Un anno di forca. Retorica giustizialista, manette e populismo penale di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 giugno 2019 Così le riforme gialloverdi hanno cambiato i connotati del sistema giudiziario. A un anno esatto dall’insediamento del nuovo governo gialloverde (1° giugno 2018), la giustizia italiana si ritrova stravolta. Le riforme volute dall’esecutivo e approvate in Parlamento da Movimento 5 stelle e Lega (carceri, anticorruzione, prescrizione, stop alla nuova disciplina delle intercettazioni, legittima difesa, decreto sicurezza, referendum propositivo in materia penale, voto di scambio) hanno cambiato i connotati del sistema giudiziario, nel segno delle manette e del populismo penale, e il peggio probabilmente deve ancora venire (la riforma del processo penale e civile). Il tutto accompagnato da una tambureggiante retorica giustizialista, diretta ad alimentare gli impulsi più manettari della opinione pubblica. Sì è iniziati a luglio con lo stop alla riforma delle intercettazioni che era stata approvata nel corso della precedente legislatura su proposta dell’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando. La nuova disciplina non limitava in alcun modo l’utilizzo delle intercettazioni da parte della polizia giudiziaria, ma (seppur in maniera imperfetta) andava a porre un freno alla pubblicazione indiscriminata sui giornali delle intercettazioni che non avevano alcuna rilevanza penale. Insomma, si trattava di un tentativo di arginare il fenomeno dello sputtanamento mediatico-giudiziario, che costantemente mette alla berlina sugli organi di informazione personaggi pubblici e semplici cittadini, con la rivelazione di fatti privati. Questa finalità, però, non è stata condivisa dal nuovo Guardasigilli Alfonso Bonafede, che ha deciso di stoppare l’entrata in vigore del decreto legislativo, inserendolo all’interno del decreto Milleproroghe di luglio (e poi in quello di dicembre), in attesa che sia riscritto interamente. Poche settimane dopo, a inizio agosto, un nuovo colpo di spugna, stavolta sulla riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata varata durante gli ultimi scampoli del governo Gentiloni. Il nuovo esecutivo decide di rivedere lo schema di decreto legislativo, cancellando due misure centrali del precedente provvedimento: la parte relativa alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative alla detenzione e quella sull’eliminazione degli automatismi preclusivi alla concessione di forme attenuate di esecuzione della pena. Un epilogo scontato, ma non meno amaro, se si considerano le affermazioni con cui Bonafede e Salvini avevano criticato l’approvazione della precedente riforma. Il primo aveva parlato di “svuota-carceri”, il secondo addirittura di “salva ladri”, promettendo che, una volta al governo, avrebbero cancellato “questa follia nel nome della certezza della pena”. Detto, fatto, anche se la certezza della pena non c’entra proprio niente. Due settimane più tardi, alla vigilia di Ferragosto, il Paese viene sconvolto dalla tragedia del crollo del ponte Morandi di Genova e il governo svela, per la prima volta in maniera così decisa e unanime, tutto il suo animo forcaiolo. Con i corpi delle vittime sepolti dalle macerie e ancora da recuperare, i ministri e i parlamentari di maggioranza individuano il capro espiatorio (Autostrade per l’Italia, Benetton) e lo mettono alla gogna nella piazza pubblica e social. “Non può esserci un’altra strage senza colpevoli e qui hanno nomi e cognomi ben precisi. Qualcuno deve finire in galera”, dichiara il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Dopo nove mesi, le indagini sono ancora in corso. A fine settembre il Consiglio dei ministri approva il decreto su immigrazione e sicurezza tanto voluto da Salvini. Il testo viene convertito in legge dal Parlamento due mesi dopo. Il decreto, oltre a cancellare il permesso di soggiorno per motivi umanitari, nega la possibilità di iscriversi all’anagrafe utilizzando il permesso di soggiorno per richiesta di asilo. Una norma fortemente criticata da molti sindaci, ma che appare poco chiara e di difficile comprensione, soprattutto se si considera che già prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini chi era in possesso di un permesso di soggiorno non aveva diritto all’immediata iscrizione anagrafica, che invece si basava (e si basa) su un procedimento amministrativo ben più complesso (fondato sulle dichiarazioni degli interessati, sugli accertamenti disposti dall’ufficio e sulle comunicazioni dello stato civile). È per queste ragioni che diversi tribunali (in primis quelli di Bologna e di Firenze) smentiranno quanto propagandato dal ministro dell’Interno, consentendo l’iscrizione all’anagrafe anche ai richiedenti asilo attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata” della norma, visto che un divieto “impedirebbe l’esercizio di diritti di rilievo costituzionale, come quello all’istruzione e al lavoro”. Dal decreto sicurezza spicca anche un’altra norma che prevede l’espulsione del richiedente asilo nel caso in cui questi subisca una condanna in primo grado. Una misura in palese contrasto con il principio di presunzione di innocenza stabilito dall’articolo 27 della nostra Costituzione (“l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”). È probabile, quindi, che la norma finirà molto presto di fronte alla Consulta per un giudizio di costituzionalità. 1118 dicembre il Parlamento approva in via definitiva la riforma anticorruzione, cavallo di battaglia del M5s. I grillini festeggiano il via libera alla legge, ribattezzata “legge spazza-corrotti”, brindando in piazza e sventolando cartelli con slogan come “Bye bye corrotti”. I contenuti della riforma rappresentano un inno definitivo al populismo giustizialista: ennesimo inasprimento delle pene previste per una serie di reati contro la Pubblica amministrazione, inasprimento delle pene accessorie (con in particolare l’introduzione del divieto, cosiddetto Daspo, di contrattare con la Pa in caso di condanne superiori a due anni, revocabile solo dopo dieci anni), introduzione dell’agente sotto copertura, cioè di un agente delle forze dell’ordine che lavora da infiltrato per scovare i casi di corruzione (figura che nessuno sa come dovrebbe operare visto che i casi di corruzione coinvolgono non organizzazioni criminali, bensì singoli individui), introduzione di una causa di non punibilità per chi denuncia un caso di corruzione entro 4 mesi dalla commissione del reato e contribuisce all’individuazione degli altri responsabili (col rischio che i delatori si trasformino in veri e propri agenti provocatori). E poi la vera perla, inserita nella legge attraverso un inaspettato emendamento: la riforma della prescrizione. La norma prevede la sospensione dei termini di prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia la sentenza di condanna o di assoluzione. In altre parole, vista la lentezza della giustizia italiana, l’istituzione del processo a vita, attraverso cui mantenere i cittadini sulla graticola giudiziaria per venti o trent’anni. Su quest’ultima misura la Lega aveva mosso timidamente alcune critiche (il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, aveva parlato di “bomba atomica” sulla giustizia italiana), ma poi si è accontentata di uno spostamento della sua entrata in vigore al 1 gennaio 2020, in attesa che sia varata la riforma del processo penale (di cui, sei mesi dopo, ancora non vi è traccia). A dispetto di ogni presunto distinguo garantista, quindi, la Lega vota a favore della “legge spazza-corrotti” insieme al M5s. E Di Maio, in piazza, ringrazia Salvini: “È la rivincita degli onesti. Grazie anche alla Lega, con questa legge nulla sarà più come prima”. Ignorate le critiche espresse all’unanimità da giuristi, magistrati e avvocati durante le audizioni alla Camera, così come l’astensione indetta dall’Unione delle camere penali italiane (Ucpi). Intanto una parte della legge finisce subito di fronte alla Corte costituzionale: quella che inserisce i reati contro la Pa tra quelli ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, non prevedendo alcuna regolamentazione della fase transitoria. La norma ha consentito nei primi mesi del nuovo anno di applicare la legge anche ai procedimenti riguardanti reati commessi prima della sua entrata in vigore, e quindi di spedire in carcere persone che avrebbero potuto accedere ai benefici penitenziari (come permessi premio, assegnazione al lavoro esterno e misure alternative alla detenzione). Il caso più celebre riguarda l’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione e sbattuto nel carcere milanese di Bollate nonostante abbia più di 70 anni e quindi, prima della riforma, avrebbe potuto espiare la pena ai domiciliari. Ma i casi sono numerosi. Un obbrobrio su cui sarà chiamata a esprimersi la Consulta. Nel frattempo Salvini e Di Maio aizzano gli istinti più forcaioli dell’opinione pubblica, commentando alcune sentenze ritenute troppo morbide e su cui si scatenano le proteste sui social. Lo fa Salvini in seguito alla sentenza di appello sull’omicidio di Marco Vannini che riduce le pene nei confronti degli imputati: “Con tutto il rispetto sono d’accordo con i parenti del povero Marco: è una vergogna”. Lo segue a ruota Di Maio, definendo “incomprensibile” la sentenza del tribunale di Avellino sulla tragedia del bus precipitato da un viadotto autostradale che, pur condannando otto imputati, assolve i vertici di Autostrade: “Il grido di dolore delle vittime lo capisco e mi fa incazzare”. Anche per Salvini la sentenza “assolve qualcuno che ha la responsabilità dei morti”. Il copione della gogna mediatico-giudiziaria si ripeterà in tanti altri casi, come attorno alla sentenza del tribunale di Genova sulla fantomatica “tempesta emotiva” che attenuerebbe l’omicidio (in realtà le argomentazioni dei giudici sono ben più complesse): “Non ho parole. Non c’è delusione o gelosia che possa giustificare un omicidio. Chi ammazza in questo modo deve marcire in galera”, dichiarerà Salvini. Oppure sul caso del presunto stupro alla stazione Circumvesuviana di Napoli: “Presunti stupratori scarcerati, è una vergogna”, dirà Di Maio dopo la scarcerazione dei tre ragazzi indagati e scagionati dai giudici del Riesame, che avevano ritenuto inattendibili le ricostruzioni della donna. Nel mezzo una raffica di “in galera!” (con la variante “in galera e buttare via la chiave”) twittati quasi quotidianamente da Salvini per commentare i fatti di cronaca che vedono coinvolti immigrati. È in questo clima che nella mente della maggioranza gialloverde sorge l’idea di introdurre il referendum propositivo in materia penale. Lo prevede la proposta di legge costituzionale sul referendum propositivo targata M5s-Lega e approvata il 21 febbraio in prima battuta alla Camera: con 500 mila firme i cittadini potranno presentare una proposta di legge che, se non approvata entro 18 mesi dal Parlamento, sarà oggetto di un referendum per deliberarne l’approvazione. Il referendum sarà valido se il 25 per cento degli aventi diritto avrà votato sì. Il ddl costituzionale non impone limiti al referendum, eccezion fatta per “principi fondamentali della Costituzione” e quelli “del diritto europeo e internazionale”, e offre quindi la possibilità di indire consultazioni anche in materia penale. Uno scenario inquietante. A maggio il Parlamento approva in via definitiva la riforma del voto di scambio. L’ennesimo trionfo del giustizialismo e dell’antipolitica. Il testo inasprisce le pene per i politici accusati di aver siglato accordi elettorali con esponenti mafiosi. Si rischia una reclusione da 10 a 15 anni (contro la previsione precedente che andava da 6 a 12 anni), con risultati paradossali: la nuova pena è infatti la stessa prevista per l’associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.). Non solo, se colui che ha accettato la promessa di voti risulta poi effettivamente eletto, la pena viene aumentata della metà. In caso di condanna, inoltre, segue anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il provvedimento, poi, prevede che per configurare il reato di voto di scambio non sia necessario che l’appartenenza ai clan dei soggetti che promettono di procurare voti “sia nota” al politico che accetta la promessa, come era previsto dalla normativa precedente. Come se un candidato impegnato in una campagna elettorale potesse conoscere l’identità e le relative fedine penali di tutte le persone che incontra durante gli incontri pubblici organizzati per cercare i consensi. Infine, la legge estende la condotta penalmente rilevante, aggiungendo alla promessa di procurare voti con le modalità mafiose anche la promessa di voti che provenga da “soggetti appartenenti alle associazioni” mafiose, senza però indicare gli elementi sulla base dei quali un soggetto potrebbe essere definito “appartenente” a un clan. La Lega, ancora una volta, non batte ciglio e vota in favore della riforma insieme al M5s e a Liberi e Uguali. Le improvvise affermazioni garantiste (“in un Paese civile si è innocenti fino a prova contraria”, “i processi si fanno nei tribunali e non sui giornali”) fatte da Salvini nei giorni dello scandalo che ha coinvolto l’ormai ex sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, Armando Siri, accusato di corruzione, si rivelano quindi dei semplici e occasionali gargarismi se si guarda alle riforme forcaiole votate dalla Lega in Parlamento nell’ultimo anno e alla linea giustizialista tenuta dal ministro dell’Interno sui fatti di cronaca e sulle vicende giudiziarie che hanno coinvolto altri partiti. Ma se questo è il bilancio in materia di giustizia del primo anno di governo gialloverde, sul futuro non si può essere ottimisti. La prossima sfida sarà rappresentata dalla riforma del processo penale e civile, annunciata da Bonafede alla fine dello scorso anno, ma di cui ancora non sono state rese note neanche delle bozze preliminari. Il termine promesso dal Guardasigilli (metà febbraio) per la presentazione del ddl di riforma del rito civile non è stato rispettato. Sulla revisione del codice di procedura penale è circolata soltanto una bozza non ufficiale di 32 punti, ma a dispetto delle promesse ancora non vi è traccia di un testo di riforma organica. La priorità indicata da Bonafede e dalla compagine grillina è l’accorciamento dei tempi della giustizia, ma il timore - molto diffuso tra i penalisti - è che per raggiungere questo obiettivo la riforma andrà a sacrificare alcuni cruciali diritti di difesa oggi riconosciuti agli indagati e agli imputati. La rivoluzione forcaiola, a quel punto, sarebbe compiuta. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea interviene sulla separazione delle carriere di Pieremilio Sammarco* Il Tempo, 1 giugno 2019 L’Europa per facilitare la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri ha introdotto un sistema semplificato ed efficace di consegna delle persone condannate o sospettate di aver violato la legge penale, basato sulla fiducia che deve esistere tra gli Stati membri, conformemente al principio di riconoscimento reciproco. Nell’ambito di tale collaborazione, vi è il mandato di arresto europeo per garantire la libera circolazione delle decisioni giudiziarie in materia penale nello spazio degli stati membri; si tratta di un provvedimento giudiziario emesso da uno stato per l’arresto e la consegna da parte di un altro stato membro di una persona ricercata, o per l’esecuzione di una pena o di una misura cautelare privativa della libertà. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 27 maggio 2019 (C-508/18), ha stabilito che le procure tedesche, che sono organi distinti dalla magistratura giudicante in applicazione del principio della separazione delle carriere, non offrono una garanzia d’indipendenza dal potere esecutivo sufficiente per poter emettere un mandato d’arresto europeo. La vicenda processuale è di estremo interesse per arricchire il dibattito che si è levato da tempo anche nel nostro ordinamento sulla necessità di attuare una riforma della giustizia che veda, all’interno dell’autorità giudiziaria penale, la separazione delle carriere tra coloro che esercitano la funzione inquirente e quella giudicante. L’occasione nasce da una richiesta di consegna emessa da una procura tedesca nei confronti di un cittadino lituano per fatti criminosi commessi in Germania e da un’ulteriore richiesta di arresto emanata da altra procura tedesca nei confronti di un cittadino rumeno ai fini della sua consegna per un reato di rapina. Le difese dei destinatari del mandato di arresto hanno sostenuto che le procure tedesche non sarebbero qualificabili come un’autorità giudiziaria competente ad emettere un siffatto provvedimento perché, nel diritto tedesco, il p.m. non beneficerebbe dello status autonomo o indipendente di un organo giurisdizionale, ma rientrerebbe nella pianta organica amministrativa del Ministero della Giustizia, ragion per cui esisterebbe un rischio di ingerenza politica nelle procedure di consegna. In sostanza, il p.m. sarebbe un pubblico funzionario amministrativo e non un organo appartenente alla giurisdizione. In verità, il Ministro della Giustizia tedesco non dispone del potere di impartire istruzioni alle procure, che, in forza del diritto nazionale compete solo al Procuratore generale a capo della singola Land, sempre rispettando il principio di legalità che prevede ipotesi tassative. Tuttavia, la Corte di Giustizia UE ha ritenuto che l’autorità incaricata ad emettere un mandato d’arresto europeo debba agire in modo indipendente nell’esercizio delle proprie funzioni e che, nel caso specifico, non possa escludersi che essa possa essere soggetta a un’istruzione del Ministro della Giustizia, non offrendo la garanzia di autonomia nell’ambito dell’emissione del detto provvedimento. Questa interpretazione della Corte UE non deve però essere sfruttata dagli oppositori alla separazione delle carriere nella magistratura, giacché nel diritto tedesco il p.m. è una figura sui generis che non rientra nella previsione costituzionale (Grundgesetz o Legge Fondamentale) sulla giurisdizione. Esso opera in un ambito distinto da quello della magistratura giudicante, che in ossequio al principio della separazione pura delle carriere, è sottoposto alle scelte politiche e amministrative del Ministro della Giustizia. Diversamente nel nostro sistema, dove in base alle disposizioni costituzionali, il p.m. gode dello status di appartenente alla giurisdizione alla luce dell’art. 117 Cost., che distingue i magistrati per le funzioni svolte, ammettendo così la costruzione di percorsi professionali separati senza incorrere nel sospetto di sub ordinazione rispetto al Ministro della Giustizia o al potere esecutivo; ed anzi proprio irrobustendo il principio della distinzione delle funzioni si garantirebbe quella maggiore garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura. *Professore Diritto Comparato Se il fango arriva al Csm è in gioco la credibilità delle toghe di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 1 giugno 2019 Ancora una volta occorre occuparsi di corruzione nella magistratura. Che i fatti che vengono riportati siano proprio come appaiono e che tutti costituiscano reato e non generico malcostume, si vedrà più in là. Lo diranno i giudici di Perugia. Ma questa volta non si tratta del caso, drammatico ma semplice, della corruzione di un magistrato, di cui si occupa la magistratura penale nella sua ordinaria competenza. La corruzione, non della magistratura italiana per fortuna, ma nella magistratura, impone però una riflessione che la magistratura stessa non dovrebbe evitare, limitandosi a sottolineare soddisfatta che essa applica la legge penale anche entro se stessa. Ciò che è vero, ma non chiude il discorso. Un’indagine e la condanna penale di un magistrato non bastano a sanare la ferita inferta alla credibilità della magistratura nel suo complesso, specialmente nei tempi in cui è diffusa l’opinione che tutto sia corrotto e tutti in questo siano eguali. L’esposizione alle occasioni di corruzione - il più delle volte, ma non sempre, respinte - cresce con la rivendicazione da parte di molti magistrati del diritto di vivere da persona tra le persone, da privato tra i privati, come tutti, senza limiti particolari. Pretesa più che discutibile e messa in pratica con stili di vita che hanno molte implicazioni. A partire dalla percezione di ciò che è normalmente lecito o innocuo, ma è inopportuno o addirittura illecito per il magistrato. E rende arduo, dall’esterno, valutare il senso di certi comportamenti, di certe frequentazioni e di certi rapporti confidenziali. Rende poi difficilissimi sia la vigilanza dei capi degli uffici giudiziari, spesso burocratica e formalistica, sia il “controllo sociale” che non usa sanzioni in senso stretto e tuttavia è essenziale in ambienti professionali come quello dei magistrati e degli avvocati. Segnali di condotte rischiose per un magistrato possono essere lasciati senza reazione vuoi richiamando - strumentalmente e per quieto vivere - la presunzione di innocenza (che spesso non c’entra niente), vuoi per rispetto della vita privata, anche quando, senza cautele, essa mescola magistrati ad ambienti da cui dovrebbero tenersi lontani. Tutto ciò riguarda la condotta di singoli magistrati. Ma oggi è in discussione il luogo in cui la Costituzione concentra la gestione della magistratura, nella sua disciplina e nelle nomine ai vari incarichi. Si tratta infatti del Csm, ove addirittura si sarebbe tentato di strumentalizzare una procedura disciplinare per colpire un avversario in un traffico di potere relativo a nomine importanti e si starebbe ora maneggiando, contrattato, scambiato voti ed altro ancora in una serie di nomine tra le quali, principalmente, quella del procuratore della Repubblica di Roma. Su questo aspetto bisognerà naturalmente distinguere tra quello che è il normale confronto di posizioni dentro e fuori il Csm, da ciò che segnala un vero inquinamento prodotto dalla lottizzazione, già denunciata, anni orsono, dal Presidente Napolitano. Egli contrastò i ritardi del Csm nelle nomine, funzionali alla formazione di “pacchetti” di posti da ricoprire e alla possibilità di contrattazioni tra i gruppi. Nella contrattazione - uno a te e uno a me, e un altro prenotato per il terzo - è probabile che il criterio del merito dei singoli candidati non sia decisivo, ma prevalga quello dell’appartenenza correntizia, o delle amicizie più meno lecite, interne e esterne alla magistratura, di cui i componenti del Csm, magistrati o di nomina politica, possono diventare agenti. Fenomeno questo grave, ma non contrastabile col richiamo al principio del merito dei candidati. Perché merito è una bella parola, ma il suo significato in concreto è difficile e certamente non è solo tecnico professionale. Certi posti direttivi - forse tutti i posti direttivi - assegnano al magistrato titolare poteri tutt’altro che neutri. E dunque rileva la concezione del ruolo della magistratura nella società e rispetto agli altri poteri dello Stato. Si è nel campo della politica e delle affinità di tal tipo. È sbagliato scandalizzarsene e far finta di credere all’ottocentesca figura del magistrato asettica bocca della legge. Se a ciò si aggiunge che, nei loro fascicoli personali, la descrizione del profilo professionale dei diversi candidati è insufficiente e inaffidabile, poiché quasi tutti risultano eccellenti, si comprende come le motivazioni che sorreggono le nomine siano spesso prolisse, ma apodittiche. E nascondano i veri motivi della scelta. Che fare? Da parte politica si userà anche questo episodio per mettere ulteriormente le mani nella e sulla magistratura. Da che pulpito! vien da dire. E anche per questo i protagonisti della vicenda di questi giorni sono imperdonabili. Caso Csm, Bonafede invia gli ispettori. Palamara: “Mai presi quei soldi” di Adriana Pollice Il Manifesto, 1 giugno 2019 Inchiesta sulle toghe a Roma. L’Anm si attiva e chiede gli atti per una “preliminare istruzione dei probiviri”. Il guardasigilli Alfonso Bonafede ha attivato gli ispettori per “accertamenti, valutazioni e proposte” sul caso che sta agitando le procure italiane: l’indagine dei pm di Perugia a carico del magistrato in forza a Roma Luca Palamara (accusato di corruzione), che ha finito per coinvolgere i colleghi Stefano Fava e Luigi Spina (per rivelazione di segreto d’ufficio). Anche l’Anm si è attivata chiedendo gli atti per poi “consentire una preliminare istruzione dei probiviri”. Intanto Spina si è autosospeso dal Comitato di presidenza del Csm. Inchieste e nomine alla procura di Roma, dove bisogna scegliere il nuovo vertice e due aggiunti, agitano magistratura e politica. Ieri sono arrivati nuovi particolari sul fronte giudiziario. Non solo viaggi, soldi e gioielli: l’imprenditore Fabrizio Centofanti avrebbe pagato all’allora consigliere del Csm Palamara anche un cenone di Capodanno a Madonna di Campiglio nel 2014. Ma il magistrato, che era in corsa per il posto di aggiunto a Roma, nel corso degli interrogatori di giovedì e poi di ieri, ha negato ogni addebito: “Non ho mai ricevuto denaro e mai avrei interferito per la nomina del procuratore di Gela o per danneggiare qualche magistrato nei procedimenti disciplinari. Ho chiarito tutto”. Non rinnega però l’amicizia con Centofanti e sui colleghi Fava e Spina, che gli avrebbero rivelato l’esistenza dell’indagine a suo carico, minimizza: “Era diventata una notizia conosciuta a molti”. In particolare, ha spiegato di non avere mai avuto 40mila euro dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore per perorare il nominativo di Giancarlo Longo alla procura di Gela (nomina poi stoppata dal presidente Mattarella). I pm umbri l’accusano anche di aver tramato con Fava per screditare l’aggiunto Paolo Ielo, molto vicino all’allora capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone: “Non avrei mai inteso danneggiare i colleghi del mio ufficio - la replica - e tantomeno Ielo. Sono state riportate frasi delle intercettazioni nelle quali non mi riconosco”. Infine, nelle intercettazioni sono finiti anche due parlamentari, individuati nei dem Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti: “Non posso negare di avere conosciuto esponenti del mondo politico istituzionale - la spiegazione di Palamara. Sono dieci anni che sono a vario titolo coinvolto, sia come presidente Anm sia come consigliere del Csm. Ciò non significa che le discussioni che ci sono state potessero interferire in qualche modo nella scelta dei capi degli Uffici giudiziari. Ci sono stati momenti di confronto solo per questioni attinenti all’interesse della giustizia”. Un’idea di sorteggio per il Csm: è in gioco la libertà di Luciano Violante Il Foglio, 1 giugno 2019 Le correnti della magistratura penalizzano il merito e favoriscono i conflitti. La vicenda relativa alla magistratura romana, fermo il rispetto per le persone che appaiono coinvolte, mette in luce una questione di fondo. Come si designano ai vertici degli uffici giudiziari i magistrati che decidono della nostra reputazione, della nostra libertà e dei nostri beni? Oggi nella grande maggioranza dei casi quelle responsabilità vengono attribuite sulla base di un criterio “politico”. I magistrati eletti al Csm, 16 su 24 (i laici eletti dal Parlamento sono otto), appartengono alle correnti dell’Anm. Queste correnti si comportano come piccoli partiti. Le designazioni agli incarichi direttivi, in gran parte dei casi, vengono effettuate grazie a scambi in base ai quali ciascuna corrente offre il proprio voto a un’altra chiedendo come contropartita che l’altra voti un proprio candidato. Quando si tratta di vertici di uffici importanti, tende a prevalere il merito sull’appartenenza. Ma negli altri casi, la contrattazione è la regola. Non raramente i laici si adeguano a questo criterio ricevendo anch’essi un qualche corrispettivo sotto forma di incarichi attribuiti a magistrati graditi. Le denunce sono state molte, soprattutto dall’interno della stessa magistratura. Ma senza effetto. E non per prava volontà degli eletti. È il meccanismo elettorale che conduce a queste conseguenze. L’eletto risponde alla corrente di appartenenza, che in caso di comportamento “indipendente” dei propri componenti del Csm pagherà il prezzo in termini di calo dei consensi alla elezione successiva e quindi di minore possibilità di collocare i propri iscritti negli incarichi direttivi. C’è un rimedio? La commissione Affari costituzionali della Camera sta esaminando un progetto sulla separazione delle carriere. I Csm sarebbero due, uno per i giudici e l’altro per i magistrati delle procure. I due Csm sarebbero composti per metà (non due terzi) da magistrati e per metà (non un terzo) dai laici. I magistrati sarebbero comunque in maggioranza perché del Csm dei giudici farebbe parte il presidente della Cassazione e del Csm dei magistrati delle procure (che restano indipendenti dal potere politico) farebbe parte il procuratore generale presso la Cassazione. La proposta non prevede l’elezione dei componenti dei due Csm, ma rinvia la determinazione dei criteri di “scelta” a una legge ordinaria, cioè alla volontà della maggioranza politica del momento. Propongo di prendere in considerazione un diverso modello. Si potrebbe stabilire con una legge costituzionale che dopo tre anni (nella mia idea la durata del Csm dovrebbe essere portata dagli attuali quattro a sei anni per dare la possibilità di stabilizzare le prassi e ridurre le pressioni degli elettorati) si sorteggia la metà dei componenti togati e la metà dei componenti laici. I sorteggiati decadono e si ricorre a nuove elezioni. Non si rinnova l’organo, quindi, ma si rinnovano volta per volta i singoli componenti, come per la Corte costituzionale. La pressione delle correnti sarebbe ridotta, perché con il tempo, dovendo essere eletto un solo componente, si azzererebbe il peso delle liste elettorali. Questo sistema avrebbe inoltre il vantaggio di superare la differenza di competenze iniziali tra laici e togati. Oggi i togati sanno tutto del Csm; i laici non sanno nulla e hanno bisogno di circa un anno di lavoro per apprendere i meccanismi reali che presiedono al funzionamento dell’organo di cui fanno parte; ma a quel punto la componente togata ha già preso nelle proprie mani le redini dell’organismo. La proposta all’esame della Camera prevede che sia la legge e cioè la maggioranza parlamentare del momento a stabilire “i casi e i modi” dell’esercizio dell’azione penale. In una democrazia compiuta la politica penale, quali reati perseguire prioritariamente e quali lasciare scivolare verso la prescrizione, rientra nelle responsabilità dell’autorità politica e non nelle responsabilità dei procuratori della Repubblica. Oggi non è così e si tratta di un’anomalia grave. Occorrerebbe utilizzare un decreto legislativo (n.6/2016) che impegna i procuratori generali presso le Corti d’appello a inviare al procuratore generale presso la Cassazione una relazione “almeno annuale” sui criteri di esercizio dell’azione penale nei distretti di Corte d’appello. Il Parlamento dovrebbe acquisire le relazioni tramite il ministro della Giustizia e pronunciarsi su di esse impegnando il ministro a informare i procuratori generali sugli orientamenti espressi dalle Aule. Non c’è vincolo per le procure, ma una moral suasion, che non obbliga ma responsabilizza moralmente. Siracusa: colpito un ictus ischemico in carcere, ricoverato dopo 10 giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2019 Ora è in coma e ancora agli arresti. Un detenuto ha avuto un ictus ischemico in carcere, ma solo dopo dieci giorni sarebbe stato portato in ospedale. A denunciarlo è “Sicilia Risvegli”, un’associazione nazionale di famiglie unite insieme, per lottare in favore dei comatosi, post comatosi, stati vegetativi, con gravissime cerebrolesioni, locked-in syndrome, sla, ed altre estreme disabilità. L’associazione, interpellata dai familiari, si sta occupando, appunto, di questo caso gravissimo che sarebbe avvenuto nel carcere di Siracusa. M. F., 57enne, durante la detenzione è stato colpito da un ictus ischemico il 30 aprile 2019. Dalle informazioni ricevute, pare che, nonostante le gravissime ed estreme condizioni di salute, sia stato portato in ospedale dopo 10 giorni. Il detenuto sarebbe stato tenuto in una cella con un altro detenuto, e in queste condizioni sarebbe caduto dal letto rompendosi un dito. Nella seconda settimana di maggio i familiari hanno avuto notizia che il loro parente non stava bene e lo hanno raggiunto al pronto soccorso di Siracusa, ma qui si sono trovati davanti un agente che non li avrebbe fatti entrare. Da quando è ricoverato, è tenuto in coma farmacologico, una condizione che negli ultimi giorni sarebbe peggiorata. Sul perché di questo ritardo nei soccorsi e sull’inerzia della magistratura competente, l’associazione si sta impegnando affinché vengano fatti gli opportuni accertamenti e verificate eventuali responsabilità. “A tutt’oggi - scrive l’associazione “Sicilia Risvegli” - si sta gravemente pregiudicando e offendendo la dignità di un essere umano, che ancora oggi risulta detenuto nonostante versi in uno stato assolutamente incompatibile con la detenzione”. Nel comunicato aggiunge altri particolari. “In questa situazione - si legge - ci viene negata financo la possibilità di visionare le relazioni cliniche e quindi l’opportunità di attivare cure ed assistenza ad hoc, dato che il primario della rianimazione, asserisce che potrebbe essere trasferito in un centro riabilitativo, oppure in altre strutture simili, addirittura ove fosse possibile per i familiari, anche a domicilio”. L’associazione sottolinea che “le condizioni attuali di M. sono gravissime, si trova in stato vegetativo persistente, con minima risposta, completamente paralizzato, con tracheotomia, peg, catetere vescicale ecc., con respiro autonomo”. Per questo motivo “Sicilia Risvegli” lancia un appello al magistrato di sorveglianza competente, di scarcerare immediatamente, il catanese M. F., attualmente nel limbo, tra la vita e la morte. Sì, perché anche se ora è ricoverato, rimane pur sempre in stato di detenzione, con tutte le restrizioni del caso, visite dei famigliari compresi. Il diritto alla salute è sancito dalla nostra Costituzione ed è valido per tutti, ovviamente anche per le persone ristrette e non può essere compresso dalla pena carceraria. Come non può, come in questo caso ancora da accertare, un detenuto essere lasciato in cella dopo aver contratto una ischemia. E se lo stato di salute è incompatibile con il carcere, il detenuto ha il diritto ad una misura alternativa. Infatti l’ordinamento giuridico predispone essenzialmente due diverse tipologie di strumenti giuridici, idonei, ciascuno in maniera differente, ad accordare tutela alla figura del detenuto che presenta una grave patologia, a maggior ragione se ricoverato in stato comatoso: si tratta del rinvio dell’esecuzione della pena, disciplinato dagli artt. 146 e 147 c. p., e della misura alternativa della detenzione domiciliare. Differenza fondamentale fra gli strumenti giuridici richiamati è quella derivante dal fatto che, mediante il rinvio dell’esecuzione l’ordinamento crea una parentesi temporanea nell’applicazione della pena detentiva, la quale riprenderà ad essere attuata nei confronti del soggetto interessato non appena saranno cessate le condizioni mediche - assistenziali che hanno giustificato la sua postergazione nel tempo. D’altra parte, invece, la detenzione domiciliare costituisce un diverso modus di esecuzione della pena detentiva, modellato in modo tale da risultare il meno afflittivo possibile; le istanze trattamentali connesse alla misura in parola sono estremamente ridotte, l’obbligo imposto al detenuto è fondamentalmente quello di non allontanarsi dal luogo di custodia, e parallelamente nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria rispetto al mantenimento, la cura e l’assistenza medica dello stesso. Tra le misure alternative alla detenzione, il regime domiciliare è quello che prevede la compressione più tenue della libertà personale, in modo tale da garantire lo spazio più ampio possibile alla tutela dei valori fondamentali della salute e delle relazioni familiari, prese in considerazione quali interessi meritevoli di beneficiare di misure di favore. Frosinone: processo a Daniele Cestra, lo Stato citato come responsabile civile retesei.com, 1 giugno 2019 Dinanzi al Gup del Tribunale di Frosinone, Antonello Bracaglia Morante, ha avuto inizio il processo a carico di Daniele Cestra, accusato di una serie di omicidi commessi all’interno del Carcere di Frosinone, dove Cestra si trovava detenuto, tra il 2015 ed il 2016. In particolare secondo l’impianto accusatorio l’imputato, difeso dall’avvocato penalista Angelo Palmieri, si proponeva come “piantone”, ossia come una sorta di badante, a vantaggio di alcuni detenuti, ritenuti non autosufficienti e bisognevoli di aiuto. Ottenuto l’incarico ed il trasferimento nella cella dei predetti detenuti non autosufficienti, il Cestra portava a compimento il suo folle piano omicidiario, soffocando i malcapitati, i quali venivano trovati morti nelle proprie brande. In alcuni casi il Cestra simulava addirittura il suicidio mediante impiccagione dei suoi compagni di cella. Tali “coincidenze” non sono però passate inosservate, tanto che la Procura di Frosinone, con il Sostituto Procuratore Misiti, apriva un fascicolo a carico del predetto accusato di plurimi omicidi aggravati. Veniva disposta anche la riesumazione delle salme il cui esame autoptico veniva affidato alla Dott.ssa Daniela Lucidi la quale confermava, all’esito dell’elaborato peritale, la morte per soffocamento delle persone rinvenute decedute nella cella che dividevano con il Cestra. Tra queste anche il sessantenne B.P., di origini irpine ma da anni trasferitosi in Puglia. B.P. dopo aver trascorso un periodo di detenzione nel carcere di Avellino era stato trasferito nella Casa Circondariale di Frosinone. Quivi iniziava ad avere gravi problemi di salute, in particolare alla vista, divenendo quasi ceco. Per tale ragione gli veniva affidato come compagno di cella proprio il Cestra Daniele. La mattina del 24 Marzo 2015 B.P. veniva trovato, in stato di incoscienza, con un lenzuolo stretto al collo legato ad una estremità alla grata della finestra. Immediati i soccorsi ed il ricovero presso l’ospedale di Frosinone ove B.P., entrato in stato di coma, moriva in data 15 Giugno 2015. Anche per lui la perizia della dott.ssa Lucidi ha confermato la morte come conseguenza del subito soffocamento, escludendo il suicidio mediante impiccagione. Questa mattina il difensore degli eredi di B.P., l’Avvocato Rolando Iorio, nel corso dell’udienza preliminare tenutasi dinanzi al Gup del Tribunale di Frosinone, Dott. Bracaglia Morante, ha chiesto ed ottenuto per i suoi assistiti la citazione in giudizio quale responsabile civile del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria, ritenuti corresponsabili di quanto accaduto. Ciò consentirà ai parenti delle vittime, in caso di condanna del Cestra, quanto meno di ricevere un risarcimento economico da parte dello Stato. L’udienza è stata quindi rinviata al prossimo 13 Settembre 2019 allorquando il Ministero della Giustizia, attraverso l’Avvocatura dello Stato, siederà in aula di fianco all’imputato. Soddisfazione è stata manifestata da parte dell’avvocato dei parenti delle vittime, il penalista Rolando Iorio, il quale ha evidenziato come tali richieste di citazione in giudizio del responsabile civile non sempre vengono accolte Tolmezzo (Ud): la direttrice “ecco la verità sul caso del detenuto e degli idranti” agenpress.it, 1 giugno 2019 In una lettera indirizzata a Gnewsonline, il quotidiano d’informazione del Ministero della Giustizia, Irene Iannucci, direttore della Casa circondariale di Tolmezzo, replica a un articolo uscito nei giorni scorsi sul quotidiano “Il dubbio” nei giorni scorsi dal titolo “Tolmezzo, per un’ora sotto gli idranti e lasciato una notte nella cella allagata” Con riferimento all’articolo “Tolmezzo, per un’ora sotto gli idranti e lasciato una notte nella cella allagata”, pubblicato il 28 maggio scorso a pagina 9 del quotidiano “Il Dubbio”, è doveroso e necessario da parte mia rappresentare quanto segue. In primo luogo, “il cittadino straniero” protagonista dell’episodio richiamato nel pezzo è Saber Hmidi, detenuto per reati di terrorismo internazionale, appartenente al gruppo islamico Ansar Al Sharia, collegato all’Isis e sottoposto da 2 anni e mezzo al regime detentivo di cui all’art. 14 bis per i gravi e reiterati comportamenti posti in essere in vari istituti italiani, dove ha gravemente e seriamente danneggiato sia le camere detentive sia i sistemi tecnici e tecnologici, tanto da essere periodicamente trasferito per evidenti difficoltà nella sua gestione. Per temporanea assegnazione del Dap, il soggetto è giunto in data 1.12.2018 alla Casa circondariale di Tolmezzo e fin da subito ha posto in essere gravi comportamenti disciplinarmente e penalmente rilevanti, per i quali è stato sanzionato e deferito alla Procura della Repubblica e per i quali si è reso necessario prorogare il suddetto regime speciale. Passati i primi giorni e fino alla fine di aprile scorso il detenuto ha mantenuto una condotta relativamente regolare, non incorrendo in alcun comportamento disciplinarmente rilevante: per questo sono state autorizzate delle “aperture” nei suoi confronti, anche in considerazione del periodo di Ramadan, al fine di consentirgli la regolare fruizione del mese di culto. Tuttavia già sul finire di aprile egli riproponeva atteggiamenti disciplinarmente e penalmente rilevanti per i quali veniva nuovamente sanzionato e denunciato all’AG. Atteggiamenti che si sono ripetuti con cadenza quasi quotidiana e che, la sera del 19 maggio scorso, hanno raggiunto livelli particolarmente gravi e pericolosi per la sicurezza dell’Istituto. Nel dettaglio: a seguito della mancata autorizzazione a passare ad altro detenuto il fornelletto (che gli era stato autorizzato esclusivamente nel mese del Ramadan e soltanto per il tempo strettamente necessario alla cena), Hmidi ha iniziato con inaudita violenza a sbattere contro il muro la porta blindata della propria camera, per circa mezz’ora, senza sosta. Tale comportamento gli consentiva di danneggiare la serratura del blindato, staccare il pesantissimo spioncino e usarlo come ariete sulla serratura del cancello, danneggiandola seriamente. Nel contempo iniziava a utilizzare il fornello per scaldare qualcosa di non meglio definito, ma che si ritiene improbabile, visto il ripetuto disordine creato, che avesse a che fare col cibo. In tale situazione non può non apparire evidente - almeno a chi guardi con occhio privo di preconcetti e a chi conosca la quotidianità del carcere - il grave rischio per l’ordine e la sicurezza, oltre che per la incolumità di tutti i presenti, anche perché una eventuale uscita del detenuto dalla camera avrebbe potuto determinare conseguenze altamente pericolose. Altrettanto pericolosa avrebbe potuto risultare l’eventuale manomissione della serratura e l’impossibilità di apertura della camera nel caso si fosse reso necessario intervenire urgentemente, in quanto dall’interno iniziava a provenire un forte odore di gas. Pertanto, ottenute le necessarie autorizzazioni e messo in sicurezza l’ambiente operativo, il personale dopo essersi dotato dei dispositivi di protezione è ricorso all’utilizzo dell’idrante. Dalla visione delle telecamere si evince chiaramente che, diversamente da quanto rappresentato nell’articolo, nel tempo intercorrente tra l’inizio (ore 20:15) e la fine dell’intervento degli agenti (ore 21:45), l’idrante è stato utilizzato soltanto ad intervalli, ciascuno della durata di qualche minuto, per un totale di circa 15 minuti non continuativi. L’intervento si concludeva con la consegna da parte del detenuto di tutti gli oggetti contundenti e pericolosi nella sua disponibilità e soltanto quando si ha avuta la certezza che non vi sarebbero stati ulteriori pericoli. Considerate la violenza reiterata e continuativa del soggetto e la sua pericolosità, non si è potuto procedere all’apertura immediata della camera, la cui serratura era comunque danneggiata; né allo spostamento in altra camera, poiché non vi erano le condizioni minime di sicurezza e neppure un numero adeguato di agenti in servizio per affrontare una nuova emergenza, considerata anche l’imprevedibilità del soggetto. Così si decideva di consegnare al detenuto una maglietta, una maglia pesante e una coperta. La mattina successiva il soggetto veniva momentaneamente spostato in altra stanza, così da consentire al personale della Mof di risistemare la serratura e lo spioncino della camera di pernottamento. Successivamente questi faceva rientro nella propria stanza, dalla quale non ha comunque voluto spostarsi, nonostante gli fosse stato più volte proposto. Tutto ciò considerato, non posso non evidenziare come sia quanto meno semplicistico minimizzare i comportamenti del detenuto, quasi a renderli insignificanti, come riportato nell’articolo. Inoltre, se il giornalista avesse interpellato la Direzione dell’istituto per cercare spiegazioni ufficiali su quanto gli era stato riportato, avrebbe saputo che tutti gli interventi effettuati dal personale, così come le immagini raccolte dalle telecamere, sono stati opportunamente relazionati e prontamente inviati alla Procura della Repubblica competente. Così come avrebbe saputo che lo stesso è stato fatto per l’altro episodio di cui si parla nell’articolo, accaduto nel mese di gennaio e relativo ad altro detenuto. Mi piacerebbe far capire che delegittimare con ricostruzioni incomplete e superficiali l’operato di una istituzione penitenziaria può risultare estremamente pericoloso, soprattutto a fronte delle criticità e difficoltà che ogni giorno, con spirito di abnegazione e senso del dovere, il personale deve affrontare. E specialmente quando, nonostante le circostanze rischiose, devono essere (e lo sono state) garantite tanto la sicurezza, quanto l’incolumità di tutti, personale e detenuti. Irene Iannucci, direttore della Casa circondariale di Tolmezzo Eboli (Sa): il Comune sottoscrive accordo per inclusione sociale dei detenuti di Pasquale Colarieti erottonove.it, 1 giugno 2019 Intesa sottoscritta tra Comune, Icatt e cooperativa Amanuel per attività di formazione e di inclusione sociale dei detenuti. Comune di Eboli, Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze (Icatt) e Cooperativa Amanuel hanno sottoscritto un protocollo d’intesa che punta alla cooperazione in materia di interventi di inclusione sociale ed occupazionale. L’obiettivo è la creazione di un percorso di rieducazione dei detenuti, con la prospettiva di raggiungere l’indipendenza lavorativa e professionale anche grazie alle competenze apprese nel loro percorso formativo. L’intesa è stata sottoscritta alla presenza del capogruppo consiliare Filomena Rosamilia e del presidente di commissione Cosimo Naponiello. “Il Comune di Eboli si impegna a promuovere le attività e le produzioni che nascono nell’Istituto in un’ottica istruttiva e formativa e mirata alla promozione della cittadinanza attiva -, illustra il sindaco, Massimo Cariello -. Un progetto di inclusione importante, per il quale ringrazio la direttrice dell’Icatt, Concetta Felaco, ed il presidente della cooperativa Amanuel, Antonio Vecchio”. La cooperativa Amanuel si occuperà di progettare ed implementare percorsi formativi per l’avviamento dei detenuti al lavoro, anche nel settore della manutenzione delle aree verdi del territorio. “Il progetto offrirà strumenti utili a contrastare disagio sociale e degrado ambientale - spiega Filomena Rosamilia, consigliera comunale delegata - perché il recupero sociale può coesistere con le esigenze strutturali ed organiche di una città moderna”. Tra le attività contemplate rientrano interventi di bonifica, manutenzione, ripristino ed adeguamento di giardini, parchi, sentieri, viali, spiagge e le aree verdi di proprietà del Comune, le aree urbane di interesse storico, gli edifici pubblici e le loro pertinenze. Livorno: diritti dei detenuti, c’è un protocollo d’intesa gazzettadilivorno.it, 1 giugno 2019 A siglarlo Cgil, Casa circondariale e Garante. Tra i servizi previsti la consulenza sui diritti assistenziali e la formazione sul diritto del lavoro. Consulenza sui diritti assistenziali e previdenziali, assistenza fiscale e tributaria, formazione sul diritto del lavoro: questi i servizi a beneficio dei detenuti previsti dal protocollo d’intesa sottoscritto dalla Casa circondariale di Livorno, dalla Cgil provincia di Livorno e dal Garante per i diritti dei detenuti. Il documento è stato sottoscritto alla Casa circondariale Le Sughere dal direttore Carlo Alberto Mazzerbo, da Nicola Triolo (segretario organizzativo Cgil provincia di Livorno) e Giovanni De Peppo (garante per i diritti dei detenuti del Comune di Livorno). Presente al momento della firma anche Stefano Turbati, dipendente della Casa circondariale. “Le parti - si legge nel testo - si impegnano a programmare congiuntamente incontri di informazione e formazione sul diritto del lavoro, attività di consulenza e patrocinio del patronato Inca a tutela dei diritti assistenziali e previdenziali dei detenuti, attività di assistenza fiscale e tributaria a cura del Caaf Cgil e altre attività di consulenza a cura del sistema servizi Cgil e delle singole categorie”. L’obiettivo condiviso è quello di offrire ai detenuti maggiori opportunità di conoscenza e tutela dei propri diritti in ambito lavorativo, assistenziale e previdenziale. Le attività saranno allestite alla casa circondariale di Livorno e alla sezione distaccata di Gorgona. L’intesa sarà rinnovabile di anno in anno a seguito di verifica e valutazione degli obiettivi raggiunti. Le parti esprimono soddisfazione per l’accordo raggiunto: “Un altro passo in avanti per rendere meno distante il mondo del carcere dal territorio. È inoltre sempre più importante che i detenuti siano consapevoli dei loro diritti”. Napoli: “mio figlio pestato in carcere”, genitori di un detenuto dai carabinieri di Ferdinando Bocchetti Il Mattino, 1 giugno 2019 “Pestato brutalmente in carcere dagli agenti della Polizia penitenziaria”. A riferirlo la madre di un detenuto, G.L., residente a Marano e recluso da qualche tempo in un carcere calabrese. L’uomo, secondo quanto riferito dai suoi familiari ai carabinieri di Marano, presso la cui caserma è stata sporta formale denuncia, sarebbe stato minacciato da un compagno di cella, che lo avrebbe invitato ad aggredire una guardia penitenziaria. Al suo rifiuto, il detenuto sarebbe stato aggredito alle spalle dall’altro recluso che avrebbe tentato di soffocarlo. Le guardie penitenziarie sarebbero intervenute, riuscendo ad evitare il peggio. G.L., portato in isolamento, sarebbe stato successivamente aggredito da alcuni agenti che indossavano - secondo quanto riportato nella denuncia - “guanti imbottiti al cui interno vi era qualche oggetto pesante”. La madre del detenuto - che aveva ricevuta una telefonata dal figlio che l’avvertiva dell’accaduto - si è recata ieri presso il carcere calabrese. I familiari di G.L. hanno sporto denuncia ai carabinieri di Marano, sua città di residenza, e scritto ai giudici del tribunale di sorveglianza. “Abbiamo paura per la sua incolumità - dicono i familiari di G.L. - ci ha raccontato di avere persino paura di scendere in cortile”. Piacenza: botte in carcere al detenuto, due agenti a processo di Gianfranco Salvatori Il Piacenza, 1 giugno 2019 Il pm dovrà riformulare il capo di imputazione per l’ex comandante delle Novate e per un ispettore. Prosciolto, invece, un terzo agente della penitenziaria. I tre erano accusati di lesioni nei confronti di un detenuto per violenza sessuale, poi espulso. È stata respinta la richiesta di archiviazione per due dei tre poliziotti della polizia penitenziaria accusati di aver malmenato un detenuto marocchino che, nel 2016, aveva denunciato di aver subito violenza da parte del personale della casa circondariale piacentina. Il pm Emilio Pisante - che aveva chiesto l’archiviazione per tutti e tre - avrà una decina di giorni per riformulare il capo di imputazione. I tre erano stati indagati con l’ipotesi di lesioni aggravate. Il giudice per l’udienza preliminare, Luca Milani, ha rigettato due delle tre richieste del pm Pisante. E così si aprono ora le porte del giudizio per l’ex comandante della polizia penitenziaria, difeso dall’avvocato Fabio Giarda (Foro di Milano) e un ispettore, assistito dall’avvocato Mauro Pontini. L’altro agente era difeso dall’avvocato Carlo Bordi. L’avvocato del marocchino Rachid Assarag (oggi in Marocco dopo essere stato espulso perché ritenuto vicino ad ambienti del radicalismo islamico), Fabio Anselmo (Foro di Ferrara) aveva sostenuto che a dimostrare il pestaggio in cella c’erano le immagini delle telecamere di videosorveglianza. Inoltre, per la difesa l’espulsione era avvenuto perché l’uomo aveva finito di scontare la pena. I difensori dei poliziotti, al contrario, avevano negato il fatto perché quel detenuto - trasferito 13 volte in varie carceri a causa del suo carattere non facile - non era del tutto “trasparente”. Pontini, nella scorsa udienza aveva ricordato come l’immigrato fosse fuggito contromano in auto dalla polizia che lo inseguiva, avesse provocato un incidente e minacciato i poliziotti con un rasoio. Senza contare che l’immigrato stava scontando una pena di 9 anni e 4 mesi per violenza sessuale nei confronti di due ragazze, nel 2008. Inoltre, secondo i difensori, gli agenti sarebbero intervenuti - tutt’al più con percosse - per evitare danni più gravi al personale e allo stesso detenuto. Assarag, nel 2014, aveva denunciato alcuni agenti del carcere di Parma, ma nel 2016 il gip aveva archiviato le loro posizioni. Assarag, sposato con una donna italiana, aveva denunciato alcuni poliziotti del carcere di Parma, dopo aver registrato alcune loro frasi, grazie a un registratore nascosto e poi consegnato alla moglie. Milano: il Consiglio comunale dice no al taser per la polizia locale di Francesco Rigatelli La Stampa, 1 giugno 2019 Voto in controtendenza rispetto alla decisione del governo per polizia e carabinieri. Il Consiglio comunale dice no al taser per i vigili urbani. L’ordine del giorno approvato a larga maggioranza giovedì a Milano chiede alla giunta Sala di “non dotare il corpo di polizia locale con impulsi elettrici”. Secondo Milano progressista, il gruppo che ha proposto l’idea i taser sono “particolarmente pericolosi, specie nei confronti dei soggetti più vulnerabili, e lesivi dei diritti fondamentali della persona”. Sempre nel documento si legge che l’utilizzo della pistola elettrica “distrarrebbe la polizia locale dai compiti che le sono propri e senza l’assolvimento dei quali la vivibilità delle città risulterebbe fortemente compromessa”. Durante la votazione erano presenti in aula 27 consiglieri ed il testo è stato approvato con 22 voti positivi, contrari solo Lega e Forza Italia, mentre il M5s si è astenuto. Nel documento viene stigmatizzato l’utilizzo del taser per la polizia locale, mentre dal 2018 questo strumento viene adottato in via sperimentale da carabinieri e polizia di stato ed entro l’estate farà parte della loro normale dotazione. Va aggiunto che la giunta non ha mai provato a introdurre il taser per la polizia locale, mentre sta sperimentando l’uso dello spray al peperoncino. Sulla vicenda è poi intervenuto anche il ministro dell’Interno Salvini: “Nella fase sperimentale il taser ha dato ottimi risultati e nessuna controindicazione. Spiace questa mancanza di fiducia e di tutela nei confronti della polizia municipale: è un regalo a criminali e sbandati. E non capisco l’astensione del Movimento 5 Stelle, che pure ha contribuito ad approvare il decreto sicurezza. Il centrosinistra pensa di fare un torto al sottoscritto, ma danneggia Milano”. Napoli: “noi, figli di detenuti napoletani rinati grazie al calcio” di Davide Cerbone Il Mattino, 1 giugno 2019 Dopo tante sconfitte, una vittoria. Scampia, quartiere-ghetto a Nord di Napoli elevato suo malgrado a paradigma di tutte le Gomorra possibili, in un pomeriggio di maggio finalmente esulta. Lo fa con i suoi figli più giovani: i calciatori dell’under 18 dell’Oratorio Don Guanella, che sabato scorso hanno conquistato il titolo regionale. Figli di una Napoli minore, sgarrupata e maltrattata: quella della povertà e dell’illegalità, in cui il disagio ambientale si intreccia con quello familiare. A dispetto di questa partenza ad handicap, i piccoli uomini di Scampia, correndo più forte di tutti, quel marchio d’infamia, almeno sul campo, l’hanno cancellato. E hanno scoperto che quella frase un po’ ad effetto letta nel Vangelo della domenica può diventare realtà. Che gli “ultimi”, come ripete da vent’anni il loro prete-presidente don Aniello Manganiello, qualche volta possono davvero diventare i primi. Così, sui loro volti di giovani adulti, spunta un sorriso. Lo stesso che don Aniello ha sciolto nelle lacrime. Per una volta, è il confessore a confessare: “Non mi vergogno a dire che mi sono commosso, come i miei collaboratori, con i quali nel 1994 abbiamo fondato la squadra”. Fu lui, ormai vent’anni fa, a difendere dall’arroganza dei camorristi il polveroso rettangolo sul quale, intorno a un pallone, era nata una scommessa: far migrare i ragazzi dagli stradoni anonimi epicentro dello spaccio in quel campo ricavato sotto un ponte che, come un confine, divide la città da un purgatorio chiamato Scampia. “Alcuni delinquenti si erano allacciati abusivamente al nostro contatore dell’acqua, mi arrivavano bollette da 4 milioni di lire. Li denunciai e vennero a minacciarmi”, ricorda don Aniello. All’ombra del ponte del Don Guanella si ritrovano oltre 250 tra bambini e ragazzi dai 5 anni in su. “Abbiamo 13 squadre, compresa la prima, che gioca in Promozione. Chiediamo una quota minima: 11 euro al mese. Chi non può permettersi neanche quella, si iscrive gratis”, risponde il presidente con il clergyman, che è viceparroco a Ferentino ma non hai mai reciso il suo legame con Scampia. E racconta con passione di una piccola, grande impresa che ha scelto come sponsor due icone della fede e dell’identità: Gesù e le Vele, entrambi portati sulle magliette con fierezza. “Sulle divise dell’under 18 e della prima squadra c’è l’immagine di un bambino che gioca a calcio sullo sfondo di una Vela, mentre su quelle dei più piccoli è stampato il titolo del libro di don Aniello, le cui vendite finanziano l’attività sportiva: “Gesù è più forte della camorra”. Ma ci sono anche aziende e privati che ci aiutano ad andare avanti”, riferisce Gennaro Granato, direttore della Scuola calcio, prima di sgranare un rosario di amarezza e misericordia. “In ogni squadra abbiamo almeno due o tre giocatori che hanno i papà in carcere, quasi tutti per traffico e spaccio di stupefacenti. Ma tanti di questi padri carcerati ci chiedono di insegnare delle regole ai loro figli. E nel Don Guanella, col permesso del giudice, giocano anche ragazzi agli arresti domiciliari. Noi ci mettiamo il nostro, ma il pezzo più grande lo deve fare la famiglia”, sottolinea Granato. “C’era un ragazzo che sin da piccolo aveva commesso degli errori: ha pagato il suo conto con la legge ed è stato in affidamento qui. Ora è uno dei nostri allenatori ed ha aperto una pizzeria”. “Sono le vittorie più belle”, commenta don Aniello, spiegando che la chiave sta in una regola semplice: “Dobbiamo fare le cose che piacciono ai ragazzi, per insegnare loro il rispetto delle regole e degli avversari, la legalità, soprattutto l’autocontrollo e l’importanza dello studio, della cultura, dell’impegno”. Il risultato è un trionfo dell’inclusione: dai calci del Don Guanella, infatti, non passa soltanto la lotta alla sottocultura criminale, ma anche quella al razzismo. “Con l’under 18 si allena dall’inizio della stagione un immigrato africano arrivato con uno dei tanti barconi della speranza. Anche se per motivi burocratici non ha potuto firmare il tesserino, è diventato parte del gruppo”. Nella squadra campione regionale, allenata da Raffaele Giannoccoli, non mancano le promesse: “Ciro Capasso - dice Granato - è attaccante nella Spal under 16 e Edoardo Colonna, attaccante di 15 anni, gioca con la Paganese, mentre alcuni under 18 hanno già esordito nella nostra prima squadra: il portiere Umberto Campanile, 17 anni, Antonio Spina, attaccante, Danilo Giuditta, difensore e il terzino Michele Arianiello, che a 18 anni è al secondo campionato di Promozione. Il nostro obiettivo è farli diventare uomini onesti e liberi. Se poi diventano anche calciatori, ben venga”. Napoli: chiude la palestra di Oliva, salvava i bimbi dalla strada di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 1 giugno 2019 Scompare la Fulgor. Il campione olimpico di boxe: “Tristezza infinita”. Lo sport napoletano ha alcuni posti che ne hanno fatto la storia. Il San Paolo lo conoscono tutti, e molti ricordano che ai tempi di Diego Armando Maradona in certe partite l’esultanza del pubblico faceva alterare i diagrammi dei sismografi. Oggi non più, ma almeno lo stadio è lì e la speranza del terzo scudetto si rinnova a ogni stagione. Altri luoghi simbolo, invece, hanno fatto una brutta fine: la Sala d’Armi del Collana, dove sono cresciute generazioni di schermidori olimpionici, non esiste più, e solo l’impegno personale del pluri-medagliato Sandro Cuomo consente di mantenere vivo il nome di una scuola tra le più importanti non solo d’Italia. L’ippodromo di Agnano continua a riproporre ogni anno il Gran Premio Lotteria, ma ormai è un appuntamento per pochi intimi, e magari mancasse soltanto la mondanità d’un tempo: sono i grandi nomi dell’ippica che non ci sono più. La Capri-Napoli è una nuotata che non raduna più nessuno sul lungomare ad aspettare l’arrivo degli immancabili vincitori egiziani, e dello stadio Albricci che vide i trionfi rugbistici della Partenope di Elio Fusco, i più giovani non sanno nemmeno l’esistenza. Cinquant’anni di storia - Restava forse un solo posto dove ancora ci si poteva illudere che il tempo dello sport non fosse passato. Dove il rumore dei pugni sul sacco, gli impulsi sonori del timer segnatempo, il sibilo cadenzato della corda che ruota nell’aria, erano rimasti uguali da sempre. E soprattutto erano rimasti: c’erano ogni giorno. Da oggi non ci sono più. La Fulgor, la palestra dove maestri di boxe e di lealtà come Geppino Silvestri e Antonio D’Alessandro hanno insegnato a tirare a Patrizio Oliva e Ciro De Leva e Salvatore Bottiglieri è costretta a smantellare. La sede di via Goethe, a due passi da piazza Municipio, dove la società era approdata dopo aver lasciato gli antichi locali di via Roma, abbassa la saracinesca. Il titolare, Gennaro Carbonara, rimasto da solo a tenere in piedi l’attività dopo che gli altri soci hanno via via gettato la spugna, vuole a tutti i costi ricominciare altrove, trovare altri spazi dove rimontare sacchi e ring, e non buttare all’aria cinquant’anni di storia. Magari ci riuscirà, ma comunque la Fulgor non sarà più la palestra del centro di Napoli, quella dove i bambini dei Quartieri spagnoli potevano andare a fare sport senza dover pagare, e imparare che i pugni si tirano solo su un quadrato, e mai per strada. I conti - Ne sono passati tantissimi per quella palestra. E si sono innamorati del pugilato o degli altri sport da combattimento che qui sono arrivati quando ancora nessuno li conosceva, come la muay thai, portata dal maestro Decio Pasqua. Ci è tornato Patrizio Oliva ad allenare (“È una tristezza infinita sapere che quella palestra non ci sarà più”, dice ora), e ci sono passati anche attori di serie girate a Napoli, venuti con gli stunt coordinator per imparare movimenti da eseguire poi sul set. Ma niente è bastato per tenere in piedi una struttura dove il fitness, quello delle schede pettorali-glutei-addominali, rappresentava l’unica e obbligata fonte di guadagno per poter allenare gratuitamente gli agonisti della boxe e per pagare il mutuo concesso dal Credito Sportivo per l’acquisto dei locali, e gli stipendi ai tecnici. Ma a trenta metri esatti dalla Fulgor da quattro anni c’è una palestra di quelle appartenenti a una catena internazionale. È ospitata al primo piano di un albergo tra i più centrali di Napoli, e ci si può iscrivere pagando 20 euro al mese. Tutti quelli che andavano a via Goethe solo per tenersi in forma si sono spostati rapidamente e alla Fulgor i conti non sono più tornati. “Noi facciamo tutto in regola”, dice Carbonara. “L’ho segnalato a tutti: vigili urbani, Vigili del fuoco, Comune, Asl, ma nessuno ha mai mosso un dito. È soltanto per questo che siamo costretti ad andarcene”. Catanzaro: concluso corso per barman rivolto ai detenuti lametino.it, 1 giugno 2019 “Il reinserimento sociale e lavorativo passa anche dall’acquisizione di nuove abilità: anche imparare a preparare i cocktail può essere una strada”. Così Angela Paravati, direttrice del carcere di Catanzaro, ha commentato l’evento conclusivo del corso per barman, svoltosi oggi nell’istituto. L’attività di formazione è stata organizzata dall’associazione Universo Minori, presieduta dall’avvocato Rita Tulelli, che da tempo collabora con l’istituto con iniziative trattamentali e culturali, coinvolgendo molti reclusi con ottimi risultati. L’iniziativa nello specifico è stata rivolta ai detenuti del circuito media sicurezza. Luigi Mellace ha insegnato a circa 30 detenuti ricette per cocktail e tanti segreti per l’attività di barman. Sono stati consegnati gli attestati di frequenza, spendibili sul mercato del lavoro, soprattutto in considerazione del fatto che il settore ricettivo e di ristorazione è quello in cui è più facile trovare occupazione in una regione a vocazione turistica come la Calabria. “Le attività scolastiche e di formazione professionale svolte all’interno di un istituto di pena - ha detto ancora la direttrice Angela Paravati - non possono prescindere dal contesto territoriale in cui quell’istituto è inserito, perché il carcere, se inteso come servizio sociale, deve mirare soprattutto a prevenire la recidiva”. “Le persone detenute - ha proseguito - devono tornare nella società libera con competenze diverse da quelle possedute al momento dell’ingresso in carcere, in modo che sia più facile per loro svolgere un’attività onesta, e avere un’alternativa. La delinquenza è spesso legata alla mancanza di opportunità lavorative: creare un circolo virtuoso secondo cui la pena non è solo afflittiva, ma è anche una forma di rinnovamento interiore, vuol dire dare la possibilità in carcere di studiare e di imparare un lavoro. Possibilmente deve essere un lavoro di cui ci sia richiesta, in modo tale che queste persone, una volta uscite, possano avere un reddito onesto e ricominciare” Larino (Cb): “Voci dentro”, magazine radiofonico di Tgr Rai con protagonisti i detenuti agensir.it, 1 giugno 2019 Con la rubrica “Voci dentro… voice inside” parte il magazine radiofonico di Tgr Rai Molise in collaborazione con Ucsi Molise, Dap - Ministero della Giustizia, Istituti penitenziari del Molise e Consorzio Libere Imprese e Artainment Worldwide shows. A partire da oggi, sabato 1° giugno, e fino a sabato 6 luglio, appuntamento alle ore 12.10, sulle frequenze di Tgr radio, in ascolto dei detenuti della Casa circondariale e reclusione di Larino, in provincia di Campobasso. Dopo l’iniziativa “Liberi nell’Arte”, in occasione del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani, Ucsi Molise propone ora un protocollo d’intesa con Tgr Molise e Dap Ministero della Giustizia per una iniziativa di comunicazione sociale rivolta al mondo della detenzione. Il progetto, un ciclo di puntate radiofoniche dedicate alla realtà carceraria del Molise, offre uno spazio fatto di interviste e storie alla radio con protagonisti i detenuti della casa circondariale di Larino che partecipano quotidianamente ad attività culturali e artistiche volte alla rieducazione della pena. Grazie alla sinergia con la direttrice Rosa La Ginestra e l’area educativa e trattamentale, i reclusi parleranno ai microfoni di Tgr radio esprimendo le emozioni attraverso il racconto del proprio percorso culturale e artistico intramurario. “Per questo - osserva la direttrice La Ginestra - riteniamo utile attivare un protocollo di intesa al fine di realizzare una iniziativa culturale, mediatica e sociale che attraverso le “onde” della radio possa portare voce e ascolto laddove la libertà fisica è delimitata dentro la cella di un carcere”. “Le carceri diventano così autentiche redazioni radiofoniche - dichiara il caporedattore di Tgr Giancarlo Fiume - nelle quali si attua quel momento di convergenza e di ascolto delle diverse voci che animano il carcere, delle situazioni di difficoltà, di fragilità, di marginalità che toccano soprattutto i giovani”. “I linguaggi in tutte le sue forme espressive e la multimedialità orientano alla bellezza, forza motrice per la costruzione di una società dal volto più umano. L’espressività che rigenera trova la sua dimensione concreta nella promozione dell’arte e della cultura, in tutte le sue forme e in tutti i luoghi, in special modo laddove la sofferenza è vissuta nel corpo, nel disagio sociale, nella restrizione della libertà”, commenta la presidente di Ucsi Molise, Rita D’Addona. Fossano (Cn): l’arte di giovani e detenuti per raccontare le attese alla stazione ferroviaria di Agata Pagani targatocn.it, 1 giugno 2019 Le opere sono state allestite nella sala d’attesa della stazione in linea con il tema della mostra. Che cos’è l’attesa? Ognuno può darne una definizione diversa: c’è l’attesa del passeggero che intraprende un viaggio, quella del giovane che non vede l’ora di diventare adulto, quella del detenuto che conta i giorni che lo separano alla libertà in un misto di senso di aspettativa e timore per quello che il reintegro nella società può significare. Ecco che l’attesa diventa un sentimento comune tra alcuni detenuti del carcere di Fossano e un gruppo di giovani del movimento dei Focolari che si sono incontrati, hanno portato avanti un laboratorio artistico e realizzato delle opere che raccontano il punto di vista di ciascuno sull’attesa. Quale luogo migliore della sala d’aspetto della stazione ferroviaria, dunque, per allestire una mostra permanente che racconti al passeggero le diverse declinazioni date all’attesa. “Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa” si legge nelle parole di Jules Renard sul pannello esplicativo della mostra ed ecco che al passeggero viene offerto l’invito ad ascoltare le proprie sensazioni nel tempo trascorso ad aspettare. Gli artisti sono citati in rigoroso ordine sparso, solo i nomi, nessun cognome, nessuna distinzione tra il ragazzo effervescente e l’uomo navigato dietro le sbarre. Sono Massimo, Salvatore, Annunziato, Michael, Clerim, Matteo, Antonio, Ion, Antonello, Gianluca, Gianni, Diego, Gioele, Gabriele, Samuele, Daniele, Marco, Giorgio, Matteo, Mattia, Leonardo, Andrea, Federico, Gabriele, Luca, Cristina, Chiara, Beatrice ed Enrico. L’idea è partita dai ragazzi del Movimento dei Focolari che avevano l’idea di portare nel mondo la fraternità tramite azioni concrete e hanno offerto le loro abilità al laboratorio di disegno condotto dalla volontaria Beatrice. Lavorando insieme, tra risate e macchie di vernice, legno, chiodi e sapone si sono creati legami di amicizia, si sono sciolti pregiudizi e si è scoperto che ciascuno aveva qualcosa da offrire. Siena: mostra dagli allievi-detenuti del laboratorio permanente di pittura e ceramica sienanews.it, 1 giugno 2019 Al via la mostra, con percorsi anche per non vedenti. Comunicazioni visive e tattili. “Siena vista dai detenuti del carcere di Santo Spirito”: sarà inaugurata domani, sabato 1 giugno alle 11, nella galleria Cesare Olmastroni di Palazzo Patrizi, la nuova mostra prodotta dagli allievi del laboratorio permanente di pittura e ceramica, della casa circondariale. Le opere raffigurano la città di Siena e sono realizzate con materiali di scarto e sono fruibili, grazie alla loro sofisticata tecnica di esecuzione, anche da un pubblico di non vedenti. A tale scopo, esse sono corredate da didascalie anche in linguaggio braille: l’Unione italiana ciechi di Siena ha fornito in tal senso una preziosa collaborazione ai curatori della mostra e principalmente a Monica Minucci, l’operatrice volontaria che collabora stabilmente con la direzione della casa circondariale nella gestione del laboratorio artistico. Capofila del progetto, culminato nella mostra, è l’Auser comunale che, in partenariato con la direzione del carcere, è risultato tra i soggetti vincitori del bando di concorso che il Comune ha emanato per la partecipazione al festival “Siena città aperta ai giovani”. È proprio in questo contesto che si colloca l’esposizione curata dai detenuti del carcere di Santo Spirito. L’allestimento della mostra sarà arricchito da fotografie e filmati ritraenti le testimonianze degli autori delle opere e la descrizione di esse; gli effetti sonori che accompagnano le immagini guideranno i visitatori, specie quelli non vedenti, in un vero e proprio viaggio sensoriale. La mostra resterà aperta al pubblico fino al 15 giugno. Teramo: a Castrogno rappresentazioni finali dei laboratori di teatro e canto corale emmelle.it, 1 giugno 2019 Protagonisti i detenuti che hanno frequentato i corsi tenuti dal Centro Provinciale per l’Istruzione degli adulti. Oggi, nel teatro del carcere di Castrogno i detenuti protagonisti dei laboratori di teatro e canto corale metteranno in scena le loro rappresentazioni. Si tratta dei saggi finali dei corsi tenuti dal Centro Provinciale per l’Istruzione degli adulti per i detenuti interessati. I laboratori, della durata di 30 ore ciascuno, hanno costituito l’attuazione del progetto “Rientri in Formazione”, elaborato dal Cpia della Provincia Teramo nell’ambito del Piano Operativo Nazionale - Fondo Strutturale Europeo 2014-2020 “Percorsi per adulti e giovani adulti”, finalizzato al potenziamento delle competenze delle adulte e degli adulti iscritti ai Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, comprese le sedi carcerarie. Il progetto ha permesso, utilizzando le potenzialità del Fondo Strutturale Europeo, di fornire percorsi di qualità per l’ampliamento e l’arricchimento dell’offerta formativa, condotti da esperti con comprovate esperienze e competenze nei contenuti dei laboratori, coadiuvati da tutor d’aula in possesso, anch’essi, di specifiche conoscenze sugli stessi. Su Radio Radicale i grillini rischiano l’isolamento di Antonio Pitoni La Notizia, 1 giugno 2019 La prossima settimana si discutono in Aula cinque mozioni delle opposizioni. E anche la Lega vuole salvare l’emittente. Cinque mozioni per salvare Radio Radicale. Dal Pd a Forza Italia, dalla Svp a Fratelli d’Italia. Senza contare quella della sinistra, a prima firma Loredana De Petris, che ha raccolto persino l’adesione delle grilline dissidenti, Elena Fattori e Paola Nugnes. E, come se non bastasse, è arrivata anche la netta presa di posizione di Matteo Salvini: “Chiudere una testata giornalistica con un emendamento dalla sera alla mattina mi sembra sciocco. Almeno diamo del tempo”, ha tagliato corto il leader della Lega in una recente intervista al direttore dell’emittente, Alessio Falconio. Insomma, un fronte larghissimo con un obiettivo comune: impegnare il Governo a reperire le risorse necessarie per il rinnovo della convenzione tra il ministero dello Sviluppo economico e la prima radio italiana dedicata esclusivamente dalla politica che svolge, a tutti gli effetti, un servizio pubblico. E ora sul destino di Radio Radicale, i 5 Stelle rischiano di ritrovarsi isolati quando, la prossima settimana il Senato discuterà le mozioni (il termine per presentarle scade martedì) per il salvataggio dell’emittente. Voci in dissenso. Il sottosegretario all’Editoria, Vito Crimi, ha confermato che la convenzione non sarà rinnovata. Nonostante autorevoli esponenti M5S non condividano la sua posizione. “Ritengo che Radio Radicale sia stata, negli anni, presente ovunque. Ha fatto un lavoro straordinario, non sono d’accordo a togliere il finanziamento”, ha detto, per esempio, il senatore Alberto Airola, proprio ai microfoni dell’emittente. “Auspico che si trovi una soluzione che impedisca la chiusura di Radio Radicale. Il lavoro di servizio pubblico che ha svolto è patrimonio comune del Paese”, si è accodato il deputato ed ex direttore di SkyTg24, Emilio Carelli. “Qui non stiamo parlando di finanziamenti all’editoria ma di prorogare una convenzione per assolvere un servizio pubblico essenziale. Visto che la Rai, con il suo canale istituzionale, sarà pronta solo tra alcuni mesi, Radio Radicale è la sola in questo momento che può garantire questo servizio e deve continuare a farlo finché la Rai non sarà pronta ad assicurare il fondamentale diritto dei cittadini ad essere informati”, ha aggiunto il vice presidente della Vigilanza Rai, Primo Di Nicola. D’altra parte, con i suoi 285 impianti contro i 120 dichiarati (80 più 40 di rinforzo) dalla Rai, Radio Radicale assicura in questo momento la più capillare copertura nazionale. Resta un fatto, vista anche la posizione assunta dalla Lega, che per i Cinque Stelle la questione rischia di diventare esplosiva. Fonti parlamentari M5S interpellate da La Notizia, spiegano che “Crimi sta lavorando ad un testo (una mozione, ndr) da sottoporre alla maggioranza finalizzato ad individuare modalità per salvaguardare gli archivi e che sia altresì garantito dal concessionario di servizio pubblico un servizio analogo a quello previsto dalla convenzione scaduta”. Cosa che, però, il servizio pubblico (la Rai) non sarebbe in grado di garantire da subito. Prima delle Europee, il ministro Luigi Di Maio aveva assicurato che da lunedì scorso si sarebbe occupato della questione. Il risultato elettorale lo ha costretto a concentrarsi su altro. La Notizia ha provato a contattate il suo staff al Mise per capire se, nei prossimi giorni, siano previste iniziative. Ma senza ricevere risposta. Il giornalismo tra informazione, dati personali e potere La Repubblica, 1 giugno 2019 Al via la quinta edizione del Dig Festival. Diffusione delle informazioni e questioni personali. Privacy e tecnologia. Il potere come detenzione e utilizzo dei dati personali dei cittadini. Sono questi gli snodi della contemporaneità che la quinta edizione del Dig Festival - si parte oggi a Riccione e si va Avanti fino a domenica - si promette di indagare. Al festival del giornalismo investigativo, che quest’anno ha scelto come titolo “Personal Matters”, saranno presentate videoinchieste e lavori multimediali che arrivano da più parti del mondo. Ecco gli appuntamenti dei prossimi giorni da non perdere per chi vuole approfondire - o semplicemente essere messo al corrente - delle opacità che il giornalismo d’inchiesta internazionale cerca di svelare. Sabato 1° giugno. La giornata inizia con il sorriso amaro de Il Terzo Segreto di Satira. Che anticiperà la presentazione del lavoro di Disclose, progetto di inchieste dal basso nato in Francia: una redazione finanziata dai lettori che ha svelato l’uso di armi francesi nella Guerra dello Yemen. Tra i protagonisti di sabato anche Elio Germano con La mia battaglia, un monologo tratto dal Mein Kampf di Hitler che si propone di mostrare come il pericolo del totalitarismo sia sempre a un passo da noi. Alle 21 e 30 uno dei momenti principali del Festival con l’intervista pubblica a Naomi Klein. L’attivista e intellettuale Americana racconterà il passaggio dal “No Logo” al “New Green Deal”. A seguire il concerto di Thurston Moore, ex Sonic Youth, e del cantautore italiano Giorgio Poi. Ancora sabato la premiazione dei vincitori nelle sette categorie del Festival Domenica 2 giugno. L’ultimo giorno del Festival sarà all’insegna delle proiezioni. Si parte con The Cleaners. Quello che I social non dicono con la presentazione di Philip Di Salvo (Wired) e Jillian York (Electronic Frontier Foundation). Seguiranno: Se potessi tornare. Donne in fuga dal crimine: la storia di una testimone di giustizia che si è ribellata alla ‘ndrangheta della Locride rompendo il patto con la famiglia mafiosa di appartenenza nonostante le difficoltà e i pericoli. Ancora: Myanmar’s Killing Fields: attivisti sotto copertura che per cinque anni hanno rischiato la vita pur di filmare le violenze delle autorità del Myanmar. Poi Elalab: Zé wants to know why, la storia della lotta degli abitanti di Elab, Guinea-Bissau, contro l’innalzamento dei mari. Infine Soyalism mostra come la filiera della produzione di cibo sia sempre più nelle mani di una ristretta oligarchia di aziende che controlla il destino di milioni di vite umane. La politica raccontata dalla cannabis di Antonio Polito Corriere della Sera, 1 giugno 2019 Se si volessero studiare le ragioni profonde del successo di Salvini (oltre i social, oltre la Nutella) si potrebbe usare come caso di scuola la storia della cannabis light. Alla notizia della sentenza della Cassazione che la proibisce si sono avuti infatti tre tipi di reazioni da parte delle forze politiche: evviva, mannaggia, non so. L’evviva è di Salvini (e della destra tutta, da Meloni a Gasparri). Il Capitano ha detto: “Sono contro la droga, e per il divertimento sano” (forse si riferiva alle case chiuse che propone di riaprire). Salvini ha dunque immediatamente iscritto una questione politica in un quadro valoriale, incorniciandola in un’idea della vita. Ha dato una dimensione etico-morale a un problema giuridico-amministrativo. Seguendo, non so quanto consapevolmente, la lezione del linguista americano Lakoff, ha costruito un “frame”, una cornice, usando la parola chiave che tutti capiscono e che costringe tutti a schierarsi: droga. In questo modo, e anche al di là della effettiva rilevanza della sentenza sul più generale dibattito in corso in tutto l’Occidente tra proibizionisti e liberalizzatori, ha evocato una scelta di campo. Prendiamo invece la reazione del Pd, e anche di una parte “liberista” del mondo radicale. Invece di affrontare il tema etico, che sarebbe stato divisivo e avrebbe imposto una scelta (sì o no alle sostanze ricreative?), la risposta è stata di “mercato”. La sentenza non va bene perché fa chiudere 800 negozi e rovina gli investimenti di chi coltiva l’erba. E questa la reazione che definisco “mannaggia”. Non “abbasso” la sentenza perché siamo a favore della libertà di scelta degli adulti, che sarebbe stata la posizione etico-morale speculare e opposta a quella di Salvini. Ma un mugugno su un aspetto collaterale, perché non riguarda il consumo ma la produzione. Infine c’è il “non so” dei Cinque Stelle. Incerti se essere proibizionisti o permissivisti, volendo chiudere i negozi alla domenica con il ministro Di Maio e liberalizzare la marijuana con la ministra Grillo (si aprirebbe peraltro il problema di dove comprarla nel giorno del Signore), hanno preferito non esprimersi. Di fronte a una scelta che richiede una visione del mondo, non essendo né di destra né di sinistra, hanno chiuso gli occhi. All’appello manca anche Berlusconi. In passato il Cavaliere aveva costruito una sua originale posizione liberal-tradizionalista, la zia suora e le cene eleganti, no all’eutanasia e sì alle unioni gay. Sotto la sua tenda poteva trovare ricetto un certo ceto medio italiano, pragmatico e possibilista sui diritti individuali, moderno ma non progressista. Una posizione gaudente ma “con juicio”, tipicamente da moderati: non ce n’è più traccia. Questo ventaglio di reazioni spiega il vantaggio competitivo di cui dispone oggi Salvini: esprime una sua idea della vita. A questo serve la riscoperta della devozione popolare, del rosario e di Padre Pio, o del cibo trash da contrapporre simbolicamente alle tartine (che anche Renzi, almeno all’inizio, faceva mostra di disprezzare). Per questo esibisce fastidio per i vincoli dell’ambientalismo e del giudiziario. Su ogni tema sceglie il suo angolo e combatte. Gli altri vagano per il ring indecisi su dove collocarsi. Può piacervi o ripugnarvi, irritarvi o entusiasmarvi, ma dovete farci per forza i conti. E non importa se il tema divide, anzi. Probabilmente la sua idea sulla cannabis light non rappresenta la maggioranza degli italiani, ma a lui basta coagulare una forte minoranza, contribuendo a costruirne l’identità. La democrazia dell’opinione, in cui si combatte ogni giorno la battaglia del consenso, questo richiede. Gli altri stanno indietro non perché non abbiano sufficienti apparati di comunicazione, o abbastanza minutaggio nei tg, ma perché non si ricordano più da dove vengono, e non sanno ancora dove vanno. Cannabis: vietare aumenta le dipendenze di Maurizio Montanari Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2019 Salvini cavalca tendenze proibizioniste, però liberalizzare la vendita abbassa la domanda e non fa arricchire le mafie La mossa di Salvini, chiedere la chiusura dei negozi che vendono cannabis light, giovedì avvalorata dal pronunciamento della Cassazione, obbedisce a un duplice scopo. Da un lato sposta l’attenzione oltre la siepe per distogliere l’attenzione dalle buche nel giardino vuote di reali proposte politiche nel merito. Al contempo gli permette di mettere in pratica una politica che alimenta e cavalca ondate neo-proibizioniste con venature religiose le quali hanno facile presa su di una nazione mai realmente liberata da dogmi confessionali (si pensi alla vicenda Englaro). Salvini sa di governare un Paese nel quale, anche nelle città amministrate dalla sinistra, è assai in voga il lessico proibente: vietare, limitare, nascondere, ridimensionare qualcosa di “illecito” e perturbante la morale perché segretamente oggetto delle brame dei cittadini stessi. Dal gioco d’azzardo alla droga, sino alla prostituzione. Il Carroccio, messo dapprima culturalmente in scacco dall’alleato pentastellato che ha pensato e prodotto, forse in maniera imperfetta, diverse azioni legislative laiche e prive di pruderie madonnare, si prende la sua rivincita giocando le carte migliori che possiede: non bere, non giocare, non ti drogare, non ingrassare, non fumare, non fare il bullo. Prega. Salvini, come già Renzi, però non sa, o finge di non sapere, che il lessico politico mescolato con quello clinico porta sovente a risultati non felici. L’uso della legge per vietare un comportamento ritenuto dal senso comune “dannoso” ma gratificante per il soggetto, quello che si definisce godimento, ottiene l’effetto di renderlo più allettante. Lo psicoanalista Francois Leguil dice: “Proprio perché fa male al suo corpo berrà di più, ed è ciò che ha di umano. E lì che i medici si sbagliano: ciò che l’uomo ha di umano sono i suoi eccessi, il modo in cui nuoce alla salute”. Chi si occupa di clinica, ha ben chiara una cosa: nessuna dipendenza, quando è così legata alla contemporaneità, può essere contrastata ex lege, andando alla ricerca di chi ne “istiga” lo sviluppo favorendo la vendita di sostanze psicotrope, ancorché depotenziate come nel caso della cannabis light. Anzi, venderla dal tabaccaio era forse uno dei pochi tentativi di erodere i colossali guadagni che la malavita fattura grazie al monopolio delle sostanze psicotrope. Un governo che si erge a “buon padre di famiglia” avrebbe dovuto intravedere in queste piccole crepe del proibizionismo quel pertugio da allargare per poter strappare alle mafie qualche spicciolo dei loro guadagni. Ma ci sono altre regioni da espugnare nei prossimi mesi. Cannabis. Le associazioni: “la sentenza delle Cassazione non vieta la vendita” Il Manifesto, 1 giugno 2019 Ci mancavano solo le ronde proibizioniste che vanno in giro a vedere se i cannabis shop adesso abbassano le saracinesche oppure no. A proporle è stato ieri Maurizio Gasparri sull’onda della sentenza della Cassazione che giovedì ha dichiarato illegale la commercializzazione dei prodotti derivati dalla cannabis sativa. “Ho cominciato a segnalare all’autorità di polizia e all’autorità giudiziaria tutti i cannabis shop che continuano ad aprire nonostante la sentenza della Cassazione” ha detto il senatore di Forza Italia annunciando di voler costituire “comitati in tutte le città per denunciare tutte le situazioni illegali”. Resta da vedere se i comitati sognati da Gasparri vedranno mai la luce. Più probabile, per ora, che le eventuali denunce difficilmente avranno conseguenze, almeno finché non si conosceranno le motivazioni della sentenza. Quel che invece è certo è che un settore che gode di ottima salute e che fino a 48 ore fa poteva guardare al futuro adesso rischia improvvisamente la paralisi. Parliamo di qualcosa come 800 negozi in tutta Italia, quasi 4.000 ettari di terreno coltivati nel 2018 da centinaia di aziende agricole senza contare 15 mila posti di lavoro e un fatturato che, sempre nel 2018, si è attestato sui 150 milioni di euro. Un mondo che non produce solo “droga”, come vorrebbe la fantasia proibizionista guidata dal ministro Salvini (che ieri non ha escluso ispezioni nei negozi), ma che dalla cannabis negli anni è stato capace di ricavare eco-mattoni isolanti, bioplastiche, olii antiinfiammatori, cosmetici e prodotti alimentari, dalla ricotta al tofu, dalla farina a una bevanda vegana, alla birra. Come sanno bene le associazioni di categoria preoccupate per una lettura esclusivamente restrittiva della sentenza. “Da anni la soglia di efficacia drogante del principio Thc è stata fissata nello 0.5%. Pertanto non può considerarsi reato vendere prodotti derivati dalle coltivazioni di canapa industriale con livelli di Thc sotto quei limiti” spiega non a caso Ferdercanapa, convinta che la sentenza non determini la chiusura generalizzata dei negozi. “Ci auguriamo che anche le forze dell’ordine si attengano a questa distinzione tra canapa industriale e droga”. Prudenza anche da parte di Confagricoltura e Cia, mentre c’è anche chi, come un commerciante di Sanremo, sta pensando di organizzare un class action. “Bisogna leggere bene le motivazioni della sentenza, ma è chiaro che c’è una parte di mondo economico che sta cercando lavorare nella legalità”, ragione invece il sindaco di Milano Giuseppe Sala. Sulla sentenza è intervenuto anche Vasco Rossi: “È una vergogna. Con la cannabis non è mai morto nessuno”, ha detto i cantante a margine della presentazione dei suoi concerti a Milano. Cannabis, la rivolta dei negozianti: “pronti a fare una class action” di Margherita De Bac Corriere della Sera, 1 giugno 2019 Tutto a posto e niente in ordine dopo la sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione sulla vendita di prodotti a base di cannabis light. In attesa di conoscere le motivazioni, restano in sospeso alcuni dubbi interpretativi delle leggi esistenti. Non tutti sono stati diradati. Gli ottocento negozi aperti in tutta Italia dovrebbero essere chiusi se commerciano foglie, infiorescenze, olio e resina ottenute dalla pianta di Canapa Sativa, la cosiddetta light? Oppure tutto è legato all’“effetto drogante” al quale i giudici accennano facendo presuppone che debba essere fatta distinzione tra caso e caso? È certo che la faccenda non finisce qui. Dal punto di vista normativo la situazione resta indefinita. E ci sono forti reazioni. Il titolare di uno shop di Sanremo ha proposto una class action contro la decisione della Corte di annoverare tra i reati perseguibili penalmente la commercializzazione di prodotti a base di cannabis leggera. “Ho chiuso la pizzeria per avviare questa nuova attività, ci vorrebbero mettere sul lastrico dall’oggi al domani e senza colla. Come mettere al bando bevande analcoliche per combattere l’alcol”, si sfoga a nome dei colleghi Gioel Magini, del Cannabis Amsterdam Store. A Milano i titolari dei negozi stanno organizzando una grande manifestazione in piazza. A favore della stretta, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti: “Sono contrario all’uso di droghe quindi anche alla commercializzazione, sono contento di questa sentenza”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini conferma la linea dura, espressa anche in una esplicita direttiva ministeriale: “C’è una sentenza e le sentenze di solito si rispettano. Ero e resto convinto che la droga fa male”. Il questore di Macerata Antonio Pignataro, che ha lanciato una campagna di controlli su questo tipo di attività trovando diverse irregolarità, chiarisce: “I negozi non chiuderanno ma non dovranno vendere inflorescenze, oli, resine e foglie”. Secondo Federcanapa, l’associazione delle aziende agricole per la coltivazione delle piante di Sativa, lavorata come materia prima di prodotti industriali, “la sentenza non determina la chiusura generalizzata”. E fa riferimento alla frase scritta dai giudici: “Salvo che i prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. Che cosa intendono? La cannabis light contiene concentrazioni molto basse di tetraidrocannabinolo, il Thc, sostanza psicoattiva. L’effetto drogante del Thc non è stato stabilito per legge anche perché dipende anche da fattori individuali del consumatore. I prodotti con cannabis light venduti negli shop appositi sono stati analizzati dall’Istituto Superiore di Sanità che hanno rilevato percentuali molto basse, inferiori allo 0,2%. Al contrario sono state trovate alte concentrazioni di cannabidiolo che non è uno stupefacente, ma un miorilassante, capace cioè di indurre uno stato di calma, alleviare il dolore e anche favorire il sonno. Pur non avendo un “potere drogante”, si tratta di una sostanza che secondo i farmacologi espone a rischi il consumatore non attento a utilizzarla. Paolo Poli, presidente della Società italiana di ricerca sulla cannabis, vede confermata la linea da sempre sostenuta: “La cannabis light non esiste. È una truffa, un prodotto creato ad hoc per attirare i giovani e i meno giovani. Se ne può fare un uso industriale ma non umano, e questo sui barattoli di erbe triturate non viene precisato”. Stati Uniti. Trump minaccia il Messico: “dazi al 25% se non fermate l’immigrazione” La Stampa, 1 giugno 2019 Donald Trump si gioca l’arma dei dazi per fermare l’immigrazione illegale dal Messico. Il presidente americano annuncia a sorpresa che a partire dal 10 giugno saranno imposte tariffe del 5% sul “Made in Messico” importato negli Usa: le tariffe - avverte Trump - “saliranno gradualmente” fino a raggiungere il 25% in ottobre se il Messico non agirà per risolvere bloccare il flusso di immigrati illegali. Dal 5% di giugno i dazi saliranno al 10% in luglio, al 15% in agosto, al 20% in settembre e al 25% in ottobre. “Resteranno permanentemente al 25% fino a che e a meno che il Messico non fermerà il flusso di immigrati” e aiuterà a risolvere la crisi al confine fra i due paesi, spiega Trump. L’annuncio arriva come una doccia fredda sul Messico: “Non sapevamo, non era atteso” dice il vice ministro messicano per il Nord America, Jesus Seade. “Non vogliamo una guerra commerciale con gli Stati Uniti” aggiunge Seade, precisando che non ci saranno ritorsioni “fino a quando” la misura non sarà stata attentamente esaminata. L’annuncio del presidente americano ha come effetto immediato quello di far crollare il peso messicano, che arriva a perdere fino al 2,3%. I dazi sull’immigrazione sono un tema completamente separato da quello commerciale, spiega il capo dello staffa ad interim della Casa Bianca, Mick Mulvaney, mettendo in evidenza che il Congresso era stato informato in precedenza. “Ci auguriamo di non arrivare al 25%” aggiunge. L’affondo di Trump rischia comunque di complicare il braccio di ferro avviato con il Congresso sull’accordo di libero scambio con il Canada e il Messico, il Nafta 2.0. La Casa Bianca ha forzato la mano e avviato la procedura per l’approvazione nonostante lo scetticismo dei deputati democratici. L’amministrazione ha inviato infatti una lettera ai leader del Congresso, il cosiddetto Statement of Administrative Action che consente alla Casa Bianca di inviare al Congresso l’accordo commerciale entro 30 giorni. Trump punta all’approvazione dell’accordo entro l’estate ma il Congresso sta temporeggiando. E i dazi annunciati sull’immigrazione, tema già controverso e di scontro con i democratici, rischia di complicare la partita. Intanto è fallito il tentativo dell’amministrazione di iniziare i lavori di costruzione del muro al confine con il Messico a El Paso, in Texas, e a Yuma, in Arizona. Il giudice federale Haywood Gilliam ha respinto la richiesta dell’amministrazione Trump di sospendere l’ordine che vieta alla Casa Bianca di trasferire fondi dal Dipartimento della Difesa per avviare la costruzione del muro nelle due aree identificate. Gilliam la scorsa settimana ha emesso un’ingiunzione preliminare per bloccare il trasferimento dei fondi da usare per i lavori. Cina. Arresti e censure, così il regime cancella il ricordo di Tienanmen di Filippo Santelli La Repubblica, 1 giugno 2019 Arresti e censure: così in Cina il regime cancella il ricordo di Tienanmen. In vista dell’anniversario della strage il 4 giugno, attivisti e testimoni vengono tenuti ai domiciliari o spediti lontano da Pechino, gli eventi pubblici vietati, i controlli rafforzati. Con un’attenzione ossessiva alla Rete: anche l’intelligenza artificiale usata per cancellare la storia. Se le più avanzate app cinesi ci mettono la bellezza di una settimana per aggiornare i loro sistemi, qualche sospetto viene. Se lo fanno tutte insieme, i sospetti crescono. E se lo fanno proprio a cavallo del 4 giugno, la data innominabile per il Partito comunista cinese, il giorno del 1989 in cui i suoi leader mandarono l’esercito a sparare sulla folla di Piazza Tienanmen, i sospetti toccano il massimo. Nelle ultime ore alcune delle maggiori piattaforme cinesi di streaming, a cominciare da Bilibili, 100 milioni di utenti, passando per YY, Huya e Douyu, hanno annunciato che a causa di un aggiornamento alcune delle loro funzioni non saranno disponibili fino al 6 giugno, guarda caso. Nessun nuovo utente potrà registrarsi, nessuno potrà cambiare la propria foto profilo e nessuno potrà postare i danmu, i commenti in tempo reale che appaiono sotto ai video, registrati oppure trasmessi in diretta. Ovviamente, nessuna delle piattaforme coinvolte commenta. Ma il sospetto è che questa sia l’ultima frontiera del buco nero informativo creato dal governo cinese attorno alla strage di Tiananmen. Un vortice da cui quest’anno, trentesimo delicatissimo anniversario, non deve scappare neppure una scintilla di verità. Così insieme alle “consuete” misure di sicurezza, attivisti e testimoni della strage come le “madri di Tiananmen” tenuti agli arresti domiciliari o spediti in “vacanza” lontano da Pechino, eventi pubblici vietati, controlli di polizia rafforzati, le autorità sembrano dedicare una attenzione ossessiva alla Rete. In parte stringendo le maglie della grande muraglia digitale, come è stato fatto con le versioni non cinesi di Wikipedia, rese inaccessibili già da aprile. In parte spingendo le stesse piattaforme ad auto censurarsi, come impongono le nuove e più stringenti regole sulla sicurezza informatica volute da Xi Jinping. Infine affidandosi a un esercito di censori in carne e ossa, che per l’occasione viene rafforzato di effettivi. Il controllo del discorso online non è certo una novità. Nel 2012 l’ultra zelante polizia del pensiero arrivò perfino a bloccare ogni riferimento alla Borsa di Shanghai, che aveva chiuso al ribasso di 64.89 punti, casuale riferimento alla data della strage. Il vero passo in avanti però, raccontano fonti del mondo tecnologico cinese a Reuters, è nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale al servizio della cancellazione della storia. L’eliminazione dei contenuti sensibili ormai è affidata soprattutto ad algoritmi di apprendimento lessicale o riconoscimento delle immagini, che li bloccano prima ancora che vengano pubblicati e possano fare danni. E poco importa se è solo la foto della Piazza fatta da un turista, meglio sbagliare per eccesso. Pur non essendoci statistiche ufficiali, Human Rights Watch denuncia che quest’anno anche il controllo sugli attivisti è più stretto. L’organizzazione per i diritti umani ha compilato un elenco di persone che sono state messe agli arresti in casa, sorvegliate a vista, come due delle “madri di Tienanmen” che hanno perso i figli durante la repressione, entrambe 80enni, oppure mandati a prendere aria lontano dalla capitale, come l’attivista Hu Jia. Pure nei campus universitari il Partito ha silenziato per tempo tutte le voci dissonanti. Almeno due decine di studenti dell’associazione marxista dell’Università di Pechino, la stessa Beida dove le proteste del 1989 sono nate, sono stati arrestati, rimandati nei loro villaggi di origine oppure detenuti in luoghi segreti. La capillarità e l’estensione di questa cortina di oblio sono un riflesso diretto della svolta autoritaria imposta al Paese da Xi Jinping, ma anche del momento delicatissimo che sta vivendo la Cina, con l’economia in frenata e la disputa con gli Stati Uniti ancora lontana da una soluzione. Gli attivisti e i vecchi leader della protesta, molti dei quali vivono all’estero, chiedono al Partito di riconoscere la strage e punire i responsabili. A trent’anni di distanza però per i cinesi di Cina il 4 giugno è solo una data come le altre. “Non sono d’accordo con l’uso della parola repressione”, ha detto ieri in conferenza stampa un portavoce del ministero della Difesa, a un giornalista che gli chiedeva se l’esercito avrebbe in qualche modo ricordato quello che qui è archiviato come un “incidente”. “Negli ultimi 30 anni, il corso delle riforme cinesi, lo sviluppo e la stabilità, i successi che abbiamo ottenuto hanno già risposto a questa domanda”. Colombia. Dal carcere al Parlamento, la pace riparte da Jesús Santrich di Claudia Fanti Il Manifesto, 1 giugno 2019 Sollievo tra le file della Fuerza alternativa revolucionaria del común. In qualità di deputato l’ex leader guerrigliero delle Farc deve essere giudicato dalla Corte suprema. Ordinata l’immediata scarcerazione. Dopo l’ultima volta, in cui la sua libertà era durata appena due minuti, stavolta è vero. È tornato in libertà l’ex leader delle Farc Jesús Santrich, arrestato nell’aprile del 2018 con l’accusa di aver partecipato, dopo la firma dell’accordo di pace, a un’operazione diretta a introdurre negli Usa 10 tonnellate di cocaina. Già il 17 maggio Seuxis Hernández, il vero nome di Santrich, era stato scarcerato per ordine della Jep (la Giurisdizione speciale per la pace istituita per giudicare i responsabili di crimini commessi durante il conflitto armato), la quale, dopo un lungo braccio di ferro istituzionale, aveva infine respinto la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti. Ma allora la sua libertà era durata appena 2 minuti: appena all’uscita dal carcere La Picota, agenti del Cti, il Corpo tecnico di investigazione della Procura generale colombiana, lo avevano di nuovo arrestato, sulla base di presunte nuove prove ai suoi danni. A sbloccare il caso, definito dai difensori del processo di pace una montatura giudiziaria finalizzata a minare l’accordo con le Farc, era stata, martedì, la sentenza con cui il Consiglio di stato ha ratificato l’investitura parlamentare di Santrich (che dovrà ora occupare uno dei dieci seggi garantiti al neonato partito Farc dall’accordo di pace). E poiché, in qualità di deputato, l’ex leader guerrigliero gode di un foro privilegiato presso la Corte suprema, è quest’ultima istanza che è diventata competente a giudicarlo, come pure a ordinarne, in attesa del processo, l’immediata scarcerazione. “Sono io il più interessato al fatto che il processo abbia luogo, in maniera da dimostrare la mia innocenza”, ha assicurato Santrich prima ancora di lasciare il carcere e di abbandonarsi all’abbraccio dei suoi compagni di partito. Fortissimo è stato il sollievo all’interno della Fuerza alternativa revolucionaria del común, i cui membri avevano reagito duramente al nuovo arresto del leader non vedente, denunciando l’ennesima pugnalata da parte dello stato al processo di pace. Si era rifatto sentire anche il numero 2 delle Farc Iván Márquez, rientrato in clandestinità pur senza rinnegare l’accordo di pace, definendo in una lettera “un errore grave aver consegnato le armi a uno stato traditore confidando nella sua buona fede”. Un atto di autocritica che aveva rivelato una preoccupante spaccatura all’interno del partito, il cui leader, Rodrigo Londoño (Timochenko), aveva risposto a muso duro a Márquez, accusandolo di compromettere “l’autorità morale” della Farc e rinfacciandogli di aver rinunciato al suo seggio in parlamento nel momento in cui ce n’era più necessità: “Non possiamo rischiare di perdere quanto ottenuto fino a oggi, per quanto complesso sia il compito che ci sta di fronte”. E sembra pensarla così anche Santrich: “Il mio scopo - ha detto - è lottare, anche dal Congresso, per la pace in Colombia. Non mi preoccupa altro”.