti del Conservatorio Rinaldo Franci si sono esibiti sul palco dell’auditorium del carcere di Santo Spirito. Protagonisti della speciale performance sono stati Francesco De Luca e Leonardo Binazzi alla chitarra con un programma musicale dedicato a Johann Sebastian Bach, Joaquín Rodrigo e Mario Castelnuovo-Tedesco. “Portare la musica tra le persone e in vari luoghi della città è una delle missioni del nostro Conservatorio - ha detto Miranda Brugi, presidente del Conservatorio Rinaldo Franci di Siena - Siamo convinti che fare musica insieme sia un ottimo esercizio di crescita umana e professionale anche per i nostri ragazzi. La musica ha un linguaggio universale, capace di superare ogni barriera e soprattutto capace di emozionare tutti. Il mio ringraziamento va al direttore e a tutto il personale della Casa Circondariale di Siena con cui in questi anni abbiamo avviato un percorso di collaborazione che contiamo di portare avanti anche per il futuro”. “Sono molto lieto che per il terzo anno consecutivo gli allievi del Conservatorio Rinaldo Franci di Siena si siano esibiti a beneficio dei detenuti per celebrare in carcere la Festa Internazionale della Musica - ha commentato Sergio La Montagna, direttore della Casa circondariale di Siena -. Ringrazio, pertanto, vivamente la presidente e il direttore del Conservatorio per l’attenzione che anche in quest’occasione hanno voluto riservare ai detenuti della Casa circondariale: un’iniziativa che si ripete e che concorre a tener viva la sensibilità emotiva di quanti rischiano di essere inariditi dalla reclusione”. Lettere dal carcere, da Sollecito a l’ex moglie di Vallanzasca di Maria Volpe Corriere della Sera, 24 giugno 2019 Parte un nuovo programma su Sky “Caro Prigioniero”, che racconta le relazioni tra celebri detenuti e i loro cari dove si svelano amori o sofferenze. In tempi di social e di amori che si consumano con un tweet, la lettera assume una valenza affettiva e amorosa ancora più profonda. Se poi questo scambio di missive avviene dentro le mura di un carcere, il gesto assume un significato vitale di amore e libertà. Quelle lettere attese e desiderate - Ieri sera un documentario dal titolo “Caro prigioniero” su Sky Atlantic e Sky Tg24 alle 21.15, ha raccontato il mondo che ruota appunto attorno a un a lettera, scritta, inviata, attesa, sognata, desiderata, letta e poi riletta. Tra un detenuto e una donna fuori - che sia moglie, fidanzata, amante o addirittura una sconosciuta - oppure tra detenuti, un uomo e una donna in luoghi diversi all’interno dello stesso carcere. Un mondo tutto da scoprire. Con testimonianze importanti come quella di Raffaele Sollecito per anni detenuto con l’accusa di aver ucciso (con Amanda Knox) Meredith Kercher e poi assolto. Raffaele Sollecito - “Ricevere una lettera in carcere ha un’importanza totale, perché riempie la giornata” dice Sollecito nel documentario. Raffaele, protagonista di un caso mediatico mondiale e oggi uomo libero, racconta lungamente la propria esperienza durante il periodo di detenzione. Spiega molto bene - con una buona dose di stupore e smarrimento - che la sua notorietà lo ha reso il destinatario di molteplici missive di tutti i tipi. Chi lo consolava ritenendolo innocente, chi condivideva con lui le sue sofferenze e infine chi lo amava o lo desiderava sessualmente proprio in virtù della sua (presunta) colpevolezza. L’ex moglie di Vallanzasca - Un’altra testimonianza importante é quella di Antonella D’Agostino, ex moglie di Vallanzasca, che svela i segreti delle centinaia di migliaia di lettere ricevute da uno dei banditi più desiderati di sempre e come questa enorme mole di missive delle fan abbia influito sul suo rapporto a distanza con il marito detenuto. In tutto ciò ovviamente sorge naturale la domanda: cosa spinge persone libere, con una vita al di là delle sbarre, a instaurare e coltivare relazioni - ancorché di penna - con personaggi pericolosi o presunti tali? Come possono nascere storie d’affetto e d’amore tra persone che spesso non si sono mai viste in faccia? Perché le donne provano attrazione sessuale nei confronti talvolta di efferati killer? La criminologa - La criminologa Valeria Imbrogno, campionessa di pugilato e insegnante di boxe nel carcere di Bollate, ci aiuta a capire la genesi di quest’attrazione, raccontando anche tutti quegli amori via lettera che nascono tra detenuti delle sezioni maschile e femminile e che, alimentandosi di fantasia e solitudine, alla fine sono diventati realtà. Lo psichiatra: “Così si passa dall’angoscia alla violenza” di Ilaria Venturi La Repubblica, 24 giugno 2019 Vittorio Lingiardi, psichiatra, professore di Psicologia dinamica alla Sapienza, commenta il susseguirsi di piccoli uccisi in famiglia: già quattro da inizio anno, cinque se la morte della bimba morta a Nocera Inferiore dovesse rivelarsi un omicidio, reato per il quale sono indagati da ieri i genitori. Come si può arrivare a uccidere un figlio? “Difficile pronunciare parole sensate di fronte al figlicidio. Clinicamente poco serio generalizzare a partire dai fatti di cronaca. Sono tragedie della genitorialità che hanno alle spalle storie terribili di maltrattamento e trascuratezza, traumi subiti e poi inflitti. A queste aggiungerei dei gravi elementi di contesto che possono concorrere a innescare la violenza: l’assunzione di droghe o di alcol, la miseria economica e spesso culturale, l’esasperazione di un conflitto di coppia”. Cosa scatta nella mente di un padre o di una madre che arriva a tanto orrore? “Farei una differenza tra la violenza materna, che vedo più legata all’angoscia di non essere all’altezza di un ruolo, di un’aspettativa rispetto alla capacità di fornire la cura, e quella paterna, forse più legata a una posizione immatura riguardo all’acquisizione della responsabilità. Cioè padri che sono in realtà figli. Poi, in modi diversi, credo che ciò che scatena gli orrori della disregolazione emotiva sia l’incapacità di tollerare la dipendenza fragile e bisognosa del bambino”. Anche un pianto può innescare tanta violenza? “Non è un caso che le percosse e i maltrattamenti siano spesso connessi al pianto incoercibile del piccolo. Un pianto, un bisogno di accudimento che mette a nudo l’impotenza del genitore. Una disperazione che si traduce in angoscia e violenza. Una violenza che si scaglia contro la fragilità e il bisogno. Del figlio e inevitabilmente di se stessi”. Ma cosa sta succedendo alla famiglia nel Paese del familismo per eccellenza? “Un discorso lungo. Dico solo che quando si parla di famiglia, e ancor più di famiglia “naturale”, bisognerebbe ricordarsi che il legame di sangue non è affatto una garanzia. Che essere genitori dovrebbe essere una scelta. E una scelta implica sempre la competenza e la responsabilità. La genitorialità è soprattutto una funzione mentale e affettiva legata alla capacità di fornire cure. Quello che oggi è in crisi”. Decreto(in) sicurezza bis. “È al colmo la feccia!” di Alex Zanotelli articolo21.org, 24 giugno 2019 L’11 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto In-Sicurezza bis, proposto dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Un decreto ancora peggiore del primo con delle clausole che violano i principi fondamentali del diritto e dell’etica. Sì, è soprattutto l’etica che è colpita a morte in questo decreto che bolla come reato soccorrere una persona in mare, salvare un naufrago!! Per di più il Viminale potrà vietare ingresso, transito o sosta di navi con migranti a bordo nei nostri porti. Il comandante che disobbedirà sarà passibile di una multa dai10 ai 50 mila euro e il sequestro dell’imbarcazione. Adesso stiamo con il fiato sospeso per vedere cosa succederà alla Sea-Watch che, dopo aver salvato 43 naufraghi, sta aspettando al largo di Lampedusa di attraccare in un porto italiano. Siamo all’assurdo! È un dovere salvare un essere umano, un dovere che affonda le radici nella natura stessa dell’uomo che è in primo luogo un ospite, “uno straniero residente”, come amava dire il filosofo Jacques Derrida. Un dovere codificato nel diritto internazionale, ma anche nella tradizione ebraica: “Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi: tu lo amerai come te stesso” - Levitico (19,34) e cristiana: “Ero straniero e mi avete accolto” (Matteo 25, 35). Trovo incredibile che il Presidente della Repubblica abbia subito firmato un tale obbrobrio! Anche perché questo Decreto contiene una norma ad personam cioè toglie il potere al procuratore di Agrigento L. Patronaggio di intervenire sulle navi salva vita e lo concede invece al procuratore di Catania C. Zuccaro, quello che non aveva visto alcun reato nel comportamento di Salvini per la “Diciotti”. È un abuso incredibile del potere politico! Ma questo decreto non è solo di Salvini e della Lega, ora è anche di Di Maio e dei Cinque Stelle, altrettanto responsabili per questa deriva razzista. Ma i Cinque stelle sono tutti concordi con Di Maio? Se qualcuno non lo è, perché non alza la voce? Il Decreto passerà ora al Parlamento. Per questo mi appello a tutti i parlamentari, in particolare ai Cinque Stelle, perché lo boccino. Come mai la Lega e i Cinque stelle rispettano solo alcuni punti del “contratto”, approvando addirittura un secondo decreto Sicurezza? Ma nel “contratto di governo”, firmato da ambedue i partiti, la ripubblicizzazione dell’acqua è ancora al primo punto del contratto. E per i Cinque stelle è la loro prima stella! Se il governo giallo-verde si definisce “sovranista”, allora obbedisca a quello che il popolo sovrano ha deciso con 26 milioni di voti al Referendum del 2011: l’acqua deve uscire fuori dal mercato e non si può fare profitto sull’acqua! E intanto con l’art. 24 del decreto crescita si consegna l’acqua del Mezzogiorno ai privati. Che tradimento! Eppure la Legge sulla gestione pubblica dell’acqua è ancora bloccata in Commissione e non si riesce a portarla in Parlamento. Mi appello al popolo sano di questo paese (e ce n’è tanto!) perché reagisca a questo sfascio umano e morale a cui questa politica ci sta portando. Dobbiamo mettere da parte le nostre differenze e unirci, credenti e laici, per salvare la nostra democrazia, ma soprattutto la nostra comune umanità. Infine mi appello ai vescovi perché proclamino con chiarezza che il Vangelo di Gesù cozza con quello di Salvini. Davanti a questa discesa nel baratro del rifiuto dell’altro, chiedo ai vescovi di lanciare una campagna ecclesiale di preghiera e di digiuno. È da un anno che un gruppo di preti, suore, missionari/e, incoraggiati dal vescovo emerito di Caserta, mons. R. Nogaro, ogni primo mercoledì del mese, digiunano davanti al Parlamento. Mai come in questo momento la preghiera e il digiuno diventano strumenti potenti per scacciare il demone del razzismo. In questo momento storico come cristiani abbiamo l’obbligo morale di esporci pubblicamente per permettere la nascita di un’umanità al plurale. Etiopia. Golpe fallito, ucciso il capo delle Forze Armate di Michele Farina Corriere della Sera, 24 giugno 2019 Nel mirino le riforme del premier Abiy Ahmed. Il premier in tv con la tuta mimetica, la guida dell’esercito ammazzata dalle guardie del corpo ad Addis Abeba. Gli scontri nella regione di Amara. Giusto oscurare Internet? Alta tensione in Etiopia. Il capo delle Forze Armate è stato ucciso dalle guardie del corpo nella sua residenza di Addis Abeba, mentre secondo il governo è stato sventato un tentativo di colpo di Stato partito da Bahir Dar, capoluogo della regione settentrionale di Amara. È stato il primo ministro Abiy Ahmed a parlarne alla tv domenica mattina. Abiy è apparso davanti alle telecamere in divisa, il volto teso. Il fallito golpe è iniziativa di un generale dell’esercito e di alcuni ufficiali. Secondo un portavoce governativo, è da iscriversi nello stesso complotto l’uccisione del generale Seare Mekonnen, ammazzato nella capitale nella serata di sabato. Anche un alto ufficiale in pensione, Gezai Abera, che si trovava con il generale Mekonnen nella sua casa, ha perso la vita per mano di una guardia del corpo che è poi stata arrestata. Fonti diplomatiche occidentali hanno confermato gli scontri a fuoco in una zona di Addis Abeba. Il premier ha detto in tv che i due ufficiali sono stati uccisi mentre cercavano di fermare sul nascere un tentativo di colpo di Stato. Abiy ha accusato direttamente il capo della sicurezza nella regione a nord della capitale, Asaminew Tsige, di essere l’istigatore del fallito coup. Tsige era stato liberato all’inizio dell’anno scorso con altri militari a lui vicini, parte di una più generale amnistia che ha portato al rilascio di migliaia di oppositori e prigionieri politici. Prima di ricevere il nuovo incarico, Tsige era stato in galera per nove anni, proprio con l’accusa di tentato colpo di Stato. Le violenze nella regione di Amara sono scoppiate sabato quando un gruppo di militari ha fatto irruzione in un edificio governativo di Bahir Dar, dove era in corso una riunione con il governatore della regione, alleato chiave del premier Abiy. Gli assalitori si sono poi dati alla fuga, braccati dalle forze armate fedeli al governo. Amara è una regione cruciale per le dinamiche politiche del Paese-guida del Corno d’Africa, abitata in maggioranza dall’etnia omonima (la seconda del Paese) che costituisce circa il 30% dei 100 milioni di abitanti dell’Etiopia. I conflitti di carattere etnico sono aumentati negli ultimi anni. Il mese scorso si sono registrati decine di morti nell’ultimo round di scontri tra gruppi Amara e Gumuz, solitamente innescati da dispute per il controllo della terra. L’emergenza appare al momento rientrata, anche se l’allerta e le misure di sicurezza sono al livello massimo. Un segno evidente viene dalla decisione delle autorità di bloccare temporaneamente Internet, una scelta sempre più diffusa (e sempre discutibile) quando governi in difficoltà cercano di ristabilire l’ordine. Il capo delle Forze Armate ucciso, Seare Mekonnen, era stato nominato dallo stesso Abiy nel 2018, quando il neo-premier aveva deciso un cambio della guardia senza precedenti alla testa dell’esercito e di altri gangli dell’amministrazione. Nelle file dei militari le tensioni legate ai movimenti separatisti si aggiungono a un malcontento diffuso. Nell’ottobre 2018 lo stesso Abiy disse che centinaia di soldati avevano marciato sul palazzo del governo chiedendo un aumento di stipendio (con l’intenzione di ucciderlo). A giugno un attentato aveva fatto alcune vittime durante un comizio: l’obiettivo degli assalitori era proprio il giovane leader. Otto poliziotti sono stati arrestati in relazione all’attacco in una piazza centrale di Addis Abeba. Abiy sotto minaccia: 42 anni, ex militare, ex capo del controspionaggio digitale, laura in informatica e master in economia, il premier è il primo rappresentante dell’etnia Oromo (maggioritario e marginalizzato nel Paese) a guidare l’Etiopia (da sempre governata dalla minoranza tigrina), alleato fondamentale dell’Occidente per la stabilità dell’Africa orientale. Il premier cresciuto in una famiglia religiosamente composita (mamma cristiana ortodossa e papà musulmano) ha portato una ventata di novità nella politica non solo nazionale. Dalla pace con l’eterno nemico eritreo alla difficile mediazione in corso in Sudan, dove Abiy sta cercando di sostenere l’opposizione della società civile e frenare le mire dell’uomo forte del neo-regime di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti, ex allevatore di cammelli che deve la sua ascesa alle milizie Janjaweed responsabili di tanti massacri in Darfur. Il potere di Hemeti poggia sulle sue squadracce e sul sostegno di leader potenti, a cominciare dal principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (a cui ha mandato miliziani per la guerra in Yemen) passando per il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, ex generale che ha guidato il colpo di Stato del 2013 al Cairo. In un contesto regionale sempre controllato da regimi autoritari, Abiy Ahmed rappresenta una figura atipica, una ventata di speranza. In molte capitali, le minacce alla sua leadership non devono certo dispiacere.