Sul carcere il Governo in stato confusionale e distruttivo camerepenali.it, 23 giugno 2019 L’attuale Governo dimostra uno stato confusionale e distruttivo sui temi della detenzione che desta allarme e preoccupazione, perché in totale contrasto con i principi costituzionali e con le più elementari regole di un Paese civile. Occorre al più presto metter mano ad una serie di iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale come ci viene richiesto anche dalle giurisdizioni sovranazionali. L’Unione delibera l’astensione dalle udienze per il giorno 9.07.19, convocando per lo stesso giorno una manifestazione nazionale a Napoli, nel Palazzo di Giustizia, per illustrare le ragioni dell’astensione e far conoscere alla comunità dei Giuristi ed a tutti gli Italiani la situazione drammatica dell’attuale gestione degli Istituti di Pena, non solo a Napoli, ma in tutta Italia. L’esecuzione penale in Italia ha imboccato una strada buia e senza uscita, costellata da sistematiche violazioni dei diritti umani. L’attuale Governo dimostra uno stato confusionale e distruttivo sui temi della detenzione che desta allarme e preoccupazione, perché in totale contrasto con i principi costituzionali e con le più elementari regole di un Paese civile. In nome di una idea sgrammaticata di “certezza della pena”, si insegue un consenso popolare costruito sulla sollecitazione delle emotività più rozze e violente della pubblica opinione: il detenuto “marcisca in carcere”. Una vocazione “carcero-centrica” in spregio della Costituzione, che non certo a caso fa riferimento alle “pene” (art. 27) e non alla “pena”: dunque non solo carcere, ma anche altre sanzioni e misure che possano responsabilizzare il condannato in un percorso punitivo-rieducativo che consenta il suo recupero. La Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, chiesta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza “pilota-Torreggiani” dell’8 gennaio 2013 e declinata con specificità dei temi da affrontare e rivalutare con la Legge Delega N.103/2017, dopo l’irresponsabile battuta d’arresto impressa dal precedente Governo, è stata definitivamente affossata dall’attuale maggioranza. I Decreti Legislativi emanati hanno reso operativa solo una minima parte del lavoro delle Commissioni Ministeriali chiamate ad indicare percorsi di modernizzazione del sistema detentivo. E quel poco che è rimasto non potrà trovare concreta applicazione perché non si è intervenuti per eliminare l’ingravescente sovraffollamento. Non si è voluto mettere mano all’anacronistico sistema delle ostatività, al contrario implementandolo, così comprimendo la discrezionalità dei Magistrati di Sorveglianza nella concessione di misure alternative. Ed ancora, non si è voluta realizzare la riforma sull’”affettività”, che avrebbe consentito una detenzione più serena e rispettosa di elementari diritti del detenuto e dei suoi familiari. Alla decisione politica di sminuire, attraverso l’emanazione dei decreti delegati, la portata della Legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario varata nella precedente legislatura è corrisposta l’introduzione di nuove ostatività (c.d. Spazza-corrotti) e l’inasprimento irrazionale delle pene (decreto sicurezza e decreto sicurezza bis, voto di scambio). Un sistema tutto incentrato sul reato e non sulla persona, come se dentro le carceri non vi fosse un essere umano, ma solo un’astratta fattispecie di reato. I dati statistici del Ministero della Giustizia ci rendono un quadro impietoso. La quasi totalità degli istituti penitenziari presenta un sovraffollamento oltre il livello di guardia. La media nazionale, in continuo aumento, sfiora il 130%. Un solo medico di base ogni 315 detenuti invece di un medico ogni 150. Piante organiche del tutto insufficienti con solo 930 assistenti sociali e 999 educatori per circa 60.000 detenuti. Sono cifre allarmanti che denunciano la materiale impossibilità di assicurare quel trattamento individualizzato che deve consentire il reinserimento sociale del condannato. Quanto viene annunciato sia dal Ministro della Giustizia che dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nelle loro linee programmatiche e nei loro interventi pubblici - più carcere, meno misure alternative - è dunque contrario al percorso di riforma che si era intrapreso e che ci veniva chiesta dall’Europa. La proposta sbandierata della costruzione di nuove carceri, come risposta al sovraffollamento, non solo è ideologicamente errata, ma certamente non è attuabile in tempi brevi, necessita di risorse enormi che notoriamente non ci sono e soprattutto non risulta nemmeno genericamente abbozzata dal Governo. L’Unione Camere Penali Italiane, con l’Osservatorio Carcere, ha più volte denunciato - inascoltata - la disastrosa ed esplosiva condizione carceraria del Paese. Nel 2018 sono morti 148 detenuti, tra questi ben 67 suicidi. Nel 2019, ad oggi, 60 morti, tra questi 20 suicidi. La media è quella di un decesso ogni 3 giorni. L’assistenza sanitaria è negata quasi dovunque e per i ricoveri urgenti in ospedale spesso non vi è possibilità di effettuare le traduzioni. La forzata convivenza di più persone in piccoli ambienti umidi, malsani, in pessime condizioni igieniche, alimenta virus e malattie, che con l’attuale caldo estivo trovano ulteriore possibilità di propagarsi mentre il Dap si preoccupa di diramare una circolare sull’uso della televisione (7 ore per notte), che tuteli la quiete negli istituti penitenziari per incentivare “salubri ritmi sonno-veglia”. Se la pena deve consistere quasi esclusivamente nella perdita o nella drastica riduzione della libertà, essa non può certo pregiudicare la dignità, il diritto alla salute ed il diritto alla vita del detenuto, quale che sia la gravità del delitto commesso, come ribadito di recente dalla sentenza “Viola c. Italia” della Cedu sull’abnormità dell’ergastolo ostativo. La situazione attuale e la scomparsa di qualsiasi speranza in un pur minimo cambiamento è sfociata in rivolte all’interno di numerosi istituti di pena. Trento, Rieti, Sanremo, Spoleto, Campobasso, Agrigento, Trapani, Barcellona, Poggioreale rappresentano gli ultimi rintocchi della campanella di allarme: un suono inascoltato che scuote, da Nord a Sud, l’intero Paese. I detenuti, pur assuefatti a condizioni di vita disumane, ma esasperati per la mancanza di acqua o per il mancato soccorso ad un malato grave, hanno violentemente protestato, spesso devastando interi padiglioni e/o appiccando incendi. Azioni che vanno certamente non condivise, ma che dovrebbero far accendere i riflettori su un sistema marcio, che deve immediatamente trovare la strada di una trasformazione costituzionalmente orientata e che non può essere risolto con l’immediato trasferimento dei rivoltosi in strutture punitive. Occorre al più presto metter mano ad una serie di iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale come ci viene richiesto anche dalle giurisdizioni sovranazionali. Ciò premesso e considerato, l’Ucpi proclama secondo le vigenti regole di autoregolamentazione, nel rispetto delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, e dunque, in attesa di una più certa e consolidata loro interpretazione, con esclusione dei processi con imputati detenuti in custodia cautelare, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per il giorno 9 luglio 2019 (escluso il circondario di Ischia interessato da astensione indetta dall’Associazione Forense Isola d’Ischia con delibera del 13 giugno 2019 - il circondario di Santa Maria Capua Vetere interessato da astensione indetta dalla Camera Penale Territoriale con delibera del 14 giugno 2019 - il circondario di Vasto interessato da astensione indetta dall’Ordine degli Avvocati di Vasto con delibera del 14 giugno 2019) convocando per lo stesso giorno una manifestazione nazionale a Napoli, nel Palazzo di Giustizia, per illustrare le ragioni dell’astensione e far conoscere alla comunità dei Giuristi ed a tutti gli Italiani la situazione drammatica dell’attuale gestione degli Istituti di Pena, non solo a Napoli, ma in tutta Italia; Sollecita la partecipazione di tutti gli avvocati alla astensione ed al dibattito in ogni sede sulla grave e drammatica situazione delle carceri; Dispone la trasmissione della presente delibera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia, ai Capi degli Uffici giudiziari. Il Presidente, Avv. Gian Domenico Caiazza Il Segretario, Avv. Eriberto Rosso Un ponte tra dentro e fuori di Rosario Capomasi L’Osservatore Romano, 23 giugno 2019 A Roma il seminario di formazione per i cappellani delle carceri. “La pastorale carceraria è cambiata perché sono cambiate le carceri, soprattutto con l’arrivo di un gran numero di migranti che purtroppo sono sempre più numerosi negli istituti di pena, ed è quindi necessaria una formazione più specifica dei sacerdoti che operano in quei contesti”. Così don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, ha illustrato a “L’Osservatore Romano” il terzo seminario di formazione dei nuovi cappellani delle carceri, in programma a Roma dal 24 al 26 giugno, che ha per tema “Chiamati a fasciare le ferite e a rialzare chi è caduto”. “Formare attentamente i cappellani - spiega il sacerdote, per 23 anni a fianco dei detenuti nel carcere di Secondigliano - riveste un’importanza decisiva considerando il prezioso servizio da loro reso all’interno delle case di reclusione, un servizio evangelico che aiuta i carcerati a superare le difficoltà inerenti alla loro situazione. Il significato di questo incontro è fornire quegli strumenti che diano più forza e coraggio ai cappellani nel vivere più serenamente la loro missione, come ho anche scritto nella lettera di presentazione del seminario”. Nuove esigenze e nuove sfide pastorali che hanno come sfondo “le parole e i gesti profetici di Papa Francesco che, sempre attento alle fasce deboli e a coloro che soffrono, come la popolazione carceraria”, costituita anche da persone di diverse fedi e con un forte sentimento religioso, ha creato un ponte tra “dentro” e “fuori”. “Ci sono tanti cattolici e musulmani e inevitabilmente siamo chiamati a confrontarci e a rendere qualificato il nostro incarico. Per questo - spiega don Grimaldi - parteciperanno all’evento un teologo tunisino, che farà una riflessione sulla fede islamica, e don Giovanni De Robertis, direttore generale della fondazione Migrantes, che approfondirà la tematica relativa a immigrazione e carcere”. Contributi significativi, per comprendere che la privazione della libertà non significa privazione della misericordia del Signore, il quale non si scorda dei suoi figli, anche se responsabili di un atto malvagio, e “ci suggerisce la strada - è scritto nella lettera di presentazione del seminario - per compiere ancora meglio ciò che Egli chiede a ognuno di noi. Nel vostro delicato incarico pastorale incontrate quotidianamente uomini e donne, disperati, poveri ed emarginati che hanno bisogno di essere ascoltati, accolti nella tenerezza del ministero di noi tutti “uomini del Vangelo”. Per questo “la Chiesa vi chiede di aiutare a rialzarsi chi è caduto nell’errore, per dare loro ancora un barlume di speranza per un futuro aperto ai nuovi orizzonti di inclusione”. Il momento clou del seminario, oltre alla condivisione di momenti di fraternità, sarà rappresentato, spiega don Grimaldi, “dalla presentazione di percorsi di giustizia e perdono: una vedova e l’assassino di suo marito si incontreranno dopo che la donna col tempo ha maturato, attraverso un cammino di fede, l’idea della riconciliazione”. E non è un caso isolato ma si affianca ad altri percorsi di chi non ha voluto lasciare il proprio cuore indurito ma si è chinato a “fasciare le ferite e rialzare” chi queste ferite le ha inferte, soprattutto nell’anima. “In questi giorni, ad esempio, stiamo assistendo due ergastolani che hanno finito di scontare la loro condanna e vogliono essere di conforto ad altri detenuti che hanno ricevuto il massimo della pena. Li abbiamo aiutati a scrivere una lettera indirizzata a queste persone dove traspare tutto il senso più profondo del ministero carcerario: comprensione, invito alla speranza e a non abbandonarsi alla disperazione ma alla certezza che si può cambiare aprendo il cuore a Dio e che una volta liberi non ci sarà necessariamente la diffidenza ad attenderli là fuori ma concrete possibilità di reinserimento”. Tema, questo dell’inclusione, molto sentito da don Grimaldi. Nell’esperienza ultraventennale a contatto con i detenuti ha cercato sempre di creare delle comunità all’interno degli istituti, riflesso di quelle che dovrebbero trovare all’esterno una volta scontata la pena, grazie anche alla collaborazione delle parrocchie. “Per agevolare gli ex reclusi che vogliono continuare un percorso di fede nelle nostre comunità parrocchiali - afferma - c’è bisogno dell’accoglienza e dell’attenzione; viceversa, devono mancare il pregiudizio e la paura che provocano soltanto un ristagno della crescita sociale”. Il baluardo del Quirinale e la questione giustizia di Giuseppe De Tomaso Gazzetta del Mezzogiorno, 23 giugno 2019 Meno male che Sergio c’è. Meno male che il presidente della Repubblica, da attento custode della Costituzione, vigila, come può, sui conti pubblici e sui racconti giudiziari. Altrimenti la confusione derivante dall’inosservanza delle regole e dallo stravolgimento dell’etica più elementare raggiungerebbe vette siderali. Meno male che Mattarella va avanti per la sua strada incurante dei rilievi di quanti gli addebitano un protagonismo che altro non è che il richiamo alla legge fondamentale dello Stato. La Costituzione è il primo baluardo contro la finanza pubblica allegra, visto che prescrive l’equilibrio di bilancio. E il presidente della Repubblica non può far finta di nulla se questo precetto viene aggirato (e beffato) con la disinvoltura di un ballerino. Così come è sempre la Costituzione a scolpire i compiti della magistratura, affidando à Capo dello Stato la presidenza del Csm, ossia dell’organo che assicura l’autonomia dell’ordine giudiziario. E l’inquilino del Quirinale non può rimanere alla finestra se alcuni componenti del Csm si comportano come mercanti di un suk arabo o se il settore della giustizia si auto-politicizza, o si auto-lottizza, come un’Usl della Prima Repubblica. Costituzione alla mano, è compito, dovere del Colle intervenire, senza se e senza ma, anche a costo di incorrere nelle ire di quanti concepiscono la figura del Capo dello Stato alla stregua di una statua egizia. Perché, oggi più di ieri, il rispetto della deontologia giudiziaria è essenziale per il buon funzionamento del sistema e della medesima democrazia? Semplice. Perché oggi la reputazione del cittadino dipende non solo dal processo giudiziario, ma, anche o soprattutto, dai dilaganti processi mediatici. E siccome processo giudiziario e processo mediatico, perlomeno nella prima fase del loro sviluppo, quasi si identificano e si confondono, l’obbligo di attenersi all’ordinamento e di selezionare al meglio (cioè senza invasioni correntizie) gli incaricati della magistratura giudicante e della magistratura requirente è fondamentale come l’aria. Il processo mediatico, che ha incontrato nello strapotere del web il suo più insidioso alleato, mira a espropriare la giurisdizione ai giudici: di fatto i giudici non sono più liberi di decidere, sia che l’influenza dall’esterno li conduca al plauso sia che li conduca alla gogna. Si vede. Alcune sentenze sembrano risentire del clima generale, di come l’opinione pubblica è stata orientata, di quale è il pensiero prevalente. Invece servirebbe l’autonomia assoluta della giurisdizione, alla cui tutela è preposto il Csm che, invece, alla luce delle conferme ulteriori fornite dal trojan, appare sempre più un consesso concentrato a pianificare carriere e a distribuire potentati. Il paradosso è che oggi il processo mediatico (spettacolarizzazione e sofferenza) è scattato sul caso Csm-nomine, prima ancora di una qualsiasi tappa formale, contro gli stessi magistrati, sottoposti anche loro a una sorta di giudizio o pregiudizio parallelo, o alternativo, sùbito avviato sui mezzi di comunicazione. Se, sosteneva il grande penalista Francesco Carnelutti (1879-1965), il processo giudiziario è una tortura, figuriamoci cosa il celebre avvocato avrebbe detto ora sul processo mediatico, che, nei fatti, si fonda sulla presunzione di colpevolezza anziché di non colpevolezza. Il processo mediatico è di per sé inquisitorio (l’indagato viene sùbito rappresentato come colpevole) mentre il processo ordinario è di tipo accusatorio (essenziale il contraddittorio). Il dubbio, poi, sempre nel processo mediatico, viene ritenuto una presunzione di colpevolezza. Ma il processo penale - raccomandava il giurista Francesco Carrara (1805-1888) - dev’essere visto come fonte di garanzie, non come strumento per presentare in anticipo una condanna. Il diritto penale deve raffreddare, sbollire le passioni, non deve riscaldarle come una macchina per il caffè. Inoltre chi legifera, direbbe oggi un redivivo Carrara (che già se ne lamentava ai suoi tempi), dovrebbe guardarsi bene dal pericolo di cadere nella tentazione della nomorrea penale, ossia in un’attività normativa più prolifica di una coppia di conigli. Il che si verifica da decenni battendo un record dopo l’altro. Ecco. Proprio perché bisogna impedire che l’amministrazione della giustizia possa sfociare nella costruzione di una potente macchina di dolore umano, è indispensabile che, pure per le nomine dei magistrati, la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto e che Cesare sia ancora più insospettabile. La vicenda del Csm ha dimostrato che, contrariamente al titolo di un celebre film del regista Elio Petri (1929-1982) - il ruolo del protagonista era interpretato da uno strepitoso Gian Maria Volontè (1933-1994) - non ci sono cittadini al di sopra di ogni sospetto. Il che è un bene che va però tradotto in atti concreti, in riforme felici, proprio per evitare (a tutela di tutti i protagonisti del processo ordinario) che, a cascata, una selezione non meritocratica dei gradi della magistratura possa minare la correttezza della giurisdizione, ultimamente, abbiamo visto, sempre più esposta al rischio esproprio da parte del combinato disposto tra spettacolarizzazione/ sensazionalismo e preconcetto di colpevolezza. È stata avanzata la proposta del sorteggio (ovviamente tra esperti titolati non tra incompetenti peones) per sottrarre alle trame di corrente le designazioni negli uffici giudiziari. C’è chi dice sì e c’è chi dice no. Forse il sorteggio potrebbe spezzare cordate e giochi di potere, come accadde, ad esempio su altri fronti, per il campionato italiano di calcio in occasione degli scudetti vinti dal Cagliari (1970) e dal Verona (1985): due squadre di provincia. In quei due anni gli arbitri erano stati scelti dal sorteggio, non dal designatore. Ma il calcio è un’altra storia. Comunque. Molto, per il futuro del Csm, dipenderà da Mattarella, dalla sua moral persuasion. Di sicuro il sistema di autogoverno dei giudici ha bisogno di una revisione, come si fa con le autovetture ad alto chilometraggio. La giustizia è la principale infrastruttura civile del Paese. Se, nella considerazione estera e interna, precipita la giustizia, precipitano anche gli investimenti che generano sviluppo. L’impressione è che gli ultimi 30 mesi di Mattarella al Quirinale richiederanno un supplemento di lavoro, un impegno doppio da parte del Presidente, sempre alla ricerca del giusto equilibrio. In ogni caso, tra economia e giustizia non sarà facile, per lui, ritagliarsi un giorno di vacanza. La vendetta della politica si è abbattuta sui magistrati di Michele Ainis L’Espresso, 23 giugno 2019 Lo scandalo Csm ha le sue radici nello scontro del 1993. Ed è la nemesi di Mani Pulite. Negli anni ruggenti della seconda Repubblica, il potere giudiziario scese in guerra - compatto come una falange - contro un nemico esterno: la politica. Adesso è in guerra con se stesso. Una guerra per bande, pardon, correnti. Il caso Palamara ne ha illuminato qualche scena, ma il teatro è vasto, gli attori innumerevoli. Come è potuta divampare questa lotta intestina? E quando, dove, perché? La risposta si trova nel passato. E il passato ci consegna un dramma in quattro atti, come Il giardino dei ciliegi di Cechov. Atto primo: Tangentopoli. Ossia il trionfo del - potere giudiziario - che decapitò un’intera classe di governo. Tanto che nel 1994 il 90 per cento dei deputati non aveva più di una legislatura d’anzianità. Da qui l’abuso della leva penale, dei processi, delle pene. Da qui il sovraffollamento delle carceri, che nel 2006 fu tamponato dall’indulto, salvo ripetersi con cifre ancora più imponenti (attualmente i penitenziari italiani ospitano 13.600 detenuti in più dei posti letto). Da qui riforme costituzionali timbrate all’insegna del giustizialismo, del primato dell’inchiesta giudiziaria sulle garanzie della difesa. È il caso, nel 1992, dell’amnistia, resa più impervia novellando l’articolo 79 della Carta; e l’anno dopo dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari (inasprendo l’articolo 68). Atto secondo: la reazione. Giacché la politica cercò immediatamente una rivincita, scornandosi con il popolo dei fax. Accadde con il decreto Conso (5 marzo 1993) sulla depenalizzazione del finanziamento illecito; accadde di nuovo con il decreto Biondi (13 luglio 1994) sulla riduzione della custodia cautelare. Un doppio insuccesso, che si è poi ripetuto molte volte. Con le proposte d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta su Mani pulite (nel 1993, nel 1998, nel 2000). O con il ben più ambizioso tentativo di regolare i conti per via costituzionale: la Bicamerale di D’Alema nel 1997, la Devolution di Bossi nel 2005. Ma nel frattempo lo scontro degenerava in rissa, e la rissa in conflitti tra poteri davanti alla Consulta. Nel 1961, quando lo Stato italiano festeggiò il suo primo secolo di vita, questi ultimi formavano una cifra tonda come un uovo: zero. Dieci anni dopo furono in tutto 2, vent’anni dopo 3. Invece nel 2000 la Corte costituzionale ne ha ricevuti 42. Atto terzo: la tregua. “Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico”, diceva Giulio Cesare. Sicché la politica s’arrende, riconosce il ruolo preminente del corpo giudiziario, e ne offre prova disseminando l’ordinamento di reati: ne abbiamo in circolo 35 mila, secondo una stima accreditata. Per lo più delitti di cui ignoriamo l’esistenza, che ciascuno può commettere senza nemmeno sospettarlo. Ma che giocoforza accrescono il potere dei giudici, come succede altresì quando un decreto sicurezza inasprisce le pene per decine di reati, o quando un decreto spazza-corrotti permette l’uso dei trojan per le indagini sulla corruzione. Ecco, il trojan che ha dannato Palamara e i suoi compagni d’avventura. Atto quarto: la faida. Quella scoperchiata dall’inchiesta di Perugia, che ha messo in crisi il Csm. Lo spettacolo di capicorrente che trafficano con gli imputati sulle nomine degli uffici giudiziari, forse il punto più basso nella storia della magistratura italiana. Ma dopotutto stiamo assistendo alla vendetta postuma della politica sul suo antico avversario. Perché il potere è un frutto avvelenato, che inebria le menti e le coscienze. Offrendo ai giudici maggiori quote di potere, la politica li ha resi anche più fragili, più esposti agli appetiti dei gruppi organizzati. E il Consiglio superiore della magistratura è diventato la casa dei potentati giudiziari. Dunque è da lì che bisogna cominciare. Il rimedio? Selezionare (attraverso standard oggettivi) una platea di magistrati meritevoli, all’interno dei 9 mila giudici italiani; e poi sorteggiarne 16 da inviare al Csm. Rimedio estremo per un male estremo. Un’idea per cambiare il Csm: mix di elezione e sorteggio di Stefano Passigli Corriere della Sera, 23 giugno 2019 A questo punto occorre procedere a un intervento radicale per modificare il ruolo delle correnti nella selezione dei membri del Consiglio Superiore. Quanto emerge dalle indagini della Procura di Perugia sul comportamento di numerosi membri togati del Csm, e sulla loro collusione con altri magistrati e con parlamentari, rischia di ledere irrimediabilmente un organo fondamentale per la tutela della indipendenza e autonomia della nostra magistratura, sino ad oggi considerato un unicum da prendere a modello in altri ordinamenti. Bene ha fatto il Presidente della Repubblica a intervenire fissando elezioni suppletive dei membri dimissionari, unica alternativa al ben più traumatico scioglimento del Consiglio Superiore della Magistratura. E bene si è comportato il vicepresidente Ermini. Sorprendente appare invece la reazione di Magistratura Indipendente, la principale corrente interessata dal fenomeno, e del tutto inadeguata la presa di posizione dei politici interessati dal fenomeno. Al di là della sorpresa per l’impudenza dei comportamenti dei consiglieri, e di magistrati esterni e politici coinvolti, va detto che mai sino a oggi era emerso con così tanta chiarezza che le trame per controllare le nomine negli uffici direttivi potessero nascondere, oltre a meri obiettivi di carriera, anche ben più oscuri interessi. Da sempre le nomine sono state oggetto di pressioni da parte di correnti organizzate che - nate in altri tempi - sembrano oggi distinguersi tra loro più per un attività di lobbying a difesa degli interessi dei propri aderenti che per sostanziali differenze nella interpretazione del ruolo del magistrato e della stessa funzione giurisdizionale, venendo sempre più a perdere una loro specificità programmatica, favorendo così il nascere di una trasversalità mirata solo al soddisfacimento di interessi personali. Chiunque conosca la magistratura italiana non può oggi che dareun giudizio negativo delle correnti organizzate e del loro ruolo nella vita del Csm. Ma mai si era giunti alla gravità degli attuali eventi. A questo punto occorre procedere a un intervento radicale, o introducendo un divieto per i magistrati di organizzarsi in correnti, così come è loro vietata l’adesione ai partiti, o modificando alla radice il sistema elettorale per la nomina dei membri togati del Csm. Oggi l’adesione a questa o quella corrente è una conditio sine qua non per chiunque abbia ambizioni di carriera all’interno della magistratura, e sino a oggi nessun sistema elettorale tra quelli presi in esame sembra poter dare garanzie che le correnti non si trasformino in gruppi di potere. Dopo un pluriennale esame del funzionamento del nostro organo di autogoverno, sono giunto alla conclusione che la migliore delle possibili soluzioni sia una combinazione di voto e sorteggio, dando a ogni singolo magistrato la possibilità di votare uno o due nomi scelti all’interno dell’intero corpo della magistratura, procedendo in seguito a un sorteggio tra il vasto numero di designati dei 16 membri togati del Csm. Anche se le correnti continuassero a indicare i propri candidati favoriti, è probabile che il mix di elezione e sorteggio porterebbe la grande massa dei magistrati a scegliere quanti all’interno della magistratura hanno saputo conquistare consenso per la loro capacità nei ruoli ricoperti. Sicuramente un meccanismo in cui il sorteggio, e cioè il caso, ha un ruolo determinante ridimensionerebbe il peso delle correnti riportandole alla loro logica iniziale, e annullandone il potere di determinare la composizione del Csm espropriando l’intero corpo della magistratura del suo diritto di eleggere liberamente i propri rappresentanti. Non si dimentichi infatti che nelle ultime elezioni i magistrati hanno eletto 16 togati sulla base di solo 21 candidature avanzate dalle correnti, e che nel caso dei quattro seggi riservati alla magistratura requirente le correnti hanno avanzato solo quattro candidati. Tutto insomma si decide in un oscuro negoziato tra correnti. Quanto qui propongo è l’ammissione di una sconfitta; l’ammissione che anche un organo che nella configurazione che ne ha dato la Costituzione ha un valore di modello, che rende l’autonomia e l’indipendenza della magistratura italiana dal potere politico superiore a quella di cui godono i magistrati in qualsiasi altro ordinamento, può “perdersi” per il venir meno di alcuni ai doveri della loro funzione, e per il predominare di interessi personali e di fedeltà correntizie e politiche sulla propria autonomia di giudizio. A norma di Costituzione “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”; oggi il rischio è che essi siano sempre più soggetti ai vincoli corporativi delle correnti, e a logiche e interessi di gruppo che non rispondono più alle correnti organizzate. A mali estremi, estremi rimedi dunque. L’insostenibile peso delle correnti e della mala politica nel funzionamento della giurisdizione va contrastato e annullato. Sardegna: sos carceri, non ci sono i direttori La Nuova Sardegna, 23 giugno 2019 Appello del provveditore Veneziano al ministero: la situazione è esplosiva. Quattro direttori appena chiamati a guidare le dieci carceri isolane; carenza totale di dirigenti nel distretto dalle Sardegna. Se non è emergenza vera e propria, poco ci manca. Tanto che è lo stesso provveditore regionale Maurizio Veneziano a scrivere una lettera-appello ai vertici del ministero della Giustizia, in particolare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Presso la sede del Provveditorato (a Cagliari), il sottoscritto - sottolinea Veneziano - è costretto a operare con un dirigente contabile, inviato in missione dalla Puglia per alcuni giorni al mese e con un direttore dell’Ufficio Detenuti e trattamento che può garantire una presenza limitata ad alcuni giorni del mese”. Su un organigramma che richiede 16 dirigenti sono soltanto 5 quelli che lavorano in Sardegna. “Più volte abbiamo denunciato questo stato di cose e l’amministrazione, il Dap, ha attuato interventi tampone senza mai risolvere definitivamente il problema - interviene subito Giovanni Villa, segretario della Fns Cisl Sardegna. La Sardegna è la Regione messa peggio e come si può capire è impossibile garantire continuità operativa a 360° al sistema penitenziario isolano. Le relazioni sindacali hanno subito un drastico rallentamento e ciò non fa che peggiorare la già grave e incomprensibile situazione. Il Dap intervenga immediatamente - alza la voce il sindacalista - non tollereremo ulteriori ritardi considerato che il Sistema penitenziario sardo è ormai in caduta libera”. “La caratura criminale di molti dei detenuti assegnati alle varie sedi penitenziarie della Sardegna - aggiunge il provveditore Veneziano - è ben nota agli Uffici dipartimentali, così come è conosciuta la difficoltà gestionale delle due case circondariali più importanti, quella di Uta e quella di Sassari, che assorbono l’utenza più problematica delle aree metropolitane in cui insistono”. Fatta una panoramica sulla realtà delle carceri isolane, arriva l’amara conclusione di Veneziani: “La situazione, che era già drammatica, sta progressivamente e inesorabilmente diventando surreale, rendendo impossibile stabilire un criterio di distribuzione degli incarichi che abbia anche solo un minimo di razionalità. Per non parlare della grave iniquità che si determina a danno dei dirigenti, per via dell’impossibilità di concedere perfino le ferie arretrate relative all’anno 2018”. Da qui la richiesta di un intervento immediato e risolutivo al direttore del personale e delle risorse del Dipartimento. Ancona: pugno di ferro con i detenuti, “così non li recuperiamo più” anconatoday.it, 23 giugno 2019 All’attacco dei magistrati. Una lettera di denuncia da parte dei detenuti, con i quali si schierano la Camera Penale di Ancona e il Garante dei diritti, che puntano il dito contro la magistratura del Tribunale di sorveglianza. Sono detenuti, ma sono pur sempre persone. Sono uomini che stanno finendo di scontare il conto con la giustizia e, in vista del loro ritorno alla società, chiedono di poterne fare parte in maniera dignitosa, con un lavoro e una nuova vita. Ma per essere reinseriti, devono essere messi alla prova e preparati attraverso una serie di benefici: lavoro esterno con la possibilità di incontro con i familiari, permessi premio, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali. Tutte possibilità intorno alle quali i magistrati del Tribunale di Sorveglianza delle Marche hanno stretto più di un giro di vite, creando problemi burocratici per gli avvocati, aumentando tensione e insofferenza tra i detenuti prossimi ad uscire, ma soprattutto col rischio di diminuire le possibilità che quegli uomini, una volta fuori, possano trovare un loro nuovo equilibrio. La posta in gioco è la sicurezza sociale, infatti che guadagno ha la società negando una possibilità a chi torna libero? I detenuti non riescono a trascorrere del tempo con la famiglia perché le poche ore di lavoro li escluderebbero dai colloqui familiari, quindi anche dalla possibilità di vedere i figli. Inoltre nella lettera vengono fatte presenti l’esiguità delle pene alternative concesse dalla magistratura, la limitatezza dei colloqui con i magistrati e un “no” categorico all’applicazione della legge 199, che prevede di scontare gli ultimi 18 mesi di pena in casa. È dunque alta tensione al carcere anconetano, dove i detenuti sono ormai in agitazione dopo il caso Zoppi. Si legge così nella lettera che tutti i detenuti del carcere di Barcaglione hanno scritto e indirizzato al Ministro della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), denunciando una condizione indegna della vita in carcere e un trattamento eccessivamente severo da parte della magistratura di sorveglianza, nei confronti che, sono anche prossimi ad uscire. La lettera, firmata da 70 detenuti, è arrivata alla segreteria della Camera Penale di Ancona che subito ha espresso la sua vicinanza ai detenuti, in sofferenza ormai da anni nelle celle dove, ogni tanto, riesplode in protesta I detenuti lamentano una applicazione quanto mai rigida delle norme dell’ordinamento penitenziario da parte del Tribunale di sorveglianza di Ancona, norme create allo scopo di favorire il reinserimento dei detenuti giunti, ormai, alla fine del percorso custodiale - si legge in un comunicato a firma del presidente della Segreteria della Camera Penale, l’avvocato Fernando Piazzolla e gli avvocati Francesca Petruzzo e Gaetano Papa - Si tratta di persone che, condannate in via definitiva, hanno scontato la stragrande maggioranza della pena e si avviano verso l’uscita dal carcere, che hanno svolto un percorso controllato, guidato e costantemente osservato dalla struttura carceraria. Si tratta di persone scrupolosamente monitorate dagli educatori del carcere e altrettanto scrupolosamente vigilate dalla Polizia Penitenziaria durante gli anni di detenzione. Si parla dunque di soggetti che, pur avendo commesso errori in passato, hanno raggiunto un traguardo di maturità e di coscienza degli errori commessi, tale da dover essere considerati non più socialmente pericolosi. I detenuti parlano di speranza, quella di poter ricominciare una vita fatta di normalità e di rapporti anche e, soprattutto, familiari. È chiaro che questa speranza va alimentata gradualmente, concedendo ai detenuti delle misure alternative alla detenzione che possano riavvicinarli progressivamente alla società. L’ordinamento penitenziario e il codice penale contengono una normativa specifica che agevola questo percorso di reinserimento attraverso la concessioni di permessi (più o meno brevi) con delle prescrizioni che, se non ottemperate alla lettera, portano all’immediata revoca del beneficio. Pertanto il costante rigetto indiscriminato delle istanze provenienti dai detenuti crea un malanimo e una insoddisfazione negli stessi sempre maggiore e tale da alzare pericolosamente il livello di tensione e di pericolosità, alimentate dalla non condivisibile severità adottata dai Magistrati operanti nel Tribunale di Sorveglianza di Ancona. Alla protesta dei detenuti, che la Camera Penale appoggia completamente, si deve aggiungere la protesta degli avvocati penalisti che sono costretti a registrare un atteggiamento dei magistrati che si pone al limite dello spirito di collaborazione. Infatti i colloqui tra magistrati e avvocati sono ridotti al minimo e spesso risultano indesiderati dai Magistrati stessi. Ridurre all’osso e “burocratizzare” il contatto con gli avvocati significa far venir meno quello spirito di collaborazione tra gli operatori della giustizia, categoria della quale fanno parte anche gli avvocati che giurano fedeltà alla stessa Costituzione sulla quale giurano i magistrati. Continuare ad avallare l’idea che va oggi per la maggiore, perché ripetuto come un mantra dai governanti ovvero: “buttiamo via la chiave e lasciamoli in galera”, significa lanciare un messaggio non aderente ai canoni costituzionali, capace di ingenerare insoddisfazione non solo negli avvocati ma anche nei detenuti che tanto, prima o poi, dovranno uscire dal carcere e far rientro nella società. Facciamo nostro il comunicato stampa del Garante dei diritti Andrea Nobili, unendoci alla sua volontà di incontrare il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Filippo Scapellato. Chiaramente la Camera Penale di Ancona invierà la citata lettera alla Unione delle Camere Penali Italiane coinvolgendo fin da subito il rappresentante dell’osservatorio carceri dell’Unione stessa, l’avvocato Simone Mancini. Le intenzioni del Garante Andrea Nobili - “È mia intenzione - sottolinea Nobili - informare di quanto sta accadendo il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, e di chiedere un incontro urgente al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Ancona, Filippo Scapellato, per un approfondimento delle problematiche poste in essere. È da precisare che quello di Barcaglione è un istituto a custodia attenuata che ospita detenuti a fine pena, che di fatto hanno perso la cosiddetta pericolosità sociale. I loro diritti, sempre tenendo conto di quanto contemplato dalla normativa vigente, vanno garantiti a tutti i livelli”. Roma: il grande spreco dei beni confiscati dei beni confiscati alla mafia di Fabio Tonacci La Repubblica, 23 giugno 2019 Vuoti, e a perdere. Oppure occupati, ma dagli inquilini sbagliati. Talvolta preda di senza tetto e cani randagi, altre volte di abusivi che, in assenza di controlli, fanno quel che vogliono. Roma Capitale, eternamente a corto di case e spazi per i suoi cittadini, non sa gestire i palazzi che ha strappato alla mafia. Il Comune è proprietario di 70 immobili confiscati a boss e clan, eppure quelli “in regola” - cioè utilizzati, accessibili e amministrati realmente da chi li ha avuti in concessione - sono meno della metà. Appena 31. Una cifra che fotografa l’ennesimo, clamoroso, spreco di una città che non vede la fine della notte. Le case abbandonate in centro - Il 14 marzo scorso la Polizia locale ha dato il via a una serie di verifiche sui beni confiscati, per i quali il Campidoglio ha l’obbligo del controllo e del monitoraggio. Diciotto gruppi di vigili urbani sono stati spediti a fare 86 sopralluoghi presso gli indirizzi indicati dal Comune, in diversi giorni e diversi orari, nell’arco di circa due mesi. Repubblica ha avuto accesso ai documenti ufficiali che riportano, nel dettaglio, l’esito del censimento. Ben 18 immobili sono risultati vuoti e in fase di degrado. Alcuni sono in pieno centro storico, come l’alloggio di 63 metri quadrati in via della Mercede, che è sotto la responsabilità proprio del Gabinetto della sindaca Virginia Raggi. È vicino al Parlamento, venne confiscato al cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e l’idea era di farne uffici istituzionali: è chiuso da quattro anni. O come un mega appartamento di 210 metri quadrati in via Federico Cesi, a due passi dalla Corte di Cassazione: sulla carta è stato assegnato all’associazione Andromeda, ma i vigili sono andati due volte senza trovare nessuno. “Non lo usano più da diversi anni”, ha riferito il portiere. O, ancora, come l’alloggio di 139 metri quadrati di via Muratori vista Colosseo, che era della moglie di un boss della Camorra. Vuoto. Altri sono in zone più periferiche, ma il trattamento è lo stesso: incuria e abbandono. Il terreno di 1.500 metri quadrati con un fabbricato in via Anagnina, ad esempio: da un paio di anni è in fase di assegnazione. “Immobile inutilizzato - scrivono i vigili - Si rilevano effrazioni ed è usato come ricovero notturno da parte di ignoti”. Ci dormono tossicodipendenti e barboni, in altre parole. La coop di Mafia capitale In dieci casi, i beni confiscati e assegnati hanno delle irregolarità, per via della concessione scaduta, della presenza di manufatti abusivi, di subaffitti non autorizzati. Pure su Villa Osio, anch’essa del ricchissimo Nicoletti e che oggi ospita la Casa del Jazz, si allunga l’ombra della malagestione. Al sopralluogo il parco era “in stato di abbandono”, l’impianto di irrigazione fuori uso perché danneggiato anni fa durante una festa e mai riparato, uno dei tre edifici era deserto ma col riscaldamento acceso. Stavano costruendo un bar ristorante, e a fare i lavori aggiudicati con bando di gara c’era la Sapori Catering srl, i cui soci hanno precedenti di polizia per associazione a delinquere e frode in pubbliche forniture. Per questo, e per la gestione nel complesso, è stata fatta una segnalazione alla procura. Per non dire, poi, dei sette immobili occupati o abitati dai precedenti inquilini in attesa di essere sgomberati. Al civico 97 di via delle Capannelle i vigili hanno trovato la cooperativa sociale Edera, colpita nel 2015 da interdittiva antimafia perché il titolare fu coinvolto nell’inchiesta Mafia capitale. Quella di Edera è una storia non semplice da chiudere, dato che impiegava 150 persone che rischiavano il posto di lavoro. Oggi però il settimo municipio di Roma reclama il luogo, e la coop è da sgomberare. Raggi ne vuole altri settanta - Nel censimento compaiono anche situazioni che hanno una giustificazione. Il palazzo di via Quattro Novembre vicino a Piazza Venezia, confiscato al boss di Camorra Michele Zaza, pur assegnato all’associazione antimafia Libera, è chiuso da quasi un anno. “È la nostra sede legale - spiega Davide Patia, di Libera - ma i tecnici hanno scoperto che una parte è inagibile e bisogna intervenire sulle solette. Cosa che faremo a nostre spese, coordinandoci col comune, poi torneremo lì. L’immobile per noi ha un valore speciale: fu uno dei primi ad essere confiscati a Roma e l’abbiamo dedicato alla memoria di Saveria Antiochia, la mamma del poliziotto Roberto Antiochia, assassinato da Cosa Nostra”. La sindaca Virginia Raggi, dunque, ha un problema: un enorme patrimonio sottratto alle mafie, eppure dalla sua amministrazione mal gestito, quando non del tutto sprecato. Ma invece di investire risorse per salvare il salvabile, recuperando per l’emergenza abitativa la pletora di palazzi abbandonati in centro e in periferia, ne vuole di più. Con la delibera di giunta del novembre scorso, Roma Capitale “ha manifestato interesse per altri 71 immobili confiscati presenti sul territorio urbano”, ed è tornata a interpellare la Conferenza di servizi indetta dall’Agenzia nazionale e dalla prefettura di Roma. Come se quelli che il Comune ha già a disposizione fossero ben utilizzati. La realtà è l’esatto contrario, e racconta di una sconfitta per tutti, non solo per Roma: quando lo Stato si riprende la casa di un boss, e poi quella casa rimane vuota, decadente, o, peggio, occupata da abusivi, vincono loro. Vince la mafia. Reggio Calabria: carcere, persone oltre le sbarre di Agostino Siviglia* Avvenire, 23 giugno 2019 Il carcere è considerato una “discarica sociale”. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria è stato istituito con deliberazione del Consiglio Comunale n. 46 del primo agosto 2006 ed è stato contestualmente approvato il Regolamento, modificato con Delibera Consiliare n. 56 del 22 ottobre 2015, che ne disciplina l’esercizio delle funzioni, i requisiti, le modalità di nomina, nonché i requisiti e le modalità di nomina dei componenti del suo Ufficio. Il Garante, in particolare, opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale. Il Garante, svolge le sue funzioni anche attraverso intese ed accordi con le Amministrazioni interessate volte a consentire una migliore conoscenza delle condizioni delle persone private della libertà personale, mediante visite ai luoghi ove esse stesse si trovino, nonché con associazioni ed urbanismi operanti per la tutela dei diritti della persona, stipulando a tal fine anche convenzioni specifiche. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria e l’avvocato Agostino Siviglia, nominato dal sindaco il 19 giugno 2015. Don Giacomo D’Anna si destreggia tra gli uffici del carcere con disinvoltura. Il carattere è quello di sempre, gioviale e spiritoso, riuscendo a strappare un sorriso anche in un contesto tutt’altro che semplice, “Il mio mandato è durato 14 anni, dal 2004 al 2018. Questo tempo ha rappresentato per me un’esperienza molto forte; posso affermare che tutto ciò ha segnato !a mia vita prima come uomo e poi come sacerdote”, dice il prete reggino che da pochi giorni ha concluso la sua esperienza da Cappellano del carcere di San Pietro. Così monsignor D’Anna, parroco del Santuario di San Paolo alla Rotonda in Reggio Calabria, ha deciso di scrivere un libro che vena presentato martedì 25 giugno, alle 17.30, presso il Palazzo della Città Metropolitana “Corrado Alvaro”. 11 titolo è inequivocabile: “Una voce da dentro. L’esperienza di una presenza in carcere”. All’importante evento parteciperà monsignor Vincenzo Berto-Ione, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e presidente della Cec. Ancona una volta, quest’anno, ci tocca ripetere: “Dal sociale al penale, il penitenziario continua ad essere sempre più luogo di discarica sociale”. Tre leggi in particolare, meritano di essere menzionate in tal senso: la legge Bossi-Fini, la legge Fini-Giovanardi e la legge ex Cirielli, che rispettivamente si occupano di immigrati clandestini, tossicodipendenti e recidivi. Queste tre leggi, nonostante gli interventi della Corte Costituzionale, ancora oggi, a distanza di lustri, continuano a dispiegare ì loro nefasti effetti criminogeni e carcerogeni. Da qui si spiega, in gran parte, la pletora di quelle “vite dì scarto”, per usare la tragica ma eloquente definizione di Bauman, che ancora oggi sovraffollano i penitenziari italiani e reggini (con proporzioni per la verità più contenute alle nostre latitudini), per lo più tossicodipendenti (35,3%) e stranieri (34% circa). La condizione delle carceri reggine, in specie, si configura differente fra i due istituti di “San Pietro” e “Arghillà”: il primo, storico carcere cittadino, è ospitato da una popolazione carceraria che continua ad essere costituita in gran parte da detenuti in attesa di giudizio e per lo più incriminati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ciò rileva sia ordine al trattamento rieducativo, evidentemente, neutralizzato nei confronti di chi ancora deve essere giudicato definitivamente, sia in ordine alla inesplorata funzione rieducativa della pena in contesto di criminalità organizzata, almeno nel contesto penale adulti. Quando, al contrario, questa tema, a queste latitudini, è di cruciale rilevanza; il secondo, di recente costruzione, proprio, nel problematico e complesso quartiere di Arghillà, continua a contenere un’umanità reclusa sempre uguale a se stessa: detenuti provenienti da altre regioni, con fine pena lunghissimi e finanche condannati all’ergastolo e, poi, la solita frammistione di popolazione detenuta: extracomunitari, rom, sinti, tossicodipendenti, sex-offender; autori di reati comuni e detenuti di alta sicurezza; qualche colletto bianco. E ancora a “San Pietro” c’è una sezione di “Osservazione Psichiatrica” ed una apposita sezione femminile, con ad oggi 34 donne detenute e, fino a qualche tempo addietro, anche qualche bambino. Tema questo, dei bambini innocenti detenuti fino a tre anni di età con le madri che non hanno a chi affidarli, che a mio avviso costituisce una vera e propria aberrazione. E per il quale mi batto da anni. Eppure i segni di speranza non mancano: penso ai detenuti del carcere di “Arghillà” che da tre anni svolgono lavori volontari e gratuiti in favore della collettività; o all’iniziativa di Area Democratica, in collaborazione con il Cec e questo Garante, relativa alla sartoria in carcere per le donne detenute; o alla passione, alla “credenza”, di educatori, assistenti sociali, volontari, agenti di polizia penitenziaria, medici, dirigenti, sacerdoti, suore. Insomma, in carcere sconforto e speranza convivono, fra quanti attendono una libertà prossima, lontana, sperata e, magari, una vita diversa e quanti con la loro ‘credenza” riempiono di senso la funzione rieducativa della pena. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria L’Aquila: detenute Costarelle in sciopero della fame, appello di Petrilli inabruzzo.com, 23 giugno 2019 Giulio Petrilli diffonde un messaggio: “Appello ai parlamentari abruzzesi e ai consiglieri/e abruzzesi per recarsi nel carcere de L’Aquila e trovare una mediazione tra istituzione carceraria e le due detenute in sciopero della fame da 24 giorni Silvia Ruggeri e Anna Beniamino che protestano contro una situazione detentiva fatta di isolamento totale. Non esiste ancora il garante dei detenuti ma loro hanno la possibilità’ di entrare in carcere, lo facciano. La situazione è realmente estrema, lo sciopero della fame totale già per 24 giorni lascia dei segni irreversibili, immaginiamo se seguita. Molti non si rendono conto di questo. Lo sciopero della fame nelle carceri ha lasciato dietro diversi morti. Chi lo ha fatto fuori non è mai morto. Il mio è un invito urgente alle figure istituzionali alle quali è consentito di entrare nelle carceri. Rovigo: nel prossimo anno scolastico sarà attivata la scuola carceraria di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 23 giugno 2019 La sede sarà riferita al locale Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) e avrà un proprio organico distinto: ha già, invece, il proprio codice meccanografico, vale a dire il codice che identifica univocamente le scuole e gli istituti dislocati sul territorio nazionale. L’attivazione segue alla sperimentazione che il Cpia di Rovigo ha avviato nella Casa circondariale per il completamento del primo ciclo di istruzione (le ex scuole medie). Il 2018-19 è stato il secondo anno di sperimentazione del percorso di istruzione in carcere.La scuola in carcere è un elemento fondamentale per le persone detenute nel percorso di riabilitazione verso il reinserimento in società. E il Cpia, in collaborazione con la Casa circondariale, svolgeva già corsi di alfabetizzazione di lingua italiana e di inglese. Il corso per il completamento del primo ciclo di istruzione è stato attivato secondo le caratteristiche della nuova popolazione carceraria, e in base alle necessità che il personale educativo della Casa circondariale ha raccolto tra le persone detenute, che nel nuovo carcere restano per periodi più lunghi rispetto a quanto avveniva nella struttura di via Verdi. I tempi di detenzione della popolazione nel nuovo carcere, così, sono uno dei fattori che hanno portato il Cpia ad attivare nuove misure per rispondere alle specificità dell’utenza, ulteriori a quelle già realizzate in passato. Oltre al personale con sede a Rovigo, il Cpia potrà contare per l’organico della scuola in carcere su un docente della classe di concorso A022 Lettere (Italiano, storia, geografia). Rovigo così, anche dal punto di vista dell’istituzionalizzazione della scuola carceraria, si allinea ai percorsi di istruzione offerti negli altri istituti di pena in Veneto. Lo scorso 11 aprile Regione, Ufficio scolastico regionale del Miur, Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto e Ufficio inter-distrettuale di esecuzione penale esterna del Dipartimento Giustizia minorile e di comunità, avevano firmato un protocollo di intesa per dare una cornice istituzionale alle numerose esperienze avviate negli istituti penitenziari del Veneto dai Centri provinciali per l’educazione degli adulti. L’intesa ha condiviso l’obiettivo di assicurare a tutti i detenuti, adulti e minori, la possibilità di accedere a un percorso scolastico o formativo, e di conseguire un diploma. Grazie alla collaborazione tra Cpia di Rovigo, Casa circondariale e organismi di formazione professionale, si punta inoltre a compiere ulteriori passi verso l’obiettivo di fornire conoscenze e competenze che possano dare, una volta terminata l’esperienza della detenzione, gli strumenti per riprendere la vita fuori dal carcere. “Insieme al primo ciclo di istruzione e ai percorsi di alfabetizzazione e apprendimento di lingua italiana, con la Casa circondariale è stato programmato di approntare un’aula con pc per svolgere corsi di informatica - spiega la dirigente scolastica del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti Paola Malengo. Continueranno i corsi di inglese già attivati e in funzione delle esigenze e dei bisogni didattici che emergono dai sondaggi svolti dal personale educativo della casa circondariale tra le persone detenute, potranno esserci anche interventi dal punto di vista della professionalizzazione”. Ad esempio, sta per partire in co-progettazione con l’Enaip un corso di panificazione. Lecco: donate attrezzature per l’attività fisica alla Casa circondariale di Pescarenico comune.lecco.it, 23 giugno 2019 Presentato con l’occasione il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Lecco. Si è svolta ieri, presso la Casa Circondariale di Pescarenico, la presentazione della donazione di attrezzature da palestra per l’attività fisica effettuata dalla signora Rita Di Vivo ai detenuti della struttura. In questo modo, insieme ai figli Francesca e Luca, la signora ha voluto ricordare il marito, e padre, Ciro Cesarano, imprenditore e politico di Cinisello Balsamo. Alla celebrazione ha presenziato la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna di Rosa che con la propria allocuzione ha chiuso gli interventi del Direttore della Casa Circondariale di Pescarenico Antonina D’Onofrio, del Sindaco di Lecco Virginio Brivio, del Garanti regionale dei diritti dei detenuti Carlo Lio e del Garante locale dei diritti dei detenuti Marco Bellotto. Alla presentazione hanno partecipato anche il Comandante, Commissario Coordinatore della Casa Circondariale Giovanna Propato, don Marco Tenderini e i collaboratori del Garante comunale dei diritti dei detenuti, Lucia Buizza, Micaela Furiosi e Paolo Casu, nonché i detenuti della Casa Circondariale. Questa donazione esprime attenzione nei confronti della realtà delle strutture di detenzione, supporta la possibilità di creare attività di recupero e condivisione e favorisce lo sviluppo della pratica dell’attività fisica che, in un contesto di detenzione, risulta essere di grande importanza. Le attrezzature saranno distribuite nei diversi reparti e sezioni del carcere, che ricaveranno spazi al loro interno, per facilitare un clima favorevole al recupero dei detenuti, che passa anche attraverso attività di svago e ricreazione sportiva. L’inaugurazione è stata anche l’occasione per presentare il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Lecco Marco Bellotto [nella foto, al centro, a fianco del Sindaco], nominato lo scorso 22 marzo. Nato a Torino nel 1965, risiede a Lecco dal 2008, psicologo e psicoterapeuta a orientamento interattivo-cognitivo, si è formato negli ambiti della devianza, della criminalità e della psicologia clinica. Ha sviluppato esperienze e competenze nell’intervento psico-sociale nell’ambito delle dipendenze, della criminalità minorile, della marginalità sociale e nel lavoro con la comunità territoriale. Dal 2005 al 2012 ha operato come psicologo consulente presso l’Istituto Penale Minorile “Ferrante Aporti” di Torino. Dal 2000 collabora con l’Associazione Comunità Il Gabbiano in qualità di psicologo psicoterapeuta e come operatore territoriale in progetti di welfare di comunità. Dal 2012 è componente del Tavolo lecchese per la Giustizia Riparativa e dal 2014 è componente del Forum Salute Mentale di Lecco. Il momento di ieri ha inoltre consentito di avviare un percorso di collaborazione tra la Casa Circondariale, il Garante regionale dei diritti dei detenuti Carlo Lio, che svolge anche le funzioni di Difensore civico, il Garante comunale dei diritti dei detenuti Marco Bellotto e il suo gruppo di lavoro, nella logica della giustizia riparativa. Il tutto nel pieno rispetto dei principi normativi sanciti dall’articolo 27 della Carta Costituzionale e dell’Ordinamento Penitenziario. Carinola (Ce): il Garante dei detenuti Ciambriello denuncia “celle con bagni a vista” istituzioni24.it, 23 giugno 2019 “Nella mattinata di ieri sono stato nel carcere di Carinola (Ce). Dopo aver effettuato dei colloqui individuali con una decina di detenuti, ho inaugurato, insieme al direttore dell’istituto penitenziario Carlo Brunetti ed alcuni amministratori locali, una mostra di manufatti di maiolica smaltata realizzati da alcuni detenuti che sono studenti delle scuole medie e superiori del Liceo Artistico, intitolata “Viaggio del Piccolo Principe nel cuore del sogno oscurato”, curata dalla professoressa Lucia Galdieri. Subito dopo, ho incontrato i 7 studenti che stavano tenendo l’esame di maturità del Liceo Artistico e i 12 che hanno preso la licenza media. Successivamente, ho visitato il reparto dei Sex Offender in cui sono ristretti 42 detenuti in celle singole o multiple con bagno a vista: un trattamento inumano e degradante. Infatti, anche la Corte di Cassazione lo ha dichiarato con una sentenza. A tali detenuti ho comunicato che a breve partirà il progetto “Sostegno e condivisione” della durata di 7 mesi. Questo progetto prevede attività di sostegno e condivisione ai detenuti sex offender sia di Carinola che di Secondigliano e di Vallo della Lucania (Sa)”, è quanto dichiarato in una nota dal Prof. Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, a margine della visita effettuata presso l’Istituto Penitenziario casertano di Carinola. Bologna: un dvd per spiegare il carcere agli studenti Redattore Sociale, 23 giugno 2019 Un dvd interattivo a fumetti aprirà le porte del carcere agli studenti delle scuole superiori di Bologna. Cinque storie di detenuti, donne e uomini, italiani e stranieri, video-testimonianze, testi, giochi, quiz e immagini, aiuteranno gli studenti a conoscere il mondo dietro le sbarre ed a formarsi una propria opinione al riguardo. Con questo intento nasce “Wunderkammer - La Camera delle Meraviglie”, dvd interattivo sul tema dell’esecuzione della pena e della fase post-penitenziaria, frutto di un percorso di collaborazione iniziato nel 2001 tra Comune di Bologna, Istituto di ricerca e formazione Iress, e associazione Gruppo Elettrogeno. Stampato in 1.000 copie, Wunderkammer verrà inviato a tutte le scuole superiori bolognesi, e presentato a giugno ai presidi, che da settembre prossimo potranno inserirlo nei percorsi formativi, integrando così le attività che gli ideatori del progetto svolgono già negli Istituti. Il dvd riassume infatti in un unico supporto multimediale le varie esperienze che Iress ha realizzato nel corso degli anni in classe, centri sociali, sedi di Quartiere e altri luoghi di aggregazione sociale della città. Grazie al nuovo strumento, le scuole potranno quindi formare autonomamente gli studenti sul tema del carcere e della detenzione, al fine di portare i ragazzi a “costruirsi un proprio pensiero, una propria formazione”, spiega Elena Di Gioia, di Gruppo Elettrogeno, oggi a Palazzo D’Accursio per presentare il dvd. Iress e Gruppo Elettrogeno, mettono inoltre a disposizione delle scuole i propri operatori, per una presentazione accompagnata del dvd, una vera e propria conferenza spettacolo con attori che recitano la parte dei cinque carcerati. Wunderkammer renderà dunque più accessibile il complesso argomento della detenzione, non solo fornendo informazioni sulla storia ed i significati della pena e del carcere e sulle figure e le istituzioni ad essi collegate, ma consentirà anche di visualizzarne alcuni degli aspetti più significativi, a partire da personaggi, racconti, opinioni e punti di vista. Gli studenti impareranno ad esempio cosa si può portare in cella, quali sono le strutture di detenzione a Bologna, ma anche quelle di sostegno, i progetti e le aziende che si attivano dopo che si è scontata la pena. Focus anche su tutti i numeri sulla giustizia bolognese, anche quella minorile. Per Massimo Ziccone, responsabile Area pedagogica della Dozza, è molto importante “sensibilizzare la città, perché il carcere è sempre più visto come un luogo dove depositare i rifiuti della società”. Per Ziccone invece “una società matura deve essere capace non di espellere ma di integrare; solo con il recupero sociale infatti si possono risolvere i problemi, se li continuiamo ad espellere ritornano moltiplicati: un detenuto che esce senza ricevere aiuto è destinato a commettere altri reati”. Il dvd verrà presentato domani al Teatro S. Martino: a momenti di rappresentazione teatrale si alterneranno brani video estratti da Wundrkammer. Sempre al Teatro S. Martino, dal 28 al 31 maggio, Gruppo Elettrogeno presenta il secondo appuntamento con Il Teatro delle Necessità: verrà proiettato “Il Decalogo delle Donne”, video realizzato nella sezione femminile della Dozza. Giovedì e venerdì verrà proiettato in anteprima “Storie di Montesole, ovvero l’incredibile”: racconta per immagini l’esperienza del concerto “Canzoni e canzonette”, a Monte Sole, nata dal laboratorio di musica condotto nella sezione penale maschile della Dozza, che ha coinvolto detenuti e non. Gorgona (Li): Papa Francesco scrive ai detenuti rainews.it, 23 giugno 2019 Il cardinale Simoni ha visitato il carcere e ha consegnato la lettera del Pontefice. “Tutti noi facciamo sbagli nella vita e tutti siamo peccatori. E tutti noi chiediamo perdono di questi sbagli e facciamo un cammino di reinserimento, per non sbagliare più. Quando andiamo a chiedere perdono al Signore, Lui ci perdona sempre, non si stanca mai di perdonare e di risollevarci dalla polvere dei nostri peccati”. Lo scrive Papa Francesco in una lettera inviata ai carcerati dell’isola della Gorgona (Livorno) spiegando di conoscere “la situazione non sempre facile delle carceri, pertanto non manco di esortare sempre le comunità ecclesiali locali a manifestare concretamente la vicinanza materna della Chiesa in questi luoghi di dolore e redenzione”. Da parte mia, vi incoraggio a guardare al futuro con fiducia, proseguendo con il prezioso aiuto del vostro cappellano e degli altri educatori il percorso di cambiamento e di rinnovamento interiore, sostenuti dalla fede e dalla speranza che il Signore, ricco di misericordia, ci è sempre accanto”, prosegue il Papa nella lettera che si chiude con i suoi “cordiali e affettuosi saluti. Vi sento vicini nella preghiera e vi affido alla materna protezione della Madonna e mi compiaccio per l’impegno di tante persone che a Gorgona sono al vostro fianco ed operano a vostro conforto e sostegno”. La lettera del Pontefice è stata consegnata dal cardinale Ernest Simoni che ha visitato il carcere e celebrato la messa a cui hanno partecipato gli agenti della polizia, i carcerati e gli abitanti dell’Isola. Simoni ha poi raccontato gli oltre 20 anni di prigionia e lavori forzati in miniera trascorsi da lui perseguitato in Albania dal regime comunista di Hoxha. Attualmente l’isola-carcere ospita circa 90 detenuti e 50 agenti di polizia penitenziaria. Trieste: Cremonini, il regista del film “Sulla mia pelle”, terrà una masterclass in carcere La Repubblica, 23 giugno 2019 “Il cinema è uno strumento di cittadinanza che serve anche ad ampliare i propri desideri di conoscenza. I detenuti sono cittadini quanto noi, stanno scontando una pena ma hanno gli stessi nostri diritti, gli stessi che aveva Stefano Cucchi. Magari ci fosse anche lui, tra loro”. Alessio Cremonini, regista del pluripremiato Sulla mia pelle, cronaca degli ultimi giorni del geometra romano morto nel 2009, entrerà in un carcere per raccontare come si fa cinema. Il 5 luglio terrà una masterclass presso la Casa circondariale di Trieste nell’ambito dello Shorts International Film Festival. Ad ascoltarlo, un gruppo di detenuti che sta seguendo un corso professionale e che a fine festival premierà il miglior cortometraggio, anche Cremonini è in giuria. Per lui è la prima volta in un carcere, “andrò per ascoltare, il tema della masterclass sarà il rapporto fra cinema e comparto della giustizia, credo che ciò che queste persone hanno da dire sia più importante di quanto possa dire io”. Un confronto impegnativo per l’autore che ha raccontato una vicenda, come quella di Cucchi, fatta anche di carceri “ma con la differenza che gli uomini che incontrerò hanno subìto un processo mentre Stefano è morto prima. La giustizia ha fallito due volte: perché non abbiamo giudicato un uomo che aveva commesso un reato, e perché se era davvero colpevole avremmo potuto recuperarlo, come dice la Costituzione si va in carcere per essere riabilitati alla società”. Cremonini sarà alla proiezione di Sulla mia pelle il 4 luglio alle 20 al teatro Miela di Trieste, il lungo viaggio di un film partito un anno fa dalla Mostra del Cinema di Venezia, che ha contribuito alla ricerca di nuove verità sulla morte di Cucchi. “Come diceva Rossellini - conclude il regista - non mi interessa il cinema in sé, mi interessa il cinema utile. Un film dev’essere strumento di riflessione sulla realtà che viviamo. Peccato che in Italia questa funzione gli venga attribuita così poco”. Padova: con il calcio è festa al Due Palazzi, partita e targa per la vittoria dei detenuti Corriere Veneto, 23 giugno 2019 Per festeggiare il primo posto nel campionato di terza categoria della Polisportiva Pallalpiede, la squadra dei detenuti, ieri il terreno di gioco della Casa di Reclusione Due Palazzi ha ospitato una partita tra la squadra allenata da Fernando Badon e una rappresentativa di giornalisti e consiglieri comunali, guidati dall’assessore allo Sport, Diego Bonavina. Nell’occasione, quest’ultimo ha consegnato una targa ai giocatori e ai dirigenti della Polisportiva Pallalpiede. Torino: un concerto per i figli e le famiglie dei detenuti rai.it, 23 giugno 2019 Con Rai Ragazzi la musica arriva oltre le sbarre. Un carcere pieno di musica e canzoni, dedicate ai figli e alle famiglie dei detenuti: è accaduto oggi pomeriggio - sabato 22 giugno - tra le mura di della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, nel concerto organizzato da Rai Ragazzi con il Sermig - Arsenale della Pace, l’Unicef e la Direzione della Casa Circondariale di Torino in occasione della Giornata Internazionale della Musica. Ospiti d’onore, una sessantina di bambini - tra i 2 e i 14 anni - figli dei detenuti, e le loro famiglie. L’incontro, nell’auditorium del carcere, è stato scandito dai brani eseguiti dall’Orchestra e Coro del Laboratorio del Suono del Sermig, diretti da Mauro Tabasso e presentati da uno dei volti più noti di Rai Ragazzi, dalla Melevisione a Happy Dance: Lorenzo Branchetti. “Un modo diverso per passare un poco di tempo insieme: andare a trovare il proprio papà in carcere ed assistere ad un concerto con lui. Rai Ragazzi - dice Mussi Bollini, vicedirettore di Rai Ragazzi - oltre all’impegno nel produrre, acquistare e trasmettere programmi di qualità, cerca di essere presente sul territorio con eventi che coinvolgono le diverse realtà torinesi o nazionali, in un impegno costante per una cultura dell’infanzia che deve essere sempre più incentrata sui reali bisogni dei bambini e dei ragazzi”. In scaletta, applauditissime, alcune sigle e canzoni storiche di Rai Yoyo: “Ninna Nanna Bumbi” e “Il bassotto e la giraffa” dal programma “Bumbi”; “La rabbia va in vacanza”, “Sulle ali del coraggio” e “Amici!” da “L’albero azzurro”, ma non mancheranno altri brani come tre movimenti dalla Kindersinfonie (la “Sinfonia dei giocattoli”) di Angerer-Mozart-Haydn, “Song of Hope” di Susanna Lindmark, “The final countdown” degli Europe e “Viva la vida” dei Coldplay. “Oggi grazie a Rai Ragazzi e all’Orchestra e Coro dell’Arsenale della Pace del Sermig - aggiunge Antonio Sgroi Presidente provinciale per l’Unicef di Torino - possiamo affermare di aver adempiuto a quanto previsto dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia, di cui quest’anno ricorre il trentennale, agevolando il consolidamento di rapporti personali e contatti diretti con i genitori. Promuovere il mantenimento di relazioni familiari di qualità incide positivamente non solo sul genitore recluso, ma soprattutto sullo sviluppo del bambino Pisa: festa della musica in carcere con il progetto “Musica Dentro” pisatoday.it, 23 giugno 2019 A conclusione del corso di educazione musicale organizzato da Il Mosaico, eccezionale concerto del Coro e dell’Orchestra dell’Università di Pisa diretti dal Maestro Manfred Giampietro per gli operatori e i detenuti. Aderendo alle sollecitazioni del Ministero della Giustizia per la celebrazione in tutti gli istituti di pena italiani della Festa della Musica, promossa dal Ministero dei Beni Culturali, l’Associazione Culturale Il Mosaico, a conclusione della VII edizione del Progetto Musica Dentro, organizza presso il carcere “Don Bosco” un concerto straordinario del Coro e dell’Orchestra dell’Università di Pisa diretti dal Maestro Manfred Giampietro. Si tratta di una giovane e importante realtà cittadina che fa parte del Centro per la diffusione della cultura e della pratica musicale dell’Università di Pisa, coordinato dalla prof.ssa Maria Antonella Galanti, con un repertorio che spazia dal barocco alla musica moderna e, al fine di esplorare altre esperienze musicali, include anche musiche per film e videogiochi: molto acclamati sono stati il concerto Fantasy (k)night, tenutosi nel maggio 2018 e tratto dalla fortunata serie di videogiochi Final Fantasy, e i due concerti di colonne sonore Le note degli Oscar. Per questa eccezionale celebrazione della Festa della Musica, che si svolgerà il prossimo 25 giugno 2019 per oltre 120 persone, tra invitati e detenuti, nel cortile della Casa Circondariale “Don Bosco”, sarà eseguita una speciale selezione dalla serie videoludica “Zelda”. Il Progetto Musica Dentro è il corso di educazione musicale dedicato ad alcuni reclusi della casa circondariale di Pisa svolto dai docenti Marialuisa Pepi, Linda Scaramelli e Marco Mustaro, grazie al generoso finanziamento della Fondazione Pisa e della Società della Salute Pisana. “La realizzazione della VII edizione di Musica Dentro” afferma Riccardo Buscemi, Presidente de Il Mosaico “è stata possibile grazie alla disponibilità del Direttore del carcere Francesco Ruello, che ha autorizzato e incoraggiato la nostra iniziativa, e accolto con entusiasmo la proposta di celebrare la Festa della Musica con l’eccezionale presenza ed esecuzione della prestigiosa realtà musicale dell’Università di Pisa. Ringrazio il Magnifico Rettore Prof. Paolo Maria Mancarella, la Professoressa Maria Antonella Galanti, il Maestro Manfred Giampietro e tutti i musicisti che aderendo senza esitazione all’idea di un concerto in carcere, celebreranno quest’anno in una maniera davvero “speciale” la Festa della Musica”. Messina: musica dietro le sbarre, concerto al carcere di Gazzi di Elisabetta Reale Gazzetta del Sud, 23 giugno 2019 Un incontro di note, parole, sogni ed emozioni per la pace e contro ogni pregiudizio. Condivisione in musica, ieri mattina, alla casa circondariale di Gazzi che, in occasione della Festa europea della Musica e nel giorno del solstizio d’estate, ha accolto un evento pensato per regalare speranza e libertà, grazie al potere dell’arte che abbatte le barriere e unisce i cuori. “Un mare di libertà in musica”, il nome dell’evento, voluto fortemente dal direttore del carcere, Angela Sciavicco, dal comandante della polizia penitenziaria Antonella Machì e dal direttore artistico del “Piccolo Shakespeare” Daniela Ursino, che hanno illustrato le finalità dell’evento svoltosi nel campo da calcio dell’istituto, spazio teatrale “sotto le stelle” che raccoglie la potenza del Piccolo Shakespeare, il teatro del carcere. Musica e versi per un appuntamento che è stato subito sposato e sostenuto da molteplici realtà del territorio, civili e militari, per un sempre più fruttuoso dialogo col carcere. “Una performance - ha sottolineato Daniela Ursino -, molto particolare grazie all’impegno di tanti, per lanciare, attraverso la suggestione della musica, un messaggio di rispetto, riscatto, senso del dovere, libertà, unione, sacrificio, fratellanza. La musica unisce e ci aiuta a sintetizzare il concetto del non giudicare l’altro. Anche verso chi ha sbagliato va tesa una mano per aiutarlo a risollevarsi”. Questo lo spirito che ha animato i tanti protagonisti dell’evento, applaudito da detenuti e detenute di alta e media sicurezza. Spazio a parole di libertà e speranza, arrivate dalla voce dell’attore della compagnia della Fortezza Pippo Venuto, poi l’inno d’Italia eseguito dalla Banda della Brigata Meccanizzata Aosta diretta dal maestro Fedele De Caro che si è esibita insieme al coro “Note Colorate” diretto dal maestro Giovanni Mundo. Musica e parole della tradizione grazie ai versi di Maria Costa, in collaborazione col centro Studio dedicato alla poetessa, presieduto da Lillo Alessandro. Versi dedicati al mare dello Stretto, alla terra di Sicilia e a Messina, tanto amata dalla poetessa, recitati dagli attori della “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” e da altre voci d’eccezione, “attori per un giorno” scelti tra il personale del Corpo della Polizia penitenziaria, di Marina militare e Arma dei carabinieri. A preparare gli attori l’aiuto regia del Progetto “Il Teatro per Sognare”, l’attore messinese, Antonio Previti, a seguire l’allestimento Francesca Cannavò, tecnico luci Dino Privitera. Cresce la forza aggregativa di un progetto che vede la collaborazione del ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Provveditorato regionale, Tribunale di sorveglianza e la presenza costante e il sostegno di Curia, Caritas diocesana (presenti ieri l’arcivescovo Giovanni Accolla e il direttore Nino Basile). Intervenuti, tra gli altri, il generale di corpo d’armata Luigi Robusto, il comandante distaccamento Brigata Aosta colonnello Luigi Lisciandro, il capitano di vascello Giuseppe Catapano, il capitano di fregata Antonio Ciacio D’Arrigo. Pattuglie miste italo-slovene per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 23 giugno 2019 Lungo il confine a partire da luglio. Fedriga: “Valutiamo la possibilità di chiedere la sospensione di Schengen”. A partire dal prossimo primo luglio agenti di polizia italiani e sloveni pattuglieranno insieme il confine tra i due Paesi per fermare i migranti in arrivo dalla rotta balcanica. L’iniziativa è frutto di un accordo bilaterale tra Roma e Lubiana e prevede anche l’identificazione veloce di quanti verranno fermati per stabilire chi ha diritto di richiedere la protezione internazionale (diritto che in realtà hanno tutti) e chi, invece, verrà respinto. “Abbiamo bloccato gli ingressi via mare e ora rafforziamo la vigilanza per proteggere le frontiere terrestri. Dopo anni, l’Italia non è più il campo per clandestini dell’Europa”, ha detto ieri il ministro degli Interni Matteo Salvini. Tanto entusiasmo per i nuovi controlli lascerebbe intendere l’esistenza di un’emergenza al confine italo-sloveno che invece non c’è, anche se i numeri delle persone arrivate negli ultimi mesi è cresciuto rispetto agli anni passati. Dai 448 migranti fermati infatti nel corso di tutto il 2018 (dati del Dipartimento della Pubblica sicurezza), si è passati ai 652 intercettati nei primi cinque mesi di quest’anno. 121 sono invece le persone bloccate nelle zone di confine con l’Austria. Il totale non fa neanche il doppio rispetto a un anno fa, e anche considerando che si tratta dei dati relativi a soli sei mesi stiamo parlando sempre di numeri molto contenuti. Del resto solo pochi mesi fa era stato proprio il governatore leghista del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedrica, a dirsi soddisfatto della flessione registrata negli arrivi. “Le presenze di migranti dalla rotta balcanica nella regione sono diminuite del 20% in un anno”, aveva spiegato a marzo parlando di un risultato straordinario rispetto a quelli che “ci dicevano che è un flusso inarrestabile”. Ieri invece Fedriga è arrivato a non escludere la possibilità che la Regione possa “valutare di richiedere al governo la sospensione di Schengen”, il trattato di libera circolazione tra i Paesi Ue. C’è da dire che - per quanto limitati - i numeri degli arrivi lungo la rotta balcanica qualcosa devono pur significare. Un’indicazione potrebbe arrivare dalla Guardia di Finanza che segnala una ripresa dei passaggi nel Mediterraneo centrale, dalla Turchia alla Grecia. Aumento confermato anche dai dati forniti nei giorni scorsi dal ministero degli Interni di Ankara e che parlano di 27.536 migranti fermati dalle autorità turche nel solo mese di maggio mentre tentavano di raggiungere l’Europa. Incremento che nulla sembra avere a che fare con la politica dei porti chiusi dell’Italia, visti i Paesi di origine delle persone fermate, la maggior parte delle quali provenienti da Pakistane e Afghanistan. Come i 100 pachistani che polizia e carabinieri hanno fermato venerdì mattina a Trieste e nel comune di San Dorligo della Valle, vicino al confine con la Slovenia, mentre camminavano divisi in piccoli gruppi. Quasi tutti, stando a quanti riferito dalla questura del capoluogo, hanno chiesto la protezione internazionale. Critiche per la dichiarata intenzione di voler chiedere la sospensione di Schengen sono arrivate a Fedriga dall’ex presidente della Regione, oggi deputata, la dem Debora Serracchiani. “L’incapacità totale di Fedriga e del suo governo di gestire situazioni difficili si rivela da idee folli come questa”, ha detto. “Senza considerare che non ricorrono assolutamente le condizioni, rialzare il confine tra Italia e Slovenia significa creare problemi alla popolazione, al commercio ai traffici transfrontalieri e ai flussi turistici senza fermare i migranti”. Migranti. Il dramma dei Centri di detenzione in Libia L’Osservatore Romano, 23 giugno 2019 Medici senza frontiere denuncia situazioni sanitarie catastrofiche nel Gebel Nefusa a sud di Tripoli. Negli ultimi nove mesi, almeno 22 persone sono morte per malattie, probabilmente tubercolosi, nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan, situati nel Gebel Nefusa, una regione montagnosa a sud di Tripoli. A denunciare la catastrofica situazione sanitaria sono gli operatori di Medici senza frontiere (Msf) impegnati in questi due centri. Per mesi, in alcuni casi addirittura per anni, centinaia di persone, bisognose di protezione internazionale e registrate come rifugiati o richiedenti asilo dall’Unhcr sono state abbandonate in queste strutture praticamente senza assistenza. Dal settembre 2018 a oggi sono morte in media da due a tre persone ogni mese. Quando Msf si è recata sul posto per la prima volta lo scorso maggio, circa 900 persone erano detenute a Zintan, di cui 700 in un capannone sovraffollato, con a malapena quattro servizi igienici funzionanti, accesso irregolare ad acqua non potabile e nessuna doccia. “È stata una catastrofe sanitaria”, ha dichiarato Julien Raickman, capomissione di Msf in Libia. Msf chiede che le evacuazioni dalla Libia siano immediatamente rafforzate. “Questo è possibile solo se i paesi sicuri in Europa o altrove rispettano i loro obblighi in materia di asilo e se gli stati europei interrompono la loro orribile e illegale politica di respingimento forzato in Libia”, sottolinea Raickman, secondo il quale “questo sistema di detenzione, alimentato dall’Europa, sta mettendo in pericolo la vita dei rifugiati”. E avevano trascorso più di un anno nei centri di detenzione in Libia molti dei 131 rifugiati che sono stati evacuati nella notte del 19 giugno dalla Libia al Niger nell’ambito del Meccanismo per il transito di emergenza (Emergency transit mechanism - Etm) gestito dall’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le persone evacuate provenivano da Eritrea, Somalia e Sudan, e fra di loro si contano 65 minori. “È davvero impossibile non riconoscere quanto siano importanti queste evacuazioni salva-vita”, ha affermato Jean-Paul Cavalieri, capo missione dell’Unhcr in Libia, ricordando che per la prima volta dopo tanto tempo questi rifugiati potranno andare a dormire sapendo che loro stessi e le loro famiglie sono fuori pericolo. Cavalieri sottolinea che si deve fare di più. “È necessario che gli stati si rendano disponibili ad aiutarci a evacuare altri rifugiati vulnerabili fuori dalla Libia”, avverte. Prima dell’evacuazione il gruppo è stato ospitato presso il Centro di raccolta e partenza (Gathering and departure facility - Gdf) di Tripoli, dopo che l’Unhcr ne aveva assicurato il rilascio da diversi centri di detenzione del paese. L’Unhcr esprime gratitudine per il sostegno ricevuto dal ministero degli interni libico e dal proprio partner LibAid per assicurare il rilascio e il trasferimento dei detenuti al di fuori dei centri. Presso il Gdf, l’Unhcr ha fornito loro cibo, riparo, assistenza medica e sostegno psicosociale nonché indumenti e kit igienici. Le persone evacuate riceveranno ora assistenza umanitaria nell’ambito dell’Etm, mentre si cercheranno nuove opzioni quali il reinsediamento. Con questa evacuazione, nel 2019 l’Unhcr ha aiutato 1.297 rifugiati vulnerabili a uscire dalla Libia, dei quali 711 trasferiti in Niger, 295 in Italia, e 291 reinsediati in Europa e in Canada. Tuttavia, poiché sempre più persone sono condotte nei centri di detenzione dopo essere state soccorse o intercettate nel Mediterraneo centrale, è necessario trovare con urgenza altri posti disponibili. Considerato che il conflitto in corso a Tripoli non accenna a placarsi, oltre 3.800 rifugiati e migranti trattenuti nei centri di detenzione rimangono a rischio di essere coinvolti negli scontri. L’Unhcr ribadisce il proprio appello alle autorità libiche affinché tutti i rifugiati e i richiedenti asilo siano rilasciati e i centri di detenzione chiusi. Cannabis light, no ai sequestri quando il Thc è inferiore a 0,5% di Franco Giubilei La Stampa, 23 giugno 2019 No ai sequestri preventivi di cannabis light, salvo che sia stato accertato in precedenza un livello di Thc superiore allo 0,5%. La decisone del tribunale del riesame di Genova stabilisce un precedente importante e riapre la questione della legittimità della vendita dei derivati della canapa nostrana, quella coltivata e poi distribuita nei grow shop, caratterizzata dal basso contenuto di principio attivo: di fatto, è un via libera alla commercializzazione della canapa leggera, purché non superi la concentrazione di Thc di cui si diceva. La sentenza della Corte di Cassazione dello scorso 30 maggio aveva invece equiparato oli e infiorescenze agli stupefacenti veri e propri, a meno che questi prodotti fossero “privi di efficacia drogante”. Una pronuncia che sembrava assecondare gli interventi di magistrati e questori che, come quello di Macerata, avevano mandato la polizia nei negozi a sequestrare la canapa light. “La commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina non rientra nell’ambito di applicazione” della legge 242 del 2016, cioè della norma che disciplina la coltivazione della canapa, aveva scritto la Suprema Corte sollevando le proteste di centinaia di attività che operano nel settore. In realtà, avevano osservato i legali dei negozianti, l’espressione “privi di efficacia drogante” lasciava aperta la strada a un’interpretazione molto meno restrittiva di quanto sembrasse. Un’osservazione che trova ora conferma nella pronuncia del riesame di Genova: il tribunale è intervenuto dopo un sequestro di infiorescenze, flaconcini di oli, confezioni di tisane e foglie di canapa sativa (la canapa nostrana, ndr) in un negozio di Rapallo. Il commerciante, difeso dal legale Salvatore Bottiglieri, si è opposto al provvedimento e i giudici gli hanno dato ragione, disponendo la restituzione. I magistrati genovesi osservano che manca una norma che stabilisca la percentuale di principio attivo per cui una sostanza possa essere definita psicotropa. Al momento, l’unico riferimento è contenuto in una circolare del ministero dell’Interno, interpretativa della legge 242, che fissa il limite dello 0,5% di Thc, oltre il quale si rientra fra gli stupefacenti: “Questo resta l’unico parametro per la potenziale efficacia psicotropa”, osserva il Riesame. Ecco perché il pm non può sequestrare tutta la merce, ma deve limitarsi al prelievo di singoli campioni. Nel caso l’analisi evidenzi uno sforamento, si procederà al sequestro. La morte di Morsi nell’Egitto senza diritti di Tahar Ben Jelloun* La Stampa, 23 giugno 2019 Non accade tutti i giorni che un ex presidente della Repubblica, Mohamed Morsi, capo dei Fratelli musulmani, muoia a 67 anni in tribunale durante il processo. L’Egitto è lacerato dalla scomparsa del primo capo di Stato democraticamente eletto il 30 giugno 2012 e rovesciato il 3 luglio 2013 dal suo ministro della Difesa, all’epoca semplice generale, Abdel Fattah al-Sisi, poi autoproclamatosi Feldmaresciallo. Da presidente della Repubblica egiziana, il suo primo atto fu quello di mettere il suo predecessore in prigione e accusarlo di spionaggio a favore del nemico. Questa morte, da alcuni considerata sospetta, è un brutto incidente di percorso per un regime autoritario che reprime ogni opposizione con rara severità. Ecco perché le Nazioni Unite, Human Rights Watch e Amnesty International hanno chiesto un’indagine indipendente e obiettiva sulle circostanze che hanno portato alla malattia e poi alla morte di Morsi. Accusato di spionaggio, è stato rinchiuso in carcere, dove è stato isolato e lasciato senza cure. Secondo il suo avvocato, a causa del lungo periodo trascorso al buio, sarebbe diventato cieco. Il Qatar (che ha sempre sostenuto i Fratelli musulmani) e il capo dello Stato turco Recep Tayyip Erdogan ne hanno denunciato la morte. Erdogan ha persino parlato di martirio: “Possa Dio concedere la sua misericordia al nostro martire, al nostro fratello Morsi”. Il figlio ha rivelato che le autorità del Cairo rifiutano di concedere alla famiglia il permesso di seppellirlo nella tomba di famiglia. Vogliono impedire che diventi un luogo di pellegrinaggio per i suoi seguaci politici. Le circostanze del decesso Il contesto in cui è avvenuta questa morte è importante. È noto che l’esercito egiziano sta affrontando un’insurrezione islamista nel Sinai, diventato il punto di riferimento di un terrorismo ancora attivo. Dal 1952, l’Egitto ha conosciuto solo dittature. Questo popolo ha una lunga tradizione di lotta. Gli eventi di Piazza Tahrir nel 2011 sono stati straordinari e hanno offerto al mondo l’immagine della fiera resistenza di un popolo oppresso e represso senza misericordia. Al Sisi pratica il vecchio metodo della totale repressione e soprattutto della tortura, per estorcere confessioni, la cui credibilità è più che sospetta. La pena di morte per impiccagione è un fatto quotidiano. La giustizia è succube del potere e chi si oppone viene arrestato e condannato, anche se non ha commesso alcun reato. Pensare, obiettare, opporsi anche in via teorica è un crimine che può essere punito con la morte. Questo è ciò che affermano Human Rights Watch e Amnesty International. I loro rapporti sono accuse schiaccianti per questo regime sicuro di sé e prepotente, che continua a essere benvoluto dagli Stati Uniti e da Israele, nonché dai Paesi europei che gli vendono armi. Stabilità e crescita La morale e il commercio non hanno nulla da spartire. Durante la sua visita nel 2018, Macron non ha detto una parola sulle atrocità subite da migliaia di cittadini egiziani, la cui sola colpa è stata quella di sfidare una spietata dittatura. L’America di Trump continua il suo programma di aiuti; e miracolosamente, l’economia egiziana è in buona salute, al punto che l’Fmi si è congratulato con il regime. Una buona crescita. Una stabilità apprezzata dall’Occidente. E si chiudono gli occhi di fronte al modo in cui il regime regola i conti con l’opposizione. Ho visto anch’io, come tanti, il video in cui l’oppositore Mahmoud al Ahmadi rivendica la sua innocenza e denuncia le torture a cui è stato sottoposto con la corrente elettrica. Faceva parte di un gruppo di nove giovani, accusati di aver ucciso un pubblico ministero nel 2015. Il 20 febbraio 2019, sono stati giustiziati. Alcuni giorni prima altri tre condannati erano stati impiccati ad Alessandria. Nel settembre del 2018 sono stati processati 740 Fratelli Musulmani e 75 sono stati condannati a morte. Eletti con oltre il 97% dei voti Il 19 marzo, Alaa El Aswany, autore del bestseller mondiale “The Yacoubian Building”, che vive e insegna negli Stati Uniti, è stato citato in giudizio dallo Stato per “aver insultato il presidente, le forze armate e le istituzioni giudiziarie egiziane”. Membro fondatore di “Kifaya” (Basta) (2005), non può tornare nel suo Paese. L’avvocato Mohamed Ramadan è stato imprigionato per aver pubblicato sulla sua pagina Facebook una sua immagine in gilet giallo. Secondo Reporter senza frontiere, l’Egitto è al 161° posto su 179 in termini di libertà di stampa. Intanto, Abdel Fattah al Sisi propone al Parlamento una riforma della Costituzione per un terzo mandato. In Egitto, a parte il caso di Mohamed Morsi, si è eletti con oltre il 97%. Questa è la percentuale di voti che al-Sisi ha ottenuto nel 2018. La morte di Morsi è considerata dagli osservatori rivelatrice delle condizioni di detenzione degli oppositori. È probabile che al-Sisi dovrà rispondere, direttamente o indirettamente, della diffusa violazione dei diritti umani in questo Egitto, dove il popolo non ha più paura di uscire allo scoperto mostrando la propria rabbia e il proprio rifiuto della dittatura. Come dice lo slogan del movimento di El Aswany “Kifaya!”, “Basta!”. Stati Uniti. Per il governo i bambini migranti possono fare a meno del sapone agi.it, 23 giugno 2019 Neanche dormire per terra in celle sovraffollate violerebbe “standard igienico-sanitari” accettabili. Lo rivela Newsweek facendo scattare l’indignazione per la tesi sostenuta dall’amministrazione Trump. Per il governo Usa i bambini migranti detenuti al confine tra Stati Uniti e Messico non hanno bisogno di prodotti fondamentali per l’igiene, come per esempio sapone e spazzolini da denti. E anche dormire “a basse temperature su pavimenti di cemento in celle affollate” non contraddice l’esigenza di mantenerli in condizioni “sicure” e secondo standard sanitario-igienici accettabili. Se non altro, come rivela il settimanale Newsweek, è quanto l’amministrazione Trump ha sostenuto questa settimana davanti ad un tribunale del nono distretto a San Francisco: davanti ai giudici federali il governo di Washington ha affermato di non aver violato la legge secondo il precedente stabilito da una class action del 1985, che decretò delle linee guida per quello che concerne le condizioni che devono essere garantite ai minori detenuti in strutture federali destinati ai migranti. È da quel caso - Jenny Lisette Flores versus Edwin Meese - che furono formulate le regole sulla tempistica del riaffidamento dei minori ai loro parenti e sull’esigenza di mantenere i minori in strutture “sicure e igieniche”. Alcuni giorni fa l’argomento su cui si è basata la difesa del Dipartimento di Giustizia era che quelle regole non implicano automaticamente che i piccoli debbano usare “spazzolini da denti” o “asciugamani” perché si possa parlare di condizioni sicure e coerenti dal punto di vista sanitario e igienico. Lo stesso vale per quanto riguarda il dormire per terra. “Voi seriamente state sostenendo che essere messi in grado di dormire non è una questione di un trattamento sicuro e igienico”, ha chiesto la giudice Marsha Berzon ai funzionari del dipartimento. Anche altri membri della corte hanno espresso il loro sdegno, rileva il settimanale americano: “Trovo inconcepibile che il governo sostenga che stare tutta la notte al freddo dormendo su un pavimento di cemento, con le luci sempre accese e solo una carta stagnola come lenzuolo, sia sicuro e igienico”, ha aggiunto il giudice William Fletcher. Almeno sette bambini migranti, ricorda ancora Newsweek, sono morti mentre erano detenuti dalle autorità statunitensi sin dalla fine del 2018, da quando cioè è stata avviata la pratica di separarli dalle rispettive famiglie. A detta di John Sanders, commissario responsabile delle autorità di frontiera, la sua agenzia avrebbe bisogno di altri 4,6 milioni di dollari per prevenire ulteriori morti. Il numero esatto di bambini deceduti mentre erano in mano alle strutture del governo federale non è certo, afferma Newsweek, “a causa di una legge che non obbliga le diverse agenzie responsabile di far registrarne i casi”. Circa 15.500 bambini e giovani migranti sono stati registrati dalle autorità messicane per la migrazione nei primi quattro mesi dell’anno, 130 al giorno. Sono queste le cifre riportate dall’Unicef che cita le ultime stime dell’Istituto Nazionale per le Migrazioni. Si tratta di un aumento di oltre il 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. La maggior parte dei minori provengono da Honduras, Guatemala ed El Salvador, Paesi dove il tasso di omicidi adolescenziali è tra i più alti al mondo. Il Messico è stato per decenni un Paese di origine, di transito e di destinazione per le famiglie in fuga dalla povertà, dalla violenza delle bande, dall’estorsione e dalle minacce di morte. Da tempo anche i migranti che sono stati rimpatriati dagli Stati Uniti e questi ritorni continueranno. Turchia. Il carcere di Altan è una nostra sconfitta di Roberto Saviano L’Espresso, 23 giugno 2019 Lo scrittore turco è prigioniero da mille giorni, con accuse grottesche. In un paese antidemocratico con cui l’Europa continua a collaborare. Ci sono vicende delle quali parlerei ogni giorno e con chiunque, senza stancarmi mai e non per sottolineare l’atrocità dell’ingiustizia, ma per quella ingenuità che deve appartenere a chi scrive e che consiste nel credere che il racconto possa cambiare le cose, migliorarne il corso, stimolare consapevolezza, coinvolgere nuovi lettori che poi a loro volta potranno approfondire e raccontare. E che ancora crederanno di poter cambiare le cose. A volte vale la pena dimenticare quanto siamo finiti, quanto siamo piccoli, deboli, quanto le nostre voci siano in fondo flebili, perché se lo dimentichiamo, continuiamo a parlare. A parlare per noi e per chi ha meno spazi di noi, meno voce, meno libertà. C’è uno Stato antidemocratico ai confini dell’Europa, uno stato cui abbiamo assurdamente delegato anche la gestione delle nostre frontiere orientali, questo Stato è la Turchia. E in Turchia in carcere ci sono prigionieri politici. Dopo il fallito golpe del 2016, secondo un rapporto di Amnesty International, furono arrestati più di 120 giornalisti. Le loro famiglie sono spaventate, i loro avvocati minacciati. Tutto questo mentre le democrazie occidentali diventano sempre più deboli, tutto questo mentre anche da noi il potere spavaldo, con apparente leggerezza, minaccia scrittori, sequestra telefonini e striscioni, dileggia i contestatori in piazza, li isola, li espone alla violenza della folla. La Turchia è ciò che stiamo diventando, ma mentre scivoliamo verso l’inferno, prendiamo consapevolezza che c’è chi l’inferno lo sta vivendo sulla propria pelle e sta provando a raccontarlo. Lo scrittore turco Ahmet Altan è rinchiuso nel carcere di Silivri dal 23 settembre 2016 per aver espresso le sue opinioni. Il 19 giugno ha superato l’orrido traguardo dei 1000 giorni di detenzione. Ahmet Altan è stato arrestato dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016 con accuse fantasiose che lui stesso riassume cosi: “A parte qualche mio articolo e un’unica apparizione in tv, l’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato”. La situazione è grottesca e mentre osserviamo con impotenza l’esperienza di cittadini per cui non valgono gli stessi diritti di cui noi - chi sa per quanto ancora - godiamo, le persone verso cui rivolgiamo il nostro sguardo, per le quali scriviamo e firmiamo petizioni, le persone i cui destini sentiamo essere indissolubilmente legati ai nostri, continuano il loro calvario come se le loro tragedie non esistessero, come se le nostre parole non esistessero, come se non fosse tutto assurdo. E allora i 1000 giorni di Ahmet Altan in carcere in Turchia si sono piantati qui, nella mia testa, come una macchia nera, una macchia che si espande e che non arretra. E più passa il tempo, e i giorni si aggiungono a giorni, più le accuse diventano intollerabili. Accuse per reati che nemmeno esistono: dalla diffusione di “messaggi subliminali” alle “minacce intangibili”, al terrorismo. Ahmet Altan in “Non rivedrò più il mondo”, il suo ultimo libro dato alle stampe praticamente dal carcere, fa delle considerazioni importanti che voglio condividere qui per mostrare cosa significhi essere uno scrittore. Altan scrive: “Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere. Sono uno scrittore. [...] Dovunque mi rinchiudiate, io viaggerò per il mondo sulle ali infinite della mia mente. Inoltre ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare: la maggior parte non li ho mai incontrati. Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi tiene la mano come una piccola nuvola e mi fa volare sulle pianure, le sorgenti, le foreste, i mari, le città e le loro strade. Viaggio per tutto il mondo da una cella in carcere”. Ma queste parole non siano per noi consolazione. Non le ho riportate per dirvi: guardate, uno scrittore anche in carcere riesce a sopravvivere. No. Le ho riportate perché non possiamo permettere che Ahmet Altan resista un giorno di più in carcere. Nel carcere di Silivri, negli oltre 1000 giorni di detenzione, insieme ad Ahmet Altan c’è la nostra sconfitta e la prova che più forte dello Stato di Diritto e della Democrazia è la loro mancanza. Tutto questo funga per noi da monito. Pakistan. Coppia cristiana condannata a morte per “blasfemia”: tra pochi giorni l’appello di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 giugno 2019 Le analogie con la vicenda che per nove anni ha perseguitato Asia Bibi sono tante: una vendetta privata all’origine di tutto, medesimo reato, stesso avvocato, identico clima ostile. In Pakistan la sezione 295-C del codice penale, che punisce la blasfemia, continua ad arrecare enormi danni alle minoranze religiose. La storia la racconta il portale Asianews, da sempre impegnato nella denuncia delle persecuzioni ai danni dei cristiani. Nel luglio 2013 un uomo, Muhammad Hussain, denuncia di aver ricevuto - mentre era in preghiera in una moschea - un sms contenente offese al Profeta Maometto. I presunti autori del messaggio, Shagufta Kausar e Shafqat Masih, vengono condannati a morte il 4 aprile dell’anno successivo. Dopo oltre cinque anni, il 25 giugno presso l’Alta corte di Lahore si terrà il processo d’appello. Qui, Kausar e Masih - difesi da Saiful Malook, il coraggioso avvocato di Asia Bibi tornato appositamente dall’esilio cui era riparato per sfuggire alle minacce di morte - spiegheranno nuovamente al giudice che all’origine della denuncia per blasfemia non c’era altro che un banale alterco tra i figli della coppia e quelli dei vicini. Colombia. La pace è un miraggio, dopo le Farc la guerriglia resta feroce di Filippo Femia La Stampa, 23 giugno 2019 Sebastian è seduto su uno sgabello in plastica. Gli occhi, un abisso di paura, fissano il vuoto. Poi si scuote e fa un cenno con la testa verso il braccio sinistro, cancellato a colpi di machete. “Sono stati i dissidenti delle Farc: dicevano che ero un “sapo”, una spia dell’esercito. Ma io sono solo un contadino”. Quel moncherino è il simbolo della pace tradita in Colombia. L’agguato è avvenuto a marzo 2018, un anno e mezzo dopo gli accordi firmati tra i guerriglieri delle Farc e il governo di Bogotà. “La pace? Un miraggio, qui non è mai arrivata”, sussurra Sebastian, 54 anni, che per timore non rivela il suo vero nome. “Qui” è il Putumayo, dipartimento sud-occidentale. L’ex roccaforte delle Farc - il fiume San Miguel, al confine con l’Ecuador, era considerato l’ultima retroguardia - è lo specchio della nuova ondata di violenza che insanguina la Colombia. La disputa per la coca “La pace è stata firmata, ora va costruita”, aveva avvisato l’allora presidente Juan Manuel Santos. Ma lo Stato è ancora invisibile in molte zone abbandonate dai guerriglieri, come il Putumayo. Il vuoto di potere ha innescato una lotta spietata per controllare un corridoio strategico per i narcos e nei fiumi sono tornati ad apparire cadaveri a decine, come ai tempi della guerra. I dissidenti delle Farc che non hanno consegnato le armi, i paramilitari e i cartelli della droga si disputano oggi il territorio. La guerra, ufficialmente, è finita. Ma il copione si ripete identico. Il detonante è il controllo dei territori, l’innesco la coltivazione della coca. Dei dieci municipi colombiani con il maggior numero di piantagioni, quattro si trovano in Putumayo. Le vittime, al solito, sono i civili, che hanno già messo il 90% dei morti ammazzati in 52 anni di guerra (260 mila vittime in totale). Vivono nel terrore, ostaggi di gruppi armati che dettano legge. Letteralmente. Invadono i villaggi e convocano gli abitanti con minacce e fucili in vista. Poi elencano il “manual de convivencia”, una serie di norme da rispettare - coprifuoco dopo le 18, un solo cellulare permesso a famiglia, divieto di lasciare il paese senza permesso - per sopravvivere. “Con le Farc si poteva dialogare - racconta Rodrigo Rivera, sindaco di Puerto Guzmán, da un anno sotto scorta per le minacce ricevute. Quelli dei nuovi gruppi armati sono bestie. Prima si coltivava la coca ma era proibito consumarla. Ora vedi ragazzini di 12 anni vendere droga ai compagni di scuola”. Per comprendere le ragioni della pace fallita bisogna partire da Puerto Asís, la capitale commerciale del Putumayo, e percorrere la strada che conduce al capoluogo Mocoa. Nel tragitto, punteggiato da banani e fiori tropicali, Aura Mosquera indica a destra: “Laggiù, qualche chilometro dentro la giungla, c’è un laboratorio di coca dei paramilitari. Quell’altro lato, invece, è controllato dal fronte 38 dei dissidenti Farc”. Aura è la coordinatrice di “Accion contra el hambre”, ong finanziata dal Dipartimento della protezione civile e degli aiuti umanitari della Commissione europea, che lo scorso anno ha investito 10 milioni di euro in Colombia. Ex guerriglieri nel mirino Tutte le associazioni sono concordi: un anno dopo la firma degli accordi di pace la situazione è precipitata. Il dramma degli sfollati è la prova più evidente: 250 mila persone sono state costrette a fuggire dagli scontri armati e dal terrore di perdere i figli, vittime dei reclutamenti forzati da parte di paramilitari e altri gruppi armati. Carlos (nome di fantasia) faceva il professore. Spesso nel tragitto da casa a scuola incontrava cadaveri: “C’erano tre o quattro funerali al giorno”, ricorda. Gli studenti lo minacciavano per ottenere voti alti: “Avevano pistole, ma non mi piegavo. Ho iniziato a ricevere visite di genitori armati. Poi i figli di una collega sono stati accoltellati: ho deciso di fuggire per salvare i miei bimbi”. Basta sfogliare in modo sommario le 300 pagine degli accordi di pace per capire che buona parte è rimasta lettera morta. Le Farc sono entrate in politica - stesso acronimo: Forza alternativa rivoluzionaria del comune - con 10 seggi assicurati fino al 2026. Ma gli ex combattenti, riuniti in zone per il reinserimento civile, sono finiti nel mirino dei gruppi armati illegali: in due anni e mezzo ne sono stati assassinati 128. E circa tremila (il 40% degli smobilitati), hanno imbracciato nuovamente le armi. “È il governo che provoca queste diserzioni violando le promesse “, accusa Ruben Dario Montoya, 38 anni di lotta armata ed ex comandante Farc. “Lo Stato non ci protegge. “Per farsi ammazzare, meglio farlo difendendosi con le armi”, pensano molti”. Si sentono traditi dallo Stato anche i contadini che hanno sradicato le piantagioni di coca: “Ma gli indennizzi previsti dal programma di sostituzione volontaria non sono più arrivati”, denunciano. Record di attivisti assassinati L’altra emergenza riguarda i leader sociali e gli attivisti per i diritti umani, dichiarati obiettivi militari dagli squadroni della morte. Dal 2016 oltre 500 sono stati assassinati. La “colpa”? Aver alzato la voce a difesa delle comunità contro le piantagioni di coca, la sottrazione violenta di terre e le attività minerarie illegali. “Questo è l’accordo di pace più ambizioso di sempre, per questo ci sono numerosi ostacoli - spiega di Patricia Llombart Cussac, ambasciatrice dell’Ue in Colombia - Ma in questi due anni e mezzo sono state salvate tante vite, gli ex guerriglieri sono stati reintegrati e aree prima inaccessibili sono state aperte al turismo. Scommettiamo ancora sulla pace”. Paula, leader di una comunità contadina minacciata dai paramilitari, è meno ottimista: “Con le Farc si girava liberi. Ora è un inferno, con tanti gruppi armati che non riesci a distinguere. Forse sarebbe stato meglio non firmare quegli accordi di pace”.