Niente rivolta in carcere, ma la sicurezza è fatta anche di acqua e salute di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 giugno 2019 Nel penitenziario napoletano, pochi giorni dopo una rivolta, è morto un detenuto malato. Questa volta, ha fatto sapere il ministero, c’è stata “fortunatamente, soltanto una protesta sonora, battitura di oggetti sulle porte delle celle conclusasi nel giro di poche decine di minuti”. Ah beh, allora tutto a posto. Fortunatamente. Lo spirito dei tempi, e la tavola di priorità in un dato momento storico, a volte li si coglie negli avverbi, meglio se innocui e in buona fede. Ieri nel carcere napoletano di Poggioreale (2.296 persone in 1.638 posti, 40,2% di sovraffollamento nel 2018), nello stesso padiglione “Salerno” teatro domenica della rivolta di 200 detenuti accesa dalla sensazione di non rapida assistenza medica a un compagno, è trovato morto per cause naturali un altro detenuto di 58 anni, in cura dentro il penitenziario per gravi patologie croniche. Il Ministero della Giustizia pubblica un “urgente” comunicato nel quale non indica il nome della persona, ma il suo profilo criminale sì (“ergastolo per omicidio”). E aggiunge che alla notizia “è scattata una protesta dei detenuti nel padiglione, lo stesso dei gravi fatti di domenica”: ma, “fortunatamente, soltanto una protesta sonora, battitura di oggetti sulle porte delle celle conclusasi nel giro di poche decine di minuti”. Ah beh, allora tutto a posto. E non è dispaccio figlio di cattiveria, ma solo dell’aria che tira sulle priorità. La Federazione dei medici penitenziari ne lamenta 1 ogni 315 detenuti invece che almeno 1 ogni 150, ma va più di moda la recente circolare del Dap (spegni-tv dopo mezzanotte) su “Tutela della quiete notturna” e “incentivazione a tenere salubri ritmi sonno-veglia”. E se il Garante dei detenuti in Campania denuncia in quante carceri anche questa estate le tubature usurate o rotte lascino i detenuti con poca acqua, non supera l’eco invece assicurata dal rischio-rivolte o da proteste come quella di ieri, per quanto “solo” sonora e breve. “Fortunatamente”. Quindi tale da non costringere (come domenica) il direttore del Dap a ri-visitare il padiglione, ammetterne “l’innegabile deterioramento strutturale”, e promettere un “cronoprogramma di interventi”. Abolire il carcere, prove di utopia in Europa di Giuseppe Rizzo internazionale.it, 20 giugno 2019 Una mattina di qualche inverno fa, il freddo di Padova aveva seccato i terreni intorno al carcere Due palazzi e gelava il fiato di decine di persone davanti al suo ingresso. Erano giornalisti e familiari di detenuti, ed erano lì per partecipare a un convegno organizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti. Tra loro c’era una ragazza di diciotto anni. Piccola e magra, era contenta e nervosa per il padre, che doveva intervenire a uno degli incontri. Lui era in prigione da quando lei era nata. Lei non aveva mai mangiato un gelato con lui. Le chiesi qual era stata la cosa più complicata da gestire in tutti quegli anni. Ci pensò un po’ su, poi rispose: “All’inizio è stato il pensiero che mio padre fosse innocente, poi il dover fare i conti con i suoi sbagli, infine il giudizio degli altri. Per tutti sono solo la figlia di un ergastolano. Ho cominciato ad avere meno paura di questo giudizio quando ho capito che il carcere è uno specchio. Giudichiamo i detenuti e le loro famiglie, ma dimentichiamo che stiamo giudicando anche il nostro riflesso”. Il carcere è uno specchio, e torna utile ricordarlo quando si ha la malasorte, o la curiosità, di affacciarvisi. Nel caso dell’Italia, si scopre presto che l’immagine riflessa è tra le peggiori in Europa, dove ha diversi primati. Per esempio, è il secondo per tasso di affollamento, preceduto da Cipro e seguito da Ungheria e Turchia. Ed è il settimo per numero di detenuti: nelle celle italiane sono rinchiuse sessantamila persone, diecimila in più di quelle che possono contenere. Il tasso di affollamento è del 120 per cento, ma in strutture come quelle di Taranto si raggiunge anche il 200 per cento. È una situazione soffocante, e una delle conseguenze è che dal 2000 a oggi in carcere si sono suicidate 1.065 persone. Una cosa che l’Italia ha in comune con alcuni stati dell’Unione europea è la crescita enorme del numero di persone recluse. In Francia nel 2000 erano 48mila, oggi sono 74mila; nel Regno Unito si è passati da 64mila a 82mila; in Italia da 53mila a 60mila, ma nel 1990 erano la metà. Tutto questo è avvenuto nonostante i reati nel tempo siano diminuiti. Cosa spiega allora l’espansione del carcere? Le ragioni sono complesse e vanno cercate nelle crisi economiche che hanno colpito soprattutto la classe media e creato più poveri, nei tagli allo stato sociale e nell’indebolimento della politica. Dal cortocircuito di questi elementi, secondo l’antropologo francese Didier Fassin, nasce l’ossessione per la sicurezza e la punizione. “Gli individui si dimostrano sempre meno tolleranti (…) le élite politiche rafforzano o addirittura anticipano le inquietudini securitarie dei cittadini (…) per trarre benefici elettorali”, scrive in Punire, una passione contemporanea (Feltrinelli 2018). A farne le spese sono per lo più tossicodipendenti, stranieri e poveri. Alternative - Contro questo uso del carcere come arma classista e di vendetta sociale si è riflettuto molto in Europa. Già nel 1899 Lev Tolstoj scriveva in Resurrezione che “queste istituzioni portano la gente al massimo di vizio e corruzione, cioè aumentano il pericolo”, e che il sistema è irriformabile, visto che “delle prigioni perfezionate costerebbero più di quanto si spende per l’istruzione pubblica e graverebbero ulteriormente, ancora una volta, sul popolo”. Cinque anni dopo, Filippo Turati diceva alla camera dei deputati: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Sono parole che ricordano quelle scritte da Altiero Spinelli a Piero Calamandrei nel 1949 in occasione della pubblicazione di un numero speciale della rivista Il Ponte dedicato alla necessità della riforma del sistema penale. Vi si leggono articoli, tra gli altri, di Carlo Levi, Vittorio Foa, Gaetano Salvemini. “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”, scrive Spinelli. Negli anni ottanta la riflessione sulla detenzione è rilanciata nell’Europa del nord. Il norvegese Nils Christie con Abolire le pene? (Edizioni Gruppo Abele 1985) e l’olandese Louk Hulsman con Pene perdute (Colibrì Edizioni 2001) si scagliano contro l’intero sistema penale. Mentre il norvegese Thomas Mathiesen propone un piano in tre punti per fare a meno delle prigioni: ridurre i limiti massimi di pena; smantellare la struttura carceraria; trasferire le risorse al sistema dell’affidamento ai servizi sociali. Una buona sintesi di tutte queste posizioni è contenuta nel libro Abolire il carcere (Chiarelettere 2015). Pubblicato nel 2015 da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, è uno dei testi di riferimento dell’abolizionismo italiano, in grado di spiegare il fallimento del carcere e svelare alcuni luoghi comuni duri a morire. Uno è che in gabbia ci siano solo persone pericolose. Non è così: gli assassini, i mafiosi e i trafficanti internazionali di droga sono “a malapena il 10 per cento del totale”. Un altro è che la galera sia un buon deterrente. È vero il contrario: “I reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”. La percentuale scende al 19 per cento tra chi è affidato in prova ai servizi sociali, si legge in uno studio del 2007 curato dall’osservatorio delle misure alternative. “Tuttavia è bene ricordare”, precisano gli autori, “che le persone ammesse alle misure alternative sono “selezionate” con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati”. Un altro luogo comune è che la prigione sia sempre esistita. Nient’affatto: è tra il settecento e l’ottocento che “al posto delle strazianti pene corporali, si sceglie la soluzione detentiva”. Come scrive Michel Foucault in Sorvegliare e punire: “In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso”. Le prigioni servivano a riformare un sistema ancora più brutale. Oggi le si dà per scontate, così come in Italia si dava per scontata la pena di morte prima di Cesare Beccaria, negli Stati Uniti la schiavitù e in Sudafrica l’apartheid. La storia ha dimostrato che le cose potevano cambiare. E allora è davvero tanto difficile immaginare un’alternativa? Manconi e gli altri ci hanno provato, invitando a depenalizzare il più possibile, a cancellare l’ergastolo e il carcere minorile, a ridurre le pene e a favorire misure alternative. “Le autorità che per ignoranza e demagogia proclamano la guerra alla droga e fanno, o lasciano fare, la guerra ai drogati, sono, temo, complici di violenze terribili”, ha scritto Adriano Sofri. È vero anche nel caso delle guerre alla povertà e all’immigrazione, che finiscono per fare la guerra ai poveri e agli immigrati. Il carcere è la cassa di risonanza di queste violenze. Lo specchio, dove l’immagine riflessa è quella di tutti. L’abolizionismo è lo sforzo di chi ce lo ricorda e immagina delle alternative. Da sapere - Quanto costa il sistema penitenziario in Italia. “Aumentano lievemente (di circa 17 milioni) i fondi destinati all’amministrazione penitenziaria, che comunque si mantengono anche nel 2019 al di sotto dei 2,9 miliardi”, scrive l’associazione Antigone nel suo ultimo rapporto. Il costo per detenuto passa dai 137 euro del 2018 ai 131 di oggi. I soldi vanno “in particolar modo all’edilizia penitenziaria, che comprende la realizzazione di nuove infrastrutture, potenziamento e ristrutturazione di quelle esistenti”. Il totale delle spese per il personale rappresenta circa il 76 per cento del budget. La Cassazione: leggi sul carcere, addio retroattività di Errico Novi Il Dubbio, 20 giugno 2019 Diversi Tribunali avevano già rimesso alla Corte costituzionale le norme della “spazza corrotti” che precludono le misure alternative al carcere. Ora compie la stessa scelta anche la Cassazione, con un’ordinanza depositata martedì scorso, e fa vacillare così anche il principio della possibile retroattività nel campo dell’esecuzione penale. Verrebbe la tentazione di dire che sta per essere abbattuto un totem. Uno dei più persistenti e, se si vuole, perniciosi nel diritto vivente in campo penale. Si tratta della natura “processuale” e non “sostanziale” delle norme sull’esecuzione, in particolare nel campo dell’ordinamento penitenziario. In tutti i casi in cui si affronta il tema, ivi incluse le critiche alla legge “spazza corrotti”, ci si infrange fatalmente sullo scoglio di una pronuncia firmata nel maggio del 2006 dalle sezioni unite della Suprema corte. In quella occasione si affermò che “le disposizioni concernenti le misure alternative alla detenzione non hanno carattere di norme penali sostanziali”, e in tal modo se ne asserì la possibile retroattività. Potrebbe non essere più così in virtù di una nuova decisione assunta proprio dalla Cassazione, e in particolare dai giudici della prima sezione, che con l’ordinanza 1992 dello scorso 18 giugno hanno rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale proprio della “spazza corrotti”. In particolare, rispetto all’inserimento di fattispecie corruttive come il peculato nella “lista nera” dei reati ostativi alla concessione di misure alternative al carcere. Nel giro di alcuni mesi, forse a inizio 2020, il giudice delle leggi sarà dunque chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della norma inserita nell’ultima legge anticorruzione (all’articolo 1 comma 6) con cui le pene alternative sono state precluse per i “corrotti” persino quando i reati sono antecedenti l’entrata in vigore della stessa legge (avvenuta lo scorso 31 gennaio). Manca una disciplina transitoria, e lo hanno obiettato con energia diversi giudici. Del Tribunale di Napoli come delle Corti d’appello di Lecce e Palermo. Tutti hanno rimesso alla Consulta la sospetta incostituzionalità dell’efficacia retroattiva di quella norma. Ma forse una giudice era stata particolarmente coraggiosa: la gip del Tribunale di Como Luisa Lo Gatto. Era stata lei a ritenere addirittura inapplicabile la modifica introdotta dalla “spazza corrotti” nell’ordinamento penitenziario, e a sospendere l’ordine di esecuzione con cui Alberto Pascali, un legale, era stato incarcerato a Bollate a inizio marzo, nonostante il suo reato risalisse, ovviamente, a molto tempo prima che le nuove norme entrassero in vigore. Ora, è proprio l’ordinanza della dottoressa Lo Gatto a essere stata oggetto della remissione alla Consulta ordinata due giorni fa dalla prima sezione. In che modo? Semplice: il pm di Como aveva impugnato davanti alla Suprema corte la decisione della giudice lombarda (che intanto resta provvisoriamente efficace). La Cassazione ha discusso del caso nella camera di consiglio di martedì, dopo aver acquisito la memoria difensiva preparata, per Pascali, dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini. Il collegio presieduto da Giuseppe Santalucia (relatore Raffaello Magi) ha sollevato la questione d’ufficio. In particolare rispetto all’articolo 27 della Carta, che afferma il fine rieducativo della pena, e all’articolo 3, che stabilisce l’uguaglianza dinanzi alla legge. Da qui ad alcuni mesi, i giudici costituzionali si troveranno a vagliare perplessità diffuse tra i magistrati. Ora sappiamo per certo che dovranno valutare anche gli autorevolissimi sospetti della Cassazione. Già emersi, in realtà, con un’ordinanza della sesta sezione risalente allo scorso 20 marzo, la numero 12541. In quel caso la Suprema corte aveva sì affermato la non infondatezza dei sospetti, ma aveva suggerito ai difensori del ricorrente, un ex manager dell’Asl Roma 1, di sollevarli in sede di esecuzione. Adesso per la prima volta il segnale sulla nuova legge anticorruzione parte dal Palazzaccio direttamente in direzione Consulta. In teoria, la Cassazione avrebbe potuto “correggersi” da sola, sulla natura processuale di norme “penitenziarie” particolarmente afflittive come quelle che obbligano al carcere e impediscono pene alternative. La prima sezione non ha voluto rivoluzionare fino a questo punto il quadro, ma ha creato i presupposti affinché, tra qualche mese, la rivoluzione possa compiersi. Oltre al tema della retroattività, resta sullo sfondo quello della irragionevolezza della “spazza corrotti” in materia carceraria. Tratto messo all’indice da un giudice coraggioso al pari della gip Lo Gatto, ossia la Corte d’appello di Palermo, secondo cui l’estensione del “famigerato” 4 bis ai reati di corruzione contrasterebbe “con il principio di ragionevolezza e con quello di uguaglianza” perché “estende” a quei reati “una presunzione assoluta di pericolosità, non fondata su dati di esperienza generalizzati, che prevale irragionevolmente sulla finalità rieducativa della pena e sulla regola del “minimo sacrificio necessario”. Una lettura che corrobora in pieno la tesi espressa già a fine febbraio, in un intervento su Diritto penale contemporaneo, dallo stesso giurista che difende Pascali a Como e in Cassazione, ossia il professor Manes. Si tratta dell’altro snodo decisivo: potrebbe essere risolto, dalla Consulta, con un giudizio di incostituzionalità relativo alla stessa logica che assimila i “corrotti” a mafiosi e terroristi. E certo, ci si troverebbe di fronte alla fragorosa caduta di un totem anche in quel caso. Ingiusta detenzione: ora pagano anche i giudici Il Dubbio, 20 giugno 2019 Via libera all’unanimità della Commissione Giustizia della Camera alla proposta di legge, a prima firma Enrico Costa di Forza Italia, che modifica gli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale, in materia di riparazione per ingiusta detenzione ai fini della valutazione disciplinare dei magistrati. La proposta di legge, che ora passerà all’esame dell’Aula della Camera, in sostanza “rivoluziona” la materia: la normativa vigente prevede che sia lo Stato a risarcire in caso di ingiusta detenzione. Sono stati oltre 26 mila i casi di detenzione non giustificata, con richieste di risarcimento per circa 800 miliardi di euro. Con la proposta, qualora diventasse legge, il magistrato che ha firmato l’ordinanza di detenzione poi dimostratasi ingiustificata, potrebbe subire un’azione disciplinare. Esulta Forza Italia, il partito che più di ogni altro si è impegnato per una legge di questo tipo: “Dal 1992 ad oggi 27mila persone sono state arrestate ingiustamente e risarcite per un cifra complessiva che supera gli 800 milioni di euro. Ora sarà possibile promuovere l’azione disciplinare nei confronti di quei magistrati responsabili di ingiuste detenzioni”. “Sono soddisfatta, è un testo equilibrato”, commenta la presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio Francesca Businarolo. “Attraverso una proposta emendativa del collega Di Sarno, il testo che mandiamo il Aula prevede in automatico l’invio al Ministero della Giustizia delle ordinanze che accolgono domande di riparazione per ingiusta detenzione, mentre la Procura generale di Cassazione interverrà nei casi più gravi. Mi pare un buon compromesso, come dimostra il voto positivo di tutti i gruppi”, conclude Businarolo. Il Sottosegretario Morrone: aumentare e velocizzare espulsioni detenuti extracomunitari di Gianluigi Lombardi gnewsonline.it, 20 giugno 2019 Ieri pomeriggio, il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone ha incontrato un gruppo di dirigenti dei ministeri della Giustizia e dell’Interno, per approfondire le procedure fin qui adottate per aumentare e velocizzare l’espulsione dei detenuti extracomunitari ristretti nelle carceri italiane. Erano stati gli stessi ministri Alfonso Bonafede e Matteo Salvini a sollecitare la riduzione dell’affollamento carcerario, ampliando il numero di detenuti che rientrano nella casistica prevista dal comma 5 dell’articolo 16 del decreto legislativo 286/98 “Testo unico sull’immigrazione”, quelli cioè che abbiano davanti a loro una pena da scontare non superiore ai due anni. Il sottosegretario Morrone, al termine dell’incontro, ha affermato: “Bisogna affrontare il problema con pragmatismo e vedere dove e se l’iter può essere snellito e velocizzato. In questa prima riunione abbiamo messo sotto la lente l’esistente e posto le basi per verificare i nodi da sciogliere”. Dal primo gennaio al 30 aprile 2019, sono stati espulsi 219 detenuti extracomunitari prevalentemente di nazionalità albanese, tunisina e marocchina. Quella non è legittima difesa: cari penalisti, spiegatelo bene di Marco Franchi Il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2019 Un appello agli avvocati per smontare la propaganda sulla legittima difesa. È l’iniziativa di Jasmine Cristallo che nelle settimane scorse, proprio dalla Calabria, aveva fatto partire la “rivolta dei balconi” dando vita a una nuova stagione del dissenso dal basso che ha accompagnato la campagna elettorale per le europee del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Un appello lanciato sulla pagina Facebook del sito “La Nuova Calabria” che ha pubblicato un video in cui Cristallo ha spiegato la necessità di una nuova narrazione sul tema della legittima difesa monopolizzata, sui social, da messaggi “fuorvianti e piuttosto pericolosi” come quelli di Salvini e della Meloni all’indomani dell’episodio del tabaccaio che ha ucciso un rapinatore sparando da un balcone a Pavone Cavanese, in provincia di Torino. Jasmine Cristallo si “rifiuta di risultare indifferente” all’hashtag #iostocoltabaccaio dei due esponenti politici del centrodestra. “Non voglio - dice - che il mio appello risulti uno strumento politico. La mia posizione non deve portare acqua a nessun mulino. Se una persona nel cuore della notte sente dei rumori al piano di sotto, si alza e invece di chiamare il 113 decide di affacciarsi alla finestra e difarsi giustizia da solo, non è più legittima difesa. Il tabaccaio senza dubbio è una vittima di episodi gravissimi. Però questa disperazione non può essere cavalcata da chi vuole ottenere consensi. Bisognerebbe evitare che passino messaggi devianti”. Alcuni penalisti di Catanzaro hanno già risposto all’appello illustrando la riforma sulla legittima difesa “in maniera pratica e senza tecnicismi”. “Qui - conclude Cristallo - non è più un problema politico ma è un problema etico, un problema morale. È necessario che determinati messaggi arrivino anche alla famosa casalinga di Voghera”. Giustizia, indagini contingentate e punteggi alle toghe nella riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2019 Indagini preliminari con tempi più rigidi. Tetto agli stipendi dei componenti del Csm. Punteggi per gli avanzamenti in carriera dei magistrati. Intercettazioni all’insegna del “ma anche”: tutela della privacy ma anche della efficienza delle indagini E un modello di processo civile che tagliai tempi soprattutto perle cause, e sono la stragrande maggioranza, di competenza del giudice unico. Questi alcuni dei punti di merito che scandiscono il dossier giustizia tornato prepotentemente di attualità sulla scia delle ricadute sistemiche dell’inchiesta di Perugia sull’inquinamento delle nomine ai vertici di alcuni uffici giudiziari. Il confronto vede coinvolti il capo del Governo, Giuseppe Conte, i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il ministro della Funzione pubblica Giulia Bongiorno, e, almeno nelle intenzioni, sarà a tutto campo, aprendo alle opposizioni. Lo stesso Nicola Zingaretti ha riconosciuto la necessità di interventi, per esempio, sul Consiglio superiore della magistratura. Le misure sul processo penale e sul processo civile, in forma di disegni di legge delega, sono in realtà in buona parte definite, perché precedute da un lavoro di confronto con le rappresentanze di avvocatura e magistratura sin dal marzo scorso. Il che non vuol dire che tutte le misure siano state concordate. Per esempio, la previsione di una più rigida scansione temporale della fase delle indagini preliminari, sarà mal digerita da parte dell’Anm, che non vedrà certo di buon occhio la decisione di puntare su una sola proroga di 6 mesi, mettendo a disposizione delle parti tutte le carte dopo 3 mesi. Possibili sanzioni per chi non rispetta i termini, mentre nel testo dovrebbero confluire anche un deciso impulso sui riti alternativi, allargando i limiti per il patteggiamento, e una revisione del meccanismo delle notifiche, incentivando quelle telematiche e a mezzo difensore. Del resto, l’obiettivo di tagliare i tempi dei giudizi è condiviso ed è stato oggetto dell’accordo politico tra Lega e Movimento 5 Stelle che ha permesso di approvare la riforma della prescrizione che, comunque, lo ha sottolineato ieri ancora una volta Bonafede, dovrà entrare in vigore dal prossimo anno. Csm e avanzamenti in carriera dei magistrati sono ormai temi ineludibili (ieri il procuratore di Milano Francesco Greco ha preso le distanze da vicende “romane”: “quel mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord ci ha lasciato sconcertati”). Sul primo, il ministero mette sul tavolo una stretta sul fronte delle retribuzioni dei consiglieri, equiparandole, quanto a limiti massimi a quelle dei dirigenti della pubblica amministrazione, 240.000 euro; limitata anche, peri 5 anni successivi, la possibilità di ottenere incarichi extragiudiziari. Sul fronte degli avanzamenti in carriera si sta riflettendo su un meccanismo di punteggi nei quali incasellare il lavoro giudiziario e anche quello extragiudiziario per limitare gli spazi di discrezionalità e allargare quelli di prevedibilità delle scelte del Consiglio superiore della magistratura. Mentre sulla riforma della disciplina delle intercettazioni domani partirà il tavolo di confronto, inizialmente con giornalisti e avvocati, per mettere a punto un testo condiviso. Di tempo ce ne sarà sino a fine anno, visto che la riforma Orlando è stata congelata sino ad allora. Governo verso la stretta sul Csm. Duello nella notte sul nuovo processo di Alberto Gentili Il Messaggero, 20 giugno 2019 A notte inoltrata le luci al primo piano di palazzo Chigi erano ancora accese. Dietro a un tavolo, occhi stanchi e visi tirati, il premier Giuseppe Conte, il Guardasigilli Alfonso Bonafede e la ministra della Lega Giulia Bongiorno. Da mesi, infatti, il governo si riproponeva di parlare della riforma della giustizia e quando ieri sera, dopo il Consiglio dei ministri è stato affrontato il dossier, di fronte ai presenti è scattato il previsto braccio di ferro. Buona volontà e tentativo di mediazioni di Bonafede e Bongiorno a parte, la partita è apparsa subito estremamente complessa e divisiva. Il giustizialismo dei grillini non va giù a Matteo Salvini che ha presenziato alla prima parte del summit. E il garantismo del capo della Lega non piace a Luigi Di Maio, anche lui presente solo all’inizio, per poi lasciare il campo al Guardasigilli e al premier-avvocato. Per provare rendere l’avvio meno urticante, Bonafede ha cominciato affrontando il tema più popolare e meno divisivo: la riforma del Csm, terremotato dallo scandalo che ha portato alle dimissioni di ben 4 consiglieri. Il Guardasigilli ha presentato diverse proposte. La prima riguarda il taglio degli stipendi dei giudici di palazzo dei Marescialli: “Vanno adeguati al tetto di 240 mila euro annui previsti dalle legge. Non è possibile che ci siano magistrati che arrivano a guadagnare circa 400mila euro”. La seconda proposta di Bonafede è l’introduzione “dell’incompatibilità”: “Chi siede nel Csm non può assumere incarichi direttivi e va introdotto il divieto nei cinque anni successivi all’incarico” nell’organo di autogoverno dei giudici, “ad assumere la guida di una Procura”. Solo così, secondo il ministro grillino si possono evitare altre “opache vicende” che stanno coinvolgendo palazzo dei Marescialli. In più, il ministro della Giustizia ha proposto di introdurre “norme per garantire che l’avanzamento di carriera dei magistrati avvenga per meriti effettivi e in base a criteri oggettivi, come ad esempio lo smaltimento dell’arretrato, il rendimento”. E perfino le soffiate dei “segnalatori di illeciti”: i whistleblower. “In questo modo”, secondo Bonafede, “ogni magistrato potrà essere “pesato”. Un approccio che non avrebbe trovato, in base a ciò che è filtrato da palazzo Chigi, la contrarietà della Bongiorno. Mezza intesa anche sul sistema di selezione dei componenti del Csm, anche se Conte e il Guardasigilli intendono lasciare questo capitolo della legge delega “aperto al dibattito parlamentare”. Due i criteri che stanno prendendo forza: il “sorteggio mediato”: i giudici eleggono una rosa di propri rappresentanti e poi da questa vengono sorteggiati i componenti effettivi. In più il governo intende introdurre “collegi ristretti su base territoriale” per ridurre il peso delle correnti. Chiuso il capitolo Csm, il vertice ha affrontato il processo penale. Su questo dossier, Bonafede ha proposto una “stretta sulle indagini preliminari, con tempi certi, e tre soglie temporali basate sulla gravità dei reati”: “La proroga dei termini interviene una sola volta è solo per ulteriori sei mesi. Poi, se entro 3 mesi dalla scadenza dei termini di durata massima delle indagini, il pm non ha notificato né l’avviso della conclusione delle indagini, né richiesto l’archiviazione, verrà depositata la documentazione relativa alle indagini e messa a disposizione dell’indagato e della persona offesa. Solo in caso di specifiche esigenze, su indagini per reati gravi, l’avviso potrebbe essere ritardato per un periodo limitato di tempo”. E, di fronte alle perplessità della Bongiorno che ha chiesto “meccanismi certi per garantire che i tempi non siano sforati”, il Guardasigilli ha gettato sul tavolo l’idea di introdurre delle “vere e proprie sanzioni per i magistrati che non rispettano i tempi”. Più vivace, in base alle indiscrezioni, il confronto sulle intercettazioni. Il ministro grillino ha provato a tenere questo dossier fuori dal tavolo, sostenendo che se ne occuperà lui con la legge delega. E ribadendo la linea ormai nota: “Non vogliamo alcun bavaglio alla stampa con la scusa della privacy. Secondo noi gli ascolti con preminente interesse pubblico devono poter essere pubblicati nel rispetto del diritto di cronaca”. Ciò detto, Bonafede ha però promesso norme “contro la fuga di notizie” e per impedire che nelle “intercettazioni diffuse vengano coinvolte persone estranee ai fatti e vicende private”. La Bongiorno invece ha voluto affrontare la questione. Rilanciando la linea di Salvini: “Deve essere vietata la pubblicazione di conversazioni senza rilevanza penale”. Il “gossip”. Ed “è necessario impedire la diffusione degli ascolti nella fase precoce del processo”. In ogni caso “nessuno vuole mettere bavagli alla stampa, io sono sempre stata contraria”. Dalle indagini al Csm: il pm regna su tutto. Ecco perché bisogna separarlo dal giudice di Rinaldo Romanelli* Il Dubbio, 20 giugno 2019 Da qualche mese è stata avviata alla Camera la trattazione della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere penali italiane. Vediamo qualcuna delle ragioni su cui si basa. La struttura del modello processuale accusatorio è triadica e i tre protagonisti, giudice, pubblico ministero e difensore, sono indipendenti, hanno ruoli e funzioni differenti. Basterebbe questa considerazione per convenire sulla necessità che il giudice sia separato dal pubblico ministero dal punto di vista ordinamentale, sia cioè effettivamente “terzo”, ovvero estraneo ad entrambe le parti, oltre che “imparziale”, cioè formalmente indifferente all’esito della causa. È difficile negare che l’intero sistema si basi sulla necessità di proteggere l’indipendenza del giudice e ancor prima l’immagine di tale indipendenza, sia dalle parti del processo (indipendenza interna), che dagli altri poteri dello Stato (indipendenza esterna). Non a caso, questa è la prima preoccupazione di tutte le democrazie evolute. Ciò non può avvenire quanto lo stesso giudice è legato ad una delle parti, con la quale condivide il concorso di accesso alla magistratura, la scuola di formazione, gli avanzamenti di carriera, la disciplina e l’organo di governo. Domandiamoci ora, in concreto, se nel nostro sistema esista un problema di squilibrio tra poteri interni alla magistratura, che possa condizionare l’indipendenza del giudice. La risposta appare abbastanza evidente. Il momento centrale del procedimento, quello nel corso del quale si possono determinare le sorti di un centro di potere, perfino del Governo, è nella fase delle indagini preliminari. Di questa è divenuto esclusivo titolare, appunto, il pubblico ministero, che nella vigenza del codice inquisitorio, al contrario, per i delitti più gravi, recitava solo un ruolo secondario rispetto al giudice istruttore, cui era attribuito il compimento degli atti dell’istruzione formale. Da qui deriva, nel mutato assetto del sistema processuale, lo strapotere del pubblico ministero anche nei confronti del giudice. L’eco mediatica delle indagini amplifica poi questo enorme potere, che non è condizionato da alcuna regola effettiva nell’esercizio dell’azione penale, posto che l’obbligatorietà, che i costituenti avevano immaginato, affidandola all’articolo 112 della Costituzione, al fine di rendere tutti i cittadini uguali davanti alla legge, è del tutto inattuata e certamente inattuabile (non solo in Italia, ma in tutto il mondo). Ad essa si sostituisce, inevitabilmente, il mero arbitrio. Questo innegabile “status” giudiziario e mediatico del pubblico ministero si incontra poi con il sistema elettorale del Csm, le cui dinamiche fanno sì che gli eletti della componente togata siano decisi in base al peso politico delle varie correnti interne dell’Associazione Nazionale Magistrati. Ne consegue che anche le decisioni del Csm circa l’assegnazione degli incarichi di “potere”, siano, come peraltro è del tutto noto, assunte prima e fuori dalla sede istituzionale a ciò preposta, ovvero all’interno dell’Anm, secondo i rispettivi equilibri correntizi. Basta prendete atto che negli ultimi venti anni i presidenti dell’Anm sono stati praticamente sempre pubblici ministeri, malgrado su circa diecimila magistrati gli stessi siano solo duemila, per rendersi conto di quali siano i rapporti interni di forza e di come, in concreto, la componente inquirente della magistratura possa incidere sulla carriera dei giudici, magari proprio di quello stesso giudice che poco prima ha negato una richiesta di misura cautelare in un importante procedimento “mediatico”. Non è neppure necessario che ciò avvenga per doversi interrogare sull’equilibrio del sistema: è sufficiente che possa avvenire, per concludere che non è garantita l’indipendenza del giudice. Le ragioni della necessità della separazione delle carriere sono di tale evidenza che nessuno si spinge ad affermare che determinerebbe effetti negativi sullo status del giudice, finalmente libero da legami con “l’accusatore”. Le obiezioni si concentrano tutte sulla ricaduta che tale riforma avrebbe sulla figura del pubblico ministero, novello “orfano”, si dice, della sua natura giurisdizionale. Si agita lo spettro del pubblico ministero poliziotto che, privato della cultura della giurisdizione, diverrebbe insensibile ai diritti dell’indagato, proiettato verso l’ottenimento della condanna a qualsiasi costo, irrispettoso perfino dell’autorità del giudice. L’affermazione sembra però se non temeraria, quantomeno un po’ azzardata, posto che in quasi tutti i Paesi a democrazia evoluta è attuata la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e non consta che ovunque il pubblico ministero si sia manifestato con tali inquietanti tratti di insensibile e ottusa pervicacia persecutoria. La considerazione vale sia per quasi tutti i Paesi europei (tra cui Germania, Svezia, Spagna, Portogallo e Inghilterra), che per le principali democrazie extra- europee (Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda e Giappone). Un’organizzazione unitaria, al contrario è prevista in Francia, ove peraltro vige tutt’ora il sistema processuale inquisitorio: e a dimostrazione (ove ve ne fosse bisogno) del fatto che la stessa non garantisce assolutamente l’indipendenza esterna del pubblico ministero, quest’ultimo risponde all’esecutivo. Allo stesso modo l’ordinamento giudiziario è unitario in Bulgaria, Romania e Turchia, che non sembrano però esattamente modelli di democrazia ai quali tendere. L’Italia è, dunque, un’anomalia e dovrebbe tranquillizzare anche i più preoccupati conservatori, che anche il Comitato Consultivo dei Procuratori Europei, nella recente opinione n. 13 del 2018, abbia sentito il bisogno di sottolineare come “giudici e pubblici ministeri devono godere di reciproca indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni e anche apparire come indipendenti gli uni dagli altri”. E a coloro i quali non si sentissero ancora rassicurati, si può offrire un ulteriore tema di riflessione, ovvero: l’esercizio della funzione del pubblico ministero è veramente caratterizzata dalla sua posizione all’interno di un sistema unitario, che lo vede saldamente legato al giudice, o piuttosto dall’insieme delle regole che disciplinano l’azione penale e il processo? Per i più distratti vale la pena di ricordare che anche sotto il regime fascista l’organizzazione di giudici e pubblici ministeri era unitaria, com’è oggi, e che nella Relazione al progetto preliminare del ministro Alfredo Rocco, al codice di rito si legge: “Tutti gli istituti processuali sono pienamente informati ai principi fondamentali fissati dalla Rivoluzione spirituale, che creò il presente Regime politico. Le applicazioni processuali delle dottrine demo- liberali, per cui l’individuo e posto contro lo Stato, L’Autorità è considerata come insidiosa sopraffattrice del singolo e l’imputato, quand’anche sorpreso In flagranza, è presunto innocente, sono del tutto eliminate, insieme a quella generica tendenza favorevole per i delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che tanto ha indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità”. Sistema unitario, nessuna garanzia, nessuna indipendenza. Forse vale la pena di ragionarci. *Avvocato, responsabile osservatorio sull’Ordinamento giudiziario dell’Ucpi Approfittiamo dello scandalo per cambiare il Csm. Proposte concrete di Michele Vietti Il Foglio, 20 giugno 2019 La frase del Vangelo di Matteo “Oportet ut scandala eveniant”, seppure decontestualizzata, nell’uso comune si riferisce al fatto che in determinate occasioni gli scandali possono anche tornare utili perché rivelando un male danno l’occasione di curarlo. Ora, nel caso dello scandalo che ha investito il Csm e alcuni suoi componenti presenti e passati, invece di crogiolarsi nella consolatoria e ipocrita teoria delle “poche mele marce” che porterebbero da sole tutta la responsabilità di quanto è successo senza che il contesto abbia almeno agevolato le anomale dinamiche sviluppatesi, conviene prendere atto che - ferma restando la presunzione di innocenza dei singoli indagati - si sono certamente verificate falle nel sistema, che hanno consentito uno sviamento delle funzioni dell’organo rispetto ai fini istituzionali. Se così è, non può essere perduta l’occasione per mettere in atto tempestivamente rimedi che, se non eliminino, almeno rendano più difficile in futuro il ripetersi dell’accaduto. È in questo spirito costruttivo che mi permetto di avanzare qualche suggerimento, frutto dell’esperienza vissuta nel mondo della giustizia negli ultimi anni, per uscire dall’alternativa tra far finta di niente e far di ogni erba un fascio. Si può fare qualcosa di concreto, subito e a Costituzione invariata, perché il Csm recuperi appieno il suo ruolo di governo autonomo della magistratura, indipendente da ogni influenza esterna, autorevole ed efficace. 1. Occorre rivedere le circoscrizioni elettorali (collegi più piccoli garantiscono un minor potere di condizionamento torrentizio sui singoli candidati, perché rendono meno indispensabile l’apparato di ricerca del consenso a livello nazionale). 2. Va introdotto l’obbligo di indicare un numero di candidati superiore a quello degli eletti (per evitare ciò che accaduto nelle ultime elezioni, ove il numero dei candidati pm era pari a quello dei posti disponibili, per cui la competizione era superflua e oggi non ci sono candidati che possano subentrare). 3. Un panachage di preferenze tra liste diverse non vincola il voto a una sola corrente e ai suoi candidati prescelti. 4. L’eliminazione o la congrua riduzione del numero di firme per la presentazione delle candidature faciliterebbe la competizione di un maggior numero di liste. 5. Occorre prevedere l’introduzione del divieto di elettorato passivo senza alcuna deroga per i magistrati condannanti disciplinarmente. 6. Una quota di eletti dovrebbe essere destinata a comporre in via esclusiva la Sezione disciplinare, onde evitare commistioni tra funzioni giudiziarie e funzioni amministrative dei componenti. 7. Va ripristinato per legge il divieto, per i membri togati cessati, di ottenere incarichi direttivi e semi-direttivi per i quattro anni successivi alla scadenza del mandato, il che li renderebbe meno sensibili all’esito dei futuri sviluppi della propria carriera e perciò più indipendenti. 8. Egualmente si potrebbe introdurre per legge il divieto per i membri togati cessati di essere collocati fuori del ruolo organico della magistratura per i quattro anni successivi alla scadenza del mandato, restituendoli alla giurisdizione senza tentazioni alternative. 9. Si potrebbe prevedere per legge (essendo ormai stata definitivamente attuata la riforma dell’ordinamento giudiziario) una selezione concorsuale per l’accesso all’Ufficio studi e alla Segreteria del Consiglio, che garantisca l’imparzialità, la serietà e la terzietà dei componenti. 10. Occorre riflettere su un allungamento della durata della consiliatura per evitare che quattro anni siano quasi una parentesi tra una campagna elettorale e la successiva, favorendo così la stabilizzazione e la decantazione dell’organo. 11. Egualmente potrebbe essere opportuno che il Consiglio non decada tutto insieme, comportando una traumatica interruzione delle sue funzioni e ponendo i nuovi eletti, soprattutto laici, in una condizione di difficile rodaggio operativo. Un’elezione scaglionata determinerebbe anche una minore mobilitazione elettorale e consentirebbe aggiustamenti in corsa utili a garantire l’equilibrata composizione dell’organo. 12. È indispensabile introdurre per legge tempi massimi di trattenimento delle pratiche in Commissione, con espressa previsione del potere di avocazione da parte del Comitato di presidenza per il caso di inutile scadenza dei termini ai fini della diretta sottoposizione al Plenum. 13. Per le pratiche relative alla copertura degli uffici direttivi e semi-direttivi, occorre prevedere per legge l’inderogabilità del criterio cronologico a seconda delle scoperture. 14. Si potrebbe prevedere la competenza esclusiva di un’unica sezione del Consiglio di Stato a conoscere delle impugnazioni e dell’ottemperanza in materia di conferimento degli uffici direttivi e semi-direttivi. 15. Probabilmente è opportuno reintrodurre le fasce di anzianità entro cui effettuare la comparazione dei legittimati per la nomina agli uffici direttivi e semi - direttivi. 16. Occorre introdurre l’incandidabilità al Consiglio per chi ricopre ruoli associativi. Lasciamo da parte gli scandali e le polemiche, e mettiamo mano a una riforma condivisa, non punitiva e al servizio del buon governo della magistratura. *Già vicepresidente del Csm La riforma delle intercettazioni. La regola del trojan di Michele Ainis La Repubblica, 20 giugno 2019 Prende forma una riforma. Quella delle intercettazioni, ossia la legge più riscritta nella patria del diritto. Ieri vertice di governo, domani primo giro di consultazioni al ministero; e intanto, sullo sfondo, il trojan che ha dannato Palamara insieme a tutto il Csm. Fino a che punto si può spingerne l’uso? Quanto vale la privacy, quanto la libertà d’informazione? Nel dubbio, potremmo intercettare l’opinione dei politici. Che però è volubile come una farfalla, sicché ogni governo riforma la legge di riforma timbrata dal governo precedente. O altrimenti la sospende, la proroga, ne fa uno spezzatino. Risultato: un garbuglio normativo, dove nemmeno i giudici sanno più orientarsi. E allora ciascuno fa un po’ come gli pare, come gli conviene. Difatti affinché una norma sia cogente dev’essere vigente, qui invece c’è una disciplina intermittente. Quella varata dall’ex ministro Orlando nel 2017, in mezzo a un diluvio di polemiche. Poneva limiti alle intercettazioni, nonché alla diffusione dei loro contenuti; ma l’esecutivo gialloverde l’ha messa in quarantena. Dapprima con il mille-proroghe, che ne ha differito l’entrata in vigore al 31 marzo 2019; poi con la legge di bilancio (e chissà mai che c’entra), quando il termine è slittato al t° agosto; infine con l’ultimo decreto sicurezza, che lo ha rinviato ancora al 31 dicembre. Il rinvio al cubo. Ma adesso, a quanto pare, hanno deciso di decidere. Il problema è come, dato che ciascuno dei due partiti di governo ragiona per partito preso. Garantista la Lega (chi l’avrebbe detto?), giustizialisti i 5 Stelle. Perciò la prima salverebbe qualche spezzone del decreto Orlando, i secondi ne farebbero un falò. La Lega chiede un freno sugli ascolti a strascico, la segretazione delle carte nella prima fase delle indagini, pene per chi pubblichi trascrizioni gossip; il Movimento 5 Stelle è invece per l’allargamento delle intercettazioni, all’insegna dello slogan “più trojan per tutti”. Posizioni opposte, che muovono da opposte concezioni del pubblico interesse. Per mettere un po’ d’ordine, bisogna quindi illuminare i valori costituzionali in gioco. Sono tre, come la Santa Trinità. Primo: la legalità. Senza il rispetto delle leggi, nessuna società potrebbe sopravvivere; in ogni Stato c’è quindi un apparato poliziesco e un potere giudiziario, dotati degli strumenti necessari per reprimere i reati. In questa chiave, le intercettazioni sono perciò al servizio della pace sociale. Secondo: la privacy. È il diritto da cui discende ogni altro diritto, giacché configura un argine contro l’invadenza dei poteri pubblici e privati. Ma la microspia ospitata dai nostri cellulari lo sgonfia come un pallone bucato. Terzo: la libertà di stampa. Ovvero l’architrave delle democrazie, la sentinella contro gli abusi del potere. Che tuttavia diventa una caricatura se i giornali non hanno più nulla da raccontare, se ogni notizia di reato si trasforma in un tabù. La difficoltà d’immaginare soluzioni condivise sta tutta in questi termini. Perché sono tre valori costituzionali supremi, nessuno dei quali può accettare il tacco d’un padrone. Si tratta perciò di bilanciarli, evitando che in nome dei diritti s’arrestino le inchieste giudiziarie, o che la libertà di stampa venga sacrificata sull’altare della privacy. Il buon senso sta nel mezzo, nel diritto come nella vita. E sta nella coerenza delle scelte normative, giacché ogni legge s’inserisce in un sistema. Ecco, la coerenza. Ce n’è assai poca nello “spazza-corrotti” (legge n. 3 del 2019), che ha esteso l’uso dei trojan ai reati di corruzione. E perché non anche alle rapine a mano armata? In precedenza questi strumenti erano consentiti peri delitti di mafia e terrorismo, dove ci scappa il morto. Il potere legislativo può anche deciderne un uso più massiccio, ma deve farlo per gruppi omogenei di reati, con la stessa gravità, con le medesime pene edittali. Altrimenti subiremmo la maledizione sperimentata dal popolo degli Incas, dove tutti i reati erano lo stesso reato, e tutti venivano puniti con la morte. Per il momento, tuttavia, non rischiamo la pena capitale. Rischiamo piuttosto d’incappare in discipline capricciose, dettate sull’onda emotiva dell’ultimo scandalo o del penultimo sondaggio. La nuova legge sulle intercettazioni nasce sotto questa stella. Auguri. “Maledetta ladra”. Salvini scatenato contro una donna rom di Marina Della Croce Il Manifesto, 20 giugno 2019 Una donna arrestata mentre rubava un portafogli: il ministro inveisce su Facebook. A scatenare la feccia dei social non avrebbe potuto esserci soggetto migliore: una donna rom incinta e madre di 15 figli arrestata a Roma dai carabinieri mentre a bordo di un autobus tentava di derubare una turista cinese del suo portafogli. E come se non bastasse anche recidiva, visto che “madame furto”, come è stata ribattezzata la donna di 38 anni con origine bosniache, ha all’attivo più di 50 furti e 43 condanne collezionate negli anni. Quello che sorprende (ma solo fino a un certo punto) è che a dare il via alla marea di insulti e volgarità che in un attimo ha sommerso la donna non è stato Napalm51, l’hater per eccellenza del web inventato da Maurizio Crozza, bensì Matteo Salvini. “Questa maledetta ladra in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dai in adozione a famiglie perbene. Punto”, ha scritto il ministro degli Interni a commento su Facebook a un articolo che dava conto dell’arresto della donna. Parole che per molti rappresentano il via libera per un linciaggio virtuale. A scatenarsi dietro il leghista sono in più di tremila, la maggior parte dei quali infuriati e lasciati liberi di sfogarsi dai gestori della pagina. I più gentili propongono di mettere la donna “su un barcone in mezzo all’Oceano per meditare… con biglietto di sola andata”, ma sono pochi. I più preferiscono passare direttamente alle vie di fatto, chi proponendo di sterilizzare la donna “come facciamo con gli animali”, chi di chiuderle “le tube” e chi, invece, preferirebbe renderla “invalida”, magari con “una martellata sulle mani e una in faccia”. Per finire con chi chiede invece di mettere fine alla carriera della scippatrice con “una pallottola in fronte”. Ma c’è anche chi prova a contrastare l’ondata di volgarità e minacce. Come quelli che ricordano a Salvini come, mentre se la prende con i rom, non ha mai detto dove sono finiti i 49 milioni di contributi elettorali truffati dalla Lega. “Pensa a quanti politici rubano da anni, la gamma delle ruberie come ben sai è molto vasta, non sono incinti e sono ancora in giro”, scrive ad esempio Algio. “Propongo di concederle 80 anni per permetterle di restituire il bottino”, intervenire invece Chiara G. ricordando le facilitazioni ottenute dal Carroccio sempre a proposito dei famosi 49 milioni. E Francesco B. : “A buttare fango sei molto bravo, guarda in casa tua, c’è peggio”. “Ho letto bene? Stiamo davvero parlando di sterilizzazione obbligatoria? Che Paese siamo diventati”, si chiede Marco I. A dir poco stupito per le espressioni utilizzate da Salvini è Santino Spinelli, musicista e docente universitario rom. “Il linguaggio adottato dal ministro è può confacente a u regime dittatoriale che a un sistema democratico dove vige lo stato di diritto”, dice. “È terribile ascoltare queste parole, poiché la sterilizzazione veniva praticata dai nazisti. Un conto è punire chi commette un reato secondo il codice penale, ben altro conto è aggiungere un surplus di pena solo perché si tratta di una persona rom. Quindici anni fa - conclude Spinelli - queste dichiarazioni avrebbero comportato la rimozione immediata dall’incarico. Oggi si sta creando un clima pericolosissimo e questa deriva va fermata in tempo. Perché le istituzioni nazionali e internazionali non intervengono? Il silenzio è convivenza”. Duri anche i commenti che arrivano dal Pd: “La giustizia non è barbarie”, afferma il deputato Emanuele Fiano. “Condannare, applicare le pene senza sconti, prevenire e reprimere il crimine non possono voler dire, in democrazia. oltrepassare il limite della civiltà, come fa Salvini prevedendo la sterilizzazione di questa persona”. Cassazione, spazza-corrotti alla Consulta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2019 Corte di cassazione - Notizia di decisione di rinvio alla Consulta 15/19. Dopo i giudici di merito anche la Cassazione mette in dubbio la legittimità costituzionale della cosiddetta legge Spazza-corrotti, in particolare per quanto riguarda l’irretroattività. Una norma (3/2019) che, dal 31 gennaio apre le porte del carcere ai condannati, in via definitiva, per reati contro la Pubblica amministrazione, senza prevedere la possibilità di chiedere una misura alternativa. La Suprema corte ha sollevato, per la prima volta, la questione di costituzionalità, partendo dal caso di un legale di Como, condannato a quattro anni per peculato. A fare ricorso in sede di legittimità era stato il Pm, contro la decisione della Gip di sospendere con sentenza irrevocabile, l’ordine di esecuzione. Un primo stop, seguito poi da quello di altri giudici di merito. Nel mirino della Cassazione è finito l’articolo 1, comma 6 della legge che ha inserito alcuni reati contro la Pa, come il peculato, tra quelli ai quali l’ordinamento penitenziario nega la concessione di permessi premio e misure alternative. La Gip comasca che ha fatto scattare il semaforo rosso, accogliendo le richieste della difesa sostenuta dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini difensore del colletto bianco. “Naturalmente occorre attendere le motivazioni, ma il giudice ha seguito la nostra tesi - dice Manes - sull’inapplicabilità la legge a reati commessi prima dell’ entrata in vigore”. Ma l’assenza di una norma transitoria e la stretta detentiva non sono, almeno dai giudici di merito, gli unici punti oscuri della “Spazza-corrotti” che rischia di perdere più di un pezzo. Diverse le ordinanze con le quali la Corte di appello di Reggio Calabria, il Gip di Napoli, la Corte d’appello di Lecce, e da ultima la Corte di appello di Palermo, hanno sollevato dubbi che potrebbero portare a una revisione più ampia di una norma che, per la Cassazione potrebbe entrare in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Carta. E, dunque, con i principi di parità e di rieducazione della pena. Misure sostitutive: straniero detenuto espulso resta fuori dall’Italia per 10 anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2019 Lo straniero detenuto espulso, come misura sostitutiva al carcere, non può rientrare prima di 10 anni. Il limite di 5 vale per l’espulsione amministrativa o per pene di modesta entità. La Corte di cassazione, con la sentenza 26873, fa una netta distinzione tra l’espulsione come alternativa alla detenzione, rispetto all’espulsione come sanzione sostitutiva della pena anche detentiva lieve, mettendo in atto un diverso statuto dell’espulsione giustificato dai presupposti. Mentre nel caso di “allontanamento” dall’Italia al posto della pena la sostituzione della misura scatta nell’ipotesi di sanzioni detentive di modesta entità con il tetto di due anni, per l’alternativa alla detenzione, il limite dei due anni di pena, previsto dal testo unico sull’immigrazione, può riguardare pene residue di periodi ben maggiori di detenzione. Da questa considerazione nasce il doppio binario dell’espulsione. I giudici, accogliendo il ricorso del Pubblico ministero, dettano così un principio di diritto secondo il quale lo stop al rientro nel territorio dello stato per l’immigrato detenuto, deciso in sostituzione o in alternativa alla detenzione è fissato in 10 anni dalla data del provvedimento, mentre il limite dei 5 anni vale solo per le espulsioni ordinate in via amministrativa o come sanzione alternativa alle pene detentive lievi. Aggravanti al centauro ubriaco che provoca incidente senza coinvolgere terzi di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2019 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 19 giugno n. 27211. Accolta la richiesta della procura di applicare le circostanze aggravanti al centauro che, in stato di ebbrezza, provoca un incidente anche se non si sono verificate conseguenze per terzi (quindi incidente ad attore unico). I fatti - Alla base una pronuncia del tribunale di Brescia che aveva escluso l’aggravante ex articolo 186 del codice della strada condannando il motociclista alla pena di venti mesi di arresto e 600 euro di ammenda, sanzione sostituita con 23 giorni di lavoro di pubblica utilità. La vicenda giudiziaria - Contro la sentenza ha proposto appello in Cassazione (sentenza n. 27211/19) la Procura lamentando la violazione della legge in relazione all’esclusione dell’aggravante di aver provocato un incidente stradale ex articolo 186, comma 2-bis, in quanto l’imputato era fuoriuscito dalla sede della stradale con la moto riportando lesioni, mentre il tribunale erratamente aveva ritenuto che non si concretizzasse l’ipotesi dell’incidente “essendo ad attore unico senza nessuna conseguenza per la viabilità delle persone”. I Supremi giudici hanno accolto le richieste del Procuratore. Secondo la Corte, infatti, in base alla giurisprudenza di legittimità si deve intendere per incidente qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli. Quindi, continua la Corte, perché si possa parlare di aggravante è sufficiente la dipendenza causale dell’incidente dalla condotta alla guida del conducente: principio che va inteso nel senso che l’avere provocato un incidente è sempre conseguenza di una condotta inosservante di regole cautelari, siano esse quelle codificate nel codice della strada siano esse quelle di prudenza, diligenza e perizia tese in ogni caso a prevenire il verificarsi del sinistro medesimo. Conclusioni - Conclude la Cassazione che quando il codice della strada fa riferimento a un incidente si riferisce a qualsiasi avvenimento inatteso che interrompe il normale svolgimento della circolazione stradale e che proprio per tale motivo è portatore di maggiore pericolo per la collettività. Quindi non è sufficiente che si tratti di incidente ad attore unico per escludere l’aggravante dell’articolo 9-bische prevede un raddoppio delle sanzioni e il fermo del veicolo per 180 giorni. Bologna: suicida in cella l’imputato del “cold case” Poli di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 20 giugno 2019 Stefano Monti si è impiccato alla Dozza, dove era detenuto per l’omicidio del 1999. I pm avevano chiesto l’ergastolo. Ha lasciato delle lettere: “Sono innocente”. La sentenza era attesa per mercoledì. Mancava una settimana alla sentenza che avrebbe deciso del suo destino: carcere a vita o assoluzione. Ma Stefano Monti ha deciso per sé prima che lo facessero i giudici della Corte d’Assise. Si è impiccato nel bagno della sua cella alla Dozza con i lacci delle scarpe. Prima, ha scritto tre lettere indirizzate a moglie e due figli nelle quali continua a proclamarsi innocente. È successo alle 9.10 di ieri. Alla stessa ora, mercoledì prossimo, il 26 giugno, è in programma l’ultima udienza del processo per l’omicidio Poli, commesso vent’anni fa. Un cold case che era stato riaperto l’anno scorso, quando a giungo Monti era stato arrestato. Mancava una settimana alla sentenza che avrebbe deciso del suo destino: carcere a vita o assoluzione. Ma Stefano Monti ha deciso per sé prima che lo facessero i giudici della Corte d’Assise. Ha atteso che si aprissero le celle della Dozza e che tutti i detenuti uscissero “al passeggio”, come si dice in carcere. Poi è andato nel bagno della sua cella e si è impiccato con i lacci delle scarpe. Erano le 9.10 circa del mattino di ieri. Alla stessa ora, mercoledì prossimo, il 26 giugno, è in programma l’ultima udienza del processo per l’omicidio Poli, commesso vent’anni fa. Stefano Monti, dietro le sbarre da un anno, si era sempre dichiarato innocente. E lo ha scritto anche nelle sue ultime lettere. Nella sua cella, infatti, ieri mattina sono state ritrovate tre lettere indirizzate alla moglie e ai due figli. Ultime parole di saluto scritte di suo pugno alla famiglia che non lo ha mai abbandonato e alla quale ancora una volta, l’ultima, affida il suo messaggio: “Sono innocente”. I manoscritti sono stati sequestrati dai carabinieri del reparto operativo, intervenuti in carcere insieme alla sezione investigazioni scientifiche per i rilievi. Perché Stefano Monti non era un detenuto comune e una morte a una settimana dalla sentenza lascia aperti tanti interrogativi. Non ci sono dubbi sul fatto che si sia trattato di un suicidio, ma il pm di turno Bruno Fedeli ha comunque disposto l’autopsia sul corpo e tutti gli accertamenti necessari. Cinquantanove anni, “pilastrino” doc, aveva un passato movimentato e una fama da piccolo boss di quartiere che si portava dietro dall’epoca dei fatti. La sua fedina penale però era rimasta pulita. Sul suo conto gli inquirenti avevano nutrito sospetti già durante la prima indagine per l’omicidio Poli, perché nove mesi prima di quel 5 dicembre 1999, Monti e Poli avevano avuto una scazzottata fuori dalla discoteca Tnt, dove la vittima lavorava come buttafuori. Valeriano aveva rotto il naso a Monti, che gli aveva giurato vendetta: “Torno col ferro”, gli avrebbe gridato secondo alcune testimonianze. Ma all’epoca su di lui non furono trovate altre prove. Poi, nel 2014, la svolta dopo una soffiata di una fonte confidenziale alla Squadra mobile. Il pm Roberto Ceroni riapre il caso e sugli scarponcini della vittima la polizia Scientifica isola un dna che, confrontato con quello del figlio di Stefano Monti, all’epoca detenuto, dà esito positivo. A quel punto viene prelevato anche il dna del padre, in un controllo stradale simulato, e la coincidenza non lascia più alcun dubbio. Il passo successivo è una tecnica da Csi mai utilizzata prima che porta la Scientifica, grazie al filmino di un battesimo in cui Poli indossava gli stessi scarponcini e a cui aveva partecipato pochi giorni prima di essere ammazzato, a sostenere che la macchia di sangue con il dna dell’imputato non poteva che risalire alla sera dell’omicidio. Ma dopo vent’anni, né le testimonianze, né la dinamica del delitto sono riuscite a dimostrare che prima dei quattro colpi sparati a distanza ravvicinata, ci fosse stata una colluttazione. In aula il legale di Monti, Roberto D’Errico, ha contestato punto per punto le tesi dell’accusa con nuove consulenze e puntando il dito sulle piste alternative abortite. Non era un segreto che la vittima non si tirasse indietro quando c’era da menare le mani e per questo si era fatta parecchi nemici. Un cold case che ha scavato nel passato, tirando fuori un sottobosco di tradimenti, segreti, intimidazioni ai testimoni avvicinati da Monti dopo la riapertura dell’indagine, e anche poliziotti dell’epoca, scoperti a fare il doppio lavoro in discoteca. La sentenza non era affatto scontata: la “prova regina” dello scarponcino è stata contestata dal super-consulente di parte Pasquale Linarello e la bilancia tra i molti indizi di colpevolezza e i ragionevoli dubbi sollevati dalla difesa pendeva da entrambe le parti. E continuerà a farlo. Rossano (Cs): detenuto di 36 anni si suicida in carcere Gazzetta del Sud, 20 giugno 2019 Ieri mattina, nella Casa di Reclusione di Rossano si è verificato un grave evento critico: un detenuto, con fine pena 2030, appartenente al Circuito Penitenziario della Media Sicurezza, si è suicidato impiccandosi nel bagno della cella, utilizzando la cintura del suo accappatoio. Si tratta di Arturo Saraceno, 36 anni, originario di Teana (Potenza), in carcere per l’omicidio della ex fidanzata, Debora Fuso, 25 anni, di Lonate Pozzolo (Varese), avvenuto il 17 maggio 2016, all’ora di pranzo, al culmine di una lite nella casa del 36enne, a Magnano (Milano). Lo rivela Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria che proprio questa mattina era presso la Casa di Reclusione di Rossano, accompagnato dall’esponente radicale Valentina Anna Moretti, per una riunione con la Direzione dell’Istituto. “Da quel che sono riuscito a sapere, il detenuto che si è tolto la vita, proveniva dalla Casa Circondariale di Busto Arsizio (Varese) e da pochi mesi era stato trasferito temporaneamente alla Casa di Reclusione di Rossano affinché potesse effettuare i colloqui con la sua famiglia. Era molto seguito dallo staff multidisciplinare dell’Istituto ma non aveva mai dato problemi di alcun genere. Questa mattina, intorno alle ore 9,00, ha atteso che il compagno di cella si recasse al cortile passeggio ed utilizzando la cintura del suo accappatoio, si è appeso alle sbarre della finestra del bagno della camera detentiva. Nonostante la scoperta immediata ed i primi soccorsi da parte del personale di Polizia Penitenziaria, quando è arrivata l’ambulanza, non c’è stato niente da fare. I Sanitari del 118 non hanno potuto fare altro che constatare il decesso del 36enne. Nella Casa di Reclusione di Rossano, conclude il radicale Quintieri, al momento, a fronte di una capienza di 263 posti, sono ristrette 305 persone, molte delle quali appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza. Quest’anno, nelle Carceri italiane, sono morte 58 persone, 18 delle quali per suicidio mentre dal 2000 ad oggi ci sono stati 1.071 decessi, 2.942 per suicidio”. Napoli: detenuto trovato morto in cella, nuova protesta a Poggioreale Il Mattino, 20 giugno 2019 Nuova protesta questa mattina nel carcere di Poggioreale a Napoli dopo la rivolta di domenica scorsa. Secondo quanto riferisce Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato di polizia penitenziaria Spp, i reclusi hanno battuto sulle inferriate con pentole ed altri pezzi di ferro presenti in cella in segno. Una protesta - spiega Di Giacomo - per la morte di un detenuto di 58 anni, probabilmente causata da un malore, forse un infarto. È successo nello stesso padiglione Salerno devastato dalla rivolta di domenica. Il rumore delle battiture è stato per diversi momenti particolarmente forte ed udibile dall’esterno. “Ora la protesta è rientrata - aggiunge Luigi Castaldo, segretario provinciale Osapp di Napoli - ma la tensione è alta visto che è lo stesso reparto dove vi è stata domenica la rivolta con ingenti danni”. Il detenuto, un italiano di 58 anni, è stato trovato esanime questa mattina nella sua cella del padiglione Salerno, a Poggioreale. Stava scontando una condanna all’ergastolo per omicidio e da tempo veniva curato all’interno dell’istituto per alcune patologie croniche. Non appena diffusasi la notizia, fa sapere il Dap, è scattata una protesta dei detenuti presenti nel padiglione, conclusasi nel giro di poche decine di minuti. Napoli: il Garante “no a trasferimenti forzati per i detenuti” ottopagine.it, 20 giugno 2019 Ciambriello dopo i fatti di Poggioreale: “Servono invece interventi strutturali”. “È necessario intervenire per risolvere in modo strutturale le criticità del carcere di Poggioreale, ma dobbiamo assolutamente evitare che, con la scusa dell’emergenza, si proceda a misure che sarebbero controproducenti e lesive del diritto delle persone recluse”. È quanto afferma il Garante regionale delle persone prive della libertà personale Samuele Ciambriello, commentando le proteste di oggi nel padiglione Salerno di Poggioreale e il recente decesso di questa mattina, avvenuto nello stesso padiglione. “Credo sia oggettivo e riconosciuto da tutte le istituzioni, Procura della Repubblica, Dipartimento amministrazione penitenziaria, Ufficio del Garante, che sono necessari lavori strutturali per rendere almeno quattro Padiglioni del carcere e il Centro Clinico San Paolo, adeguati agli standard previsti dallo stesso ordinamento penitenziario. Se non si interviene in modo strutturale non saremo mai in grado di garantire condizioni detentive rispettose della dignità delle persone recluse”. “Allo stesso tempo ci tengo a sottolinearlo - ha proseguito Ciambriello -, se è vero che è indispensabile ridurre il sovraffollamento, sarebbe molto grave se si procedesse a trasferimenti indiscriminati e “punitivi”. Bisogna garantire il rispetto del principio di territorializzazione della pena. Le istituzioni debbono offrire risposte adeguate ad una legittima protesta e dobbiamo avere la capacità di potenziare i servizi sanitari e le attività sociali e lavorative interne all’istituto. Le risorse sono già stanziate, possono incominciare immediatamente i lavori di risistemazione dei padiglioni, non ha senso ritardarne l’inizio”. Agrigento: manca l’acqua nel carcere, i detenuti danno fuoco ai materassi per protesta di Silvia Iacono Giornale di Sicilia, 20 giugno 2019 I detenuti reclusi nel carcere Petrusa di Agrigento hanno dato fuoco ad alcuni materassi nelle celle e si è sprigionato un forte fumo. Alcuni agenti della polizia penitenziaria hanno accusato dei malori e sono stati trasportati all’ospedale San Giovanni Di Dio. La protesta è nata per la mancanza di acqua che si è protratta per tutta la giornata, causata da problemi dell’ente fornitore. Tutto è iniziato in due sezioni dove si sono vissuti momenti di forte tensione. I detenuti hanno lanciato nei corridoi alimenti, stoffe incendiate e bombolette di gas. A questo punto sono intervenuti il direttore, il comandante e il personale libero dal servizio richiamato per l’emergenza. La rivolta è stata placata in tarda nottata, ma non è escluso possa riprendere se non verrà assicurato all’utenza una adeguata fornitura idrica. Il segretario regionale Sappe Sicilia Calogero Navarra parla di “protesta sconsiderata e incomprensibile di alcuni detenuti che hanno appiccato un incendio nelle celle dov’erano ristretti, dando fuoco a tutto al materasso che era all’interno”. E ancora “Il tempestivo intervento dei poliziotti, con grande senso di responsabilità coraggio e professionalità, seppur rimaneggiati per la carenza di personale hanno permesso di evitare più gravi e tragiche conseguenze”. Delle condizioni in cui versa il carcere di Agrigento, ci siamo occupati in vari approfondimenti nei giorni scorsi. Il sindacato Osapp, che rappresenta gli agenti penitenziari, ha più volte denunciato la mancanza di docce e acqua calda nei bagni, così pure infiltrazioni nei tetti e altri disagi alla struttura. Il ministero della Giustizia ha stanziato per i lavori un milione e 880 mila di euro per i prossimi tre anni. L’Aquila: Anna e Silvia, le due anarchiche, da 23 giorni in sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2019 Sono oramai 23 giorni che le due detenute anarchiche Anna Beniamino e Silvia Ruggeri non mangiano più per chiedere la soppressione delle rigide regole, le quali teoricamente dovrebbero essere applicate solo per chi è al carcere duro. Le due donne, infatti, non sono recluse al 41 bis, ma nella sezione di alta sicurezza (As2) del carcere de L’Aquila. Una sezione, piccola quanto un appartamentino, che un tempo venne utilizzata per le donne al 41 bis, poi chiusa negli anni 80 proprio per la sua struttura del tutto inadeguata per far rispettare la dignità, minima, dei detenuti. C’è ad esempio Anna, detenuta in custodia cautelare dal 6 settembre 2016, che è stata trasferita il 6 aprile 2019 nella sezione AS2 del carcere de L’Aquila. È una sezione piccola, di circa 50 mq e con lei e Silvia, vi è reclusa anche una donna condannata per terrorismo islamico. Una convivenza forzata, che unisce due detenute anarchiche con una ritenuta appartenente al radicalismo di tipo islamista. Ciò appare, agli occhi delle due detenute, come una ulteriore vessazione, perché va contro le disposizioni dell’ordinamento penitenziario e le numerose circolari del Dipartimento sulla collocazione dei detenuti in base a criteri di omogeneità, al fine di evitare influenze nocive, ma anche possibili scontri date le posizioni politiche e culturali completamente contrastanti ed incompatibili. “Dal primo giorno - si legge nel reclamo presentato da Caterina Calia, l’avvocata di Anna Beniamino - è stato chiaro come in tale istituto non vigessero le stesse regole che invece venivano applicate nelle sezioni AS2 di Latina e Rebibbia dove la predetta è stata ristretta per due anni e mezzo senza incorrere in un solo rapporto disciplinare”. Ma quali regole ci sono, tanto da incidere - come denuncia l’avvocata Calia - “su diritti fondamentali, quale quello alla salute e ad una detenzione dignitosa e rispettosa dei diritti delle persone private della libertà, finendo per svuotare di senso e contenuto i diritti che apparentemente vengono rispettati, quale quello dell’accesso all’aria o alla cosiddetta saletta della socialità”? È consentito detenere in cella solo quattro libri e tre riviste oltre eventualmente a Corano o Bibbia; così com’è consentito un numero predeterminato di capi di biancheria e abbigliamento nonché di utensili per cucina nello stesso numero previsto per il 41 bis (una pentola, un bollilatte, un coperchio in lega leggera ed una padella) con conteggio bisettimanale degli stessi e confronto con l’elenco stilato all’ingresso. È vietato scambiare una maglietta, un libro o altri oggetti di modicissimo valore, tanto meno regalarli anche previa domandina. È vietato portare all’aria o nella saletta “socialità” qualsiasi oggetto all’infuori dell’acqua, del tabacco e dell’accendino: niente libri, carta, penna, asciugamani o tappetino (questi ultimi previsti addirittura dalla circolare Dap per i detenuti in 41 bis). C’è il divieto di detenere la radiolina (peraltro acquistata dentro al carcere di Rebibbia) con modulazione di frequenza FM, ammessa invece in tutte le sezioni AS2 (come per il regime del 41 bis in cui è consentita solo la radio senza modulazione di frequenza). Vietato anche utilizzare lettori per Cd musicali, e quindi di ascoltare la musica che si vuole. Come se non bastasse c’è il divieto di acquistare una sveglia e con l’assenza di un orologio dentro la sezione, di fatto, c’è l’impossibilità di conoscere l’orario. Ma le restrizioni non finiscono qui. C’è anche una forte presenza di controllo, molto invasiva. Una presenza fissa di due agenti anche quando si svolgono i colloqui con medico, infermiere o educatore. Vengono effettuate 15- 16 perquisizioni con metaldetector ogni giorno, ossia ogni qualvolta escono e rientrano in cella, anche nei casi in cui non c’è alcun contatto con le altre ristrette, ad esempio quando varcano di mezzo passo il cancello della cella per prelevare il vitto dal carrello alla presenza di due/tre agenti o quando, con le medesime modalità, vengono accompagnate in doccia. E a tal proposito, l’accesso in doccia è consentito solo ad orario predeterminato, il quale combacia con la prima ora d’aria della mattina: le detenute sono così costrette a scegliere se fare l’ora d’ aria o la doccia, non essendo consentito accedere all’aria 20 minuti dopo l’orario previsto. Anna e Silvia, come detto, sono in sciopero dalla fame dal 29 maggio per chiedere la fine di questo trattamento simile ai reclusi del 41 bis. Che senso ha un trattamento del genere che è riservato addirittura nelle cosiddette aree riservate del 41 bis (più volte stigmatizzate dal garante nazionale delle persone private della libertà), quando, sulla carta, l’alta sicurezza non può significare diversità del trattamento penitenziario rispetto al resto della popolazione detenuta? Terni: da 18 giorni in sciopero della fame, chiede trasferimento vicino alla famiglia umbriajournal.com, 20 giugno 2019 Diciotto giorni di sciopero della fame. Così Giovanni Di Lorenzo, detenuto del carcere di Terni, protesta contro il mancato trasferimento in un istituto penitenziario in Sicilia. Vuole stare più vicino alla famiglia. È quanto scrive oggi il Corriere dell’Umbria riportando alcune parti di una lettera scritta dallo stesso detenuto al giornale. Di Lorenzo è dietro le sbarre da tre anni per il reato di associazione mafiosa. È dentro con il 416 bis - scrive il quotidiano e il suo regime carcerario prevede l’obbligo che sia detenuto lontano dai luoghi dove ha commesso i fatti. È stato arrestato in un blitz contro Cosa Nostra a Palermo. “Ho tre figli - scrive nella lettera - di cui uno gravemente disabile e bisognoso di attenzioni paterne, magari anche occasionali. Tante volte ho chiesto udienza al direttore”. “Tre lunghi anni in cui continuamente chiedo al Dap - scrive nella lettera Di Lorenzo - e alle autorità giudiziarie di poter essere tradotto in un qualsiasi carcere siciliano vicino alla mia famiglia, non potendo qui effettuare per la grande distanza alcun colloquio visivo: l’ultima volta ho potuto vedere i miei cari più di un anno fa, in occasione di una mia trasferta sotto scorta in Sicilia per alcuni dibattimenti processuali. Dalle autorità soprascritte non ricevo notizie positive, senza motivazioni convincenti”. “Posso aver sbagliato molto in passato le mie condotte illegali. Ma è giusto - si domanda Di Lorenzo - che dopo tanti anni di carcere non possa usufruire dei diritti costituzionali in quanto coniugato e padre? Nessuno gli risponde. Da qui la decisione di avviare lo sciopero della fame. “E andrò fino in fondo - conclude - anche a costo di morire, se le autorità competenti dovessero continuare a ignorare le mie giuste richieste”. Bergamo: nel ricordo di Tortora, il dramma del sovraffollamento nel carcere bergamonews.it, 20 giugno 2019 Nella mattinata di oggi, giovedì 20 giugno, una delegazione di attivisti politici di Radicali Bergamo e +Europa entrerà nella Casa circondariale della città per una visita ispettiva. In carcere per un giorno, sollevando l’attenzione su chi in carcere trascorre la vita. L’associazione Enzo Tortora - Radicali Milano, nel 36° anniversario dell’arresto del giornalista vittima del più noto errore giudiziario della storia italiana, organizza come ogni anno la visita degli istituti di pena lombardi, per verificare il rispetto dei diritti dei detenuti e delle norme costituzionali che impongono la finalità rieducativa della pena. “Torniamo dopo un anno a visitare il carcere di Bergamo con l’obiettivo di ricordare Enzo Tortora, che proprio qui ha vissuto molta parte della sua detenzione, e di portare all’attenzione dei cittadini un tema drammatico e troppo spesso dimenticato”, dice Grazia Coppola, segretaria dell’associazione Radicali Bergamo. “La visita inizierà dalla sezione femminile, che l’anno scorso non siamo riusciti a visitare. Avremo particolare attenzione per la sezione in cui sono detenuti i pazienti psichiatrici, in violazione di ogni requisito di legge e di umanità”. Al 31 maggio 2019 (dati Antigone) i detenuti presenti nel carcere di Bergamo erano 567 a fronte di una capienza prevista di 321. Il sovraffollamento carcerario tocca quindi il 176%, uno dei dati peggiori nel nostro Paese. Le donne presenti nella struttura sono 38, gli stranieri 295 (il 52%). Nel corso dell’audizione in Consiglio regionale del 24 ottobre 2018, la direttrice Teresa Mazzotta aveva denunciato alcune carenze riguardanti il trattamento degli ospiti con problemi psichiatrici. In particolare, ha fatto sapere, manca una struttura che assicuri la presa in carico di queste persone una volta usciti dal carcere, non sono previsti progetti di recupero né un coordinamento terapeutico e organizzativo. Sono sotto organico, poi, sia il personale medico che quello di Polizia penitenziaria (221 agenti e ufficiali al posto dei 240 previsti). “È per ricordare che nel nostro ordinamento vige il principio di non colpevolezza che ogni anno visitiamo le carceri ricordando Enzo Tortora, vittima di una vicenda processuale simbolo della più feroce macelleria giudiziaria - dice Michele Usuelli, consigliere di +Europa in regione Lombardia -. I diritti umani sono inalienabili, e come tali vanno garantiti ad imputati e condannati, innocenti e colpevoli, in nome di una giustizia che rifugge dall’essere vendicativa ma vuol essere solo giusta”. “Al 31 maggio le persone ristrette all’interno degli istituti penitenziari lombardi erano 8610 - aggiunge Alessia Minieri, responsabile carceri dei Radicali italiani - di cui 458 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 6199 posti. Ci sono quindi 2.500 persone detenute illegittimamente e 1.207 persone private della propria libertà personale e ancora in attesa di giudizio. Sappiamo dall’esperienza che una parte rilevante di queste verrà assolta in quanto non colpevole”. Benevento: reparto psichiatrico, direttore del carcere replica alla Cgil ottopagine.it, 20 giugno 2019 Dopo l’incendio. Marcello: “Messo in campo tutti i provvedimenti di mia competenza”. Il direttore del Carcere di Benevento, Gianfranco Marcello risponde alle accuse mosse dalla Cgil dopo l’incendio appiccato da un detenuto “ospite” nella Sezione Psichiatrica del carcere di Benevento. Il numero uno dell’istituto di pena sannita rimarca con fermezza di aver fatto tutto quello che poteva per cercare di risolvere la vicenda del detenuto psichiatrico che da giorni creava problemi. “In primis - spiega il dottore Marcello - è bene far comprendere a tutti che il reparto psichiatrico ospitato all’interno della struttura detentiva è gestito dall’Asl. Noi possiamo intervenire, e lo facciamo spesso, solo su richiesta dei sanitari e in caso di problemi di sicurezza”. Precisato questo “non per fare polemica ma semplicemente perché probabilmente non tutti sanno di questa cosa”, il direttore del carcere risponde alla Cgil che aveva chiesto un intervento urgente della direzione per risolvere il problema. Soluzioni che, secondo la Cgil dovevano essere già messe in campo prima dell’incendio che ha provocato il ricovero in ospedale di alcuni agenti. Ebbene il dottore Gianfranco Marcello precisa alla Cgil “che tutte i provvedimenti che potevo prendere sono stati messi in campo. Prima dell’episodio, infatti, il detenuto era stato sottoposto ad un Trattamento sanitario obbligatorio. Provvedimento adottato per farlo curare al meglio. Dopo poche ore dal ricovero al Rummo, però, il detenuto è stato dimesso e riaccompagnato in carcere. Non sono - precisa ancora Marcello - il direttore dell’ospedale, ma del carcere e certo non è stata mia la decisione di dimettere il paziente. E a chi chiede un immediato trasferimento della persona in un’altra strututra detentiva, il direttore del carcere spiega: “Il detenuto può essere trasferito solo su indicazioni superiori con specifica destinazione dopo una serie di pareri psichiatri e del Dipartimento penitenziario. Per tutti questi motivi - conclude - tutto quello che potevamo fare come direzione lo abbiamo fatto”. Catania: l’altra maturità, nelle aule del carcere dove la cucina regala un futuro di Giulia Mancini La Repubblica, 20 giugno 2019 Professori di frontiera, quelli della Casa circondariale Bicocca di Catania, dove con tanta passione e poco supporto insegnano ai detenuti a tenere le mani in pasta e a cambiare vita. Suona la campanella e iniziano le lezioni, fino all’ultimo giorno di scuola, fino agli esami. Ogni mattina, in aula sui banchi studenti, che sono detenuti, e in cattedra professori, che arrivano dall’istituto alberghiero. Per anni varcano la soglia delle classi, lasciandosi il mondo esterno alle spalle, e osservano gli studenti crescere. “Il mio impegno di professore raggiunge il valore più alto quando fornisco ai miei studenti, non le nozioni, ma conoscenza e strumenti basilari che gli consentano in futuro di trarre soddisfazione da un lavoro onesto”, racconta Giuseppe Messina, associato alla Federazione Italiana Cuochi, per anni ha insegnato nelle classi della Bicocca. L’istituto di pena di alta sicurezza è associato al Karol Wojtyla di Catania, sotto la guida della preside Daniela Di Piazza, che presiede anche agli insegnamenti dell’istituto alberghiero con indirizzo enogastronomia. “Insegnavo in cucina, dove i pericoli erano potenzialmente a portata di mano eppure non mi sono mai sentito a rischio: si instaurava con gli studenti un rapporto di fiducia”, nonostante l’indennità di servizio a rischio, riconosciuta per il lavoro, sia risibile. Della stessa opinione il coordinatore delle classi interne all’istituto di detenzione, il professor Mammano, che insegna Lettere: “Non si è mai verificato il benché minimo presupposto perché si verificasse una situazione di pericolo, gli studenti riconoscono il valore del lavoro di comunità e lo rispettano.” L’altra maturità: nelle aule del carcere, dove la cucina regala un futuro Sono 39 gli studenti iscritti per l’anno scolastico che sta per chiudersi, spalmati sui cinque anni, alcuni impegnati negli esami di maturità. “Dopo il diploma prosegue la detenzione, tentando di sfruttare le competenze acquisite” per chi ha ancora pena da scontare, ma la prospettiva è quella di riabilitare attraverso l’insegnamento e fornire strumenti per prospettive di lavoro onesto. “Da piccolo mi piaceva tanto cucinare e oggi ritrovandomi rinchiuso in questa prigione voglio impegnarmi fino in fondo per sfruttare presto tutto quello che abbiamo imparato”, racconta uno studente in un compito. “È bellissimo cucinare con il sorriso sulla bocca e dopo il diploma aspetto la libertà, anche facendo tanti sacrifici per poter aprire un ristorante”. Aspettare il futuro e sognare non è precluso, anzi è motivante. “La mia prospettiva in futuro è aprirmi un locale e lavorare insieme ai miei figli”, scrive un altro studente. Non sono ragazzi in queste classi, sono adulti con un passato ingombrante e una famiglia al di là delle alte mura. Fuori dai cancelli ci sono vite che aspettano, figli che crescono e mogli che faticano; ci sono pensieri scuri, incertezze e problemi. C’è tutta la differenza tra un ragazzo e un adulto privato della libertà: “Facciamo un lavoro di recupero delle vecchie nozioni, premiando lo sforzo e l’impegno, tenendo conto della scarsa concentrazione”. Sono scuole diverse, ma pur sempre formative, accomunate da stille di conoscenza. “Passo parecchio tempo chiuso in quattro mura, per me il tempo è il miglior artigiano del mondo: riesce a forgiare e modellare tutto, persino l’animo degli uomini. E come posso rifiutare un percorso di questo tipo che mi aiuta a passare le giornate, dove imparo tutto quello che non ho fatto da uomo libero?”, si interroga un altro studente, dandosi la risposta nell’impegno che lo vede studiare. “Da professore - sottolinea Mammano - ho sperimentato il rispetto e la fiducia in quello che possiamo dare, e la meraviglia per cose che mai avrebbero potuto immaginare: gratitudine per la scoperta di quanto imparano”. Parole che non bastano a ripagare da un punto di vista finanziario, “ma sono le remunerazioni immateriali improvvise e spontanee a ripagarci”, come l’entusiasmo e il piacere della conoscenza. Concorda anche l’ex professor Messina: “Nella mia esperienza posso aver temuto inizialmente, ma poi ho capito che in un clima di rispetto non avrei corso pericoli”. Mammano, docente di oggi, racconta che “esco dall’aula e lascio il portafogli sulla cattedra, abbiamo instaurato un rapporto di rispetto reciproco”. Su questo sono concordi gli studenti: “I docenti sono molto di più di quello che rappresentano, sono persone che credono in noi; da parte loro non siamo visti come detenuti, ma come studenti che hanno voglia di recuperare e imparare. Nessuno studente è perduto se c’è un insegnante che crede il lui, io mi sento motivato grazie a loro”. E se il potere della detenzione passa per la rieducazione, se il recupero passa dal fornire strumenti di vita onesta, allora questi professori impegnati fra cattedra e cucina, ai fornelli in giacca bianca, sapranno di aver cucinato “il piatto migliore della vita, come quando ho saputo che un mio vecchio studente aveva cambiato vita e aperto un piccolo ristorante in Spagna”, racconta il prof Messina, non senza commozione. Bologna: “Un passo verso gli altri”, gli studenti incontrano i detenuti dell’Ipm Redattore Sociale, 20 giugno 2019 Il progetto vuole offrire ai ragazzi delle scuole superiori e a quelli detenuti nel carcere del Pratello di Bologna un’esperienza formativa attiva basata sul faccia a faccia tra mondi differenti, lo scambio di pensieri e riflessioni su tematiche comuni. Sono 4 le scuole coinvolte finora. “Esperienza utile a tutti”. Un’esperienza formativa attiva basata sul faccia a faccia tra mondi differenti: gli studenti delle scuole superiori dell’area metropolitana e i ragazzi detenuti nell’Istituto penale minorile di Bologna. È il progetto “Un passo verso gli altri” organizzato dall’Istituto penale minorile insieme al Centro per l’istruzione degli adulti di Bologna e la Città metropolitana. Obiettivo? Mettere faccia a faccia mondi differenti, permettere lo scambio di pensieri e riflessioni su tematiche comuni ma anche consentire ai ragazzi coinvolti di lavorare su aspetti importanti del vivere nel mondo con gli altri, come il riconoscimento dell’alterità, una maggiore consapevolezza di sé e il rafforzamento della propria identità, e del vivere in un contesto sociale più ampio, contribuendo a promuovere il senso di cittadinanza attiva e l’educazione alla legalità. “Il progetto fa parte dell’offerta formativa sia per gli studenti esterni sia per i ragazzi del Minorile, che frequentano la scuola o corsi di formazione dentro al Pratello”, ha spiegato Alfonso Paggiarino, direttore dell’Ipm. Finora sono 4 le scuole che hanno aderito (Liceo Fermi e Istituto Aldini Valeriani Sirani di Bologna, Istituto Keynes di Castelmaggiore, Liceo Rambaldi Valeriani di Imola). Il progetto è a numero chiuso, coinvolge i ragazzi dell’Istituto minorile, “tutti e 20”, ha affermato il direttore, e 6 gruppi da 25 studenti delle scuole superiori, di una stessa classe o di classi diverse. “Libertà di, libertà da, libertà per” è la tematica stimolo proposta ai ragazzi coinvolti, intesa come possibilità di fare e pensare in autonomia, capacità di svincolarsi da condizionamenti esterni e pregiudizi e come strumento per scegliere e agire in modo positivo e propositivo verso se stessi e verso gli altri. “Non c’è nessun vincolo sui temi - ha spiegato Emilio Porcaro, dirigente scolastico del Cpia metropolitano che gestisce la scuola dentro l’Ipm - Verranno concordati con gli insegnanti, ogni scuola darà il proprio taglio e poi vedremo quello che emerge dal confronto”. Si parte domani 19 ottobre con la formazione iniziale per i referenti delle scuole insieme a insegnanti, educatori, direttore del carcere, polizia penitenziaria per fare capire come funziona la struttura carceraria. Poi sono previsti 3 momenti per ogni gruppo: un incontro preparatorio con gli educatori del Minorile a scuola, un incontro all’interno del carcere e un incontro di restituzione. E sono previste anche uscite dei ragazzi del Minorile, come ha sottolineato Paggiarino. “Gli incontri si terranno tra gennaio e febbraio. A conclusione del percorso, a maggio 2018, sarà organizzato un torneo di calcio all’interno del Minorile aperto agli studenti delle scuole superiori che hanno partecipato al progetto. “Al centro di questo progetto c’è la scuola, quella in carcere e quella fuori - ha proseguito Porcaro - e prevede un dialogo tra i docenti che hanno esperienza di insegnamento in carcere e quelli esterni e tra studenti e ragazzi detenuti: è formazione tra pari”. “Questo progetto è una presa di contatto con la realtà che può essere utile a tutti, agli studenti, ai ragazzi detenuti, agli insegnanti e anche alla comunità per abbattere pregiudizi e imparare a gestire positivamente situazioni di difficoltà”, ha detto Daniele Ruscigno, consigliere metropolitano con delega a Scuola, Istruzione, Formazione. “È un progetto prezioso e complesso il cui obiettivo è promuovere la cittadinanza attiva”, ha detto Elisabetta Scalambra, consigliere metropolitano con delega a Sviluppo sociale. Dello stesso avviso anche Giovanni Schiavone, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale: “I ragazzi del Minorile prenderanno qualcosa da questo progetto, gli studenti daranno qualcosa alla vita quotidiana dei detenuti ma prenderanno anche molto dalla loro conoscenza - ha detto in occasione della conferenza stampa - I ragazzi del Pratello sono persone che vivono una situazione di disagio e che hanno bisogno di relazioni, e tutti noi possiamo fare qualcosa per far passare loro il periodo che vivono dentro il Minorile al meglio”. I vantaggi sono anche per gli insegnanti, “che acquisiscono competenze che non sapevano di avere, si mettono in gioco nelle relazioni umane, imparano a gestire i ragazzi turbolenti e poi possono riportare la loro esperienza a scuola, ai colleghi. È un progetto piccolo - ha aggiunto Schiavone - ma può dare risultati importantissimi. Ne vale proprio la pena”. Firenze: “Vorrei. Potrei. Andrei”, il rap di libertà dei giovani detenuti La Nazione, 20 giugno 2019 In un cd, le 23 tracce realizzate dai ragazzi degli Istituti di pena fiorentini “Gozzini” e “Meucci”. Una compilation di 23 tracce realizzate dai detenuti nel carcere ‘Mario Gozzini’ e nell’Istituto penale per minorenni “Gian Paolo Meucci” di Firenze, che utilizza il rap come strumento educativo, di integrazione e per combattere pregiudizi morali: è “Vorrei. Potrei. Andrei”, l’ultimo prodotto musicale del progetto Sbarre Mic Check. Un disco crudo, senza filtri o edulcorazioni di sorta ma, allo stesso tempo, vero, trasparente, diretto, una riflessione pubblica su quello che succede dentro il carcere, di cui spesso si ignorano dinamiche e problematiche. Tutti i testi sono stati scritti e interpretati dai ragazzi dei due istituti penitenziari; tra gli ospiti del disco il celebre rapper Inoki. Duplice sarà la presentazione del disco, venerdì 21 giugno il primo appuntamento per la Festa in musica in occasione del Solstizio d’Estate all’interno dell’Istituto Gozzini, alla presenza di testimonial di rilievo come Cecco & Cipo, e il rapper di origini egiziane Amir. Il secondo appuntamento sarà venerdì 28 giugno all’Utopiko (via Fabrizio De Andrè, dalle ore 19, ingresso libero), in una serata di musica che vedrà la presenza di esponenti della scena rap locale e nazionale. In questa occasione, sarà presentato anche il cd di Fen.Ics, ragazza di origini italo-siriane - che sarà presente all’evento - il cui disco di esordio “R-evolution” è stato realizzato grazie al contributo dell’assessorato alle politiche giovanili del Comune di Firenze. La religione, il senso di colpa, la mancanza di casa, la voglia di ricominciare: tutti questi temi compaiono in “Vorrei. Potrei. Andrei”, tenuti insieme dal collante stilistico del rap, qui utilizzato come chiave di comunicazione, integrazione e di libertà, sia verbale che mentale, in un contenuto linguistico che comprende italiano, arabo, spagnolo e inglese. “Crediamo molto nel rap come mezzo per fare raccontare ai ragazzi la propria vita - ha sottolineato l’assessore comunale alle politiche giovanili Cosimo Guccione - il carcere deve essere soprattutto un momento di educazione e rieducazione alla vita e il rap, in questo senso, è un linguaggio che funziona molto bene. Sappiamo come la musica sia maieutica, aiuti a tirar fuori le emozioni positive e negative”. “Ancora troppa violenza sui minori: il sistema non ha funzionato” di Simona Musco Il Dubbio, 20 giugno 2019 La relazione della garante per l’infanzia Albano. Una parola d’ordine: responsabilità. E un invito alle istituzioni: non lasciamo i bambini da soli. Sono solo alcuni corollari delle richieste del Garante per l’Infanzia e l’adolescenza Filomena Albano, che ieri ha presentato a Montecitorio la relazione annuale dell’Autorità, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del Presidente della Camera Roberto Fico. Una relazione che contiene proposte ma che rappresenta, soprattutto, una panoramica del sistema infanzia. Che non ha funzionato, ha denunciato Albano, come provano i casi di violenza sui minori, il proliferare di baby gang, servizi disomogenei tra regione e regione e la discriminazione dei minori stranieri. Ai quali - questo l’invito di Fico - vanno garantiti gli stessi diritti e opportunità di integrazione. Le richieste puntano ad un sistema di tutela per prevenire le violenze, ma anche più servizi e formazione. Richieste reiterate nel tempo, a volte ignorate, e che, dall’altra parte, si traducono in azioni attive da parte dell’autorità, anche attraverso le convenzioni stipulate con altri enti - tra i quali il Cnf, presente ieri nella persona del presidente Andrea Mascherin - per promuovere la tutela delle persone di minore età. In Italia ci sono nove milioni e 800mila minori, dei quali uno su otto vive in condizioni di povertà assoluta. Bambini che la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha trasformato “da oggetto di protezione a soggetti titolari di diritti”. Ma ciò non può tradursi in una rinuncia, da parte dei genitori, al ruolo di guida. Quella di Albano non è stata un’analisi asettica, ma un approfondimento sociologico, partendo proprio dal punto di vista dei bambini. Ed è da una loro frase - il voler salire sulle spalle degli adulti per osservare il mondo da quel punto di vista - che è partita. Albano ha richiamato le istituzioni ad assumersi le proprie responsabilità sul tema dei figli di persone in carcere, per i quali è stata pensata la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”. La sua applicazione ha prodotto un aumento del numero delle visite dei figli ai genitori reclusi, passate dalle 38.701 del 2016 alle 47.846 del 2018. L’obiettivo, ora, è “portare fuori dalle carceri i bambini: i 55 figli di detenute che ancora ad aprile vivevano dietro le sbarre insieme alle madri sono sempre troppi - ha spiegato - Sono invece pochi i cinque istituti a custodia attenuata e le due case famiglia protette”. La carta prevede il libero accesso alle aree all’aperto, ai nidi, alle scuole, con programmi di sostegno alla genitorialità, su cui occorre investire, per evitare eventi drammatici. Ci sono poi gli orfani di crimini domestici, ai quali è dedicata la legge 4/ 2018. Ferma al palo, a distanza di un anno e mezzo, perché “mancano il regolamento e il decreto ministeriale, presupposto per rendere effettive molte delle misure previste dalla legge”, lacuna più volte segnalata. Ma le forme di violenza sono diverse. E nel 2019 sono ancora troppi i bambini che muoiono per mano di chi ha il compito di proteggerli. Una prova che il sistema non ha funzionato e che è necessario investire nel sostegno alla genitorialità fragile, con misure come l’home visiting e una banca data analisi sulla violenza ai danni dell’infanzia. E bisogna recuperare un’idea di cittadinanza solidale, in cui ognuno sia sentinella e garante del benessere dei bambini. Ma servono anche più mense e asili nido, con standard minimi uguali per tutti, ha evidenziato Albano, nonché percorsi di recupero per i ragazzi con problemi con la giustizia, puntando sulla mediazione penale, una forma di giustizia riparativa, attraverso uno spazio di incontro tra minore autore di reato e vittima, che consenta a entrambe le parti di rielaborare quanto accaduto, accessibile anche ai ragazzi minori di 14 anni. Il presidente della Camera, nel suo discorso introduttivo, ha invece ricordato che i diritti dei minori sono diritti di tutti, “a prescindere dalla loro origine nazionale, etnica o sociale. Oggi - ha aggiunto - sette minori stranieri su 10 sono nati nel nostro Paese. A loro bisogna assicurare piena integrazione nella nostra società e il godimento di tutti i diritti”. Migranti. 70 milioni di persone in fuga. “Fili spinati e muri sono inutili” di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 giugno 2019 I dati del Global Trends 2018 dell’Unhcr: in 20 anni raddoppiati rifugiati, richiedenti asilo e sfollati. Quasi tutti si trovano in un Paese povero. Ci sono le chiacchiere e poi ci sono i numeri. Come quelli resi pubblici ieri dall’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) nel rapporto Global Trends 2018: una mappatura globale dei flussi di uomini, donne e bambini costretti ad abbandonare i luoghi di origine, presentata ogni anno alla vigilia della giornata mondiale del rifugiato che si celebra oggi. I numeri relativi al 2018 dicono che ormai le persone in fuga sono 70,8 milioni (stima per difetto): il doppio di 20 anni fa e 2,3 milioni in più rispetto ai dodici mesi precedenti. “La situazione non vede alcuna inversione di tendenza - spiega Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa - È la dimostrazione che le politiche globali basate su esclusione e odio, tradotti in muri e fili spinati, non funzionano”. Il paradosso è che le persone scappano da persecuzioni, guerre, violazioni dei diritti umani e cambiamenti climatici prodotti dalle strategie economico-politiche dei grandi della terra, gli stessi che alimentano allarme sociale e guadagnano consenso sulle presunte invasioni e le speculari chiusure dei confini. I miti su cui si basano questi discorsi, però, sono falsi. Lo dimostra in quattro punti Roland Schilling, rappresentante regionale Unhcr per il Sud Europa. Punto uno: la maggioranza delle persone in fuga rimangono all’interno del loro paese, senza varcare alcuna frontiera internazionale. Sono i 41,3 milioni di sfollati interni, il 58,57% del totale. Si tratta del gruppo principale che compone la cifra di 70,8 milioni. Gli altri due sono i richiedenti asilo e i rifugiati veri e propri. Durante lo scorso anno le persone in attesa dell’esito della domanda d’asilo erano 3,5 milioni, mentre quelle che hanno avuto responso positivo 25,9 milioni. Tra questi sono compresi i 5,5 milioni di rifugiati palestinesi. Punto due: le destinazioni principali di chi è costretto a lasciare la propria casa sono gli stati confinanti. Quattro su cinque vivono in paesi adiacenti a quello di origine. Così gli stati che occupano le prime tre posizioni della classifica per numero di rifugiati in termini assoluti (Turchia 3,7 milioni; Pakistan 1,4 milioni; Uganda 1,2 milioni) confinano con i primi tre da cui le persone scappano (Siria 6,7 milioni; Afghanistan 2,7 milioni; Sud Sudan 2,3 milioni). Punto tre: la direttrice migratoria principale è poor to poor, da paesi poveri a paesi poveri, nell’83% dei casi. In media gli stati ad alto reddito accolgono 2,7 persone ogni mille abitanti, quelli a reddito medio o medio-basso più del doppio, 5,8. Lo scorso anno solo il 16% dei rifugiati sono stati accolti in paesi di regioni sviluppate. Punto quattro: i minori rappresentano il 50% del totale delle persone in fuga. Nel 2018, almeno 138 mila tra loro vivevano soli o senza famiglia. Unico rappresentante del governo italiano presente alla conferenza stampa di presentazione del rapporto è stato Luigi Maria Vignali. Il direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale ha sostanzialmente ribadito la strategia dell’esecutivo rispetto alla Libia, da cui l’Unhcr chiede di evacuare immediatamente almeno 4 mila migranti, e tenuto a sottolineare l’aumento delle richieste d’asilo di cittadini venezuelani. Nel 2018 sono state quasi 342 mila. Dal ministero dell’Interno, nonostante l’invito, non si è presentato nessuno. Se restano completamente assenti dall’orizzonte politico globale strategie strutturali per cambiare di segno al drammatico fenomeno della fuga delle persone, anche gli interventi per trovare soluzioni a chi è costretto ad abbandonare il luogo di origine incontrano ostacoli e difficoltà. E non tengono il passo della tendenza complessiva. Questi interventi sono di tre tipi: rientro volontario, integrazione nella comunità di accoglienza o reinsediamento in un paese terzo. Nel 2018 poco meno di 594 mila rifugiati sono tornati a casa, solo 92 mila e 400 sono stati reinsediati (meno del 7% di quelli in attesa), mentre 62 mila e 600 hanno acquisito una nuova cittadinanza. In questo quadro fosco le uniche tinte positive vengono da un sempre maggiore impegno della società civile e di nuovi attori. “Dobbiamo ripartire da questi esempi ed esprimere solidarietà ancora maggiore nei confronti delle diverse migliaia di persone innocenti costrette ogni giorno ad abbandonare le proprie case”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto commissario delle nazioni unite per i rifugiati. Migranti. Porti chiusi alla Sea Watch, isolata in mare da sette giorni di Adriana Pollice Il Manifesto, 20 giugno 2019 “Fateci scendere”. Cinquanta città tedesche disponibili ad accogliere i 43 naufraghi respinti dall’Italia. Ma Bruxelles tace. L’Onu: non devono tornare in Libia. Salvini: ricevo molti complimenti per la linea dura. In Italia tornano i dublinanti, i migranti arrivati da noi e rimandati indietro dalla Germania e dalla Francia. Ieri all’alba sono approdati 15 algerini sulle coste del Sulcis, in due differenti barchini. Altri 45 sono arrivati sotto costa a Lampedusa, portati poi a terra dalle motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza. Gli unici che non possono sbarcare sono i 43 a bordo della Sea Watch 3 (sei le donne e tre i minori non accompagnati), salvati il 12 giugno al largo della Libia e bloccati a 16 miglia dalle acque territoriali dal decreto Sicurezza bis. La capitana della nave della Ong tedesca, Carola Rackete, ieri ha raccontato via social: “Da venerdì siamo difronte a Lampedusa. Il ministro dell’Interno italiano ha emanato un nuovo decreto, in contrasto con la Legge del Mare. Le persone sono sempre più preoccupate del loro futuro. Inoltre, il rollio della nave è costante, ogni giorno. Ci sono problemi di disidratazione e problemi igienici. Abbiamo immediatamente necessità di sbarcare queste persone in sicurezza, il prima possibile”. Le condizioni psicologiche sono poi peggiorate da quando, sabato, hanno visto sbarcare dieci di loro per motivi sanitari, mentre non si intravede soluzione per chi è ancora bloccato sul ponte della nave. Più di 50 comuni tedeschi si sono detti disponibili a ospitare i 43 naufraghi ma la trattativa è bloccata a Bruxelles. Il membri del forum Lampedusa solidale da ieri sera hanno cominciato a dormire sul sagrato della parrocchia di San Gerlando “fino a quando i naufraghi non verranno fatti scendere in un porto sicuro, come è giusto che sia”. L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, ha ricordato al governo: “Ai minori che si trovano in mare aperto bisogna garantire un punto di approdo sicuro. È quanto stabilisce una dichiarazione promossa dalla rete europea dei Garanti per l’infanzia, di cui fa parte anche l’Italia”. Il ministro Danilo Toninelli, insieme alla ministra della Difesa Elisabetta Trenta, ha sottoscritto il divieto di ingresso alla Sea Watch 3, disposto dal Viminale. Ieri ha ribadito: “Per chi viola le regole i porti rimangono chiusi al 100%. La Sea Watch aveva ricevuto da parte della guardia costiera libica il segnale di coordinamento delle operazioni. Purtroppo hanno deciso di voltarsi dall’altra. Di conseguenza non possono approdare”. È Salvini il più scatenato: “Ricevo molti complimenti nel mondo per la linea seria sull’immigrazione. A me il rifugiato vero non pone alcun problema, i fuorilegge sì”. E ancora: “Un saluto all’equipaggio della Sea Watch, in Italia non si arriva. Se ne fregano delle leggi e anche delle vite perché sono da giorni nel Mediterraneo: sarebbero arrivati in Tunisia o in Olanda (stato di bandiera della nave, ndr), in Italia no”. La propaganda del governo va a sbattere contro le organizzazioni Onu. “Le persone a bordo della Sea Watch non dovevano e non potevano essere rimandate in Libia - ha spiegato ieri Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr -. Non è un porto sicuro, c’è la guerra”. Sami ha chiesto lo sbarco immediato dei migranti, tra i quali anche un bambino di soli 12 anni: “Sono fuggiti dalle torture, dagli abusi, necessitano di immediata assistenza e devono poter fare domanda d’asilo”, ha concluso. Anche l’Oim ha chiesto che venga “garantito quanto prima un luogo di sbarco sicuro” per i migranti soccorsi dalla nave Sea Watch 3. La Ong si era rivolta al Tar per far sospendere l’applicazione del decreto Sicurezza bis ma il Tar ha dato torno ai volontari. Ieri però l’Ong ha replicato: “Il Tar, affermando che tutte le persone vulnerabili siano state già fatte sbarcare, non considera evidentemente come vulnerabili né i minori né i naufraghi che fuggono dalla guerra libica e dalle torture già subite in quel paese. Il Tar non accenna mai, inoltre, al diritto del mare, che impone l’obbligo di sbarcare i naufraghi nel porto sicuro, più vicino”. Migranti. Proposta Sant’Egidio-Fcei di corridoi europei dalla Libia di Salvatore Cernuzio La Stampa, 20 giugno 2019 Conte: Italia disponibile. Il premier, in una lettera al presidente Impagliazzo e al pastore Negro, dichiara l’interesse del governo per il progetto ispirato dalle parole del Papa. C’è interesse da parte del governo italiano per la proposta ella Comunità di Sant’Egidio e della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) di un “corridoio umanitario europeo” dalla Libia. È il premier Giuseppe Conte ad affermarlo rispondendo ad una lettera congiunta dei vertici dei due organismi che in questi ultimi anni hanno lanciato, insieme alla Tavola valdese, un modello “funzionante” quale si è dimostrato quello dei corridoi umanitari che ha garantito l’accesso legale e sicuro a migliaia di profughi. Grazie all’iniziativa, alla quale ha preso parte negli scorsi anni anche la Cei e che ha sempre visto il coinvolgimento dei Ministeri dell’Interno e degli Esteri, dal febbraio 2016 sono giunti in Italia in tutta sicurezza oltre 1.500 persone provenienti da Libano, Siria e altri Paesi. Gli ultimi lo scorso 3 giugno: 58 profughi siriani, tra cui numerosi bambini, “sbarcati” all’aeroporto di Fiumicino. Nato in Italia come progetto della società civile totalmente autofinanziato, il modello dei corridoi umanitari ha ispirato altri accordi in Francia, Belgio e Andorra che hanno permesso un arrivo complessivo di oltre 2.500 profughi in Europa accompagnati poi in un processo di integrazione. Una “buona prassi”, l’ha definito infatti Conte nella sua lettera pubblicata in stralci dalla agenzia evangelica NEV. Ora quello che si vuole compiere è un passo in avanti, ovvero creare un ponte con la Libia da dove continuano a giungere le cronache dell’orrore dei centri di detenzione in cui i migranti di tutte le età versano in condizioni intollerabili e degradanti, esposti al rischio di torture, violenze sessuali, estorsioni e lavori forzati da parte di scafisti e trafficanti. Un “inferno senza scampo”, così l’ha descritto l’organizzazione Human Rights Watch nel suo rapporto del gennaio scorso frutto di ricerche e sopralluoghi su quattro di questi campi. Papa Francesco più volte ha denunciato questi “lager” libici di cui si è documentato attraverso testimonianze e reportage. In un Angelus ad aprile, il Pontefice aveva fatto appello per i profughi nel Paese nordafricano perché - diceva - “specialmente le donne, i bambini e i malati possano essere al più presto evacuati attraverso corridoi umanitari”. Proprio queste parole del Papa hanno ispirato la proposta di Sant’Egidio e della Fcei che consisterebbe in una nuova via di accesso legale e sicuro in Europa per 50mila profughi che, tramite un sistema di quote, dovrebbero trovare accoglienza nei Paesi europei disponibili a partecipare al progetto. Il presidente del Consiglio Conte si dice interessato e, condividendo il giudizio sulla situazione di “grave e persistente instabilità” della Libia, ribadisce la necessità di un maggiore impegno comune dei Paesi europei a favore di rifugiati. Assicura quindi il suo impegno ad approfondire con i partner dell’Unione la proposta di un “corridoio umanitario europeo” nella “condivisa consapevolezza di dover far fronte in maniera coordinata all’attuale emergenza mediante appropriati strumenti operativi e finanziari”. Più nel concreto l’Italia si farebbe carico di una quota di profughi da accogliere e chiederebbe a tutti i Paesi europei di fare altrettanto. “L’esposizione in prima persona del premier attesta l’interesse con cui il governo ha recepito la nostra proposta”, ha commentato il pastore Luca Negro. “Ringraziamo il premier per la tempestiva risposta al nostro progetto e confidiamo che a breve potranno avviarsi i lavori di un comitato interministeriale che ne avvii la realizzazione”. “Come protestanti - sottolinea il presidente Fcei - siamo già impegnati a chiedere alle nostre chiese sorelle in Europa di premere sui loro governi perché sostengano concretamente la proposta italiana”. Da parte sua Marco Impagliazzo, presidente di Sant’Egidio, afferma che “i corridoi umanitari hanno unito l’Italia in un progetto della società civile capace di salvare dai trafficanti di morte e di integrare nel tessuto civile e sociale europeo”. L’interesse espresso dal presidente del Consiglio per un corridoio umanitario europeo dalla Libia “è un importante riconoscimento nei confronti di un modello che ha già dimostrato di funzionare - aggiunge - se realizzato, come auspichiamo, servirà a proteggere chi attualmente, in un Paese afflitto da una guerra civile che non conosce fine, rischia la propria vita ed è sottoposto ogni giorno a torture e vessazioni di ogni tipo”. In generale, secondo Impagliazzo, “sarebbe per l’Europa un atto di civiltà in difesa dei diritti umani, all’altezza del ruolo che crediamo debba assumere nel mondo”. Egitto. Caso Regeni, ondata di intimidazioni al Cairo di Giuliano Foschini La Repubblica, 20 giugno 2019 I servizi egiziani arrestano gli avvocati della famiglia. I genitori di Giulio: “Bisogna richiamare il nostro ambasciatore”. “Ora basta: il ritiro immediato dell’ambasciatore italiano al Cairo non è più procrastinabile”. Paola e Claudio Regeni, con il loro avvocato Alessandra Ballerini, non ci stanno più. L’Egitto di Al Sisi continua a sabotare le indagini sul sequestro, la tortura e l’omicidio di loro figlio Giulio. Infangandone la memoria. Di più: oltre a non collaborare con le indagini, gli egiziani attraverso la Nsa, il servizio segreto civile egiziano, continuano a mettere pressione e intimidire l’Ecrf, la commissione egiziana per i diritti e le libertà a cui la famiglia di Giulio si è rivolta per la propria difesa al Cairo. “Cercano di sabotare il nostro lavoro per la ricerca della verità sulla morte di Giulio” denunciano dall’Ecrf. I funzionari della Nsa che indagano su di loro sono infatti gli stessi sotto inchiesta della procura di Roma con l’accusa di aver partecipato certamente al sequestro di Giulio. La Ecrf ha messo in fila quello che è accaduto nelle ultime settimane: Maha Ahmed, moglie di Mohamed Helw, avvocato della famiglia Regeni, è sotto accusa e rischia di finire in galera da un giorno all’altro. Ibrahim Ezz El Din è stato arrestato e di lui non si hanno più notizie da una settimana. L’avvocato Haitham Mohamedein è stato arrestato il 13 maggio. A mettergli le manette è stato proprio Sherif Magdi, uno dei funzionari dell’Nsa indagati a Roma. Tra gli episodi denunciati c’è anche un nuovo interrogatorio a cui è stata sottoposta Amal Fathy, moglie di Mohamed Lotfy, storico consulente dei Regeni, rimasta in prigione per 7 mesi e 16 giorni senza un’accusa precisa. “Un funzionario della sicurezza nazionale - ricostruiscono ha chiesto di fare una chiacchierata. Le hanno chiesto della sua salute, del figlio. Le hanno chiesto cosa avrebbe fatto se avesse ricevuto una grazia presidenziale, se avrebbe lasciato l’Egitto”. “Queste intimidazioni - denunciano dall’Ecrf - dimostrano ancora una volta l’attacco della Nsa per limitare il nostro impegno nella difesa di Giulio e nella ricerca della verità per scoprire i nomi dei suoi torturatori, dei suoi assassini”. Ennesimi episodi che hanno scosso ulteriormente Paola e Claudio Regeni. Che nei giorni scorsi sono stati costretti ad ascoltare il ministro del Lavoro egiziano, Mohamed Saafan, dire nel corso della Conferenza internazionale del lavoro a Ginevra, che quello di Giulio è stato “un omicidio ordinario che sarebbe potuto accadere in qualsiasi Stato, come gli omicidi di egiziani in Italia o quelli di qualsiasi altra persona di qualsiasi altra nazionalità”. “Un atteggiamento”, dicono i genitori di Giulio con l’avvocato Ballerini, “oltraggioso e inquietante. A questo punto, l’unico passo possibile, e non più prorogabile, è il richiamo dell’ambasciatore”. “Non rimarranno soli”, fa sapere il presidente della Camera, Roberto Fico. “La prossima settimana parleremo di Giulio con il Bundestag tedesco: Giulio non era infatti solo un ricercatore italiano. Ma europeo. È una questione che riguarda e deve riguardare tutti i paesi dell’Unione”. Egitto. Morsi, i dubbi dell’Onu e il silenzio della Ue. Erdogan: “Ucciso” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 giugno 2019 Le Nazioni Unite chiedono un’inchiesta indipendente, i paesi occidentali tacciono. Il governo turco accusa di omicidio Il Cairo, che risponde: “Morte politicizzata”. Un’inchiesta “accurata e trasparente” è quello che chiedono le Nazioni unite a 48 ore dalla morte dell’ex presidente egiziano Mohamad Morsi. La richiesta è dell’Alto commissariato ai diritti umani che ci tiene a specificare, attraverso il suo portavoce Rupert Colville, che a gestirla dovrà essere “un’autorità indipendente da quella che lo ha detenuto”. Al centro dell’indagine, aggiunge l’ufficio Onu, dovranno esserci le condizioni di detenzione del leader dei Fratelli musulmani, in isolamento quasi totale (23 ore al giorno) durante i sei anni trascorsi nel famigerato carcere di Tora. Di certo all’inchiesta - se mai si farà - mancherà un pezzo importante: un’autopsia indipendente. Perché di esami sul cadavere ne è stato fatto solo uno, dalla procura generale egiziana, a porte chiuse. E Morsi è stato seppellito in fretta e furia dodici ore dopo il decesso. Difficile schermarsi dietro la tradizione islamica e i tempi stretti tra morte e sepoltura: qui a spegnersi è stato un ex presidente, durante un’udienza in tribunale e dopo quasi sei anni di carcere per motivi politici. Eppure Il Cairo del presidente-golpista al-Sisi (colui che da ministro della Difesa ha prima deposto Morsi per poi prenderne il posto e avviare una delle peggiori stagioni della storia moderna del paese) risponde all’Onu. Lo fa con il portavoce del ministero degli Esteri, Ahmed Hafez: “(L’Onu) tenta intenzionalmente di politicizzare un caso di morte naturale, un salto a fragili conclusioni che non si basano su nessuna prova”. Il governo egiziano risponde all’Onu perché, sorprendentemente, è la sola istituzione internazionale ad aver espresso un dubbio in merito al decesso. Dai governi occidentali, alleati del regime egiziano, non è pervenuta parola. Tutto tace, nonostante non siano affatto risibili le responsabilità dei paesi europei e degli Stati uniti nel muro di omertà e impunità che protegge al-Sisi. Che se può permettersi 60mila prigionieri politici, sparizioni forzate acclarate e decessi in carcere è perché nessuno gliene ha ancora chiesto conto. E alla fine il solo ad alzare la voce è il presidente turco Erdogan, non certo per spirito umanitario visto il suo di regime, ma per ragioni squisitamente politiche. Da leader di un partito, l’Akp, parte della rete regionale della Fratellanza Musulmana ieri durante un comizio a Istanbul in vista delle ri-elezioni di domenica ha apertamente accusato Il Cairo di aver ucciso Morsi e promesso di portare la questione al G20 giapponese di fine giugno: “Seguiremo la cosa e faremo quanto necessario perché l’Egitto sia perseguito in un tribunale internazionale”. Anche qui risponde Il Cairo, sempre con Hafez, rigirando le accuse: assurdo, dice, che vengano da uno Stato che imprigiona migliaia di suoi impiegati e che finanzia il terrorismo nella regione. Turchia. Omicidio Khashoggi, l’Onu: i vertici sauditi sono i responsabili di Giordano Stabile La Stampa, 20 giugno 2019 Il rapporto delle Nazioni unite accusa bin Salman per l’assassinio al consolato dell’Arabia in Turchia. Il fantasma di Jamal Khashoggi continua a perseguitare Mohammed bin Salman. L’assassinio dell’editorialista del “Washington Post”, lo scorso 2 ottobre, aveva per qualche settimana intralciato l’ascesa del 33enne principe ereditario saudita. Ma poi ci aveva pensato Donald Trump a tranciare tutto e a ribadire che Riad era l’alleato “indispensabile” per l’America in Medio Oriente. La Casa Bianca si è messa di mezzo a ogni tentativo di punire il principe da parte del Congresso, per esempio con lo stop alla vendita di armi usate nella guerra in Yemen. E quando lo sgocciolio di rivelazioni raccapriccianti si era inaridito Mbs era tornato in pubblico, come se niente fosse, più saldo al potere di prima, mentre l’indagine interna lo aveva già assolto e messo alla sbarra undici funzionari. Ieri però è arrivato il rapporto delle Nazioni Unite. Ed è una condanna senza appello. Il “brutale” omicidio è definito una “esecuzione extragiudiziale premeditata e deliberata” e i responsabili sono i vertici dello Stato. Cioè lui. Per la relatrice speciale Agnes Callamard ci sono “prove credibili” e per questo chiede un’indagine internazionale “indipendente e imparziale”. Un incubo per “Mbs”, perché il giallo tornerebbe al centro dell’attenzione dei media, come lo scorso autunno. Allora i dettagli fatti trapelare dagli inquirenti turchi, poi le intercettazioni filtrate dalla Cia, avevano ricostruito un film dell’orrore. È il 2 ottobre. Khashoggi, 59 anni, arriva al consolato di Istanbul convinto di ritirare i documenti necessari al divorzio. Dall’ambasciata a Washington gli dicono che può farlo solo lì. Fuori lo aspetta la fidanzata turca, Hatice Cengiz. È una trappola. Dentro c’è un commando di 15 persone guidato da Maher Abdulaziz Mutreb, guardia del corpo del principe. Khashoggi viene “interrogato”, picchiato, poi sedato a morte e fatto a pezzi con un seghetto da chirurgo. Il corpo non sarà mai ritrovato. Per i turchi è stato sciolto nell’acido e gettato nel pozzo della residenza del console. Raid prima nega, sostiene di “non sapere” dove sia la vittima, andata via “da una uscita secondaria”. Intercettazioni e immagini delle telecamere costringono poi le autorità saudite a virare. Aprono un’inchiesta, 11 funzionari finiscono a processo, cinque rischiano la pena di morte. La Casa reale fa quadrato attorno al principe. Dalle indagini viene escluso Saud al-Qahtani, consigliere di Mbs, in continuo contatto con il commando, 19 telefonate, quel giorno. Ora il rapporto delle Nazioni Unite ha stabilito che il processo in Arabia Saudita non rispetta gli standard internazionali e va “sospeso”. Per il procuratore saudita Shalaan Shalaan i funzionari sono “andati oltre” e avevano soltanto l’ordine riportare in patria la vittima. Ma per il diritto umanitario, dice l’Onu, “non importa” se è stato un rapimento finito male. La responsabilità dei vertici dello Stato rimane. Il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir ha respinto le accuse, infarcite da asserzioni “poco credibili”, mentre il “sistema giudiziario saudita è qualificato e lavora in piena indipendenza”. Si prospetta lo stesso canovaccio. Minimizzare, e aspettare che la bufera passi. Khashoggi è una macchia sull’immagine della “nuova Arabia Saudita”, dove le donne guidano, vanno a vedere le partite di calcio, possono uscire la sera e andare in un club, per ora senza alcol, come il White appena aperto a Gedda. Il Regno è in piena febbre da trasformazione. Sul Mar Rosso apriranno giganteschi resort, sorgerà una nuova città tecnologica, Neom, siti antichissimi, come Al-Ula, la “Petra saudita”, accoglieranno dal prossimo autunno turisti da tutto il mondo. Mbs ha stroncato ogni fronda interna, con metodi spicci. Resta una sola incognita, il fantasma di Khashoggi. Guinea Equatoriale. 60 anni di carcere a ingegnere italiano sequestrato dal governo di Sandro Pintus africa-express.info, 20 giugno 2019 Fulgencio Obiang Esono, ingegnere pisano, sequestrato dai servizi segreti equatoguineani, è stato condannato a quasi sessant’anni di galera. Secondo il brutale regime del piccolo Stato africano dovrà scontare 58 anni e dieci mesi nelle terribili prigioni della Guinea Equatoriale. L’ingegnere, equatoguineano con cittadinanza italiana, è stato accusato e ritenuto colpevole per il tentato di colpo di stato del 2017. Nessuno riesce a capire come possa aver partecipato al presunto golpe visto che in quel periodo era a Pisa dove viveva dal 1988. Quella inflitta a Fungencio è una condanna pesantissima più simile a una pena di morte, vista la terrificante situazione delle carceri dell’ex colonia spagnola. “Il processo contro Fulgencio Obiang Esono è al di fuori di ogni standard internazionale. La confessione gli è stata estorta sotto tortura e senza la presenza di un avvocato di fiducia. Hanno preteso e ottenuto la condanna”. È il primo forte commento di Corrada Giammarinaro, legale dell’ingegnere pisano che segue il caso insieme all’avv. Ponziano Nbomio Nvò, in loco, per Amnesty International. “Nonostante le richieste del console italiano, fino ad ora non è stato possibile visitare Fulgencio. Sono state trovate sempre delle scuse per non far entrare il rappresentante italiano o chi per esso - spiega l’avv. Giammarinaro. Riguardo al suo stato di salute sappiamo però che è sottonutrito e disidratato”. Lo scorso settembre, l’ingegnere pisano, era partito per il Togo, chiamato per un lavoro che si è rivelato una trappola del regime equatoguineano. L’ultima comunicazione con la famiglia era stata dall’aeroporto della capitale, Lomè. Un messaggio vocale alla sorella, Cecilia, che vive a Pisa con la nipote: “Il viaggio è andato bene, ci sentiamo in questi giorni”. Poi era sparito nel nulla. La famiglia, dopo due settimane, aveva fatto denuncia della sua scomparsa ma ha sempre sospettato un sequestro dal parte della dittatura equatoguineana. Poi la conferma della trappola scattata a Lomè. Agenti dei servizi segreti della Guinea Equatoriale avevano arrestato Obiang Esono che era stato rinchiuso nelle galere del Paese centro africano. L’emittente di opposizione Radio Macuto aveva confermato che l’ingegnere era rinchiuso nelle terribili carceri di Playa Negra, a Malabo. Il processo ha coinvolto oltre cento oppositori politici della dittatura quarantennale di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, in un Paese dove non c’è traccia di diritti umani. Le prigioni della Guinea Equatoriale sono famose in tutta l’Africa per la loro atrocità e sono il terribile simbolo di una delle più feroci dittature del mondo. Ne ha fatto le spese Roberto Berardi, imprenditore italiano, incastrato dalla dittatura della famiglia Obiang. Su quell’inferno vissuto da Berardi è nato un libro “Esperanza. La vera storia di un uomo contro una dittatura africana”, scritto dallo stesso imprenditore con il giornalista Andrea Spinelli Barrile e pubblicato da Slow News. Fulgencio Obiang Esono è solo l’ultimo dei sei cittadini italiani finiti nelle maglie della discutibile giustizia equatoguineana. Oltre a Berardi ci sono rimasti impigliati - come insetti in una ragnatela - Fabio e Filippo Galassi, padre e figlio; e Fausto e Daniel Candio, anche loro padre e figlio. In tutte queste situazioni pare che dall’ambasciata della Guinea Equatoriale non sia arrivata e non arrivi una reale collaborazione. La delegazione, guidata dall’ambasciatrice decana, Cecilia Obono Ndong (nipote del presidente), è stata spesso criticata. Non solo per false promesse e bugie raccontate alle famiglie degli ex-detenuti ma anche per quelle alle istituzioni del nostro Paese. Sia la Farnesina che la Regione Toscana, come anche la diplomazia vaticana, si stanno occupando del caso. “Non sappiamo se la condanna a Fungencio è definitiva o se c’è un appello. È nostra intenzione chiederne il trasferimento in Italia - afferma l’avv. Giammarinaro. È importante che ci sia la pressione internazionale, quel tipo di pressione che per il momento ha evitato la condanna a morte degli accusati”.