La giusta severità non è mai disumanità. A proposito del “no” Cedu all’ergastolo ostativo di Mario Chiavario Avvenire, 22 giugno 2019 Giudicando sul ricorso di un ergastolano, a suo tempo condannato per crimini aggravati dall’appartenenza a un clan mafioso, un collegio giudicante (tecnicamente, una “Camera”) della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dunque detto “no” all’ergastolo “ostativo”. Una premessa. In Italia, diversamente da un tempo, le condanne all’ergastolo non comportano di per sé una reclusione destinata in ogni caso a durare per sempre: infatti, anche gli ergastolani “comuni” non soltanto possono fruire, scontata parte della pena nelle modalità più severe, di “benefici” come il lavoro all’esterno e la semilibertà, ma dopo 26 anni di reclusione possono essere liberati (ovviamente, a condizione di aver tenuto, in carcere, “buona condotta” e pur senza che ne scaturisca un regime di libertà incontrollata). Non così, per chi, giudizialmente dichiarato esponente di rilievo di un sodalizio malavitoso, non si presti a “collaborare” con polizia e magistratura nelle attività, preventive e investigative, contro il mondo di sua provenienza: ergastolo, questo, appunto “di ostacolo” a che si applichino nei suoi confronti i “benefici” penitenziari e tale da imprimere sul suo destino un “fine pena mai”, traduzione in linguaggio burocratico del “marcire in galera” quale sinistro augurio oggi distribuito a destra e a manca. Intuitivi, i motivi addotti a giustificazione del regime eccezionale al di là dei pur comprensibili sentimenti di esecrazione per certi crimini: campeggia lo scopo di rafforzare le potenzialità di uno strumento - il pentitismo - mirante a scardinare reti delinquenziali di specifica virulenza. Altrettanto innegabile, però, il disagio, sino alla vera e propria ribellione morale, tra gli animi più sensibili all’esigenza di non cancellare mai, dalle sanzioni penali, i caratteri dell’umanità e della finalità “rieducativa” (sono parole usate anche dall’art. 27 della nostra Costituzione). Dallo stesso papa Francesco - come da i suoi predecessori - sono state pronunciate forti parole contro pene che spengano nella persona la speranza. Dei giudici, a Strasburgo, sono ora venuti a far sostanzialmente proprie tali istanze, definendo l’ergastolo “ostativo” made in Italy una pena inumana e lesiva della dignità della persona e perciò contraria all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tra i passaggi decisivi della sentenza, quelli che negano al rifiuto della richiesta “collaborazione” il carattere di un comportamento incontrovertibilmente indicativo di volontari e persistenti legami con la criminalità organizzata, in particolare sostenendo che esso può invece trovare spiegazione nel timore, altrimenti, di ritorsioni per sé o per altri. È probabile che il Governo italiano impugni la decisione davanti alla medesima Corte europea in una formazione totalmente diversa (la “Grande Camera”, composta da diciassette giudici e non da sette come le Camere singole). Può farlo entro tre mesi. E verosimilmente si dovrà aspettare che da Strasburgo venga una parola definitiva, prima che il legislatore - seppur sollecitato al riguardo dalla sentenza - ponga mano a una riforma delle norme attuali e altresì prima che in proposito si esprima la Corte costituzionale (è in calendario per fine di ottobre una sua pronuncia, ma non stupirebbe un rinvio). Da non trascurare, comunque, un chiarimento esplicitato dalla stessa sentenza: il ricorrente oggi “vittorioso” della causa non deve attendersi, nonostante il tempo già decorso dall’inizio della sua reclusione, una “prospettiva di imminente liberazione”. Se non leggo male, ne viene, più in generale, che quel rifiuto di collaborazione, il quale non può più essere ostacolo insormontabile al regime penitenziario “comune”, può pur sempre far parte degli elementi da considerare, negli accertamenti concreti circa il venir meno di una pericolosità del soggetto e in special modo in quelli vertenti sull’effettività della rescissione di legami con la criminalità organizzata, quali presupposti per una liberazione o per modalità di esecuzione della pena sfruttabili per un ritorno nel mondo del crimine. Con la sentenza, letta nella sua interezza, la Corte ci dice però anche che rifiuto di disumanità delle pene e rispetto della dignità dei detenuti non possono essere soltanto belle parole. Devono avere risvolti concreti. Occorre ribadirlo con forza, e proprio perché in questi giorni si sono ripetute, e hanno invaso la rete, più o meno volgari maledizioni per la fine del “fine pena mai”, sino alle frequenti invocazioni della pena di morte (tanto meglio se dopo esemplari supplizi), come un sostitutivo, e più truculento, “fine pena ora”. Carceri: tre morti in due giorni di Patrizio Gonnella L’Espresso, 22 giugno 2019 Tre morti in due giorni nelle carceri italiane. “Italian first”. Sì, i tre morti erano tutti detenuti italiani. Uno di loro pare sia morto per motivi di salute nel carcere napoletano di Poggioreale. Gli altri due si sarebbero suicidati, rispettivamente, nelle prigioni di Rossano e Bologna. Notizie di proteste collettive, talvolta troppo enfaticamente definite rivolte, si sono susseguite nelle ultime settimane: da Napoli a Campobasso, da Spoleto a Rieti, da Viterbo ad Agrigento. Che sta succedendo, dunque, nelle carceri italiane? Non si può certo individuare un’unica causa o un filo rosso che possano spiegare integralmente quanto sta avvenendo. Le spiegazioni non sono mai semplici o univoche. Il carcere è un luogo di sofferenza. Molto è determinato da quei dettagli di vita quotidiana che, sia nelle persone libere che in quelle recluse, rendono le persone più o meno sane e serene. La recente decisione di procedere allo spegnimento obbligatorio delle televisioni a mezzanotte per il riposo notturno o la, seppur, involontaria mancanza di acqua in alcune carceri nel pieno della calura estiva, hanno ingenerato conflitti. La qualità della vita in prigione è altresì messa a rischio dalla riduzione dei tempi e degli spazi di socialità, prodotti da un ritorno a un’idea di carcerazione pre-moderna secondo la quale la chiusura in carcere coincide con la chiusura in cella per oltre venti ore. Se a ciò aggiungiamo una minore propensione dei giudici di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione e, di conseguenza, un sovraffollamento crescente che ci riporta vicini a quei numeri assoluti che produssero la sentenza di condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte europea nel 2013, allora si comprende come gli istituti penitenziari rischino un drammatico ritorno a un passato fatto di chiusura, violenza, tensioni. Non ce ne è proprio bisogno. Per evitare tutto questo ci vuole una nuova grande e coraggiosa stagione di innovazione nelle carceri, questa volta partendo dai modelli organizzativi e dal personale. È scontato dirlo, ma se non avremo un personale sia di Polizia che civile gratificato, sereno, motivato non sarà facile perseguire obiettivi di normalità penitenziaria. È necessario immettere energie nuove nel sistema penitenziario, ossia giovani e qualificati direttori, giovani e qualificati operatori sociali, giovani e qualificati poliziotti. Ci vuole una rivoluzione antropocentrica che non può che partire da chi ha il dovere della custodia di esseri umani. È necessario trattare al meglio chi lavora nelle carceri nel solco della legalità penitenziaria e prospettare avanzamenti di carriera sulla base del loro attivarsi per il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione (il quale affida agli operatori una missione chiara, ossia la gestione di una pena umana e tendente alla risocializzazione). È anche importante favorire processi di mobilità volontaria presso altre amministrazioni pubbliche per quegli operatori che hanno per molto tempo lavorato in carcere. In galera la vita è usurante per tutti. Infine è necessario avere un’attenzione alla cultura del linguaggio che è anche cultura del rispetto. In alcuni siti penitenziari il detenuto è, in modo offensivo e volgare, definito “camoscio”. Questo non è gergo, non è slang, questa è sotto-cultura che va repressa dalle istituzioni penitenziarie. Ogni anno 400 detenuti trasferiti nei Centri di salute mentale senza nessuna indicazione clinica quotidianosanita.it, 22 giugno 2019 Per gli psichiatri: “Una distorsione legislativa pericolosissima”. L’allarme lanciato a Firenze in apertura del convegno nazionale della Società Italiana di Psichiatria (Sip): “L’applicazione della L. 81/2014 e la conseguente chiusura degli Opg ha determinato difficoltà di applicazione della legge sia per il mondo giuridico che per quello sanitario”. Va a finire così che anche i detenuti senza vizio di mente, che accusano un disadattamento alla situazione del carcere, vengano inviati presso i servizi di salute mentale senza una chiara indicazione clinica, “in conseguenza di ordinanze giuridiche che pretendono di scaricare sulla sanità situazioni di disadattamento alla detenzione in carcere”. “In Italia, se permane l’attuale trend conseguente alla sentenza 99/2019, ogni anno oltre 400 persone provenienti dal carcere verranno inserite nelle strutture psichiatriche senza averne alcuna indicazione. Oltre 400 su circa 8 mila pazienti “veri” che ottengono una misura di sicurezza non detentiva presso i Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) o detentiva nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Sono numeri non ufficiali, certamente sottostimati, ma che descrivono la situazione si trovano i singoli Dsm e le Rems sul territorio dal mese di aprile 2019, e che sottolineano come il fenomeno ormai interessi il 5% del totale degli autori di reato inviati alla psichiatria”. A lanciare l’allarme è la Sip (Società Italiana di Psichiatria) in apertura del convegno nazionale a Firenze. Si tratterebbe, in pratica, di detenuti mentalmente sanissimi, che sono trasferiti in strutture della salute mentale “in conseguenza di ordinanze giuridiche che pretendono di scaricare sulla sanità situazioni di disadattamento alla detenzione in carcere”, accusa la Sip. “Ordinanze che non solo sono inaccettabili, ma rischiano di compromettere i luoghi di cura della salute mentale che si trovano a dover gestire falsi pazienti sociopatici. Decisioni che non tengono conto della fattibilità del percorso terapeutico. Una situazione che sta diventando intollerabile”. “Emblema di questa situazione”, spiega la Sip, “sono i pazienti affetti dal cosiddetto ‘Disturbo Antisociale di Personalità’ che, quando diviene il tratto prevalente del reo, non dovrebbe comportare alcuna applicazione del vizio di mente ed essere confuso con una malattia”. Il disturbo, secondo i dati della Sip, si manifesta prevalentemente negli uomini dove, nella popolazione generale, ha una prevalenza del 3% rispetto all’1% delle donne, aumentando sino al 30% nella popolazione detenuta. La Società italiana di psichiatria spiega, inoltre, come “secondo studi recentissimi vi è un maggiore aumento di persone con disturbo antisociale di personalità nella cosiddetta “Generazione Z” (i nati dal 95 fino al 2012), che ha una maggiore predisposizione a sviluppare tali comportamenti, rispetto ai Millennials (i nati tra l’81 e il 95) per il maggior isolamento relazionale e il più diffuso abuso di sostanze. Di questo si è parlato oggi in apertura del convegno nazionale della Società Italiana di Psichiatria, a Firenze fino al 23 giugno”. “Questa distorsione della funzione terapeutica delle residenze psichiatriche da parte di una certa magistratura - dice Enrico Zanalda, presidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL Torino 3 - è supportata da ordinanze d’inserimento in strutture psichiatriche senza l’accertamento dell’indicazione clinica all’inserimento stesso. Siccome il detenuto sostiene di stare male in carcere, viene spedito in psichiatria. Ma lo scopo di queste decisioni è di spostare una persona scomoda dal contenitore carcerario ad un altro contenitore, quello psichiatrico, attribuendo alla psichiatria un ruolo cautelativo custodiale perso da tempo. “Ciò che fa paura e non si controlla si nasconde” è quello che accadeva nei manicomi dell’inizio secolo ed è quello che si sta verificando negli ultimi tempi, cioè chiedere alla psichiatria un ruolo di controllo sociale sostenuto dal falso assioma che maggiore è l’intensità terapeutica della struttura psichiatrica e maggiore sarà la capacità a contenere situazioni comportamentali ingestibili non tenendo minimamente in considerazione l’indicazione clinica delle residenzialità psichiatriche, continuando nel pregiudizio che i comportamenti violenti siano collegati alla malattia mentale”. “Sta insomma passando in modo insidioso - aggiunge Salvatora Varia, vicepresidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore di Unità Complessa di Psichiatria presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo - l’idea che la psichiatria non debba solo curare, ma anche prevenire la reiterazione dei reati e gli psichiatri debbano trasformarsi in educatori degli autori di reato con disturbi psichici. Inoltre si sta vedendo una progressiva trasformazione dei servizi ospedalieri di psichiatria e delle comunità terapeutiche per la riabilitazione dei disturbi psichici, in sezioni distaccate delle case circondariali, al fine di attenuare il sovraffollamento degli Istituti di Pena. Questa è una palese violazione dei diritti dei pazienti tradizionali dei nostri servizi, che trovano difficoltà crescente a individuare un luogo di cura adeguato ai loro bisogni”. Come accennato, emblema di questa situazione sono i pazienti affetti dal cosiddetto ‘Disturbo Antisociale di Personalità’. “Non riuscendo a tollerare la frustrazione di loro desideri perversi - spiega Zanalda - questi soggetti possono arrivare all’uso della violenza contro gli altri e/o contro sé stessi. Si verifica il paradosso conseguente ad una sentenza della Suprema Corte del 2005 per cui alcune forme di disturbo di personalità possono essere considerate infermità di mente e se erroneamente avviene per il disturbo di personalità antisociale, il sociopatico gode di tutte le forme di immunità giuridica che sono previste per i soggetti incapaci di intendere e volere”. La Sip denuncia anche come i rei “falsi infermi” siano “più facilmente dichiarati da periti che non hanno mai lavorato nei servizi di salute mentale e, quindi, non sarebbero idonei a valutare queste situazioni. Secondo gli ultimi studi (Fernandes S.: Prediction of a Rise in Antisocial Personality Disorder through Cross- Generational analysis. 2019) vi è un discreto aumento di persone con Disturbo Antisociale di Personalità, una crescita nelle cifre statistiche che complica tutte le situazioni in cui questi soggetti vengono considerati pazienti psichiatrici. In particolare la cosiddetta “Generazione Z” (i nati dal 1995 fino al 2012) ha una maggiore predisposizione a sviluppare tali comportamenti rispetto ai Millennials (i nati tra il 1981 e il 1995) per il maggior isolamento relazionale e il più diffuso abuso di sostanze”. “Nei detenuti - aggiunge Zanalda - è possibile individuare le caratteristiche che fanno sospettare la prevalenza della sociopatia come la mancanza di disturbi psichiatrici e di trattamenti in ambito specialistico precedenti alla detenzione, la teatralizzazione dei sintomi e la mancanza di collaborazione con i sanitari su proposte differenti da quelle pretese, fino all’evidente utilizzo della propria sintomatologia a scopo manipolativo dell’ambiente circostante. Le persone in questione sono disposte a condividere solo quegli obiettivi che danno loro dei vantaggi immediati. È quindi evidente come possano mandare in crisi la riforma conseguente alla L.81/2014. Per cui se da un lato dobbiamo incrementare i percorsi di cura per i pazienti autori di reato trattabili clinicamente, dall’altro bisogna riservare alle persone con prevalente sociopatia dei percorsi carcerari rieducativi, almeno sino a che non si decidano a collaborare. Credo - conclude Zanalda - sia dovere della comunità scientifica che rappresento ribadire il ruolo medico-terapeutico della psichiatria e prendere le distanze rispetto alla tendenza di riattribuirci un ruolo custodialistico”. Ingiusta detenzione: la grave presa di posizione dell’Anm camerepenali.it, 22 giugno 2019 È stato presentato alla Camera dei Deputati, su lodevole iniziativa dell’On.le Enrico Costa, un disegno di legge per la modifica degli art. 314 e 315 del cpp. In buona sostanza si intende prevedere che all’esito del riconoscimento della condizione di ingiusta detenzione, gli atti del procedimento siano trasmessi ai magistrati titolari dell’azione disciplinare per la valutazione di eventuali responsabilità dei pubblici ministeri e dei giudici che si sono occupati del caso. Responsabilità ovviamente relative a comportamenti gravemente negligenti e violativi di norme cogenti. Nulla a che vedere con la drammatica fisiologia delle diverse decisioni di merito o di legittimità nell’ambito dello stesso procedimento; semplicemente un più puntuale richiamo a previsioni già presenti nel codice per l’attenta applicazione della legge. L’Unione delle Camere Penali rappresenterà il proprio parere suggerendo eventuali interventi tecnici nel corso dell’iter parlamentare e nell’ambito di auspicate audizioni. Sorprende la reazione all’iniziativa parlamentare dell’Associazione Nazionale Magistrati che nel suo odierno comunicato strumentalmente accomuna la struttura delle impugnazioni, questa fisiologica, al comportamento gravemente negligente del Magistrato, questo patologico. È stata proprio la magistratura associata a sottolineare in ogni sede come la eventuale responsabilità del magistrato debba modularsi sul piano disciplinare. È assai grave che oggi si intervenga nella discussione parlamentare addirittura paventando il rischio di comportamenti giudiziari meno rispondenti alla “domanda di sicurezza dei cittadini” evidentemente ritenendo prevalenti risposte ispirate alla difesa sociale piuttosto che a una corretta e serena valutazione delle risultanze del processo. Tutti i soggetti che esercitano funzioni giurisdizionali sono chiamati al rigoroso e diligente rispetto della legge. Il rigoroso rispetto del principio di presunzione di innocenza, con il suo corollario del ragionevole dubbio, è presidio sufficiente a garantire il buon funzionamento della macchina giudiziaria. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Storia di Rachid Assarag, l’ex detenuto espulso dopo aver denunciato decine di poliziotti penitenziari di Checchino Antonini Left, 22 giugno 2019 Perché è stato espulso Rachid Assarag? Ma soprattutto, perché non gli consentono di essere presente in tribunale dov’è parte lesa? Anzi, nei tribunali. Per essere esatti, in questa storia, si parlerà di quelli di Firenze, Prato e Piacenza dove alcuni video - in quest’ultimo caso, forniti dall’amministrazione penitenziaria - hanno impedito alla procura di archiviare le denunce di Assarag. Perché quest’uomo, cittadino marocchino di 45 anni, ha fatto il giro d’Italia delle prigioni. E delle torture. Per esempio a Firenze, Sollicciano, dove nel 2014, è stato assolto per aver aggredito un agente e per danneggiamenti a un cancello elettronico ma alcuni mesi dopo lui stesso ha denunciato tre agenti di custodia che ora sono accusati di “misure di rigore non consentite dalla legge”, uno degli eufemismi per indicare la tortura o comunque gli abusi e le violenze che vengono commessi nelle prigioni del Belpaese, anche grazie alla cronica difficoltà di perimetrare la tortura nei fatti giudiziari complicata dalla discutibile legge varata nel luglio 2017 dal centrosinistra. Da accusato ad accusatore - I fatti di Sollicciano: Assarag voleva uscire dalla sezione per depositare alla direzione una denuncia per fatti collegati al suicidio di un’altra persona detenuta (dal 2000, 1073 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, un terzo delle morti in carcere) ma l’agente di servizio lo bloccò. Lo stesso poliziotto, si legge negli atti, “ha descritto una condotta dell’imputato molto blanda e ha escluso che si sia verificata una colluttazione”. Era il 29 agosto del 2014. Al processo, nel marzo di due anni dopo, il testimone, lo stesso agente “aggredito”, avrebbe ammesso di non aver avuto difficoltà a controllare Assarag, escludendo, “di fatto” una “qualche sorta di violenza”. Tuttavia, due suoi colleghi, dalla sala dei monitor collegati alle telecamere, dissero di aver visto un film diverso in cui la situazione stava degenerando poiché “l’imputato stava esercitando forza” al punto da danneggiare la porta automatica. Per il giudice uno di quei testi “non è stato molto chiaro” al punto da impedire che emergesse la responsabilità penale dell’imputato. Il danneggiamento non c’è stato oppure, secondo la sentenza, c’è stato ma allora sarebbe solo doloso visto che Rachid stava facendo di tutto per formalizzare una denuncia. Anche sulla resistenza, i pubblici ufficiali furono non omogenei nel testimoniare i fatti e il giudice fiorentino, “ai fini della valutazione dell’attendibilità intrinseca delle deposizioni dei testi” ricorda come Assarag sia gravato da numerose denunce per fatti analoghi e, a sua volta, abbia presentato numerose contro-denunce. Gli stessi agenti protagonisti di questo processo furono indicati da lui come responsabili di aggressioni nei suoi confronti. L’attendibilità dei secondini-testimoni fu minata dal fatto che non furono acquisite le immagini della videosorveglianza e le loro versioni non solo non erano sovrapponibili ma nemmeno compatibili. Per questo il 4 marzo del 2016 Assarag fu assolto e pochi giorni fa, il 12 giugno, tre di quelle guardie carcerarie sono state raggiunte da un decreto di citazione diretta in giudizio per una serie di episodi di violenze e abusi commessi contro Rachid, il 29 dicembre 2014, in diversi luoghi del carcere, pianerottoli, infermeria, nella cella 5 della sezione Transito 1, “in concorso tra loro, e con altro agente allo Stato, non identificato, e dunque in più persone riunite, con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti al servizio”. Pugni-calci-schiaffi “misure di rigore non consentite dalla legge”, appunto. Espulsione senza motivazione - Rachid Assarag dovrebbe testimoniare al processo, prossima udienza il 17 ottobre, come richiesto dalla stessa procura, ma finora non è potuto tornare in Italia. E nessuna risposta ufficiale è arrivata a fronte delle richieste dei suoi legali, Fabio Anselmo e Bernardo Gentile, del foro di Ferrara. L’ultimo carcere in cui è transitato Assarag è quello di Sassari, carcere duro, al terzo posto per presenze di detenuti in regime di 41bis. Qui, l’uomo scontò la pena integralmente, senza alcun beneficio e, una volta liberato, fu immediatamente caricato su una volante ed espulso sotto gli occhi della moglie disperata. Era il 5 settembre 2017. Spiegano a Left i suoi avvocati che si trattò di una misura della Prefettura per “motivi imperativi di pubblica sicurezza”, il più discrezionale tra i provvedimenti. Perdipiù, secondo il Tribunale di Cagliari che l’ha annullata lo scorso 19 ottobre, quella mossa era totalmente infondata. Rachid ha una moglie italiana, si sarebbe potuto mantenere lavorando nella falegnameria di cui la donna è titolare e il documento di allontanamento era “privo di una effettiva motivazione in ordine all’attualità del requisito della “pericolosità sociale”“ di Assarag, secondo i giudici cagliaritani della Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini nella Ue. Tutto ciò senza tenere conto “della sua situazione familiare ed economica”, “compromettendo il suo diritto di difesa nei procedimenti penali in corso a suo carico” e nonostante le questure di Prato e Piacenza lo avessero autorizzato a rientrare temporaneamente in Italia per presentarsi in tribunale. Tuttavia l’Avvocatura di stato ha presentato appello contro l’annullamento e proprio il 21 giugno si terrà un’ulteriore udienza a Cagliari. Stesso copione a Prato e Piacenza - Intanto anche a Prato, Rachid è stato prima assolto - e la sentenza è passata in giudicato - dalle accuse della polizia penitenziaria (la versione dell’agente che avrebbe subito la resistenza di Assarag “si palesa essere assai incerta”, ha scritto il giudice in sentenza a febbraio del 2018, viceversa sarebbe stato proprio lui, secondo l’accusa, a schiaffeggiare il detenuto) mentre a gennaio 2020, inizierà un processo contro quattro agenti di polizia penitenziaria che lo hanno spintonato e poi pestato “in concorso tra loro e con altri quattro colleghi rimasti ignoti” - lo spirito di corpo sembra essere più importante della Costituzione in certi ambienti - perché avevano scoperto che il detenuto aveva un piccolo registratore appeso al collo. Altre botte anche mentre lo portavano in infermeria, così imparava a ribellarsi “al nostro ordinamento”. E dopo le botte un po’ di bugie per montare contro Assarag un’ennesima denuncia per il possesso inesistente di un paio di forbici a punta “inducendo in errore i commissari che, sulla base di tale falsa rappresentazione dei fatti” lo denunciavano per resistenza a pubblico ufficiale. La tiritera è sempre lo stessa: una serie di denunce da cui scaturiscono quattro-cinque-sei processi per sfiancare il detenuto ribelle, una sorta di mobbing giudiziario che ha visto repliche fedeli anche a Milano, Genova, Imperia. Ovunque le procure, anziché unirle, trattano quelle denunce “a puntate” ma intanto iniziano a procedere sulla base delle denunce di Assarag. A Piacenza si attende fissazione udienza. In questo caso, sul banco degli imputati per lesioni aggravate ci sono tre agenti della polizia penitenziaria. L’accusa dell’uomo è di essere stato trascinato per i capelli fuori da una cella e di avere subito violenze ed essere stato anche picchiato. Gli agenti sostengono di essere intervenuti perché l’uomo si era barricato. Il pm, al termine delle indagini, chiese l’archiviazione del fascicolo, ma l’opposizione dei difensori, che hanno presentato un video di quei fatti, riportò la vicenda davanti al giudice. “Si tratta di denunce che disegnano un quadro terribile. Per questo è importante fare presto una inchiesta amministrativa e giudiziaria sulle denunce fatte e comunque proteggere l’incolumità di Rachid Assarag”, disse all’epoca Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Le difese dei tre indagati invece affermano che non ci siano le prove, e che Rachid Assarag, che stava scontando una condanna di oltre 9 anni, era un detenuto molto problematico con almeno 13 trasferimenti da un carcere all’altro. La pedagogia della violenza carceraria - Fin dal 2009 è stato trasferito in diversi istituti di pena, tra cui Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella, Piacenza, Bollate. Nel 2014 l’uomo denunciò di essere stato picchiato e minacciato in carcere dagli agenti di polizia penitenziaria quando era detenuto a Parma. La procura decise l’archiviazione nel 2016. “Non so se il sostituto procuratore lo ha fatto per ingenuità o irresponsabilità, ma parlare di lezioni di vita carceraria davanti a quelle registrazioni è peggio che confermare gli abusi - disse Luigi Manconi, a quel tempo, presidente della Commissione diritti umani del Senato - è la legittimazione ideologica e morale della violenza in carcere. Come se li avesse giustificati, legittimati e infine depenalizzati. Parlare di lezioni di vita carceraria è come dire che esiste una pedagogia della violenza. E questo già rende illegale e anticostituzionale quell’istituto”. Nel dicembre 2015 anche l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, avviò un’ispezione. Durante la detenzione a Parma Rachid Assarag registrò frasi e conversazioni degli agenti attraverso un registratore che gli procurò la moglie. Assarag è stato arrestato a giugno 2018 dopo un inseguimento con la polizia nel Comasco. Era tenuto sotto controllo dalla Digos dopo che non si era presentato a Piacenza all’udienza. Quando ha visto gli agenti vicino alla casa di sua moglie, l’uomo è salito su una Opel Corsa ed è scappato a tutta velocità sulla statale Como-Lecco: all’altezza di Albavilla la sua auto si è scontrata con una vettura di passaggio e s’è ribaltata. Subito il rimpatrio in aereo da Venezia. Fabio Anselmo, legale in questa e altre vicende di malapolizia (Cucchi, Aldrovandi, Budroni, Magherini, ecc…) sostiene da allora che l’espulsione di Assarag, dipinto anche come estremista islamico, è legata alle sue denunce di violenze da parte di agenti di Polizia penitenziaria. Mattarella, altolà al Csm: “Coacervo di manovre nascoste, si volta pagina” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 giugno 2019 Il 21 giugno 2019 sarà ricordato come il giorno che segnò il nuovo corso del Consiglio superiore della magistratura. Con quali regole, però, nessuno ieri mattina a Palazzo dei Marescialli lo ha saputo dire con esattezza. È durato circa un’ora il Plenum straordinario della svolta, quella della presa di distanza dalle dinamiche clientelari di spartizione correntizia che avrebbero, a detta dei diretti interessati, contraddistinto il Csm nell’ultimo periodo. “Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione”, ha esordito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile: quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica”, ha aggiunto. “Il coacervo di manovre nascoste ha spiegato il capo dello Stato - di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura”. “Occorre far comprendere che la magistratura italiana e il suo organo di governo autonomo hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare rigore e piena linearità: tutta l’attività del Consiglio - ha ammonito Mattarella - sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza. Non può sorprendere che sia così e occorre essere ancor più consapevoli dell’esigenza di assoluta trasparenza, e di rispetto rigoroso delle regole stabilite, nelle procedure e nelle deliberazioni”. “Vi è la necessità di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzion. - ha infine detto il presidente - ad altre istituzioni compete discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del Csm: il presidente della Repubblica seguirà con attenzione questi percorsi ma la Costituzione non gli attribuisce il compito di formulare ipotesi o avanzare proposte”. Toccherà dunque al Parlamento trovare il modo di togliere potere alle correnti. Concetto ribadito da tutti i consiglieri. “Bisogna ripensare l’intero modello dell’organizzazione giudiziaria e riportare l’etica del magistrato al dovere di rendere giustizia”, ha detto Piercamillo Davigo di Autonomi& Indipendenza, la corrente che con le dimissioni dei togati coinvolti nel dopo cena con i deputati dem Luca Lotti e Cosimo Ferri, ha raddoppiato la propria presenza al Csm, divenendo il primo gruppo. “Occorre riaffermare il prestigio del Csm, restituendo centralità alle regole”, ha spiegato Marco Mancinetti di Unicost. Mentre Loredana Micchiché (Magistratura indipendente) ha invocato “una prospettiva di necessaria autoriforma, il rispetto di quelle regole programmate, in relazione alle quali si è verificato un pericoloso scollamento”. “Nessun consigliere deve avere contatti con i candidati a un posto su cui il Consiglio dovrà esprimersi; né qui, né fuori di qui - ha puntualizzato Alberto Maria Benedetti, laico M5S - tutti i candidati devono essere trattati alla stregua di concorrenti a un pubblico concorso”. Più “tecnico” l’intervento del togato di Area Giuseppe Cascini: “L’obiettivo da perseguire deve essere quello di rafforzare il potere di scelta degli elettori”. Bisogna modificare il Testo Unico della dirigenza, con “il ripristino delle fasce di anzianità, il rafforzamento del peso della esperienza professionale maturata nel settore da ricoprire, ed un rigoroso procedimento di verifica della idoneità del dirigente in sede di conferma”, ha aggiunto. “La riforma, mi pare sia sotto gli occhi di tutti, è necessaria, ma non spetta a noi farla. È il sistema elettorale probabilmente che ha generato lo strapotere delle correnti”, ha voluto ricordare anche il vicepresidente David Ermini, ribadendo la bontà della contestata votazione di Marcello Viola, pg di Firenze, come nuovo procuratore di Roma al posto di Giuseppe Pignatone. Magistrati, la fiducia è ai minimi: 35%. E per il 61% degli italiani lo scandalo avrà delle conseguenze di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 22 giugno 2019 Il 55% degli italiani non crede nei giudici. L’indice di autorevolezza è il più basso di sempre. I cittadini hanno cambiato profondamente opinione negli ultimi anni. Le opinioni dei cittadini nei confronti della magistratura sono profondamente cambiate negli ultimi anni: come tutte le istituzioni di garanzia (presidenza della repubblica, esercito, forze dell’ordine) la magistratura ha per lungo tempo beneficiato di una grande fiducia. Il consenso toccò picchi elevati quando, negli Anni di piombo, i terroristi e la mafia uccisero diversi magistrati e successivamente ai tempi di Tangentopoli nella quale i magistrati vennero considerati veri e propri eroi popolari in lotta contro le malefatte dei politici. Negli ultimi 25 anni le vicende giudiziarie che coinvolsero Berlusconi radicalizzarono le posizioni: la magistratura quindi veniva vituperata dai supporter del Cavaliere che la accusavano di essere politicizzata, o esaltata dai suoi detrattori; non a caso negli ultimi anni, segnati dal declino politico di Berlusconi, cambiano i criteri di valutazione sulla magistratura che paiono più influenzati dal funzionamento del sistema giudiziario, afflitto da tempi lunghissimi, e da provvedimenti e sentenze giudicate discutibili. Ampia risonanza - Oggi, a seguito della vicenda Palamara-Csm, il consenso per la magistratura segna una ulteriore contrazione: solo un italiano su tre (35%) dichiara di aver fiducia mentre il 55% non ne ha. L’indice di fiducia, calcolato escludendo coloro che non esprimono un giudizio, si attesta a 39, il valore più basso di sempre, in flessione di 8 punti rispetto allo scorso anno e di ben 30 rispetto al picco più elevato raggiunto nel 2011 quando, all’apice della crisi economica e politica che portarono all’avvento del governo tecnico di Mario Monti gli italiani, disillusi rispetto ai partiti, riponevano le loro speranze nelle istituzioni di garanzia. L’attuale indice di fiducia è molto basso tra gli elettori di tutti i partiti - Lega 26, M5S 33, opposizione di centrodestra 35 - con l’eccezione dei dem (61). L’inchiesta giudiziaria che vede coinvolti alcuni membri del Csm ha avuto un’ampia risonanza ed è stata seguita con attenzione dal 26% dei cittadini a cui si aggiunge il 52% che ne ha sentito parlare, quindi solo il 22% ignora il tema. Tra coloro che conoscono l’inchiesta (il 78%), la stragrande maggioranza (61%) ritiene si tratti di un vero e proprio scandalo che potrà minare l’onorabilità e la credibilità della magistratura mentre un’esigua minoranza (17%) tende a ridimensionare la portata della vicenda. L’atteggiamento, allo stesso tempo severo e allarmato, è molto omogeneo tra i diversi elettorati, a conferma dello sconcerto suscitato. Danno reputazionale - Da ultimo, il sondaggio ha considerato le reazioni alle dimissioni del presidente dell’Anm Pasquale Grasso, sostituito da Luca Poniz. Secondo il 34% di chi ha seguito la vicenda, questo avvicendamento evidenzia il desiderio dei magistrati di reagire, il 25% si mostra scettico, ma la maggioranza relativa (41%) non si è fatta un’opinione. Insomma, l’inchiesta ha messo a nudo profonde divisioni all’interno della magistratura, metodi opachi di assegnazione degli incarichi e una prossimità al mondo politico giudicata riprovevole, perché mina alla base il concetto di autonomia dei giudici. Si profila dunque il rischio assai serio di un danno reputazionale che investe l’intera magistratura compromettendo la sua credibilità. Non stupisce quindi la dura presa di posizione del procuratore di Milano, Francesco Greco, che ha preso le distanze dalla vicenda parlando di “logiche romane che hanno lasciato sconcertati e umiliati”. Resta il dubbio che in futuro una qualsiasi inchiesta o sentenza che coinvolga uno o più politici possa essere screditata e considerata dall’opinione pubblica come una indebita competizione, finalizzata unicamente alla gestione del potere. Sarebbe un colpo ferale allo Stato di diritto. S’avanza il giudice del popolo di Giuseppe Sottile Il Foglio, 22 giugno 2019 Mentre Mattarella cerca di rimettere in piedi le macerie del Csm, una domanda... Cos’è il merito per un magistrato? Gli esempi di Palermo. Da Falcone a Caselli fino a Di Matteo Ma chi sono i puri e i duri, i giusti e i santi della giustizia? Quali magistrati eleveremo agli altari per dire che quelli lì, quelli come Luca Palamara e gli altri suoi colleghi sfregiati dalle intercettazioni, altro non erano che mele marce, reprobi da appendere al palo della gogna e da trascinare al rogo? Quali luminosi esempi troveremo tra i tribunali e le procure per dire finalmente che il sistema è salvo e che ogni cittadino potrà da ora in poi inchinarsi davanti alla sacralità dei giudici chiamati ad amministrare la legge in nome del popolo italiano? Chi sono gli angeli della terzietà da trattenere nel paradiso degli immacolati e quelli da scaraventare invece, come Lucifero, tra le braci dell’inferno perché non hanno resistito alle sirene del potere e della politica, delle correnti e delle manovre di palazzo? Nel vasto mondo dei magistrati - poco più di ottomila - l’unica certezza è che la stragrande maggioranza si reca ogni mattina in ufficio e compie il proprio dovere con onestà. Il resto è tutta una variabile. Le reverendissime eccellenze del Consiglio superiore della magistratura hanno tentato in tutti i modi negli anni di trovare un criterio oggettivo per l’assegnazione degli incarichi direttivi. Ci hanno provato con l’anzianità, ma non sempre è stata la appannate qualità che avrebbero meritato ben altro riconoscimento e ben altro rilievo nel firmamento giudiziario. Ci hanno provato anche con il merito ma ogni valutazione ha finito per impantanarsi in una discussione senza fine e senza costrutto: nelle commissioni un togato riteneva meritoria una cosa, per esempio un’operazione antimafia, mentre l’altro obiettava che quella operazione era stata fatta ma all’un tempo era fallita perché tredici dei ventisette personaggi arrestati erano ritornati in libertà in quanto non c’entravano nulla. E così, quando il merito non sapeva quale forma assumere, puntualmente finivano per prevalere le correnti, con i loro affiliati, con i loro conflitti di interesse e con quel trac - cheggiamento continuo volgarmente chiamato mercato delle vacche. La questione l’ha sollevata, l’altro ieri su Repubblica, Armando Spataro, un magistrato di lunga e applaudita esperienza, andato in pensione pochi mesi fa mentre era procuratore di Torino. Sono giorni in cui ciascuno crede di potere dare un contributo su come riformare un Csm ormai stritolato da uno scandalo difficile da rimuovere e da una verità che nessuno può più nascondere sotto i tappeti dell’ipocrisia. Il re è nudo e non c’è nessuno che possa tirargli su le braghe. Ci ha provato ieri, con un forte discorso al plenum, il presidente della Repubblica. “Oggi si volta pagina”, ha detto Mattarella, sostenendo che magistratura e Csm “hanno gli anticorpi” per reagire “al quadro sconcertante e inaccettabile” emerso dallo scandalo Palamara. E ha cominciato a ipotizzare una riforma anche il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, che intanto rivendica al proprio giustizialismo il vanto di avere introdotto, con lo “Spazzacorrotti”, il diabolico Trojan, quello strumento invasivo che infetta il telefono di un indagato e lo trasforma in una cimice pronta a catturare la voce di chiunque si trovi a transitare nei paraggi. Grazie al Trojan, ha dichiarato il Guardasigilli, è venuto fuori lo scandalo Palamara, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati sotto inchiesta per corruzione; e con Palamara è venuto giù tutto il marcio che c’era nel nero fondo del Csm. Un motivo d’orgoglio per il ministro dell’onestà-tà-tà. Ma con una domanda in sospeso: ora che sono crollate le pareti opache del vecchio e inquinato Csm quale casa di vetro, illibata e trasparente, sarà possibile costruire sulle macerie? Armando Spataro è convinto che “non sarà mai possibile eliminare una quota di discrezionalità nelle scelte operate dal Csm”. E si chiede: “Cos’è il merito poi? Quello collegato al numero degli arresti e delle operazioni antimafia da prima pagina? Quello della rapidità di trattazione dell’arretrato civile? Quello, per un pm, del numero di richieste accolte dai giudici? È evidente che nessuno potrà mai scrivere una legge per attribuire un valore numerico alle tanti possibili attività di un magistrato”. Ma tra tanti dubbi c’è un punto fermo: il caso di Giovanni Falcone, l’eroe antimafia massacrato nel maggio del 1992 nell’attentato di Capaci. Era il giudice che, con il maxi processo di Palermo aveva sventrato la cupola di Cosa Nostra. Era il magistrato che con il pentimento di Masino Buscetta e con le indagini bancarie aveva rinchiuso dietro le sbarre dell’Ucciardone boss e picciotti della mafia più spietata, dalle cosche di Ciaculli ai sanguinari corleonesi di Totò Riina. Ma quando il Csm di quei tormentatissimi anni si trovò a dovere scegliere il capo dei giudici istruttori, i togati preferirono scartare Falcone e incoronare l’anziano Antonino Meli. Fu uno schiaffo alla competenza e alla professionalità, riconosce Spataro. Sul merito e sui meriti di Falcone nessuno per fortuna solleva il minimo dubbio. Anche perché il sangue versato non consente più alcuna polemica e ha tappato irreversibilmente tutte le feritoie attraverso le quali i cosiddetti rappresentanti del popolo gli lanciavano secchiate di veleno nel tentativo di orientare le sue indagini verso un metodo che desse immediati profitti sul piano politico e mediatico. Leoluca Orlando, il sindaco che teorizzava il sospetto come anticamera della verità, arrivò a lanciargli l’accusa terribile e infamante di “nascondere le prove nei cassetti”. Ma Falcone non cadde nella trappola. E quando gli dissero che c’era Giuseppe Pellegriti, un pentito di terz’ordine, disposto a tirare in ballo Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia, come mandante del delitto di Piersanti Mattarella, andò a trovarlo in carcere, fece le necessarie verifiche e non avendo trovato alcun riscontro incriminò Pellegriti per calunnia. Ma i criteri per definire un giudice meritevole da lì a poco sarebbero cambiati. Almeno a Palermo. Almeno in quel palazzo di giustizia, lastricato di marmi e di dolore per le tante volte in cui l’atrio era stato trasformato in camera ardente per rendere omaggio ai giudici assassinati dalla mafia: da Pietro Scaglione a Gaetano Costa a Rocco Chinnici a Giovanni Falcone a Paolo Borsellino. Per carità, sarà stata anche questa lunga sequela di morte; sarà stato pure l’effetto devastante delle stragi con le quali Totò Riina voleva conquistare un potere assoluto anche sullo stato di diritto e sui giudici che giudicavano i mafiosi, sta di fatto che con l’arrivo di Gian Carlo Caselli al vertice della procura cambia il metodo; e con il metodo cambia anche il merito della sua azione antimafia. Si apre una nuova stagione: quella dei magistrati che vogliono “riscrivere la storia d’Italia”, degli intrepidi che vogliono puntare su bersagli sempre più alti, dei coraggiosi che vogliono toccare gli intoccabili. Ed ecco Roberto Scarpinato, che nei giorni del lutto e della costernazione per Falcone aveva guidato la protesta contro il suo capo Pietro Giammanco, prendere in mano l’inchiesta contro Giulio Andreotti. Ecco Guido Lo Forte, che aveva fiancheggiato Scarpinato nell’ammutinamento dei sostituti procuratore, prendere in mano l’inchiesta contro Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi. Ed ecco Vittorio Teresi, un altro dei ribelli, intessere il processo per concorso esterno contro Calogero Mannino, ex ministro democristiano. Si corre da un carcere all’altro, si inseguono i pentiti più disponibili e si interpellano soprattutto quelli come Salvatore Cancemi la cui memoria “si scioglie a poco a poco, come una vite arrugginita”; e se c’è un alto magistrato, lassù in Cassazione, come Corrado Carnevale, detto l’ammazzasentenze, che pretende di valutare in un processo prove e riscontri, necessariamente dev’esserci dietro un losco risvolto, una disgustosa vocazione “a fare indirettamente il gioco dei boss”; e quindi si apre un’inchiesta pure contro di lui. È una stagione di fuochi e scintille, di applausi e riverenze, di potere e strapotere. E se alla procura mancano uomini e mezzi per dispiegare una guerra a così ampio raggio, Caselli telefona direttamente al Quirinale dove c’è Oscar Luigi Scalfaro, pronto a esaudire ogni richiesta. Ma è anche e soprattutto la stagione del consenso. Quella che piace al popolo e ai rappresentanti del popolo, felici e contenti di vedere finalmente in croce non solo i Barabba ma anche quelli che fino al giorno prima si sentivano potenti come Dio in terra. E nessuno tenterà mai di entrare nel merito - già, il merito - delle scelte compiute dalla procura di Caselli; né di richiamare l’assoluzione di Andreotti o di Carnevale odi Mannino per ridimensionare l’effetto salvifico di quelle inchieste, di quelle incriminazioni, di quelle umiliazioni. Caselli avrà sempre il diritto di rivendicare il suo merito. Ha creduto in quello che ha fatto. Molti processi lo hanno premiato, altri non hanno retto alla verifica d’aula. È la giustizia, bellezza: i giudici di primo grado ti danno ragione, poi l’appello o la Cassazione ti smonta tutto. Succede. Poteva accadere solo Palermo, invece, lo strano caso di Antonio Ingroia, un procuratore aggiunto che, nell’imbastire un’inchiesta pomposamente definita “eroica e straordinaria” - quella sulla fantomatica trattativa tra alcuni servitori dello Stato e i boss di Cosa nostra - pensa soprattutto a costruire un processo mediatico parallelo. Gli serve non solo per puntellare un’accusa basata sostanzialmente sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, un pataccaro trasformato nel ventriloquo del padre, Don Vito, che fu uomo di Totò Riina e anche sindaco di una sventurata Palermo. Ma gli serve pure per fregiarsi del merito di essere l’unico magistrato in grado di sfidare prima Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, e poi anche Giorgio Napolitano, il capo dello stato, che Ingroia non esita a intercettare e a trascinare nelle pieghe maleodoranti del processo. Il merito - anzi, quel merito - gli deriva dal ritmo ossessivo con il quale partecipa ai talk-show e viene intervistato dai giornali. Pensate che, in prossimità delle elezioni nazionali del 2013 - occasione, per lui irripetibile, di mettere a frutto la propria popolarità - se ne va in Guatemala, abbandona in altre mani il processo, e si piazza sotto una palmetta per consentire a Michele Santoro di intervistarlo sull’inchiesta e sulle nefandezze che quella inchiesta attribuisce a Forza Italia. Crede, poveretto, di essere vicino al traguardo; di avere con sé tutto il popolo dell’antimafia, tutto il popolo degli onesti e di tutti quelli che credono alle trame oscure, alle regie occulte, ai paraventi melmosi delle compromissioni e delle complicità. Le elezioni però lo inchiodano allo zero virgola. E il suo merito va sonoramente a farsi benedire. Ma il processo che lui ha imbastito si celebra e arriva pure a sentenza. Lo gestisce in aula un nuovo eroe: Nino Di Matteo. Un eroe del popolo. Super scortato, gira in lungo e in largo l’Italia, raccoglie cittadinanze onorarie in ogni angolo della penisola, predica i suoi vangeli sulla “verità altra” che si nasconde dietro ogni strage di mafia, scrive un libro all’anno, non perde un dibattito né una conferenza, rilascia interviste a tutte le televisioni, persino ad Al Jazeera, catechizza anche gli infedeli di Argentina e Uruguay, ha una Confraternita a sua disposizione e un sito che gli dedica, con passione e fanatismo, nove titoli al giorno in prima pagina; può contare su una diecina di associazioni che lo fiancheggiano, dalle Agende Rosse a Scorta civica: ha insomma una macchina che gli fabbrica il consenso; e quando Beppe Grillo lo propone come ministro di Giustizia lui quasi ci crede. Porta il processo sulla Trattativa a una sentenza di pesantissime condanne, e subito dopo approda alla Direzione nazionale antimafia. Dove riprende il giro delle interviste. Il 23 maggio scorso, per l’anniversario della strage di Capaci ne rilascia una, clamorosa e vanitosa, ad Andrea Purgatori, de La7, senza avvertire il suo capo, Federico Cafiero de Raho. Il quale va su tutte le furie e lo rimuove con effetto immediato dal pool che dovrà indagare sulle entità esterne, quelle che ventisette anni fa avrebbero affiancato i boss nelle stragi di mafia. Ma Di Matteo non incassa. La Santissima Confraternita si mobilita e raccoglie in suo sostegno oltre 70 mila firme, così dicono. Basterà tanto furor di popolo per costringere il Csm a reintegrarlo nel pool dal quale Cafiero De Raho lo ha estromesso? È o non è un merito avere un popolo che ti sprona e ti osanna a ogni passo? Torniamo alla domanda: che cos’è il merito per un magistrato? Armando Spataro, con una vita passata a salire e scendere le scale dei palazzi di giustizia, non lo sa. Se, come un viaggiatore della notte, fosse transitato dalla procura di Palermo forse avrebbe capito che il merito è come la verità di Fernando Pessoa. Ricordate quel verso tagliente e misterioso del grande scrittore portoghese? “La verità non viene e non va: muta solo l’errore”. I mali da curare sono carrierismo e correnti di Riccardo Ferrante Il Secolo XIX, 22 giugno 2019 L’espressione severa del Presidente della Repubblica durante il plenum del Csm ha già da sola reso chiara la gravità del momento. Poco più di due anni fa aveva esortato un vasto gruppo di neo-magistrati a “equilibrio, ragionevolezza, misura e riserbo” come “virtù che devono accompagnare il magistrato in ogni sua decisione” senza “smarrire mai il senso dei propri limiti, in particolare di quelli istituzionali”. Adesso, sono ancora le sue parole, va invece denunciato un “quadro sconcertante e inaccettabile”; fugando ogni dubbio sul fatto che si possa minimizzare, o contestualizzare, ha denunciato la “indebita partecipazione di esponenti di un altro potere dello Stato”. Ora “si volta pagina nella vita del Csm”, scandisce Mattarella. Uno dei nodi è quello del carrierismo, aborrito formalmente da tutti. La carriera è stata per secoli moneta corrente tra potere politico e giudici. In questo l’art-107 della Costituzione ha rappresentato un radicale cambiamento: “I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzione”. La progressione divenne via via “a ruoli aperti”: si consegue la categoria (il grado) e il relativo stipendio della funzione superiore anche se non la si esercita in concreto. Col che magistrati esperti ed avanti nella carriera rimasero, e rimangono, a presidiare fondamentali posizioni di frontiera, con indiscutibili vantaggi proprio nei momenti di maggiore crisi: terrorismo e criminalità organizzata, ad esempio. Altro problema il correntismo. E qui avviene il cortocircuito tra elezione ai ruoli dirigenti nelle rispettive “associazioni”, incarichi direttivi nella Associazione nazionale magistrati, partecipazione ai Consigli giudiziari locali e infine elezione al Csm. Una sorta di campagna elettorale permanente, che certo non giova a tenere sereno il clima all’interno dell’ordine giudiziario. Oggi le correnti non sono state ritenute degne nemmeno di un minimo cenno da parte del Presidente della Repubblica. Il danno provocato dai dopocena romani è enorme, perché comunque le associazioni tra magistrati hanno storicamente svolto un ruolo di elaborazione culturale e politica importante. Ora il discredito appare totale. Nell’attività del Csm, carrierismo e correntismo si saldano presso la fatale Quinta commissione, che discute le nomine agli uffici direttivi e semi-direttivi. Qui le correnti rivendicano la loro presenza attiva, qui può succedere che le pulsioni carrieristiche si scatenino, svelate adesso dal trojan horse inserito nel telefono mobile del giudice Palamara. Al di là delle patologie odierne, il problema è in effetti come giudicare le esperienze di lavoro per l’attribuzione degli incarichi di vertice, e in particolare quelli non strettamente giurisdizionali. Molti le maturano “fuori ruolo”, con incarichi, anche apicali, all’interno dei ministeri. D’altronde la magistratura è un serbatoio preziosissimo di professionalità giuridica cui le istituzioni devono poter attingere. Quanto alle elezioni al Csm, fioriscono soluzioni che le disconnettano dalle correnti. Impresa ardua vista la consolidatissima prassi contraria, in alcuni casi anche molto raffinata e opportunistica. Ad esempio spicca la necessità di andare a elezioni suppletive per la quota pm, visto che durante le elezioni scorse su quattro posti disponibili, quattro soli - guarda caso - erano i candidati, venendo così a mancare almeno un primo dei non eletti. Come si è già scritto il sorteggio puro ha un chiaro ostacolo costituzionale. Si potrebbe adottare un sorteggio tra precedentemente eletti, ottimisticamente definito da Michele Anis il “sorteggio dei migliori”, come avverrebbe per la Abilitazione scientifica nazionale, meccanismo in realtà assai discusso e discutibile, per svariati motivi. La commissione istituita nel 2015 per le “Modifiche alla costituzione e al funzionamento del Csm” auspicava un sistema elettorale a doppio turno, maggioritario al primo e proporzionale con liste concorrenti al secondo. Un sistema con collegi uninominali ma con sistema proporzionale lo ha indicato Gaetano Silvestri; garantirebbe forse candidati legati alla rappresentanza dei magistrati di un territorio, più che non alle correnti di appartenenza, senza per altro demonizzarle (collegherebbero per gruppi i candidati). Il problema, però, resta l’indipendenza del magistrato, quella esterna, ad esempio dal potere politico, ma anche quella interna, dalle gerarchie di corrente, oltre che di ufficio. Comunque sia, la magistratura italiana, per sapienza scientifica e cura nella tutela dei diritti, rimane una delle migliori al mondo. Le condotte che la infangano sono alla fine l’offesa più dolorosa. Il caso Palamara non è purtroppo un semplice incidente di percorso di Sergio Luciano Italia Oggi, 22 giugno 2019 Come nella favola di Andersen sul “re nudo”, la casualità dell’inchiesta (una delle pochissime di simile peso mai imperversate tra le toghe giudiziarie italiane) che ha colpito Luca Palamara, ex capo dell’Associazione nazionale magistrati, e alcuni altri giudici, sta rivelando quella che a tutt’evidenza dev’essere da sempre una prassi spartitoria tra correnti giudiziarie e partiti politici, all’insegna di una gestione del potere che non è stata certo sporadica ma è un malcostume consolidato. Una prassi graniticamente perversa. Va detto che i magistrati corrotti e dediti alla gestione del potere spartitorio e dunque iniquo sono ovviamente una minoranza, una sparuta minoranza: eppure possono essere eletti a capi della categoria. Come mai? Tra le toghe prevale l’onestà e il rigore, ma in molti casi si tratta di una integerrima passività, cioè della tendenza a fare onestamente quel poco che l’ordinamento delirante dei nostri codici consente di fare ai singoli, lasciando però il Paese senza una giustizia giusta e senza quel costante tentativo di riscatto e ribellione che sarebbe necessario alla categoria per sottrarre la situazione giudiziaria del Paese alla palude nella quale marcisce. L’appello alla difesa del prestigio dell’istituzione giudiziaria che giustamente arriva dal Quirinale e da tutti coloro che, dentro e fuori le istituzioni, hanno a cuore la tenuta del Sistema Paese è sacrosanto. Ma rischia di restare un vuoto e sonoro sfoggio di severa consapevolezza se e finché non verrà accompagnato da un empito di autoriforma che in realtà non si vede proprio, neanche a livello di barlume. I magistrati di potere e di intrigo delinquono, e i trojan di questa campagna di intercettazioni lo raccontano spudoratamente. Delinquono perché assoggettano i traffici delle posizioni di potere dentro i tribunali, le procure e le Corti d’appello ad amicizie, lobby e influenze opache che interferiscono nella corretta amministrazione della giustizia. Ed era ora che uno scandalo lo rivelasse: adesso, il re è nudo. Certo, l’ennesimo colpo di piccone alla credibilità delle istituzioni repubblicane ferisce il senso civico di noi tutti. Ma è meglio credere in qualcosa che non c’è o prendere atto che non c’è e adoperarsi per recuperare questo vuoto? Diceva l’ex presidente Cossiga che Mani pulite sarebbe finita quando i magistrati avrebbero cominciato ad arrestarsi tra loro, ed è quel che sta accadendo. Ma l’obiettivo del Paese non sarebbe quello di far finire Mani pulite bensì quello di avere una giustizia giusta, efficiente e responsabile. Il che non è. Se dopo questo scandalo smettessimo di fingere che sia, e iniziassimo a riformarla sarebbe sano. Ma non accadrà. Mio carissimo giudice di Anna Messia e Andrea Pira Milano Finanza, 22 giugno 2019 Il sistema delle toghe è nella bufera per il caso Csm Ma è anche tra i più costosi d’Europa, 75 euro per ogni italiano Pesano le intercettazioni. E le paghe sono ben più alte che in Germania. L’Italia è tra i Paesi che spendono di più per la giustizia in Europa, subito dopo la Germania e la Francia. Il distretto più costoso è quello di Palermo che, a causa dell’incidenza preponderante delle intercettazioni, nel 2017 ha registrato una spesa superiore a 94 milioni. Ma anche a Roma (88,1 milioni) e Milano (73,3 milioni) il conto è piuttosto salato. Eppure il Paese ha uno dei sistemi che funzionano peggio, soprattutto perché estremamente lento. Inefficienze che si trascinano da anni ma che oggi stonano, alla luce del caos che sta travolgendo il Consiglio Superiore della Magistratura, con l’emergere di insane commistioni tra magistratura e politica che, a cascata, gettano ombre su tutto il sistema. Le intercettazioni e le inchieste, che hanno portato alle dimissioni di quattro membri di Palazzo di via dei Marescialli che sono finiti nello scandalo, hanno svelato “un quadro sconcertante e inaccettabile”, ha dichiarato venerdì 21, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella intervenendo al plenum dell’organo di autogoverno dei magistrati e hanno “prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche dell’intero ordine giudiziario”, ha aggiunto il capo dello Stato. L’intenzione, a questo punto, è di “voltare pagina”, ha sottolineato Mattarella e la bufera è arrivata proprio mentre è stato avviato il confronto per la riforma della giustizia, con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, intenzionato a rivedere non solo le modalità di elezione dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, ma a separare più nettamente la funzione giudiziaria da quella parlamentare, come previsto anche nel contratto di governo. Nel mirino c’è pure la riforma delle intercettazioni (con la benedizione dei trojan, ovvero del virus che trasforma i telefonini in microspie, alla base delle inchieste sui membri del Csm) e la volontà di fissare un tetto di 240 mila euro per gli stipendi dei consiglieri, ribadita di recente da Bonafede. Stipendi d’oro. L’obiettivo del Guardasigilli è prima di tutto rilanciare l’immagine della magistratura, stabilendo un sistema imperniato sulla meritocrazia che prevedrebbe sanzioni per quei giudici che non rispettano i tempi stabiliti per ogni processo. Ma centrale è anche il tema degli stipendi, con la volontà di fissare una soglia massima dei consiglieri del Csm a 240 mila euro, mentre oggi ci sarebbero magistrati che arrivano a guadagnarne 400 mila. “I cittadini non possono avere un’idea di privilegio ingiustificato”, ha dichiarato Bonafede. La questione stipendi e spese resta quindi al centro della discussione e in effetti il sistema italiano sembra avere bisogno di un efficientamento. Secondo il rapporto Cepej 2016, l’ultimo presentato dal Consiglio d’Europa, il budget messo a disposizione dall’Italia per il sistema giudiziario (4,4 miliardi) è inferiore in Europa soltanto a quello della Germania (10 miliardi) e a livello del Regno Unito (4,5 miliardi). In Italia la spesa media pro capite per il sistema giudiziario a fine 2016 era di 75 euro, in crescita rispetto ai 72,7 euro del 2014 e più alto della media europea, pari a 64,5 euro. Ma c’è un altro dato, sempre elaborato dall’analisi del Cepej, che appare decisamente significativo. In Italia un giudice a inizio carriera guadagna in media 1,9 volte il salario medio del Paese e all’apice della carriera questo rapporto arriva a 6,4 volte. La media europea è più equilibrata (2,5 volte per i neo magistrati e 4,5 volte a fine carriera) ma il confronto più interessante sembra appunto quello con la Germania, che, come visto, è il Paese che in Europa spende più di tutti per il proprio sistema giudiziario. In quel caso un giudice a fine carriera guadagna 1,6 volte uno stipendio medio, meno di un magistrato italiano a inizio carriera, e una situazione simile vale anche per i pubblici ministeri. “Alcuni Stati si concentrano più sull’anzianità del giudice che sul Tribunale a cui viene assegnato alla fine della sua carriera, come nel caso dell’Italia dove conta solo l’anzianità nel determinare la remunerazione”, osservano dal Cepej. Non solo. Dall’analisi emerge un altro curioso primato per l’Italia: il nostro è il Paese con il maggior numero medio di assistenti in staff alle Procure, pari a 4,1 persone, contro il numero minimo di 0,4 della Finlandia e una media di 1,4 in Europa. Processi lumaca. A fronte di tali spese salate il Paese continua però a registrare processi decisamente lenti, anche se c’è qualche segnale di miglioramento rispetto al passato. Al Cepej hanno calcolato il rapporto tra casi pendenti e casi risolti, convertendoli in giorni. Il risultato è che in Italia una causa civile resta aperta in media per 514 giorni, peggio solo della Grecia (610 giorni) e della Bosnia Erzegovina (574 giorni). La buona notizia è che nel 2012 eravamo addirittura messi peggio, a 580 giorni. “L’Italia sta migliorando costantemente nelle ultime tre rilevazioni grazie alle riforme e al potenziamento dei sistemi informatici”, aggiungono dal Cepej. La fotografia però, non è la stessa in tutta Italia. La geografia della giustizia procede su divari territoriali sull’asse Nord-Sud, sebbene non manchino casi di eccellenza anche nel Meridione, dove le lungaggini si fanno sentire con più forza. Gli uffici settentrionali sono significativamente “più performanti”. Un’analisi dell’ufficio Statistico del Csm pubblicata a settembre dello scorso anno mette in evidenza come a spiccare siano soprattutto le realtà di piccole e medio piccole dimensioni. Aosta, Ferrara, Gorizia, Ivrea, Lodi, Savona e Trieste sono i nomi che si leggono sulla mappa delle migliori. La geografia è chiaramente sbilanciata a favore degli uffici del Nord Italia. Si trovano comunque eccezioni. È il caso di Napoli Nord, dove nonostante un aumento di pendenze ultra triennali tra il 2016 e il 2017, un numero di procedimenti definiti per magistrato non molto alto e un indice di ricambio inferiore all’unità, si rileva la più bassa percentuale di pendenze ultra triennali “sicuramente dovuta al fatto di essere un tribunale molto giovane che non ha avuto il tempo di accumulare arretrato”. O ancora spiccano i nomi di piccole come Isernia e Sulmona. Spesa elevata. Per avere un’idea del costo generale della giustizia nella Penisola il punto di partenza per orientarsi non possono che essere le tabelle della Direzione generale di statistica e analisi organizzativa del ministero della Giustizia. I dati, aggiornati al 2017, sono raggruppati per distretto di Corte d’Appello. Lo spaccato che emerge vede il capoluogo siciliano in cima alla lista per costi sostenuti, seguito da Roma e Milano. Fuori dalle prime tre posizioni c’è Napoli, mentre tra i primi dieci distretti per spesa, altri tre sono nel Mezzogiorno: Catania (47 milioni), Catanzaro (39 milioni) e Reggio Calabria (35 milioni). Fondamenta del primato siciliano è la mole delle intercettazioni. Sotto questa voce a Palermo sono ascritte spese per 30,7 milioni di euro. L’unica attività che viene a costare di più sono gli onorari per i difensori, oltre 32,5 milioni. Nella top ten dei distretti soltanto a Reggio Calabria la spesa per intercettazioni è, in percentuale, superiore: quasi 19 milioni su spese complessive per 35 milioni. A Roma la spesa totale del distretto supera seppur di poco gli 88 milioni di euro. Rispetto alla realtà palermitana nella Capitale si spende di più in indennità e in particolare per quelle spettanti ai magistrati onorari e agli esperti (11 milioni di euro). Spiccano anche gli onorari destinati agli ausiliari del magistrato. Nel 2017 sono ammontati a 17 milioni, 10 in più di quanto è spettato ai colleghi palermitani e circa 4,5 milioni in più di quanto speso da Milano. Soltanto a Napoli si pagano cifre superiori: 20 milioni di euro, di fatto la quasi totalità dei 22 milioni catalogati sotto “indennità”. Nelle statistiche del ministero si trovano anche alcune curiosità. A Roma, Torino e Reggio Calabria, ad esempio, non è stato speso neppure un euro in “poste e telegrafiche”. A Palermo invece di euro ne sono stati spesi 26 mila, a Bologna 22 mila. A Milano si viaggia di più: per indennità di trasferta sono stati spesi 180 mila euro. Per fare un raffronto a Napoli la cifra è di poco superiore ai 102 mila e nella Capitale ad appena 34 mila. Dove invece si è speso di più per la custodia è a Catania, 342 mila euro in un distretto che a fronte di quasi 25 mila euro di spese complessive in meno di Milano, conta oneri per i difensori in linea con il distretto del nord: 22 mila euro contro i 24 mila milanesi. E qui le differenze si assottigliano. Il Governo: stretta sui pm in politica. Ma è scontro sulle intercettazioni di Alberto Gentili Il Messaggero, 22 giugno 2019 Alfonso Bonafede continua a promettere la riforma del processo penale e civile, delle intercettazioni e del Csm “entro fine anno”. Ma il Guardasigilli pecca di ottimismo. Venti di crisi a parte, le distanze tra i 5Stelle e la Lega restano ampie. In più Matteo Salvini, che l’altra sera ha ottenuto da Luigi Di Maio la promessa che lo stop alla prescrizione non scatterà il primo gennaio 2020 se non sarà stata prima varata la riforma del processo penale con il dimezzamento dei tempi, non ha alcuna intenzione di ammainare la bandiera del garantismo. Perciò punta a mettere un freno alle intercettazioni e valuta, insieme al ministro Giulia Bongiorno, di introdurre la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Lo scontro sugli “ascolti” è riesploso ieri. Mentre nel ministero di Bonafede a via Arenula venivano ricevuti i rappresentanti dei giornalisti e degli avvocati contrari a limitare la pubblicazione delle conversazioni intercettate, Salvini ha tuonato: “Deve finire in galera chi fa uscire dalle Procure aspetti che riguardano la vita privata delle persone e chi li pubblica sui giornali. È incivile, è una cosa da quarto mondo, che le cronache siano piene di pezzi di intercettazioni senza alcuna rilevanza penale”. La risposta di Bonafede non è tardata. Ed è stata urticante per il capo leghista: “Sono contro il bavaglio. Siamo in un momento in cui le intercettazioni ambientali estese alla corruzione con la mia legge spazza-corrotti hanno reso possibile che emergessero scandali che diversamente il Paese non avrebbe conosciuto. Non posso portare il Paese indietro al tempo in cui la politica pensava che i cittadini non dovessero sapere quello che accadeva in certi campetti. L’intercettazione è irrinunciabile”. E ancora: “Dobbiamo lavorare per garantire che venga rispettata la privacy, questo ci mancherebbe... ma in passato quando le forze politiche parlavano di privacy ne parlavano come pretesto per tutelare se stesse”. Cosa da non trascurare: poco più di un mese fa proprio alcune intercettazioni hanno spazzato via il sottosegretario leghista Armando Siri. Eppure, dietro al fuoco delle artiglierie, qualche intesa non appare lontana. Sia la Lega che i 5Stelle meccanismo delle “porte girevoli” tra magistratura e politica. Lo dimostrano le parole di Salvini: “È arrivato il momento di fare una seria riforma della giustizia. Se fai il magistrato ed entri in politica ti dimetti per sempre dalla magistratura e non torni a fare il giudice”. E lo conferma la dichiarazione di Bonafede: “Magistratura e politica devono essere separati. Serve un muro. Un magistrato che entra in politica deve abbandonare la magistratura. La terzietà dei giudici è una condizione irrinunciabile per la democrazia”. I giallo-verdi non sono distanti neppure sulla riforma del processo penale. Il Guardasigilli, nel vertice dell’altra notte, ha lanciato la proposta di dimezzare i tempi dei processi introducendo “sanzioni disciplinari” per i magistrati ritardatari. E sia Salvini che la Bongiorno hanno dato il via libera. Del resto l’idea era loro, visto che da tempo il capo della Lega si batte per processi “con tempi certi e perentori”, soprattutto in vista dello stop alla prescrizione (varato con la legge spazza-corrotti) voluta da Di Maio. Discorso analogo per il Csm. È vero che il Carroccio, come ha rivelato la Bongiorno, punta ancora sulla separazione delle carriere per la quale sarebbe necessaria una riforma costituzionale. Ipotesi non gradita ai 5Stelle. Ma è anche vero che negli ultimi giorni è lievitata la sintonia sulla riforma del Csm con legge ordinaria e “il contributo delle opposizioni”, come ha precisato il premier Giuseppe Conte su suggerimento del Quirinale. Piacciono a Salvini e Bongiorno le linee guida fin qui indicate da Bonafede per riformare l’organo di autogoverno dei giudici. C’è un ok preliminare ai “criteri oggettivi e meritocratici” per l’avanzamento in carriera dei magistrati, ed è gradita anche la proposta di “collegi territoriali ristretti per togliere potere alle correnti. Non è lontano l’accordo anche sul sistema di elezione dei componenti del Csm attraverso un “sorteggio mediato” e sull’introduzione “dell’incompatibilità” che Bonafede spiega così: “Chi siede in Csm non può assumere incarichi direttivi e va introdotto il divieto nei cinque anni successivi all’incarico ad assumere la guida di una Procura”. Pena pecuniaria in base allo stato economico Italia Oggi, 22 giugno 2019 La Consulta salva la norma del codice di procedura penale sui reati minori. Per i reati minori, è da calcolare in base alla condizione economica del colpevole la condanna, con decreto penale, a pena pecuniaria convertita da pena detentiva: il meno abbiente, dunque, paga di meno. Il meccanismo di computo, previsto dall’articolo 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, è stato salvato dalla Corte costituzionale (sentenza 155, depositata il 21 giugno 2019). Stiamo parlando dei reati più lievi, per i quali il pubblico ministero ritiene applicabile una sanzione pecuniaria. Il codice di procedura prevede un rito speciale: anziché andare a dibattimento si può adottare un decreto di condanna. Il processo si fa solo se il condannato si oppone al decreto. Per invogliare a non opporsi, il codice autorizza il pubblico ministero a chiedere al giudice l’applicazione di una pena diminuita sino alla metà rispetto al minimo. La pena pecuniaria può essere prevista direttamente dalla norma incriminatrice o potrebbe essere l’effetto della sostituzione (conversione) di una pena detentiva. Per questa ipotesi il codice prevede il metodo di calcolo: si fissa un importo corrispondente a ciascun giorno e si moltiplica per i giorni di punizione; nel fare questo va considerata la condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare. Un giudice si è posto il problema di un favore (incostituzionale per lesione del principio di uguaglianza) per i meno abbienti, per i quali il loro stato è da considerare due volte e cioè sia al momento della determinazione della pena detentiva (e ciò per effetto di un obbligo derivante dal codice penale) sia al momento della conversione della sanzione da detentiva a pecuniaria. Insomma il conto finale potrebbe essere bassissimo. Ma la Corte costituzionale ha fugato ogni dubbio. La considerazione delle condizioni economiche, anzi, rispetta il principio di uguaglianza, in quanto l’impatto della privazione di una certa somma di denaro può essere in concreto assai diverso, secondo le differenti condizioni del condannato: sono proprio le differenti condizioni economiche a giustificare sanzioni di diversa entità, anche se i reati commessi sono di pari gravità. Napoli: Poggioreale, dopo la rivolta via 200 detenuti e ristrutturazione con il fai-da-te di Viviana Lanza Il Mattino, 22 giugno 2019 Dopo le proteste e il caos al carcere di Poggioreale ci si prepara per l’avvio dei lavori per la ristrutturazione del padiglione Salerno che il capo del Dap Francesco Basentini ha definito “interventi urgenti e ormai improcrastinabili”. I lavori comporteranno il trasferimento di 203 detenuti. Si inizierà con i 17 che hanno richiesto di essere spostati in altri istituti sul territorio nazionale e successivamente si troverà una destinazione per i 186 presenti al primo e secondo piano del padiglione Salerno. Non sono previsti invece trasferimenti per i detenuti del terzo piano che è già ristrutturato. I lavori saranno svolti da detenuti che saranno pagati con uno stanziamento straordinario di fondi e i tempi di avvio saranno immediati: si partirà con il ripristino degli intonaci e la pitturazione degli ambienti del lato sinistro e del secondo piano per poi completare la ristrutturazione del piano terra e del primo piano, anche con nuovi arredi. “Dobbiamo assolutamente evitare che con la scusa dell’emergenza si proceda a misure che sarebbero controproducenti e lesive del diritto delle persone recluse” ha dichiarato il Garante regionale delle persone prive della libertà personale Samuele Ciambriello, ponendo l’accento sulla “necessità di rispettare la territorializzazione della pena” e sostenendo l’esigenza di un intervento strutturale che includa anche quattro padiglioni e il centro clinico San Paolo. “Occorre al più presto metter mano ad una serie di iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale come ci viene richiesto anche dalle giurisdizioni sovranazionali”. Con questa posizione la giunta dell’Unione delle Camere penali italiane ha deliberato, per il 9 luglio, una giornata di astensione dalle udienze che coinciderà con una manifestazione nazionale che si terrà a Napoli, al Palazzo di Giustizia. Gli avvocati sono contro “un sistema tutto incentrato sul reato e non sulla persona, come se dentro le carceri non vi fosse un essere umano ma solo un’astratta fattispecie di reato”. E snocciolano i dati dell’emergenza: sovraffollati quasi tutti gli istituti penitenziari con una media nazionale che sfiora il 130%; un solo medico di base ogni 315 detenuti invece che ogni 150; 930 assistenti sociali e 999 educatori per circa 60mila detenuti. Intanto, mentre i penalisti si preparano allo sciopero, si prevedono nuovi cambiamenti al Consiglio forense napoletano alla luce della recente pronuncia della Corte costituzionale sulla questione del rinnovo degli ordini professionali e della ineleggibilità dei consiglieri con due mandati consecutivi. Armando Rossi, già presidente degli avvocati di Napoli e attualmente nell’ufficio direttivo dell’Organismo congressuale forense, ha annunciato che si dimetterà da consigliere dell’Ordine, decisione che sarà formalizzata nella riunione di martedì prossimo. “Ho deciso di rassegnare subito le dimissioni dalla carica di consigliere per dare un segnale concreto e decisivo sulla necessità di superare gli scontri del recente passato e recuperare l’immagine dell’Avvocatura come istituzione rispettosa della legge e degli interessi generali” ha detto Rossi. Voghera: detenuti di tra presunte violazioni e restrizioni immotivate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2019 La denuncia dell’associazione Yairaiha Onlus sulla condizione dei 409 reclusi. Tempi sproporzionati per una visita medica specialistica, controllo della corrispondenza, limitazione e riduzione delle telefonate e dei colloqui, riduzione dei generi alimentari ammessi e acquistabili. “Ci sono condizioni di invivibilità nel carcere di Voghera e negli ultimi mesi è peggiorata”. A denunciarlo con una lettera inviata a tutti gli addetti ai lavori, a partire dal ministero della Giustizia, è l’associazione Yairaiha Onlus che si occupa fina dal 2006 dei diritti dei detenuti e degli immigrati. Parliamo del carcere lombardo di Voghera, un istituto penitenziario aperto nell’agosto 1982. Le prime detenute donne ad elevato indice di vigilanza sono giunte il 24 settembre 1982, mentre dal 1984 si sono aggiunte anche le detenute del circuito di media sicurezza. Dal dicembre 1987 l’istituto ha ospitato detenuti esclusivamente di sesso maschile provenienti inizialmente dal vecchio penitenziario di Voghera, ospitato dal castello della città. Oggi nell’istituto i 409 detenuti appartengono a 4 diversi circuiti con prevalenza numerica per il circuito di alta sicurezza (As3), riservato a coloro che hanno rivestito posti di vertice nelle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti. “Più volte abbiamo rappresentato agli organi competenti le condizioni di invivibilità esistenti nel carcere di Voghera - scrivono quelli di Yairaiha Onlus - e più volte è stato oggetto di monitoraggi generali e mirati sia da parte del Garante Nazionale sia da parte di parlamentari nazionali ed europei che hanno puntualmente presentato relazioni e interrogazioni dal Consiglio Regionale al Presidente della Repubblica, passando per tutti gli organismi competenti, confidando in una risoluzione ottimale delle problematiche gestionali e strutturali ravvisate e rappresentate”. Denunciano che la situazione negli ultimi mesi è ulteriormente peggiorata e in continuazione ricevono segnalazioni da parte dei familiari dei detenuti che “narrano situazioni paradossali di violazioni e restrizioni spropositate e immotivate che violano la funzione rieducativa posta alla base della pena e della reclusione nella nostra Costituzione”. Ma quali restrizioni denunciano? Tempi sproporzionati per ottenere una visita medica specialistica, controllo immotivato della corrispondenza in entrata e in uscita, limitazione e riduzione delle telefonate e dei colloqui, riduzione dei generi alimentari ammessi e acquistabili. “Ogni acquisto - denuncia l’associazione Yairaiha - anche di farmaci salva- vita prescritti dal dirigente sanitario, è sottoposto a richiesta che non viene automaticamente autorizzato. L’uso dei ventilatori nei mesi caldi - aggiunge - autorizzato da apposita circolare ministeriale, è messo in discussione nonostante le temperature elevate e l’assenza di interventi strutturali pure segnalati e richiesti”. Si fa riferimento anche alla relazione dell’ex consigliera regionale Paola Macchi e relazione Commissione Giustizia della regione Lombardia, compresa la prevalenza delle richieste o segnalazioni al magistrato di sorveglianza che rimangono prive di risposta o intervento come denunciato dalla relazione dell’europarlamentare Eleonora Forenza. Tutto ciò, soprattutto nelle ultime settimane, la situazione sarebbe ulteriormente degenerata e i detenuti, per essere ascoltati su bisogni primari - secondo quanto riporta l’associazione Yairaiha - sono costretti ad azioni “estreme” che vanno dallo sciopero della fame alla classica battitura, determinando altresì un clima ancora più teso sia tra la popolazione detenuta che nei rapporti con il personale. A questo punto, gli attivisti dell’associazione si chiedono che tipo di funzione rieducativa può svolgere una detenzione così stringente. “È ampiamente dimostrato - spiega l’associazione - che mettere alla base dei percorsi detentivi il rispetto della persona e dei diritti umani, giova ai detenuti in termini di cambiamento e miglioramento, e giova alla società che un giorno dovrà riaccogliere le persone passate attraverso le maglie della giustizia in un’ottica di ricucitura dello strappo operato al patto civile con la commissione del reato”. E conclude: “È il reato che con la detenzione si vuole punire, e lo Stato non può violare il dovere all’umanità”. Palermo: “Una doccia a settimana e niente farmaci”, sciopero della fame al carcere Pagliarelli di Riccardo Campolo palermotoday.it, 22 giugno 2019 Ormai da tre giorni i carcerati del reparto di alta sicurezza hanno deciso di rifiutare il cibo. La direttrice ammette le difficoltà: “Abbiamo 1.380 persone recluse in una struttura per 700 persone”. L’associazione Antigone annuncia una visita. “Una doccia a settimana e niente farmaci se non la Tachipirina, qualunque sia il problema del detenuto”. Terzo giorno sciopero della fame nel reparto di alta sicurezza del carcere Pagliarelli dove centinaia di carcerati, da dietro le sbarre, hanno dato il via a una protesta iniziando a rifiutare il cibo. A raccontare i disagi a Palermo Today è la moglie di un recluso, dietro le sbarre da 5 anni dopo il blitz dei carabinieri Apocalisse: “Mio marito ha la psoriasi seborroica e per fortuna noi possiamo comprargli le medicine, ma c’è chi non ha questa fortuna. E poi la doccia…una volta a settimana. Non è un trattamento umano e dignitoso. Per la sua vicenda giudiziaria siamo in appello, ma gli restano 8 anni di detenzione e ci auguriamo che la situazioni migliori”. Ad anticipare quasi la protesta è stata la compagine siciliana di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: “L’ultima rivolta nel carcere di Poggioreale - si legge in una nota - è l’ennesimo campanello d’allarme che ci giunge sulla situazione carceraria in Italia. I problemi sono tanti per nessuno di questi è arrivata una risposta dallo Stato. Sanità, salute mentale, spazi ridotti, mancanza di programmazione per il reinserimento, pene alternative al carcere, organici sottodimensionati della polizia penitenziaria. Un capitolo a parte riguarda, psicologi, assistenti sociali ed educatori, ridotti ormai a numeri insufficienti in proporzione alla popolazione carceraria”. Il presidente di Antigone Sicilia, l’ex deputato regionale Pino Apprendi, ha annunciato per la prossima settimana una visita proprio al carcere Pagliarelli per vedere con i propri occhi le condizioni di detenzione alla base della protesta. Una “rivolta pacifica” che ha incassato anche la solidarietà della direttrice dell’istituto penitenziario: “Vedo giornalmente qual è la situazione e di certo questo non mi conforta. Per capire il problema - spiega - bisogna fare una premessa: quando nacque l’istituto venne progettato con impianti e strutture per 600-700 unità. Oggi abbiamo 1.380 detenuti. Ecco la ragione per cui non possono lavarsi ogni giorno bensì tre volte a settimana. Era così da prima che io fossi direttrice, ormai da 10 anni, e purtroppo nel tempo la situazione non è cambiata”. L’altro tasto dolente riguarda la somministrazione di farmaci. “L’Asp, come impongono le direttive, ha fatto grandi sforzi per riuscire a fornirci farmaci di fascia A e B. Per quelli di fascia C - prosegue la direttrice Vazzana - siamo noi a comprarli e purtroppo i fondi assegnati dal ministero della Giustizia sono risibili rispetto alle reali necessità. Proprio in questi giorni abbiamo incontrato un detenuto che ha un problema a un occhio e vorrebbe il collirio specifico, ma ci sono dei limiti imposti dalla normativa che non possiamo travalicare. Come funziona al di fuori del carcere, chi deve comprare certi farmaci lo deve fare a spese proprie. I nostri detenuti vogliono richiamare l’attenzione dell’autorità politica, l’unica ad avere il potere di modificare le disposizioni normative. Iniziata la protesta abbiamo inoltre nuove richieste sottolineando come servano interventi più ampi”. Messina: detenuto morto in carcere, la Corte europea riapre l’inchiesta dopo 18 anni Gazzetta del Sud, 22 giugno 2019 La Corte Europea per i Diritti dell’uomo di Strasburgo, dopo un ricorso presentato dall’avvocato di Messina Giovambattista Freni, ha riaperto l’inchiesta sulla morte nel carcere di Gazzi a Messina del detenuto Antonio Citraro, avvenuta il 16 gennaio del 2001. L’uomo, 31 anni, figlio di un imprenditore messinese e in attesa di giudizio, più volte aveva chiesto di essere trasferito dal carcere di Messina per motivi che poi non sono stati approfonditi. La morte fu etichettata come un suicidio, ma dopo le denunce della famiglia il Gup di Messina dispose il rinvio a giudizio per il direttore del carcere, due agenti di custodia e il sanitario del tempo, con le accuse di favoreggiamento, falso per soppressione, omicidio colposo, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali. Il Tribunale e la Corte di Appello pronunziarono sentenza di assoluzione per gli imputati e anche la Cassazione decise di confermare il verdetto. I genitori però non si sono arresi e hanno presentato ricorso alla Corte Europea per i diritti dell’uomo. Quest’ultima ha deciso di accertare i sistemi di tutela dei detenuti nelle carceri italiane, formulando dei quesiti. Chiede innanzitutto “se nel carcere di Messina esisteva ed esiste al momento un regolamento relativo al rischio di suicidio”; “il motivo per il quale la cella di Citraro è rimasta priva di illuminazione nei giorni che hanno preceduto il suicidio”; “se l’amministrazione del carcere si occupava di somministrare farmaci ai detenuti”; e infine “con quale sistema l’amministratore del carcere aveva deciso di controllare Citraro quando si era barricato in cella per protesta”. La Corte Europea intende accertare se, nei casi di persone ristretti in carcere per la prima volta, sono apprestati adeguati rimedi, con sostegno psicologico e somministrazione di farmaci, necessari per scongiurare estreme decisioni. Ancona: il Garante “i detenuti chiedono una diversa attenzione per le loro richieste” anconanews.it, 22 giugno 2019 Lettera degli ospiti dell’istituto penitenziario di Ancona dove si lamenta la mancata applicazione di alcune norme previste dall’ordinamento penitenziario. Il Garante dei diritti, Andrea Nobili, informa il Garante nazionale Mauro Palma e intende chiedere un incontro al Presidente del Tribunale di Sorveglianza del capoluogo regionale. Troppe richieste indirizzate alla magistratura di sorveglianza che tornano al mittente. I detenuti del carcere di Barcaglione rendono nota una situazione, che a loro dire è spesso caratterizzata dalla mancata applicazione delle norme previste dall’ordinamento penitenziario. Lo fanno attraverso una lunga e dettagliata lettera inviata alle istituzioni preposte, tra cui figura anche il Garante dei diritti. “È mia intenzione - sottolinea Nobili - informare di quanto sta accadendo il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, e di chiedere un incontro urgente al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Ancona, Filippo Scapellato, per un approfondimento delle problematiche poste in essere. È da precisare che quello di Barcaglione è un istituto a custodia attenuata che ospita detenuti a fine pena, che di fatto hanno perso la cosiddetta pericolosità sociale. I loro diritti, sempre tenendo conto di quanto contemplato dalla normativa vigente, vanno garantiti a tutti i livelli”. Tra le note negative evidenziate dagli ospiti di Barcaglione, le limitazioni del tempo da poter passare con la famiglia. In base all’art.21 esterno dell’ordinamento penitenziario, i detenuti possono accedere ad un lavoro e la richiesta è quella di potersi garantire il rapporto con la stessa famiglia, e soprattutto con i figli, durante le pause, ma questa possibilità avrebbe incontrato il parere contrario da parte del Tribunale di Sorveglianza. Inoltre, vengono fatte presenti l’esiguità delle pene alternative o premiali concesse dalla magistratura, la limitatezza dei colloqui con i magistrati e la non idonea applicazione della legge 199, che prevede di scontare gli ultimi 18 mesi di pena nella propria abitazione. Presso l’istituto di Barcaglione questa possibilità verrebbe limitata soltanto agli ultimi giorni della detenzione. Busto Arsizio: la denuncia del Garante “detenuti truffati dalle imprese” di Angela Grassi La Prealpina, 22 giugno 2019 Matteo Tosi: irregolarità nelle paghe ai carcerati. “Come mi devo comportare? Come devo intendere il ruolo che mi avete assegnato? In carcere l’area trattamentale è quasi priva di educatori, c’è sempre meno lavoro interno per i detenuti e alcune aziende hanno preso in giro i reclusi sul monte ore da retribuire”. Dopo le scaramucce dei mesi scorsi con il direttore Orazio Sorrentini, il garante dei detenuti Matteo Tosi fa rapporto alla Commissione Servizi sociali, alla presenza del sindaco Emanuele Antonelli che ora fa le veci di assessore, e snocciola problemi che rendono “complessa e ingestibile” la vita nella struttura di via per Cassano. I toni sono accorati. Il team presieduto da Donatella Fraschini offre parole di incoraggiamento, ma Tosi chiede a tutti di confrontarsi con le rispettive segreterie per indicare con precisione la strada da seguire per il futuro. Tosi, questa relazione orale prima del report annuale significa che ha bisogno di aggiustare il tiro o rappresenta una richiesta di conferme? “Vorrei capire dai consiglieri cosa scrivere davvero nella versione ufficiale. Nella mia esperienza ho registrato incongruità sia rispetto all’atteggiamento dell’amministrazione sia all’interno del carcere. Ho chiesto di capire se il mio modo di intendere il ruolo sia corretto: voglio che me lo ribadiscano in modo formale”. Le difficoltà di dialogo con la direzione del penitenziario sono palesi. Come sta andando? “Io e il direttore Orazio Sorrentini non ci siamo trovati bene ma non tutte le colpe sono sue. Se manca l’area trattamentale non c’entra che il direttore sia simpatico o antipatico. Purtroppo, lui ci mette del suo per aggravare una situazione già tragica, oppure c’è chi gli fa da filtro in maniera scorretta. Voglio sapere se la Commissione chieda al garante di affrontare tanti colloqui singoli e di preoccuparsi di tante piccole necessità, come dice il direttore, oppure se condivida il mio modo di vedere: fare colloqui con i singoli è inutile se poi non esistono educatori con cui rapportarsi. Il Regolamento del Comune dice che il garante dovrebbe attivare azioni che includano il più possibile il carcere nella vita cittadina”. A cosa pensa? “Ad appuntamenti che permettano una crescita culturale, momenti di svago, occasioni lavorative o laboratori di artigianato che diano qualcosa da fare e insegnino il rispetto di compiti, tempi e modalità di lavoro. Ho lanciato tre proposte ma sono rimaste inascoltate”. Questo le ha fatto ipotizzare di dare le dimissioni? “I commissari mi hanno dimostrato sostegno, a loro ho chiesto di consigliarmi se dimettermi o meno. Devono dire a me e a chi verrà dopo di me quale sia il modo giusto di vivere il ruolo”. I colloqui non li vuole fare? “Umanamente sono la parte più bella. Ma con davanti 450 persone è una sfida impari: non puoi risolvere i piccoli grandi problemi di tutti presi singolarmente, perché poi bussi all’area trattamentale e ti dicono che quei guai non esistono”. Come muoversi, allora? “Il grosso problema è che scompare il lavoro in carcere. La cioccolateria è ridimensionata, alcune cooperative sono sparite. Non c’è un clima piacevole e si sono verificate cose irregolari. Ho evidenziato che i reclusi erano infastiditi dal mancato pagamento di molte ore lavorate: per il carcere stesso o per il ministero alcuni accettano pagamenti inferiori all’impegno profuso ma lo sanno in partenza e sono contenti di avere piccoli guadagni, lo farebbero anche gratis. Qui si tratta di una realtà privata: prendere in giro chi cerca di risollevarsi alza ulteriormente la tensione. Le irregolarità nei pagamenti hanno spinto l’impresa ad andarsene. Di fronte a questo, che devo fare?”. Cosa si aspetta dalla commissione? “Ora è informata. Credo sia corretto emettere un documento scritto: servono indicazioni. In carcere succedono cose al di là della legge, voglio capire se sia opportuno metterle per iscritto. Quando ho capito che chi si rivolgeva a me incontrava poi maggiore fatica e che, quindi, risultavo più dannoso che utile, ho evitato tanti colloqui. Ho chiesto ai detenuti se per loro andassero bene colloqui collettivi: il garante dovrebbe guardare alla globalità, non al singolo caso. A parte quando qualche parente chiede una cortesia specifica. Il garante, per me, può mirare solo a fare cose per la collettività, quello che faceva Luca Cirigliano, prima di me, era sulla spinta di un grosso slancio emotivo. Tutti hanno qualcosa da chiederti”. Quali sono i contatti con il garante regionale? “Carlo Lio era stato onesto. Disse in anticipo che avrebbe faticato a venire. Infatti non è ancora tornato a Busto. Lui dovrebbe coordinare il garante locale, non si devono fraintendere i ruoli. Il dialogo con Lio è costante, cerchiamo di favorire lo sportello che vuole aprire la Camera penale. Occorre darsi da fare perché Busto abbia un educatore fisso: redigere una sintesi richiede nove mesi, se te ne stai quattro e part time, come fai?”. Qualcuno, in questa fase, fa le veci dell’area trattamentale? “Ci sono persone che non ne avrebbero né diritto né dovere e si assumono responsabilità e rischi pur di mandare avanti le cose, bisogna capire se lo facciano per tornaconto o per buon sentimento”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): detenuti senza acqua “questa volta ci siamo” Il Mattino, 22 giugno 2019 Il problema idrico nel penitenziario si acuisce in estate. Il Sindaco mirra assicura l’imminente inizio dei lavori. “La procedura per la realizzazione della rete idrica per il carcere di Santa Maria Capua Vetere è in dirittura di arrivo e la gara sarà bandita a breve. Ci sono stati dei passaggi burocratici da rispettare, come lo step della conferenza dei servizi ed altro ma, anche con lo sforzo del poco personale dell’ufficio tecnico, entro breve riusciremo a pubblicare il bando per consentire la partecipazione delle imprese interessate”. Lo ha dichiarato il sindaco Antonio Mirra, sgombrando il campo anche da recenti polemiche sui ritardi, durante la cerimonia di consegna degli attestati di partecipazione agli studenti e corsisti dello stage di Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza tenutosi presso l’aula Franciosi del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania Vanvitelli a Santa Maria Capua Vetere, alla presenza del prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto. Un aggiornamento che il primo cittadino ha offerto alla platea di studenti corsisti e addetti ed esperti proprio del settore, come il Garante dei detenuti, prof. Samuele Ciambriello; il prof, Mariano Menna, titolare dello stage di diritto penitenziario; la professoressa Mena Minafra, referente del progetto “C’è tempo” dello stage e del direttore del dipartimento, Lorenzo Chieffi. L’allarme sull’emergenza idrica nel carcere di Santa Maria Capua Vetere viene lanciate da anni ai primi caldi, così come ha ricordato il Garante Ciambriello, Dopo il protocollo di intesa tra il Comune di Santa Maria Capua Vetere e la Regione Campania nell’agosto 2016, e di due milioni di euro stanziati dalla Regione, il settore tecnico comunale aveva pubblicato il bando di gara per la progettazione. Fase propedeutica a quella della realizzazione con i tempi necessari per il bando che sono trecento giorni. Temi, quelli legati alla vita carceraria, trattati durante lo stage conclusosi con la consegna di attestati ma anche di targhe e riconoscimenti. Presenti molti addetti ai lavori e alcuni protagonisti che hanno raccontato le loro storie durante gli stage, come l’ex detenuto e attore Cosimo Rega, Filomena Lamberti (fu aggredita con dell’acido), Marisa Diana, la sorella del prete anticamorra don Diana e tanti operatori che lavorano nelle carceri campane, educatori, agenti e il giudice di Sorveglianza Marco Puglia, destinatario anch’egli di una targa. Applauditi i professori Mariano Menna e Mena Minafra per l’iniziativa che ha dato modo agli studenti di conoscere la realtà carceraria. Padova: lo Sportello avvocati di strada prepara il festival sui diritti umani di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 22 giugno 2019 Si parlerà anche di iscrizione anagrafica dei profughi durante il Festival Right2city in programma dal 26 al 30 giugno. Lo sportello di Padova dell’associazione Avvocato di strada Onlus organizza, infatti, un Festival diffuso per favorire una corretta informazione sui diritti umani ed una maggiore attenzione alla città e al ruolo del cittadino nel promuovere il benessere proprio ed altrui. In programma mostre fotografiche, incontri, laboratori per adulti e bambini, convegni, spettacoli teatrali, musica, poesia e fumetti. L’iniziativa, inserita tra gli eventi di Padova Capitale europea del volontariato 2020, è realizzata in collaborazione con il Comune di Padova. A presentare il programma delle manifestazioni ieri mattina a palazzo Moroni sono intervenuti, tra gli altri, l’assessore ai Servizi sociali Marta Nalin e Julien Mileschi dello sportello Avvocato di strada di Padova. Quest’ultimo ha spiegato che la posizione della sua associazione rispetto all’iscrizione anagrafica di un 28 ivoriano da parte del sindaco Sergio Giordani è la stessa dell’amministrazione comunale. E proprio di Decreto sicurezza e di iscrizione all’anagrafe si discuterà giovedì prossimo durante il convegno Città Invi(s)vibili che si terrà giovedì prossimo alla fornace Carotta. Qui è in programma un confronto sul tema “Povertà - La residenza anagrafica come misura di esclusione”. Un altro tavolo è dedicato a Immigrazione Decreto sicurezza: ricadute sul territorio. Non solo dibattiti, però. Venerdì 27 giugno dalle 17 alle 19 al Retrò Gusto di via Portello 22 è in programma Poetry Slam, ovvero un’amichevole gara tra partecipanti che declameranno testi scritti di proprio pugno per stabilire chi tra loro, agli occhi del pubblico, meriti di essere chiamato poeta. Gorgona (Li): l’isola-galera dove i detenuti fanno il vino al Fresco(baldi) di Andrea Cuomo Il Giornale, 22 giugno 2019 Da sette anni la famiglia produce un’etichetta bianca stipendiando i carcerati che curano le vigne sull’isola. La motonave Superba parte due volte a settimana dal porto di Livorno per Gorgona, un’isola lontana 34 chilometri, e scarica al porticciolo le poche persone che arrivano qui. Vedremo chi sono. Prima parliamo dell’unica abitante permanente e volontaria dell’isola, Citti Luisa (cognome e nome, come dice lei), che ha 92 anni ma scende le scale con destrezza per farci vedere la sua casa, una sfilza di camere ingombre - c’è un tocco di senile accumulazione - di vestiti, libri, pupazzetti e cartelli coi numeri di telefono di emergenza scritti belli grossi, e fotografie del marito morto e dei figli che stanno a Firenze, e due gatti sulle sedie che quando ti avvicini scappano soffiando. Si fa fotografare, Citti Luisa, con la foto di quando era giovane e bella, con un lampo di mai doma vanità. Poi ci saluta e ci dice: “Tornate presto”. Non sarà facile. Perché a Gorgona non è che vai quando vuoi. Citti Luisa è - per dire - l’unica che può scegliere di andarsene, anche se non lo farà. Gli altri abitanti dell’isola sono 95 detenuti e 24 agenti di polizia penitenziaria. Poi trascorrono ore o giorni qui anche il direttore Carlo Mazzerbo, siciliano, educatori del carcere di Livorno da cui dipende la colonia penale di Gorgona, operai per le necessarie manutenzioni necessaria, due volte a settimane escursionisti in visita guidata e vigilata, con documento da mostrare. E poi enologi e agronomi. Perché su quest’isola si fa un vino bianco da uve Ansonica e Vermentino, tropicale al naso e assai salino in bocca, dall’etichetta bellissima. Costa un sacco di soldi, su Tannico lo vendono a 75 euro la bottiglia (verificato ieri). In fondo ci sono vini migliori sul mercato per quella cifra. Ma questo vino è un atto di sfida, un’operazione di marketing idealistico, una follia imprenditoriale. Il vino è fatto con le uve delle tre piccole vigne dell’isola per un totale di 2,3 ettari che al massimo, strappando altra terra alla pietra e al bosco, potranno in futuro diventare 2,6. Le bottiglie della vendemmia 2018, la settima, sono 9mila in tutto. L’enologo è Federico Falossi e in vigna lavorano Andrea, di anni 46, Hasa, di anni 43, e Astrit, di anni 46. Tutti e tre albanesi e detenuti. Assunti come vignaioli dalla Frescobaldi, che cura il progetto enologico, con uno stipendio di mercato che loro mandano ai familiari. A Gorgona non ci sono occasioni per spenderlo, c’è un solo spaccio dove il calciobalilla è gratis e la birra gelata - che loro non possono bere - costa solo un euro. Andrea è stato condannato per concorso in un omicidio compiuto a Milano. Ha fatto undici anni a Volterra, poi è arrivato qui, dove dovrebbe restare fino al 2025. Colpevole? Innocente? Vai a sapere: condannato. “Qui sono felice - ci dice con un sorriso pieno di oro - e quando esco se mi vogliono continuo a lavorare in vigna”. Vicino il lungagnone Astrit è il più vicino al fine pena. “Mi mancano due vendemmie”, dice orgoglioso. A Gorgona vengono spediti i detenuti a fine pena che gli educatori ritengono più adatti. Niente condanne per reati di associazione o per reati socialmente aberranti e solo detenuti con un “curriculum” (così ci dice l’ispettore superiore di polizia penitenziaria Emilio Giusti) di tutto rispetto. L’idea è instradare i detenuti più volenterosi a un reinserimento nel mercato del lavoro, abbattendo quella recidiva che è il vero fallimento dell’utopia riabilitativa della detenzione. Lamberto Frescobaldi ringrazia ancora i colleghi che non risposero alla mail con cui sette anni fa l’amministrazione carceraria di Livorno invitò le aziende vitivinicole toscane a collaborare al progetto Gorgona. “Rispondemmo solo noi. Ci dissero: non innamoratevi del progetto. Non ci siamo riusciti. Educhiamo i detenuti non alla vigna ma al lavoro. Al piacere di fare una cosa ogni giorno e farla bene”. Non è un paradiso, si badi. Il carcere con l’acqua al posto delle mura ogni tanto mostra il cartellino del prezzo attaccato a ogni sogno: è lontano il 2004 quando cui due detenuti finirono ammazzati in faide nel giro di poche settimane. Ma a Gorgona si lotta di continuo coi soldi che non bastano, con le strutture che cadono a pezzi, con la difficoltà negli approvvigionamenti. A volta vien voglia di farla finita con l’isola cella lussureggiante, com’è da 150 anni. Per Citti Luisa il senso ce l’ha. I detenuti la fanno sentire meno sola. “Ogni giorno passano e chiedono se mi serve qualcosa”. Tra lei Astrit, Andrea e Hasa chissà chi se ne andrà prima da qui. Guerre. Dopo la sentenza dell’Alta corte britannica l’Europa non ha più scuse di Francesco Vignarca Il Manifesto, 22 giugno 2019 La sentenza britannica è fondamentale per tutte le campagne europee per il disarmo. Sempre di più è impossibile per i governi del continente fingere che le armi europee non siano coinvolte nel massacro in Yemen. Giovedì 20 giugno 2019 potrebbe essere ricordato come una data cruciale nelle azioni internazionali che vogliono fermare le vendite di armi verso i paesi in conflitto armato, in particolare verso quello in Yemen. Perché in tale data si sono concretizzate due situazioni molto emblematiche che contribuiscono a rafforzare i recenti passi positivi nella direzione che da tempo viene perseguita dalle organizzazioni della società civile come Rete Disarmo e tutti i suoi partner nazionali e internazionali. La prima buona notizia arriva da Genova: i generatori della Teknel, che riteniamo essere di utilizzo anche militare e che dovevano essere spediti a Gedda alla volta della Guardia nazionale saudita, non verranno imbarcati sulla nave della compagnia saudita Bahri. Un blocco reso possibile dall’azione dei lavoratori del porto genovese, che già lo scorso 20 maggio avevano impedito una precedente spedizione. La seconda buona notizia arriva da Londra dove l’Alta Corte d’appello della Gran Bretagna ha accolto il ricorso della Campaign Against Arms Trade, tra i partner di Rete Disarmo nell’ambito dell’European Network Against Arms Trade, che da qualche anno aveva intrapreso un’azione legale contro il governo per la vendita di armi all’Arabia saudita. È una sentenza interessante perché arriva dopo la decisione della prima Corte cui si era rivolta la campagna, che nel 2017 aveva bloccato un’identica richiesta. L’appello ha dato ragione agli attivisti di Caat. Una decisione molto importante perché sospende con effetto immediato le licenze per armi britanniche verso Riyadh mettendo insieme due elementi: una serie di rapporti sulle violazioni dei diritti umani e crimini di guerra prodotti da varie organizzazioni e il mancato controllo da parte del governo del rischio del possibile uso di equipaggiamento militare britannico per violazioni dei diritti umani. Le spedizioni sono bloccate in vista di un controllo migliore che il governo sarà obbligato a fare, sottolineando dunque che il commercio di armi non può essere considerato un business ordinario. Una decisione del genere è importante per tutte le iniziative legali - e non solo - oggi in corso in Europa. Ciò coinvolge anche l’Italia ed è dunque decisione rilevante anche per l’indagine in corso presso la Procura di Roma in merito alla denuncia presentata nell’aprile 2018 da Rete Disarmo, Ecchr Berlino e Mwatana for Human Rights dallo Yemen per la violazione della legge 185/1990, dell’Att (il Trattato sul commercio delle armi) e della Posizione Comune della Ue sull’export di armi, oltre che per eventuale complicità in omicidio. Della questione del flusso di armi italiane verso la coalizione a guida saudita attiva nel conflitto in Yemen si parlerà a breve anche alla Camera dei Deputati, dove andrà in discussione tra pochi giorni una mozione presentata da LeU. Le altre buone notizie arrivano dai blocchi che i lavoratori in Francia e Belgio avevano realizzato sempre contro le navi della Bahri e dall’annullamento di alcune licenze da parte del Consiglio di Stato belga, riguardanti l’invio di armi leggere verso l’Arabia saudita, che erano state già sospese dai tribunali. Sempre di più è impossibile per i governi del continente fingere che le armi europee non siano coinvolte nel massacro in Yemen. Questo da un lato riconosce la bontà delle posizioni della società civile e delle campagne di questi anni, dall’altro evidenzia ancora una volta come gli esecutivi - a parte quelli che hanno iniziato a compiere azioni concrete, Germania, Olanda, Danimarca e Norvegia - stiano (coscientemente, a questo punto) violando le regole che si sono dati a livello internazionale. Se non riusciremo a far applicare queste regole, che proibiscono l’invio di armi verso paesi in conflitto o dove ci siano gravi violazioni dei diritti umani, sarà ancora più complesso farlo per situazioni dove una chiarezza così estrema manca. Una chiarezza che nel caso saudita è stata confermata ulteriormente mercoledì dal rapporto delle Nazioni unite sulle responsabilità della monarchia araba nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Londra, Genova, Francia, Belgio: si moltiplicano iniziative e decisioni che dimostrano come sia fondamentale fermare il flusso di armi. Perché quel flusso di armi verso i conflitti perpetua la guerra, la alimenta e va a danno dei civili, le principali vittime della guerra. Le false notizie sul prete che tenta di salvare i migranti in mare di Vittorio Longhi Il Giornale, 22 giugno 2019 La “fake” pubblicata da “Il Giornale” che accredita Mussie Zerai come fondatore di “Alarm Phone”, organizzazione invece creata da attivisti nord europei. Un titolo copiato e incollato su giornali e siti di destra per ripetere la stessa nuova falsità su padre Mussie Zerai: “Dietro il centralino sui naufragi c’è un prete eritreo”. Un chiaro tentativo di diffamazione e delegittimazione, che arriva proprio quando il sacerdote denuncia l’ennesimo abuso del regime eritreo e il rischio di un’emergenza sanitaria. Un tempismo perfetto che suggerisce legami forti tra le destre italiane e la dittatura del paese africano. La notizia, diffusa da Il Giornale, rivelerebbe che Zerai ha fondato Alarm Phone, la rete euro-mediterranea che raccoglie le segnalazioni dei dispersi in mare e le trasmette alla Guardia Costiere per il soccorso. La notizia è falsa. A fondare Alarm Phone è stato un gruppo di attivisti nordeuropei nel 2014, ben cinque anni fa. “Conoscevamo l’impegno di Mussie Zerai nel salvataggio di vite in mare, per noi è un grande esempio, ma lui non ha fondato la nostra organizzazione e non ha nessun ruolo nella gestione della rete”, chiarisce Maurice Stierl di Alarm Phone, da Berlino. Il sacerdote eritreo infatti è stato candidato al Nobel per la Pace, proprio grazie al suo impegno umanitario ed è un bersaglio costante della stampa che tenta di criminalizzare la solidarietà e incitare all’omissione di soccorso. “In Italia ormai sembrano trionfare il bullismo sui più deboli e la disinformazione sulla migrazione - commenta Zerai - però quando vedo che gli attacchi raggiungono personalità molto più autorevoli come Papa Francesco mi sento in buona compagnia, so di essere dalla parte giusta”. L’inchiesta dell’Espresso sul traffico d’armi. In realtà, queste nuove aggressioni mediatiche vanno oltre la dimensione nazionale. Come già successo in passato, quando il sacerdote parla del regime di Asmara dai media della destra italiana e da quelli dei fedeli alla dittatura partono gli insulti, si moltiplicano le fake news. La connessione tra le destre italiane e la dittatura eritrea non è un mistero. L’amicizia è di lunga data, come rivelò una dettagliata l’inchiesta de l’Espresso sul traffico di armi e tangenti con esponenti della Lega. Oggi a sostenere il presidente Afewerki, accusato dalle Nazioni unite di crimini contro l’umanità, sono anche i siti italiani più attivi contro le ONG umanitarie. I loro obiettivi sono sempre gli stessi: George Soros, Roberto Saviano, Mussie Zerai. I nuovi abusi del regime eritreo. Pochi giorni prima di questo attacco Zerai ha denunciato la chiusura improvvisa di ventuno strutture sanitarie cattoliche in Eritrea, per mano del governo. Un ordine da Asmara ha imposto i sigilli a ospedali e ambulatori che operavano da trent’anni in tutto il paese, lasciando decine di migliaia di persone senza cure. La decisione è arrivata dopo il rifiuto da parte dei religiosi di cedere quei centri allo Stato. Una evidente ritorsione alimentata anche dall’invito dei vescovi al dittatore dopo l’accordo di pace con l’Etiopia. Gli avevano chiesto di avviare “un processo di riconciliazione nazionale per garantire giustizia sociale” per tutti. In realtà, i cattolici sono presi di mira da tempo dal regime, che teme qualsiasi forma di influenza sulla popolazione. Sono centinaia gli attivisti cattolici ancora detenuti nelle carceri, insieme a giornalisti e dissidenti politici. Non è un caso se le Nazioni unite da anni denunciano la sistematica violazione dei diritti umani da parte di Afewerki e dei suoi generali. I rischi sanitari. Nell’isolamento che l’Eritrea vive dal 1991, anno dell’indipendenza dall’Etiopia, i servizi che ospedali e scuole cattoliche offrono sono diventati indispensabili. Le ventuno strutture sigillate erano gratuite per la popolazione e gestite prevalentemente da suore. Assistevano circa 150mila persone, soprattutto donne, bambini e anziani nelle aree rurali, dove è maggiore l’esposizione ai virus. Lì non ci sono alternative pubbliche per le vaccinazioni, le analisi, la semplice somministrazione di un farmaco. L’Eritrea è uno dei paesi africani più poveri, con un’aspettativa di vita tra 63 e 67 anni e una mortalità infantile di 43 casi ogni mille nascite. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il governo spende circa il 3 per cento del budget annuale per la salute, contro il 5 dell’Etiopia e il 6 del Kenya, per restare nel Corno d’Africa. Le ragioni di tante fughe. In una situazione simile sempre più persone saranno spinte a scappare e i rischi di emergenze sanitarie aumentano. Basti pensare al virus Ebola che ha raggiunto l’Africa orientale e si sta diffondendo in Uganda e Sud Sudan, quasi alle porte dell’Eritrea. Per questo motivo Mussie Zerai aveva rivolto un “appello all’Unione Europea affinché intervenisse e assicurasse il diritto alla salute in Eritrea così come alla libertà di scelta della cura”. L’accordo di pace non ha cambiato nulla. Molti speravano che l’accordo con l’Etiopia avrebbe aperto il paese alle riforme democratiche e a una nuova stagione di libertà e di prosperità, ma finora nulla è cambiato in Eritrea. Anzi, questa ultima imposizione mostra il carattere sempre più autoritario del governo. Dopo un’apertura iniziale dei confini, il passaggio via terra è stato chiuso e sono in pochi a raggiungere Addis Abeba da Asmara in volo. In Eritrea non si può avere il passaporto prima del completamento del national service, che non arriva prima dei cinquant’anni. I giovani continuano a scappare senza documenti e chiedono asilo nei campi profughi dell’Etiopia, ingrossando le fila dei rifugiati insieme a sudanesi e somali. I più fortunati trovano lavoro, anche se il governo di Addis ormai ha imposto delle quote per i migranti. L’unico cambiamento finora è a vantaggio delle imprese e del governo etiopico, che sta investendo pesantemente sui porti di Massawa e di Assab, in posizione strategica sul mar Rosso. Agli eritrei resta poco, ancora meno ora con la chiusura degli ospedali. “Sbarcare i migranti della Sea Watch”, chiedono Onu e Consiglio d’Europa di Adriana Pollice Il Manifesto, 22 giugno 2019 A bordo della nave, da 9 giorni davanti alla costa di Lampedusa, le condizioni sono critiche, ma Salvini insiste: “Chi entra lo decide il Viminale”. “Con una motovedetta della Guardia costiera, a Lampedusa sono sbarcate 81 persone partite dalla Libia. I 43 naufraghi a bordo di Sea Watch rimangono bloccati in mare dal 12 giugno. Quanto deve durare questa ipocrita e disumana messinscena?”: questa la domanda posta via twitter ieri mattina dalla Ong tedesca. Bloccati a 16 miglia da Lampedusa, arrivati al nono giorno, diventa sempre più difficile tenere la calma tra i naufraghi: “Abbiamo molti pazienti con dolori, qui non curabili, provocati dalle torture e non possiamo gestire la situazione ancora a lungo - ha spiegato la dottoressa di bordo, Verena. Abbiamo bisogno di un porto sicuro”. E ancora: “Fa sempre più caldo, soprattutto nella zona in cui stanno le persone. Hanno problemi di disidratazione, cosa sulla quale non possiamo intervenire. In molti hanno vissuto traumi e torture, hanno bisogno di supporto psicologico. Invece si trovano in uno spazio molto ristretto e non possiamo prevedere come potranno reagire allo stress, che sta aumentando con il passare dei giorni”. L’Onu è tornata a chiedere al governo di rimuovere il divieto: “L’Italia ha la responsabilità di farli sbarcare, nessuno dovrebbe tornare nella Libia scossa dalla guerra - ha spiegato il portavoce dell’Unhcr, Babar Baloch -. Questi disperati devono essere sbarcati, è un obbligo sancito dalle norme internazionali”. Ma il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, continua a fare la faccia feroce. Ieri ha replicato: “Con tutto il rispetto per l’Onu e i professoroni, le politiche su chi entra ed esce in Italia le decide il Viminale. È una nave iscritta nel registro olandese, ha a bordo un’Ong tedesca: facciano il giro, se vogliono andare a Rotterdam o Amburgo”. Non solo le agenzie Onu ma anche il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, aveva chiesto “un porto sicuro che possa essere raggiunto rapidamente” specificando che “i migranti non dovrebbero mai essere sbarcati in Libia, perché non è un paese sicuro”. Salvini invece ieri ha scritto al premier Giuseppe Conte, che era a Bruxelles alle prese con le trattative economico diplomatiche, per dettargli il compito da svolgere: “Un’energica nuova iniziativa di sensibilizzazione nei confronti dei Paesi Bassi” per l’approdo in Olanda della Sea Watch 3. Secondo il leader leghista, l’Ong avrebbe messo in atto una condotta grave “resa palese dalla ferrea determinazione con la quale ha rifiutando il Place of safety indicato dalle autorità libiche (Tripoli, ndr)”. Salvini continua a fingere che la Libia abbia un porto sicuro. “Negli ultimi 9 mesi, almeno 22 persone sono morte per malattie, probabilmente tubercolosi, nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan, a sud di Tripoli”, spiega Medici senza frontiere. Per mesi, in alcuni casi addirittura per anni, persone registrate come rifugiati dall’Unhcr sono state abbandonate in capannoni di lamiera senza assistenza. “Una catastrofe sanitaria” la definisce Msf. E ancora: “Sono condannati a un ciclo di violenze e detenzioni, eppure gli stati europei contribuiscono ai loro respingimenti, in violazione del diritto internazionale”. Un rifugiato eritreo a Zintan ha raccontato: “Non possiamo tornare indietro e nessuno ci vuole da qualche altra parte. Non so dove sia il mio posto nel mondo”. Per Salvini la soluzione è mandare la nave in Olanda ma richiamando “i Paesi Bassi sull’esigenza di porre in essere ogni azione necessaria, anche sotto il profilo dell’ordine pubblico, affinché sia assicurato il rispetto integrale del complessivo quadro normativo”. La condivisione, nei fatti, da parte degli stati Ue della delega alla Guardia costiera di Tripoli per i respingimenti, ha già portato a una stretta in Olanda rispetto alle norme da ottemperare per avere l’iscrizione nel registro navale. Sea Watch 3 ha ottenuto tempo per adeguarsi, ma Salvini sembra indicare la rotta ai paesi Ue: modificare le singole legislazioni per rendere impossibili i soccorsi. Conte si è subito allineato al vicepremier: “Il presidente del Consiglio è sempre disponibile per tutti i suoi ministri. Sono già prontamente intervenuto, ho approfittato dei lavori del Consiglio europeo. Attendiamo una risposta”. Intanto, il tribunale dei ministri di Catania ha disposto l’archiviazione per il premier, Salvini, Di Maio e Toninelli: per i migranti trattenuti a bordo della Sea Watch dal 24 al 30 gennaio non c’è stato sequestro di persona. La nave della Ong “è entrata in Italia in maniera unilaterale e senza le necessarie autorizzazioni della Guardia Costiera”, spiegano dal tribunale del riesame di Catania. I giudici sottolineano la differenza con il caso della Diciotti che era una nave militare italiana. In quell’occasione fu chiesta l’autorizzazione a procedere contro Salvini, negata dal Senato. Migranti. Volontario portoghese rischia 20 anni in Italia. Conte al premier Costa: “Non posso intervenire” di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 22 giugno 2019 Il ragazzo, 25 anni, era imbarcato sulla Iuventa della ong tedesca Jugend Rettet ed è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secco confronto a margine del Consiglio europeo a Bruxelles. Nel corso di un bilaterale tra il premier italiano Giuseppe Conte e il suo omologo Antonio Costa, primo ministro del Portogallo, si è discusso del caso del portoghese Miguel Duarte. Il giovane, 25 anni, è sotto inchiesta in Italia dal 2018 per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e secondo i media portoghesi rischia fino a 20 anni di carcere. Il volontario, 25 anni, laureando in fisica, si è imbarcato sulla Iuventa, imbarcazione della Ong Jugend Rettet - dicono in Portogallo - spinto dalla voglia di salvare vite nel Mediterraneo. La nave è stata sequestrata dalle autorità italiane nel 2017. Duarte è stato fermato insieme al resto dell’equipaggio e ora rischia 20 anni. Pena che per media e opinione pubblica portoghese è decisamente sproporzionata, tanto che è partita una campagna politica e sui social sotto lo slogan “salvare vite umane non è un reato”. Un caso al quale si è interessato anche il governo di Lisbona. Tanto che a Bruxelles il premier Costa durante una bilaterale ha sollevato il caso con Conte, chiedendo come fosse possibile rischiare 20 anni di prigione per un caso simile. Un’attenzione già manifestata pubblicamente dal ministro degli Esteri di Lisbona nei giorni scorsi. Costa, insieme allo spagnolo Pedro Sanchez, è la stella del centrosinistra europeo e il suo ministro delle Finanze, Mario Centeno, è presidente dell’Eurogruppo, forte della capacità del suo governo di avere rilanciato la crescita mentre risanava i conti. Entrambi sono tra i politici più impegnati ad evitare la procedura sul debito italiano, tra i pochi alleati di Roma su questo dossier. Libia. Medici Senza Frontiere: catastrofe sanitaria nei centri di Zintan e Gharyan La Repubblica, 22 giugno 2019 Altro che “Paese sicuro”. Persone detenute e malate, colpevoli di essere migranti, abbandonate a se stesse, senza nessuna assistenza. Negli ultimi 9 mesi, almeno 22 persone sono morte per malattie, probabilmente tubercolosi, nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan, che si trovano nel Gebel Nefusa, una regione montagnosa a sud di Tripoli. La situazione sanitaria catastrofica, riscontrata dalle équipe mediche di Medici Senza Frontiere (Msf) in questi due centri, conferma questo bilancio allarmante. Per mesi, in alcuni casi addirittura per anni, centinaia di persone, bisognose di protezione internazionale e registrate come rifugiati o richiedenti asilo dall’Unhcr, sono state abbandonate in questi centri, praticamente senza assistenza. Dal settembre 2018 a oggi sono morte in media da due a tre persone ogni mese. Centinaia di persone in capannoni sovraffollati. Quando MSF si è recata sul posto per la prima volta lo scorso maggio, circa 900 persone erano detenute a Zintan, di cui 700 in un capannone sovraffollato, con a malapena quattro servizi igienici funzionanti, accesso irregolare ad acqua non potabile e nessuna doccia. “È stata una catastrofe sanitaria” dichiara Julien Raickman, capomissione di Msf in Libia. Probabilmente da mesi era in corso un’epidemia di tubercolosi. La situazione era così critica che durante le nostre prime visite abbiamo dovuto provvedere a diversi trasferimenti di emergenza verso alcuni ospedali”. I trasferimenti in strutture secondarie. Tra il 25 maggio e il 19 giugno Msf ha organizzato 16 trasferimenti verso strutture sanitarie secondarie, oltre a distribuire cibo, latte in polvere, coperte e articoli per l’igiene. Avendo ottenuto l’accesso al centro di detenzione di Zintan dal Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale libico (Dcim), Msf sta aumentando la sua risposta medico umanitaria. Nel frattempo le visite mediche e i trasferimenti verso gli ospedali sono ancora in corso e lo staff di Msf sta lavorando alla riparazione del sistema di approvvigionamento idrico. Gli arrivi principalmente da Eritrea e Somalia. Le persone rinchiuse nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan vengono principalmente dall’Eritrea e dalla Somalia e sono sopravvissute a esperienze terrificanti durante il loro lungo percorso in Libia. Nonostante esistano i meccanismi per traferire questi rifugiati e richiedenti asilo in paesi in cui le loro richieste di protezione possano essere esaminate, sono drammaticamente sottoutilizzati (da novembre 2017, solo 3.743 persone sono state evacuate dalla Libia dall’Unhcr, principalmente in Niger, dove devono aspettare che un paese conceda loro asilo). Condannati a un ciclo di violenze e detenzione. Il 3 giugno scorso l’Unhcr ha trasferito 96 persone dal centro di detenzione di Zintan verso un sito gestito dalla stessa agenzia delle Nazioni Unite a Tripoli, dove i rifugiati sono in attesa di un’imminente evacuazione dalla Libia. “Cosa accadrà ora agli altri 625 rifugiati rimasti nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan? Cosa accadrà a quelle persone che siamo riusciti a trasferire in ospedale quando avranno terminato il loro ciclo di cure?” si interroga Raickman di Msf. Invece di essere fuori pericolo e ricevere la protezione di cui hanno diritto, questi rifugiati e richiedenti asilo sono condannati a un ciclo di violenze e detenzioni. Questo è il tragico e comune calvario, ormai ampiamente documentato, a cui sono esposti migranti e i rifugiati in Libia, ma ciò nonostante gli stati europei continuano a contribuire ai loro respingimenti, pur consapevoli sia una violazione del diritto internazionale. “Non so dove sia il mio posto in questo mondo”. “Siamo abbandonati qui. Non possiamo tornare indietro e nessuno ci vuole da qualche altra parte. Davvero non so dove sia il mio posto in questo mondo” racconta un rifugiato eritreo di circa vent’anni a Zintan. Alcuni dei rifugiati nei centri di detenzione di Zintan e Gharyan raccontano di aver subito la pratica dei rapimenti per ottenere soldi dalle loro famiglie per il rilascio. C’è poi chi ha cercato di attraversare il Mediterraneo alla ricerca di un luogo sicuro, ma sono stati respinti dalla Guardia costiera libica, supportata ed equipaggiata dagli stati europei. Una volta a terra, sono stati riportati nei centri di detenzione lungo la costa libica. Intrappolati nelle aree di combattimento. Nei mesi precedenti circa 50 persone detenute a Zintan, le cui condizioni di salute erano state considerate tra le più a rischio, sono state trasferite presso il centro di Gharyan. Situato a circa 100 chilometri a nord-est di Zintan, questo sito si trova sulla linea del fronte del conflitto in corso tra il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite basato a Tripoli e l’esercito nazionale libico (Lna) fedele a Khalifa Haftar. Qui i detenuti sono intrappolati nelle aree dei combattimenti dove la situazione è particolarmente pericolosa e imprevedibile. La circolazione delle ambulanze e gli spostamenti dei soccorritori possono essere ostacolati in qualsiasi momento, mettendo a repentaglio la capacità di organizzare rapidamente i trasferimenti verso gli ospedali, misure di vitale importanza quando ce n’è necessità. 29 persone sono attualmente detenute nel centro di Gharyan. In mezzo al fuoco delle battaglie tra milizie rivali. Altri ancora, detenuti da reti di trafficanti a Sabratha, sono rimasti intrappolati nei combattimenti tra milizie rivali scoppiati nella città durante l’ottobre 2017 e successivamente trasferiti nei centri di detenzione di Tripoli. In quel periodo, con più di 20.000 detenuti, veniva raggiunto un picco di presenze nei centri di detenzione. Anche durante i combattimenti a Tripoli nell’agosto 2018, i migranti e rifugiati rinchiusi nei centri in città venivano trasferiti in quello di Zintan, lontani dalla linea del fronte ma ancor più isolati, in condizioni disperate e con scarso accesso alle cure mediche. Bisogna provvedere a portarli via da lì prima possibile. “Questo è un altro terribile esempio di come il trasferimento di rifugiati e migranti da un centro di detenzione a un altro non serva a proteggerli dai pericoli potenzialmente letali che affrontano in Libia. Occorre provvedere urgentemente a una loro evacuazione dal paese”, sostiene Raickman di Msf, che chiede che le evacuazioni dalla Libia siano immediatamente rafforzate. “Questo è possibile solo se i paesi sicuri in Europa o altrove rispettano i loro obblighi in materia di asilo e se gli stati europei interrompono la loro orribile e illegale politica di respingimento forzato in Libia. Zintan non è un’eccezione: è un brutale esempio di come questo sistema di detenzione, deliberatamente alimentato dall’Europa, stia mettendo in pericolo la vita dei rifugiati” conclude Raickman di Msf. Stati Uniti. Corte Suprema annulla condanna a morte: “Esclusero giudici neri” di Francesca Bernasconi Il Giornale, 22 giugno 2019 Secondo il detenuto, nei processi a suo carico, il procuratore si sarebbe opposto alle nomine di giudici di colore. Condannato a morte per 4 omicidi, ma ora la sua sentenza è stata annullata. Il motivo? Dalla giuria erano stati esclusi membri di colore. Negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha deciso, con 7 pareri favorevoli su 9, di annullare la condanna a morte del detenuto afroamericano, sulla base di accuse di discriminazione razziale. Era stato il detenuto nel braccio della morte del Mississippi a fare ricorso contro la sentenza, che aveva deciso per la sua morte, affermando che il procuratore del caso si era opposto alla nomina di giurati neri, per tutti i sei processi svoltisi a carico del carcerato. La decisio della Corte, che annulla la precedente condanna, si appella a sentenze precedenti che hanno registrato un atteggiamento discriminatorio da parte del procuratore che decide le nomine dei giurati nel processo. Il giudizio non riguarda le prove a carico del condannato, che infatti non è stato valutato innocente, ma solamente le procedure seguite durante i processi, che non sono risultate accettabili. Il detenuto è accusato di aver ucciso 4 persone in un negozio di mobili di Winona nel 1996. Per quei crimini è stato giudicato 6 volte: due processi (gli unici in cui erano presenti giurati neri) si sono chiusi con un nulla di fatto, mentre altri tre, conclusisi con la condanna, erano stati annullati precedentemente dalla Corte Suprema, perché il comportamento del procuratore era risultato non appropriato. Il sesto processo, invece, era stato considerato valido, come la condanna a morte. Ma in quel caso, il procuratore si era imposto contro la nomina dei giudici di colore. Così la Corte Suprema ha ribaltato anche l’ultima sentenza rimasta valida. Cecenia. Scarcerato Titiev, attivista per i diritti umani La Stampa, 22 giugno 2019 È stato scarcerato l’attivista Oyub Titiev, capo della sede cecena della Ong Memorial, condannato lo scorso marzo a quattro anni di detenzione, con l’accusa di possesso di droga, in un processo che secondo i suoi difensori è stato orchestrato appositamente per ostacolare il lavoro della Ong in Cecenia. Lo scorso 10 giugno, il tribunale della città di Shali gli aveva concesso la libertà vigilata. Nel gennaio 2018, Titiev, 61 anni, era stato fermato in circostanze strane dalla polizia che, secondo la difesa, ha gettato nella sua automobile un sacchetto con 200 grammi di marijuana per poi aprire un procedimento penale nei suoi confronti. Molte le figure di spicco nel panorama internazionale scese in campo per la scarcerazione dell’attivista. Human Rights Watch ne aveva chiesto l’immediata liberazione, denunciando un processo “basato su prove false e e motivato politicamente”. Il leader ceceno, Ramzan Kadyrov ha alla fine accolto con favore la decisione di concedere la libertà vigilata a Titiev.