La Corte di Strasburgo boccia l’ergastolo ostativo in Italia di Davide Galliani Il Manifesto, 19 giugno 2019 La sentenza Viola v. Italia n. 2, emessa il 13 giugno 2019 dalla Corte europea dei diritti umani, condanna il nostro paese poiché non permette al giudice di valutare altro rispetto alla non collaborazione con la giustizia. In Italia dei 1.700 ergastolani, 1.200 sono ostativi. Per il 75% degli ergastolani italiani la liberazione condizionale è un istituto che rimane “sulla carta”, sanno che esiste, ma non la otterranno mai. Questo perché tutti i benefici penitenziari, per le persone condannate per uno dei reati ricompresi nell’articolo 4bis dell’ord. pen., possono essere concessi solo a fronte di una utile collaborazione con la giustizia. Sei un ergastolano ostativo? Collabora, il gioco è fatto. Vero, ma anche no. Esiste la libertà morale di non barattare la propria libertà personale con quella altrui, magari un fratello. Esiste il diritto al silenzio, un diritto inviolabile della persona, che non può evaporare solo perché il processo di cognizione è finito. Esiste la paura, vale a dire il rischio per la vita e la incolumità di chi collabora e dei propri famigliari, iniziando dai figli. E va detto che esiste anche uno Stato, il nostro, che non prende sul serio il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia. A detta del procuratore nazionale antimafia, è da ripensare completamente: scarse risorse finanziarie e di personale, cambio di identità concesso di rado, abbandono del collaboratore e dei famigliari, scarsa vigilanza e controllo. Del resto, una domanda ragionevole, che germoglia dalla comune esperienza: cosa può garantire che una persona che ha collaborato, in realtà, non lo abbia fatto per tornare a delinquere, per vendicarsi, per mero calcolo processuale? In questo scenario, non certo inaspettata, è giunta, il 13 giugno 2019, la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte europea dei diritti umani. Due, tra i tanti, gli aspetti da evidenziare. Il merito. La disciplina italiana dell’ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Convenzione, poiché non permette al giudice di valutare altro rispetto alla non collaborazione con la giustizia. Se la persona ha intrapreso, nel corso della detenzione, un percorso positivo - anche grazie ai direttori di carcere, alla polizia penitenziaria, agli educatori, alla famiglia - il giudice non ne può tenere conto, poiché ciò che conta è solo che, potendolo fare, non ha collaborato. Nel metodo. La sentenza Viola è quasi-pilota: dato che nelle condizioni di Viola si contano 1.200 ergastolani, la Corte, che potrebbe ricevere ricorsi da tutte queste persone, decide di indicare allo Stato le misure generali da prendere. Il problema è strutturale, si deve intervenire verso tutti, preferibilmente con una riforma legislativa. Ma, ovvio, non è l’unica possibilità, tanto è vero che la Corte stessa richiama la questione di costituzionalità pendente alla Consulta, in attesa di essere discussa il 22 ottobre 2019. Due ulteriori notazioni. La sentenza Viola diverrà definitiva il 13 settembre 2019, fino allora il governo può chiedere il rinvio alla Grande Camera. Dubito che, se chiesto, sarà accettato, il percorso giurisprudenziale della Corte, su questa importante questione, è lineare. Per quanto riguarda il caso all’attenzione della Consulta, non resta che attendere, speranzosi. Riguarda il permesso premio e non la liberazione condizionale, tuttavia la sentenza Viola potrà aiutare (non poco) i giudici costituzionali nell’estendere la (eventuale) incostituzionalità, ricomprendendo il permesso premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. La Costituzione, appunto. L’impegno affinché rappresenti uno scudo per i diritti dei detenuti non si arresta mai. Si pensi alla decadenza dalla responsabilità genitoriale per gli ergastolani, alla eliminazione anche nel penale del ricorso personale in Cassazione, alla quadruplicazione dei reati contenuti nel regime ostativo, ora applicabile anche ai minori. Sono esempi. Che vanno affrontati seguendo l’insegnamento di Umberto Veronesi. È come fosse ieri quando diceva che “la forza della democrazia è non avere paura”. Gherardo Colombo: “Aboliamo l’ergastolo, è incompatibile con la Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 19 giugno 2019 “Abolire l’ergastolo. Perché non è in sintonia con la Costituzione”. La pensa così l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, il quale non solo condivide la sentenza della Cedu che boccia il “fine pena mai”, ma anche il giudizio che su Repubblica ne ha dato Luigi Manconi. Siamo in Italia. Terra di mafia e terrorismo. Di gravissimi omicidi, anche contro donne e bambini. La pena definitiva non è un deterrente? “Guardi, alla deterrenza non credo per nulla. I mafiosi sanno che esiste il 41bis oltre all’ergastolo. Forse questo li trattiene? Chi ammazza la moglie sa che esiste il codice penale? Certo che lo sa, ma il fatto di andare in prigione non lo ferma. Addirittura può succedere che prima commetta il delitto e poi vada a costituirsi”. Lei ammorbidirebbe l’ergastolo a chi ha fatto saltare in aria Falcone? “Distinguiamo. Io abolirei del tutto ergastolo. Seguendo l’esempio di altri paesi che di certo non sono lassisti o non si preoccupano della sicurezza pubblica. La Norvegia per esempio. Breivik uccide 77 persone e viene condannato a 21 anni. La pena è quella. Dovesse essere ancora pericoloso, la pericolosità ancora attuale, e non il reato commesso, impedirebbe la scarcerazione”. Ammetterà che un ergastolo ammorbidito va nella direzione garantista. Mentre non è giustizialismo chiedere che una pena per un reato molto grave sia scontata fino in fondo… “Se posso, qui non si tratta di giustizialismo, ma di retribuzionismo. Retribuisco il male che hai fatto con altrettanto male. Ma questo non ha nulla a che fare con la prevenzione, con il recupero delle persone, ma solo con la fede secondo cui è giusto rispondere al male moltiplicandolo. Ciò non ha nulla a che vedere con le esigenze di sicurezza. È solo fine a se stesso”. Condivide la tesi di Manconi? “Certo”. E anche la sentenza della Cedu? “Da tempo sostengo l’incoerenza dell’ergastolo con la Costituzione. Il professor Andrea Pugiotto ha fatto un gran lavoro, mettendo a confronto ergastolo e Costituzione. Il “fine pena mai” è incoerente rispetto all’articolo 3, in quanto tutte le persone sono degne perché sono esseri umani, non per le loro azioni. Contrasta con l’articolo 27, per cui le pene non devono essere contrarie al senso di umanità (e la sottrazione della speranza è contraria al senso di umanità), ma tendere alla rieducazione del condannato. L’articolo 13 dedicato alla libertà personale afferma che è punita qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica verso persone la cui libertà sia limitata. Per la Costituzione la speranza non può essere cancellata”. Quindi l’ergastolo è incostituzionale? “A mio parere sì. La Costituzione va letta come sistema, e il sistema non consente una pena che privi della libertà fino alla morte”. Diplomati in carcere: la maturità si fa anche dietro le sbarre di Massimo Corcione open.online, 19 giugno 2019 L’anno scorso erano 700 quelli che finita la prima prova sono tornati in cella. È il giorno della prima prova dell’esame di maturità. Dopo il tema non si parla tanto, non ci sono risultati da confrontare. Si commentano le tracce, si sonda chi ha scelto la stessa, poi a casa a pranzo, a prepararsi per la seconda prova. Circa 700 dei 520mila studenti che affrontano la maturità quest’anno, dopo aver consegnato i fogli protocollo, torneranno invece a ripassare in cella. È stato così per Dehzi, detenuto cinese che ha sostenuto l’esame di maturità nel carcere di Avellino. Dopo aver ottenuto il diploma di geometra, questo ragazzo di 34 anni ha chiesto il trasferimento per studiare ingegneria al carcere di Pisa. “Alla maturità ero tranquillo perché era uscita topografia, una materia in cui ero forte”, racconta a Open Dehzi, “In prima prova ho preso 15/15, ho anche fatto copiare tutti gli altri”. Già, anche in carcere si copia. G., un ragazzo albanese, era invece agitatissimo il giorno del primo scritto, al punto da valutare di non dare l’esame. Lì è intervenuta una guardia penitenziaria, che dopo aver fatto leva sulle sue responsabilità nei confronti di chi l’aveva accompagnato lungo tutto il percorso, si è giocato l’ultima carta: “Ma con tutto quello che hai combinato nella vita, hai paura di un esame?” Alla fine era andato bene, racconta una sua ex professoressa, era stato promosso a pieni voti. Così come S., che con un tema su Pirandello si era guadagnato i complimenti della commissione, che seppur composta per una parte di docenti interni, non regala nulla. Le opere dello scrittore novecentesco sono care a molti detenuti, spiega a Open Daniela Conviti, che lavora da anni come docente in carcere, “perché pongono l’esistenza di un’altra verità, soggettiva, psicologica, alternativa a quella storica”. Un altro tema su cui portano spesso le tesine è l’Antigone, la tragedia di Sofocle che tratta del rapporto tra legge e giustizia. Anche se nella nuova maturità le tesine non esistono più. L’istruzione è stata riconosciuta come elemento essenziale del trattamento penitenziario nel 1975, con l’articolo 15 della legge numero 354. Ai commi terzo e quarto viene inserita anche la possibilità di istituire scuole di istruzione secondaria di secondo grado. In questo articolo viene garantito anche l’accesso agli studi universitari. L’ex sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi aveva difeso l’istruzione in carcere affermando che contribuisce “ad abbattere la recidiva fino all’80% e aiuta il reinserimento. Chi impara un mestiere durante la detenzione, raramente torna a delinquere una volta tornato libero”. Dati raccolti dall’associazione Antigone mostrano che su 87 carceri, solo quattro si sono rivelati privi di spazi esclusivamente dedicati a scuola e alla formazione. Il numero di iscritti varia secondo le diverse regioni italiane. Al primo posto troviamo la Lombardia, in cui il 36,7% dei detenuti sono iscritti a corsi scolastici, seguita dalla Calabria (35%) e dal Lazio (25,7%). In coda alla classifica troviamo invece Valle d’Aosta (9,4%), Campania (5,5%) ultimo il Molise (4,3%). La maturità, un traguardo per pochi - Sono però pochi quelli che portano a termine il percorso, spiega a Open Conviti, che lavora nel carcere Don Bosco di Pisa. Due studenti su dieci tra coloro che intraprendono gli studi di secondo grado li portano a termine, stima la professoressa. Se l’istruzione rappresenta un’opportunità di riscatto nonché una via da percorrere per sfruttare il tempo passato in reclusione, è difficile che il percorso venga portato a termine. “I detenuti si rendono conto che su di loro pesa uno stigma, che devono sperare di trovare che qualcuno gli dia una possibilità lavorativa” racconta Conviti, “e questo porta tanti a desistere”. La stima del ministero della Giustizia è ancora più pessimista di quella della professoressa: durante l’anno scolastico 2017/2018 si erano iscritti 4.904 detenuti al biennio ma soltanto 502 si sono diplomati, circa 1 su 10. Questa statistica è dovuta anche alla difficoltà nel fare progressi: “Il carcere è un luogo molto rumoroso, è difficile trovare lo spazio mentale e fisico per studiare”, spiega Conviti. Difficoltà che si protraggono anche negli studi superiori. “Ero l’unico in carcere che studiava ingegneria, e non potendo uscire, quando non capivo una cosa non potevo chiedere aiuto a nessun compagno”, racconta Dehzi, “dovevo aspettare che tornasse il mio tutor”. M., che voleva studiare veterinaria, ha dovuto scegliere. Al 31 dicembre 2018, secondo il ministero della Giustizia, erano 302 gli iscritti a un corso universitario. Tanti però, tra quelli che portano a termine le scuole superiori, chiedono di continuare l’apprendimento tramite corsi monografici e approfondimenti. La professoressa Conviti ci racconta che se la maturità permette di emanciparsi, ottenerla non è per tutti liberatorio. “L’ultimo giorno di esami spesso ci chiedono: “Ora non ci abbandonate però vero?”“ Insieme per le carceri: firmato un Protocollo d’intesa tra Dap e Sant’Egidio santegidio.org, 19 giugno 2019 “Consentire l’accesso negli istituti penitenziari a volontari e mediatori interculturali, che aiutino i detenuti a mantenere legami significativi con le comunità di appartenenza e a vivere la libertà religiosa” e “favorire l’ingresso di indumenti e altri generi di prima necessità destinati ai reclusi indigenti”. È l’oggetto del protocollo d’intesa firmato ieri dal capo del Dap, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini e dal segretario generale della Comunità di Sant’Egidio, Cesare Zucconi. “La realizzazione di azioni sui temi della rieducazione, del sostegno e dell’assistenza a detenuti, sia in ambito carcerario sia nel percorso di reinserimento successivo alla detenzione, potrà continuare ad avvalersi del contributo, ora regolato e strutturato, degli operatori della Comunità di Sant’Egidio”, grazie all’accordo che “segna l’avvio di un rapporto di collaborazione per individuare e realizzare azioni congiunte in favore della popolazione detenuta, anche promuovendo l’attuazione di buone prassi e azioni di sistema”. L’accordo, dalla durata triennale, consentirà ai tanti volontari della Comunità di Sant’Egidio di “effettuare colloqui personali e attività di sostegno, realizzare iniziative culturali e interreligiose, facilitare contatti con le imprese che intendano assumere personale fra i detenuti, nonché con enti di formazione per avviare programmi che forniscano ai detenuti titoli professionali riconosciuti”. Inoltre, la Comunità di Sant’Egidio promuoverà “momenti di riflessione e di approfondimento culturale anche con il personale della Polizia Penitenziaria e con quello amministrativo sui temi della convivenza, della pace e dell’integrazione”. Giustizia: dalle indagini ai paletti per la stampa, Lega e M5S distanti di Dino Martirano Corriere della Sera, 19 giugno 2019 Dopo il Consiglio dei ministri, faccia a faccia sui temi della giustizia a Palazzo Chigi per stabilire i criteri da adottare nel progetto di riforma. Si vedranno a tarda sera, dopo il consiglio dei ministri, anche se l’ordine del giorno è molto complesso dopo mesi di inerzia in cui la questione giustizia è stata relegata dal governo tra le varie e le eventuali. Così - dopo aver accettato, su pressione dei grillini, il congelamento della prescrizione già all’esito del primo grado e la legge Spazzacorrotti (che, tra l’altro, incentiva l’uso invasivo del trojan, l’applicazione che trasforma uno smartphone in un microfono sempre acceso) - la Lega riprende in mano i dossier sulla riforma della giustizia. I punti all’ordine del giorno del vertice in calendario per stasera - non è chiaro se al tavolo oltre al premier Conte, ai vice Salvini e Di Maio, ai ministri Bonafede e Bongiorno, ci saranno anche i capigruppo e i responsabili Giustizia dei due partiti - possono essere riassunti in tre filoni: 1) limiti temporali per le indagini preliminari (con sanzioni per i magistrati lenti) e accelerazione dei tempi del processo per compensare il congelamento della prescrizione dopo il primo grado (che andrà a regime il 31 dicembre; 2) divieto di pubblicare intercettazioni il cui contenuto è penalmente irrilevante; 3) riforma elettorale del Csm per evitare che le correnti piazzino, con il bilancino proporzionale, i magistrati scelti a tavolino sulle 16 poltrone riservate ai togati nel plenum del Csm. Tutto questo verrà discusso a tarda sera e c’è da scommettere che le distanze tra Lega e Cinque Stelle riguardino soprattutto i tempi delle indagini e il perimetro entro il quale è lecito pubblicare un’intercettazione, magari con le parole carpite a un terzo non indagato, che ha un “interesse pubblico” ma nessun profilo penale. Il Guardasigilli Bonafede (M5S) ha convocato per venerdì un tavolo al ministero con l’Ordine nazionale dei giornalisti per discutere sulla “disciplina della pubblicazione e della diffusione delle intercettazioni”. La Lega, con il ministro Giulia Bongiorno, ha già chiarito che l’unica strada è quella di prevedere una sanzione seria per chi sgarra. Per decidere c’è tempo fino al 31 dicembre, data in cui scade la proroga (rinnovata con il decreto sicurezza bis) della riforma Orlando che regola la materia. Governo bloccato sulla giustizia, rischia di saltare il vertice Il Manifesto, 19 giugno 2019 Conte: non sono sicuro che oggi riuscirò a incontrare il ministro Bonafede. Intanto parte un altro tavolo, sulle intercettazioni. Sulla giustizia un nuovo tavolo viene convocato mentre quello più atteso rischia di saltare. Il ministro della giustizia Bonafede chiama a raccolta a via Arenula giornalisti e avvocati per discutere di riforma delle intercettazioni, una convocazione attesa da esattamente un anno dopo che nel giugno scorso il nuovo governo decise di far saltare la riforma delle intercettazioni messa a punto dal guardasigilli Orlando. È un primo appuntamento, si fa sapere. L’intenzione di mostrarsi pronti a partire non può far ombra alla montagna che c’è da scalare. Soprattutto perché in tema di intercettazioni le posizioni tra i contraenti di governo restano distanti. A spalleggiare la linea restrittiva della Lega, poi, si presenta Forza Italia che giusto oggi presenterà alla camera una sua proposta di legge per impedire gli ascolti accidentali e indiretti, quelli che coinvolgono parlamentari - in punta di legge non ascoltabili senza autorizzazione delle camere. Nella valanga di ascolti piovuti da Perugia sul Csm ce ne sono molti del genere, riguardano due parlamentari del Pd, Lotti e Ferri. Proprio per mostrare segni di reazione di fronte allo scandalo, dice il presidente del Consiglio Conte intervistato a Napoli da Fanpage, “serve intervenire nella direzione di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”. Intervenire, dice il presidente del Consiglio, “riformando il meccanismo di elezione dei componenti del Csm, in modo da recidere la possibilità di contaminazione fra politica e magistratura”. Discorso un po’ oscuro, visto che il sistema di elezione riguarda solo i magistrati e la “contaminazione” tra politici e toghe deve avvenire, dice la Costituzione, proprio all’interno del Consiglio superiore della magistratura. In ogni caso Conte precisa che “non è stato ancora fissato l’incontro con Bonafede sulla giustizia”, annunciatissimo da giorni per oggi. Le motivazioni pratiche non mancano: oggi è una giornataccia per il presidente del Consiglio, che all’alba deve vedere Tria e i due vice premier per mettere finalmente a punto la risposta alla lettera della Ue. Poi alle 9.30 comincerà il tour tra camera e senato per le comunicazioni in vista del Consiglio europeo di giovedì e venerdì. Sarà impegnato fino al tardo pomeriggio e infine alle 20.00 c’è il Consiglio dei ministri. “È una giornata molto complicata, non so se riuscirò ad avere anche una riunione con Bonafede”, ammette Conte. Le motivazioni più forti però sono politiche: Lega e 5 Stelle restano lontani su tutti i dossier della giustizia, non solo sulle intercettazioni ma anche su questioni di immediata ricaduta nel processo penale come i tempi delle indagini e le modifiche alla disciplina delle impugnazioni. Ora è Salvini a spingere per accelerare (dopo aver mandato buca le riunioni che mesi fa convocava Bonafede) e sono i 5 Stelle, per non rompere, a frenare. Non a caso Conte lunedì aveva avvertito: “Non faremo interventi a caldo”. Intanto si muove il Csm che venerdì ha in programma un plenum straordinario presieduto dal capo dello stato per procedere all’insediamento dei due magistrati (entrambi della corrente di Davigo, Autonomia e indipendenza) che sostituiranno due dei quattro togati coinvolti nell’inchiesta di Perugia e dimissionari. Mentre per quello che dalle intercettazioni appare come il regista del tentativo di combine sulle nomine, l’ex presidente dell’Anm Palamara, ieri è arrivata la richiesta di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio. A firmarla, nell’ambito del procedimento disciplinare, proprio il Pg della Cassazione Fuzio che Palamara, raccontano le intercettazioni, ha provato ad attirare nella sua rete. Larghe intese sulla stretta disciplinare ai magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2019 Venerdì tavolo sulle intercettazioni con giornalisti e avvocati. Mentre il vertice sulla giustizia in agenda per oggi torna in bilico, alla Camera si materializzano le larghe intese sulla stretta disciplinare per i magistrati. Ieri sera il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, era ancora assai incerto sulla possibilità di svolgere il confronto con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Domani (oggi, ndr) non è stato ancora fissato un incontro con Bonafede sulla giustizia e le intercettazioni perché di primo mattino vedrò i vicepremier e il ministro Tria, poi avrò le comunicazioni alla Camera e al Senato. È una giornata molto complicata”. E però il dato politico più rilevante, sul fronte giustizia, arriva da Montecitorio, dove, in commissione, l’intesa tra Movimento 5 Stelle, Lega e Forza Italia, porta all’approvazione di un disegno di legge scarno quanto significativo. Perché di fatto comporterà una stretta disciplinare sul magistrato che si è “macchiato” con l’applicazione di una detenzione poi giudicata ingiusta. Il disegno di legge in quota Forza Italia, con relatore l’ex componente del Csm Pierantonio Zanettin, si è assestato ieri pomeriggio su una versione che ha messo d’accordo un ampio fronte, suscettibile magari di allargarsi ad altri temi chiave in una stagione nella quale le tentazioni revansciste da parte della politica nei confronti della magistratura non mancano certo. La soluzione messa a punto prevede così un doppio invio da parte della Corte d’appello dell’ordinanza che accoglie la domanda di riparazione per ingiusta detenzione: al ministero della Giustizia sempre e comunque e, nel caso di grave violazione di legge, al Procuratore generale della Cassazione. In un caso e nell’altro si potrà concretizzare l’avvio del procedimento disciplinare, possibile nel primo, assai probabile nel secondo, dal momento che per quest’ultimo già sarà stata fatta una valutazione sulla gravità della condotta del magistrato. Nello stesso tempo viene allargata la possibilità di ottenere la riparazione non più solo per la infondata custodia cautelare subita, ma anche ai casi di arresto in flagranza e di fermo di indiziato di delitto. Il disegno di legge, conferma Zanettin, è tuttora calendarizzato domani in Aula, ma potrebbe slittare per il protrarsi dei lavori sul decreto crescita. Intanto si profilano tempi diversi per i futuri interventi. Sul fronte delle intercettazioni - detto che il decreto sicurezza bis ora dà tempo sino alla fine dell’anno per trovare una quadra che tenga insieme necessità investigative e tutela della privacy congelando sino ad allora la riforma Orlando - Bonafede ha deciso di procedere con tempi forse più lunghi ma con un confronto ampio, chiamando al tavolo già da venerdì giornalisti e avvocati, e promettendo nei giorni successivi di allargare ulteriormente i lavori per la redazione di un testo condiviso. Come pure tempi non rapidissimi si profilano per le misure sul Csm, dal sistema elettorale al suo funzionamento, e per le modifiche all’ordinamento giudiziario; punti, soprattutto il primo, previsti dal contratto di governo e che tuttavia ancora non erano stati oggetto dì un lavoro approfondito, però reso ora più urgente dalle ricadute dell’indagine di Perugia. Nei fatti, quindi, le misure più vicine al traguardo sono quelle sul processo penale, legate alla prescrizione e oggetto di un confronto serrato a marzo tra avvocati e Anm, sulle quali ora però bisognerà trovare un accordo politico. Bonafede apre il tavolo sulle intercettazioni. Il Cnf: libertà sì, gogna no di Errico Novi Il Dubbio, 19 giugno 2019 Non era nell’indice delle priorità. Al tavolo sulla giustizia di oggi il guardasigilli Alfonso Bonafede e la ministra della Lega Giulia Bongiorno avrebbero dovuto discutere di riforma del processo, punto. Poi si è aggiunto il Csm e l’urgenza di modificare il sistema per l’elezione dei togati, quanto meno. Ma il caso Palamara e l’uragano di veleni non risparmia ricadute persino sui vertici delle più alte magistrature, e ha così riscoperchiato il tema che è alla base di tutto: le intercettazioni. Oggi i massimi esponenti di Cinque Stelle e Lega ne parleranno, certo, alla presenza di Giuseppe Conte. Ma Bonafede farà una richiesta: tenere il tema fra parentesi. Lasciare, prima, che arrivino indicazioni dal tavolo tecnico aperto presso il ministero della Giustizia da lui guidato. Una task force che vede allertati già da tempo i più alti dirigenti di via Arenula, dal capo del dipartimento Affari di giustizia allo stesso portavoce del guardasigilli, Andrea Cottone. Al tavolo, ieri, il ministro Bonafede ha invitato due figure chiave: il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna e il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Parteciperanno alla riunione sulle intercettazioni prevista per venerdì presso il ministero. Poi il guardasigilli fisserà successivi incontri “in cui saranno chiamati a partecipare gli addetti ai lavori e le loro associazioni” : innanzitutto l’Unione Camere penali e l’Anm. Ma è significativa la scelta di partire dai due soggetti istituzionali dell’informazione da una parte e dell’avvocatura dall’altra. Significativa anche la location interna individuata per l’incontro di venerdì: la sala Livatino, quella in cui di solito il ministro tiene le conferenze stampa. L’incontro di dopodomani dovrebbe consentire di raccogliere le istanze innanzitutto delle due “controparti” invitate. Da lì si capirà cosa può essere tradotto in nuove disposizioni. L’architrave, per Bonafede, resta il “diritto all’informazione”. A questo assioma non si sfugge. Ma il caso Csm ha chiarito ancora una volta che c’è un altro aspetto altrettanto ineludibile, in particolare con gli assurdi riferimenti al consigliere giuridico di Sergio Mattarella, Stefano Erbani: e tale altro aspetto è la dignità delle persone. A ricordarlo è proprio Mascherin, in un comunicato diffuso ieri, subito dopo che lo stesso Bonafede ha reso noto l’invito ad avvocati e giornalisti: dal punto di vista della professione forense, spiega il vertice del Cnf, “la libertà di informazione è sacra e strumento di democrazia evoluta” così come “più che sacra è la dignità di ogni persona, che non deve essere mai oggetto di una pena non più in vigore da tempo, ovvero la gogna”. Chiaro riferimento alla necessità di bilanciare gli interessi e i valori in gioco. D’altronde lo stesso presidente del Consiglio forense nota “la tempestività della convocazione del tavolo sulle intercettazioni” come un “segno di sensibilità e attenzione al tema da parte del ministero della Giustizia”. Ancora, Mascherin si dice certo che “la sensibilità di avvocati e giornalisti favorirà una soluzione scevra da luoghi comuni, parole d’ordine e ricerca del consenso: una soluzione che, garantendo serenità a chi opera nel mondo dell’informazione, salvaguardi la persona. Il buon giornalismo e la buona avvocatura non potranno che trovarsi d’accordo, fornendo così un importante contributo alla politica”, conclude il presidente del Cnf. Dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti è inevitabile attendersi un approccio almeno in parte diverso, nel bilanciamento fra diritto all’informazione e prevenzione del “processo mediatico”. Ma nella sua nota, il presidente dell’Ordine Carlo Verna non tiene del tutto ai margini il secondo aspetto: l’invito di Bonafede, che Verna ringrazia, “sarà l’occasione per sottolineare la nostra posizione per un’informazione libera e priva di bavagli, nonché la disponibilità a proporre e trovare soluzioni nell’interesse del bene comune e per il bilanciamento di diritti contrapposti”. È un segnale di disponibilità che pare incrociarsi perfettamente con quello di Mascherin e concede al tavolo di dopodomani un accettabile margine di manovra. Certo si deve già partire da una divergenza politica di base: Movimento 5 Stelle e Lega hanno posizioni non perfettamente sovrapponibili, sul punto. Tutt’altro. Se Bonafede non intende porre limiti al diritto di informare, Salvini e Bongiorno vorrebbero evitare “la prassi incivile delle intercettazioni senza rilievo penale che finiscono sui giornali”. Tecnicamente non ci sono molti anelli della catena che si offrono a un intervento. E la stessa avvocatura ha più volte fatto notare la “criticità” di una delle previsioni- chiave del “congelato” decreto Orlando, quella per cui la selezione iniziale delle intercettazioni da trascrivere nei verbali sarebbe stata affidata in gran parte alla polizia giudiziaria. In tal modo gli elementi raccolti sarebbero quasi tutti inconoscibili per lo stesso difensore. Considerato che Bonafede pare fermo nell’escludere sanzioni più aspre per il giornalista, la sola possibilità per arginare il flusso di conversazioni dalle Procure ai giornali resterebbe dunque quella di limitare, negli atti di pm e gip, il richiamo delle comunicazioni intercettate ai soli “brani essenziali”. Sul punto, il presidente dei giornalisti Verna, interpellato dal Dubbio, non nasconde le proprie perplessità: “Limitare il giudice nella conoscibilità degli atti mi pare in ogni caso inappropriato: è giusto che chi deve decidere sulla concessione di una misura cautelare abbia a disposizione tutti gli elementi”, spiega, “e possono essere preziosi anche quelli che, pur privi di immediato rilievo penale, hanno comunque rilevanza sociale. Altro è riportare negli atti della fase preliminare conversazioni in cui emergono fatti relativi esclusivamente alla sfera privata e più intima delle persone coinvolte. Ma vorrei ricordare”, osserva il presidente dell’Ordine dei giornalisti, “che chi scrive già si espone a rischi di azioni da parte dei soggetti a cui fa riferimento. Già opera perciò un autonomo controllo: innanzitutto in osservanza delle nostre prescrizioni deontologiche e, appunto, anche in vista delle conseguenze a cui è esposto. Si può ipotizzare una norma che ribadisca l’invalicabilità del limite già richiamato dalla disciplina della privacy e dalla deontologia”, dice Verna, “ma non sarebbe accettabile un cappio intorno al collo della libertà di stampa o a quello del giudice”. I margini sono stretti, e in ogni caso il percorso per individuare una sintesi si preannuncia tutt’altro che breve. Su un aspetto però il presidente del Cnf Mascherin sarà chiaro: l’attuale disciplina del divieto di intercettare il difensore, fissata all’articolo 103 del codice di procedura penale, è insufficiente. Non basta l’inutilizzabilità delle comunicazioni tra avvocato e assistito che fossero comunque captate, dal momento che tali comunicazioni resterebbero comunque conoscibili da parte del pubblico ministero. Si tratta di un vulnus al quale lo stesso decreto Orlando poneva rimedio in forma solo parziale e sul quale il Consiglio nazionale forense chiederà una disciplina finalmente chiara. Da ultimo, a proposito di eventuali limiti per pm e gip nel richiamare i brani intercettati, andrebbero eventualmente considerate anche le eventuali conseguenze per i magistrati che violassero il vincolo. Potrebbero essere previste conseguenze sul piano disciplinare. Ma nel caso, sarebbe prevedibile la risposta molto negativa da parte dell’Associazione nazionale magistrati, visto che conseguenze analoghe sono già ipotizzate nella proposta di legge sugli errori giudiziari che determinano l’ingiusta detenzione, attesa a breve nell’aula di Montecitorio. Il Pg della Cassazione: sospendere Palamara da stipendio e funzioni di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2019 È ritenuto il magistrato dei dossieraggi contro i colleghi “scomodi”, utile sponda all’interno del Consiglio superiore della magistratura, capace di veicolare “nomine” e sanzioni disciplinari. L’accusa per il pm Luca Palamara, ex Csm ed ex presidente dell’Anm, ora finisce alla sezione disciplinare del Consiglio, che il 2 luglio deciderà sulla istanza del pg della Cassazione Riccardo Fuzio, che in sede cautelare ha chiesto la sospensione facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio. “Possono dire che io sono la P5... che sono quello che fa le nomine”, il suo sfogo intercettato dagli investigatori del Gico, delegati a indagare dalla Procura della Repubblica di Perugia. Un timore che trova riscontro nelle accuse preliminari dei pm, mutuate nell’atto d’accusa del pg Fuzio. Ricostruzioni che delineano un personaggio che si muove a diversi livelli quando viene a sapere dal suo “socio”, l’ex consigliere Luigi Spina, che al Csm era giunta notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati a Perugia. Un particolare che Palamara avrebbe trattato anche assieme allo stesso Fuzio, nel corso di un incontro del 27 maggio registrato dal trojan piazzato sul suo telefono cellulare. La conversazione è al vaglio dell’ufficio di presidenza del Csm e del ministero della Giustizia, ma è possibile che il pg possa astenersi dall’azione, delegando un vice procuratore generale o un avvocato generale per il disciplinare. Una eventualità che, tuttavia, non ha dei precedenti. La conversazione, infatti, riguarderebbe proprio i fatti per i quali Palamara è finito sotto inchiesta: la corruzione da 40mila euro (particolare smentito dagli indagati) per far nominare il pm Giancarlo Longo - già travolto da inchieste per corruzione in atti giudiziari - alla Procura di Gela; un dossieraggio ai danni del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, “colpevole” di aver mandato gli atti ai pm di Perugia quando aveva individuato i suoi rapporti opachi col faccendiere Fabrizio Centofanti, travolto dall’inchiesta sulle tangenti al Consiglio di Stato. Intanto nuove ipotesi si fanno largo nell’indagine umbra. Si stanno verificando presunte “pressioni” per veicolare alcune nomine in V Commissione del Csm, quella che delibera gli incarichi direttivi e semi-direttivi dei magistrati. L’accertamento è suffragato dalla pista che gli inquirenti stanno battendo, dopo che sotto analisi è finita una lista di designazioni ritenute dubbie. Nessun’accusa determinata, ma solo l’ombra di un “sistema” simile a quello attuato da Palamara, per interferire sulla assegnazione della poltrona di capo della Procura di Roma, l’ufficio requirente più grande d’Europa con 100 pm. Un elenco di investiture è già sotto la valutazione dei magistrati della Procura della Repubblica di Perugia. Non solo: tra i documenti ci sono una serie di provvedimenti emessi dalla sezione Disciplinare, per fatti di quando Palamara risultava tra i componenti. Nomine giudiziarie, il male oscuro viene da lontano di Leonardo Rinella* Gazzetta del Mezzogiorno, 19 giugno 2019 Il terremoto che in questi giorni ha interessato la magistratura associata e l’organo di autogoverno dei giudici può destare meraviglia solo in chi è completamente estraneo al mondo giudiziario o in chi è dolosamente ipocrita, perché il pesante intervento delle correnti associative nelle nomine ai posti direttivi, in barba ad ogni criterio di meritocrazia, risale fin dai tempi dell’entrata in funzione del Consiglio superiore della magistratura, perché ricordo i colleghi più anziani che rimpiangevano i tempi in cui era il ministro della giustizia che operava le scelte. Del resto Bari è passata alla storia quando tutti i magistrati di quella Procura, uniti come non mai, si sollevarono in una clamorosa protesta contro una nomina che aveva portato ai vertici della Procura generale un magistrato che non aveva mai ricoperto incarichi inquirenti e che aveva il solo merito di essere amico di un potente componente il Csm, mentre era aspirante a tale posto un valoroso magistrato del livello del dott. Lerario, che aveva fino a quel momento retto con capacità ed equilibrio la Procura di Bari. All’epoca l’ingiustizia fu sanata grazie a una sentenza del Tar Lazio che stracciò letteralmente la delibera del Csm. Ho voluto ricordare questo caso perché fu clamoroso e ne fui testimone diretto, ma l’intervento correntizio avveniva (ed avviene) per qualsiasi avvenimento che interessi la vita giudiziaria. Ricordo che un anno bisognava nominare tre magistrati coordinatori del tirocinio degli uditori giudiziari. Un incarico privo di qualsiasi potere ma strettamente tecnico in quanto il magistrato coordinatore deve solo seguire il tirocinio del magistrato nei vari momenti ed aspetti, ma pur sempre utile alle correnti, perché il coordinatore poteva anche influenzare l’iscrizione del giovane collega a questa o a quella corrente. Bene. Io, non iscritto all’associazione feci la domanda, ma, pur essendo il più anziano, non fui nominato ma furono scelti tre colleghi più giovani: uno di magistratura democratica, uno di magistratura indipendente ed uno di unità per le costituzioni, le tre correnti all’epoca esistenti. Ed allora togliamoci la maschera di ipocrisia e guardiamoci negli occhi. Sono cambiati i vertici dell’associazione e si sono dimessi i quattro componenti del Consiglio Superiore della Magistratura implicati nei fatti. Ma siamo sicuri che questo comporterà la cessazione di un sistema che vede le correnti ancora condizionare pesantemente tutta l’organizzazione giudiziaria? *Procuratore Generale onorario della Cassazione Il decreto sicurezza al vaglio della Consulta: primo giudizio costituzionale per il governo di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 19 giugno 2019 Mercoledì 19 giugno la Corte esamina il ricorso di otto Regioni sulla “legge Salvini”: Sardegna e Basilicata, ora al centrodestra, lo hanno ritirato. Il Piemonte chiede il rinvio. Tensioni, imbarazzi e polemiche segnano l’avvicinarsi del primo giudizio costituzionale sull’operato del governo gialloverde, a un anno dalla sua nascita. Domani è fissato davanti alla Corte Costituzionale il processo sul primo decreto sicurezza, varato l’anno scorso, e bissato con un nuovo decreto solo pochi giorni fa. Fonti legali raccontano che due Regioni - Sardegna e Basilicata - che avevano presentato ricorso si sono precipitate a ritirarlo dopo che le recenti elezioni hanno visto il successo di coalizioni di centrodestra a trazione leghista e la sconfitta del centrosinistra, che aveva avviato l’iniziativa. La terza, il Piemonte, avrebbe fatto altrettanto (così si era espresso il neogovernatore Alberto Cirio in campagna elettorale) se la trattativa tra i partiti sulla distribuzione degli assessorati non lo avesse impedito. Per ritirare il ricorso, infatti, serve una delibera di giunta e quella piemontese non si è ancora riunita, se non per l’insediamento. La questione è seguita con attenzione e preoccupazione dalla Consulta, per le implicazioni non tanto processuali quanto politiche e istituzionali. Nei giorni scorsi ci sono state comunicazioni informali tra Roma e Torino per capire l’orientamento della Regione Piemonte. Il governatore Cirio ha dato mandato agli avvocati di chiedere un rinvio dell’udienza, per dare modo alla giunta di riunirsi e deliberare. Ma è una corsa contro il tempo, oltre che una strada non semplice. La richiesta di rinvio sarà discussa domani in apertura di udienza, ma non è detto che la Corte possa soddisfarla. Nella stessa udienza sono stati riuniti tutti i ricorsi sul decreto sicurezza, in gran parte sovrapponibili. Quindi da un lato avrebbe poco senso separarli; dall’altro diventerebbe imbarazzante (e assumerebbe una coloritura eccessivamente politica e partigiana) un ritiro in blocco delle Regioni passate al centrodestra, che lasciasse a controbattere con il governo solo Regioni a guida Pd: Calabria, Umbria, Marche, Emilia-Romagna, Toscana. Varato nell’autunno dello scorso anno e presentato in conferenza stampa a Palazzo Chigi come “decreto Salvini”, il pacchetto sicurezza è stato il fiore all’occhiello della nuova e restrittiva politica del ministro dell’Interno in materia di immigrazione e ordine pubblico. Contestato sin da principio da Ong, sindaci e associazioni giuridiche, il decreto viene sbandierato dal Viminale come causa della drastica riduzione dei permessi umanitari concessi ai migranti e indirettamente della riduzione degli sbarchi, poiché anche i potenziali partenti si sono accorti che in Italia “la pacchia è finita”. L’applicazione delle norme più controverse ha subìto finora non pochi inciampi giudiziari. I tribunali di merito hanno sancito la irretroattività del decreto per i migranti arrivati prima dell’autunno 2018, consentendo loro di godere dei permessi umanitari poi aboliti. La Cassazione ha avuto orientamenti contrastanti e si pronuncerà a sezioni unite. Quanto al divieto di iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo, su cui il sindaco di Palermo Leoluca Orlando aveva guidato l’obiezione di coscienza, finora i tribunali lo hanno depotenziato con ordinanze e sentenze che hanno provocato l’ira di Salvini. Espressa in prima battuta con l’accusa ai giudici di “fare politica”, con conseguente intimazione a “candidarsi alle elezioni” se vogliono sfidarlo. Infine con l’inedito mandato, conferito all’Avvocatura dello Stato, di raccogliere informazioni sulle opinioni politiche degli stessi giudici, al fine di ricusarli (cosa impossibile a processo concluso). Trovata che ha fatto parlare di dossieraggio istituzionale, suscitando la protesta dell’Associazione nazionale magistrati. In questo clima, si può immaginare quanto delicata sia la decisione cui è chiamata la Corte costituzionale, e quanto inevitabilmente destinata a scatenare reazioni politiche. Sono 26 le norme costituzionali, tra cui gran parte dei principi fondamentali contenuti nei primi articoli, e 6 quelle della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di cui i ricorsi denunciano la violazione. Le Regioni lamentano che gli effetti del decreto sicurezza incidono su un’ampia sfera di loro competenze, in parte le compromettono, provocando la lesione di diritti fondamentali in materia sociale e sanitaria. Il tutto operato con un decreto legge blindato dalla fiducia, senza che esistessero i requisiti costituzionali di “straordinaria necessità e urgenza”, essendo quella dell’immigrazione una “emergenza immaginaria”. Il governo ha risposto rivendicando la propria competenza esclusiva sul tema e argomentando che il decreto ha finalmente fermato il ricorso massiccio a permessi umanitari fondati su motivazioni generiche, come dimostrano le statistiche. Tra ricorsi, risposte del governo e memorie delle parti, depositate fino agli ultimi giorni disponibili, sui tavoli dei giudici si sono accumulate centinaia di pagine di argomentazioni giuridiche particolarmente complesse. Per questo motivo per istruire il processo sono stati nominati cinque relatori (un terzo di tutta la Corte): Amoroso, Barbera, Cartabia, De Petris, Zanon. In grado non solo di affrontare le questioni sulla base delle diverse competenze, ma anche di garantire la massima copertura culturale agli orientamenti che la Corte prenderà. Non sfugge la particolare suscettibilità politica del tema. Basti dire che nei ricorsi compaiono accuse di “impronta xenofoba” e “intento discriminatorio” del decreto, dettato da “sentimenti persecutori rispetto agli stranieri”, al punto da evocare il rischio di una torsione dell’equilibrio costituzionale verso “derive autoritarie stile Orban”. Frasi che il governo ha chiesto alla Corte di cancellare dagli atti ufficiali. I difensori dei migranti: “Rigetto sistematico dei ricorsi in appello” di Giulia Merlo Il Dubbio, 19 giugno 2019 Gli avvocati protestano contro la Corte d’Appello di Venezia. La Corte d’Appello di Venezia “rigetta sistematicamente i ricorsi” presentati contro le sentenze di primo grado da parte dei richiedenti asilo. La denuncia arriva alla Camera avvocati immigrazionisti del Triveneto, i quali hanno intrapreso l’iniziativa comune di chiedere “verbalizzare la loro contrarietà a quella che sembra essere una regola per la corte veneziana”. In pratica - denunciano gli avvocati che si occupano di diritto dell’immigrazione - i giudici di appello hanno una percentuale di accoglimento dei ricorsi presentati dai migranti tendente allo zero, con conseguente “rigetto sistematico dei ricorsi; rifiuto del rinnovo di istruttoria, nonché la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, già disposta dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che solo in questa sede - ed in questa materia - consegue ineluttabilmente al mancato accoglimento della domanda”. In pratica, una doppia discriminazione per i richiedenti asilo: nessuna chance di veder accolto il ricorso, ma anche condanna al pagamento delle spese processuali e revoca del patrocinio a spese dello Stato. “Questa iniziativa si pone nel solco di un’attività di contrasto a prassi del Foro lagunare non sempre tutelanti i diritti degli stranieri, a cominciare dal c. d. “Protocollo della Sezione Specializzata di Venezia”, adottato nel marzo del 2018 e tutt’ora utilizzato, senza alcun preventivo coinvolgimento degli avvocati immigrazionisti e degli Ordini distrettuali”, scrivono gli avvocati del Cait. Il riferimento è ad un protocollo - molto discusso all’epoca della sottoscrizione tra l’Ordine di Venezia e il presidente del Tribunale e nei fatti in pratica non applicato - che contiene due previsioni molto contrastate: che “l’audizione del ricorrente verrà condotta esclusivamente dal giudice o dal Got delegato, senza l’intervento del difensore” e l’obbligo per i difensori di comunicare al giudice se “siano a conoscenza di malattie infettive del ricorrente”. Il tema delle richieste d’asilo continua ad essere di primaria importanza per le Corti d’Appello italiane, nonostante la creazione di sezioni specializzate e, soprattutto, nonostante il decreto Minniti- Orlando nel 2017 abbia di fatto abolito il secondo grado di giudizio per le decisioni del tribunale in materia migratoria. Quelle che attualmente la Corte di Venezia sta affrontando, dunque, sono le impugnazioni precedenti all’entrata in vigore della norma. Ad oggi, le corti italiane sono alle prese con un arretrato significativo, che a Venezia - secondo quanto spiegato in gennaio dalla presidente della Corte, Ines Marini - tocca quota “1900 ricorsi, presentati prima dell’abolizione dell’appello”. Nel 2018, invece, i fascicoli pendenti in primo grado erano 4mila, con 7mila richieste di gratuito patrocinio. Oggi, dunque - stando a quanto denunciato dagli avvocati che patrocinano proprio questi ricorsi in Corte d’Appello i giudici di secondo grado avrebbero deciso, nei fatti, di rigettare tutti i ricorsi. Che si tratti di un giudizio ponderato e confermativo del primo grado, oppure una scelta per macinare più velocemente l’arretrato, impossibile dirlo. Resta, tuttavia, l’indignazione degli avvocati che annunciano come l’iniziativa di mettere a verbale la propria contrarietà alla decisione della Corte “verrà mantenuta per tutte le prossime udienze e si affianca all’attività di coinvolgimento degli Ordini già intrapresa da Cait sul piano istituzionale; ad oggi, inoltre, non sono escluse ulteriori forme di protesta”. Incidente con feriti: per il passeggero non c’è omesso soccorso di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2019 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 19 giugno 2019 n. 26888. In caso di incidente con feriti, il passeggero non ha l’obbligo di imporre al conducente di un veicolo a motore di fermarsi e prestare l’assistenza occorrente: tuttavia, se dalle indagini emerge che egli ha incitato il guidatore a fuggire o omettere soccorso risponderanno tutti e due, a titolo di concorso, dei reati previsti dai commi 6 (omissione dell’obbligo di fermarsi) e 7 dell’articolo 189 (omissione di soccorso) del Codice della Strada. È quanto ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 26888, depositata ieri. A rivolgersi alla Corte era stato il passeggero di un’autovettura che era stato condannato, in concorso con il conducente, per i menzionati reati stradali, a una sanzione penale e alla sospensione della patente per 5 anni. L’auto su cui viaggiavano i due imputati, in ora notturna, aveva investito un pedone, che aveva riportato lesioni gravissime. Il conducente e il passeggero si erano allontanati dal luogo dell’incidente senza fermarsi e fornire indicazioni sulla propria identità: successivamente, avevano parcheggiato l’auto, eliminato il parabrezza frantumatosi per l’urto con il corpo della vittima ed erano tornati a casa. La Cassazione ha assolto il passeggero dopo un’attenta analisi della figura del trasportato, resasi necessaria per l’assenza di definizioni tassative all’interno del titolo 5 del Codice della Strada, che contiene le norme di comportamento. Secondo la Corte, l’articolo 189 distingue quattro figure: l’utente della strada, il conducente, le persone coinvolte in un incidente e le persone danneggiate. La categoria delle persone coinvolte nell’incidente, in particolare, è più ampia di quella degli utenti, cioè coloro che attivamente utilizzano la strada, a mezzo di un’attività come condurre o camminare e in questa rientra il passeggero, che è passivamente traportato dal conducente. Il Codice della Strada, all’articolo 189 comma 2, estende anche a questa figura delle regole di condotta, ovvero attivarsi per salvaguardare la sicurezza della circolazione e adoperarsi perché non vengano modificati i luoghi e disperse le tracce dell’incidente. Tuttavia, detta norma non parifica la posizione degli utenti della strada a quella delle persone coinvolte nell’incidente, perché solo ai primi vengono imposti gli obblighi di fermarsi in caso di incidente e prestare soccorso, la cui inosservanza comporta le responsabilità penali previste dai commi 6 e 7 della stessa norma, mentre ai secondi, che rivestono un ruolo non attivo - esclusa quindi la conduzione di un veicolo o comunque l’utilizzazione diretta della strada, come può fare un pedone - impone solo oneri solidaristici privi di sanzione penale. Tuttavia, nel caso in cui il passeggero abbia agevolato in qualunque modo - dunque anche in termini di mera istigazione verbale - la fuga o l’omissione di soccorso commessa dal conducente, egli ne risponderà secondo le regole generali del concorso di persone di reato: istigazione la cui prova, nel caso in esame, non è stata però raggiunta Abruzzo: carceri, i problemi dietro scioperi della fame e proteste di Kristin Santucci ilcapoluogo.it, 19 giugno 2019 Aumentano sovraffollamento, casi di autolesionismo e suicidi. E quel Garante che continua a mancare. Carceri al centro dell’attenzione mediatica, ma come si è arrivati a questo punto? Numeri e dettagli dagli Istituti penitenziari. Lo sciopero della fame delle due detenute del carcere di L’Aquila e la conseguente occupazione, da parte degli anarchici, della sala Rivera di Palazzo Fibbioni, torna a riaccendersi la luce sulle carceri, d’Abruzzo in particolar modo. Proprio l’Abruzzo, infatti, come regione, manca all’appello per la figura del Garante dei Detenuti. Tema, questo, più volte affrontato dalla redazione del Capoluogo. Questa volta, a fare il punto, è l’avvocato Salvatore Braghini, presidente dell’associazione Antigone, onlus che si occupa dello stato dei detenuti in Italia e in Europa. “La protesta delle due detenute per la loro condizione di isolamento nel carcere dell’Aquila, che ricordiamo è un Istituto di massima sicurezza, è un serio allarme sulla condizione dei detenuti in Abruzzo. Registro con soddisfazione che un consigliere regionale dell’Aquila, di fronte ad episodi come questo, ha sollevato il tema della finalità rieducativa della pena. Di certo tale episodio allarma non poco, se analizzato insieme ai dati del 2018”. “Ci segnalano che la piaga del sovraffollamento, dell’autolesionismo e dei suicidi, che il 2018 ha visto aumentare in Italia, con 63 episodi, rispetto al 2017, non risparmia le carceri abruzzesi. Troviamo un indicatore preoccupante del disagio della comunità carceraria nelle aggressioni agli agenti di polizia da parte dei detenuti, come ci racconta la cronaca relativa ai fatti più gravi, con le violenze di inizio anno nel carcere di Teramo e, andando indietro ad un anno fa, con un detenuto nell’ala di alta sicurezza del penitenziario di Sulmona che ha ferito un agente, gettandogli addosso olio bollente. Ricordiamo poi il detenuto che si è suicidato impiccandosi nel carcere San Donato di Pescara nel maggio del 2018”. “Vi sono problematiche comuni a tutti gli istituti, tra cui segnalerei la carenza di personale penitenziario e di area pedagogica, l’insufficienza dei percorsi di formazione, specie professionale, l’insufficienza delle proposte rieducative e le scarse opportunità di lavoro all’esterno del carcere. Sul piano sanitario si evidenzia l’inadeguatezza degli spazi e delle prestazioni sanitarie, in particolare le attese per alcune visite specialistiche e la crescita di detenuti con problemi psichiatrici, alcuni dei quali si trovano in carcere a causa dell’incapienza della R.E.M.S di Barete. Per presentare tali criticità ho chiesto di essere ascoltato, come negli anni precedenti, dalla V Commissione del Consiglio regionale (Sanità - Sicurezza sociale e del lavoro - Istruzione)”. “Funziona abbastanza bene la sorveglianza dinamica 24 su 24, in alcuni casi durante le attività trattamentali i detenuti non sono sorvegliati e le celle aperte 9 ore al giorno, ciò che allenta molto le tensioni. In alcune realtà come Pescara ed Avezzano, grazie al lavoro del personale e alla risposta del territorio, gli istituti realizzano diverse attività sociali, formative, culturali e professionali. Ha cominciato a funzionare a pieno ritmo la sartoria presso la Casa Lavoro di Vasto offrendo una risposta importante all’esigenza di lavoro per gli internati della struttura. A Teramo è stata allestita una moderna sezione a custodia attenuata con trattamento avanzato, destinato alle madri con bambini sotto i 3 anni. A Sulmona si porta avanti un progetto regionale di custodi della biodiversità e le lavorazioni interne sono molto sviluppate. A Lanciano il carcere ospita una produzione di semilavorati per l’industria dolciaria, dove lavorano fianco a fianco detenuti e liberi. Mentre il carcere di Chieti collabora con la Provincia, ad Avezzano è operativa un’intesa con il Comune per impegnare i detenuti in lavori socialmente utili”. “L’intervento del consigliere regionale Di Benedetto si concludeva con un appello a risolvere al più presto il nodo del Garante regionale dei detenuti. Sono ben 9 anni che è stata approvata la legge che ha istituito tale figura di garanzia. Di recente si è chiuso il bando per presentare le candidature, speriamo che sia la volta buona, me lo auguro in particolare per i detenuti nelle carceri d’Abruzzo e per quanti, reclusi o internati, si sentono senza punti di riferimento e disperati”. Abruzzo: nomina del Garante dei detenuti, riesplode lo scontro politico Il Centro, 19 giugno 2019 Di Benedetto (Lista Legnini): “Subito la nomina”. Smargiassi (M5S): “In 5 anni voi non lo avete fatto”. “L’Abruzzo è forse l’unica regione a non avere il garante per i detenuti. Auspico che la nomina venga discussa il prima possibile in Consiglio regionale”. Così Americo Di Benedetto, consigliere regionale del gruppo Legnini Presidente, su una questione che per anni è stata al vaglio del consiglio abruzzese nella passata legislatura. Anche per motivi legati alla esigenza di una maggioranza qualificata, ma anche per problemi in seno alla maggioranza, il centrosinistra non è riuscita ad effettuare la nomina. Il consigliere di centrosinistra che è all’opposizione, nella nota sottolinea che “nel carcere dell’Aquila due detenute del reparto di massima sicurezza sono in sciopero della fame dal 29 maggio. Protestano per l’isolamento a cui sono costrette e denunciano una struttura chiusa e dura. La garanzia della certezza della pena non può escludere la tutela dei diritti basilari delle persone, men che meno privarle di un senso di umanità”, si legge ancora nella nota. “Ma l’Abruzzo”, continua Di Benedetto, “ha diversi istituti penitenziari e tutti con tante problematiche. Alla luce di queste considerazioni si rileva ancor più l’urgenza della nomina del Garante regionale dei detenuti”. Ma arriva la replica del M5S che dice: “Ha il sapore della beffa leggere le parole del consigliere Di Benedetto, che chiede a gran voce la nomina di un Garante dei detenuti dopo che per 5 anni il suo centrosinistra non è stato in grado di intavolare un dialogo costruttivo per individuare una figura abruzzese, senza dover andare a pescare fuori dalla Regione”. Ad affermarlo è il consigliere regionale Pietro Smargiassi. “Ricordo perfettamente”, spiega, “come la scorsa giunta abbia rinviato per decine di sedute il problema, disinteressandosene completamente. Non posso soprassedere sull’ottuso atteggiamento di chi per 54 mesi di governo si è ostinato a presentare sempre un solo nome, per ragioni probabilmente diverse da quella della competenza che mai nessuno si è permesso di contestare. Rita Bernardini è senza dubbio una persona preparata e voce di rilievo sulla tematica delle carceri, ma non può essere considerato l’unico profilo spendibile. Le condanne da lei riportate, seppur relative ad atti di disobbedienza civile, rappresentano un fattore sul quale non si può soprassedere. Per questo il M5S provò, invano, a presentare alla Giunta e al presidente una rosa di nomi di spicco. L’augurio”, conclude il 5 Stelle, “è che, contrariamente a quanto successo col centro sinistra, il governo regionale voglia aprire un dialogo diverso per arrivare alla nomina di una personalità abruzzese, di comprovata esperienza e sensibilità sul tema”. Campania: scenario apocalittico nelle carceri. “Col caldo situazione esplosiva” di Ciro Cuozzo anteprima24.it, 19 giugno 2019 Aggressioni, evasioni, sommosse e problemi di salute. La situazione di emergenza nelle carceri campane è pronta ad esplodere con il caldo torrido. Penitenziari sempre più affollati con una popolazione detenuta che si aggira intorno alle 8mila presenze a fronte di un organico di Polizia Penitenziaria ridotta di circa 800 unità in quanto sceso al di sotto dei 4mila dipendenti amministrate ma non tutte presenti operativamente negli Istituti a servizio h24. L’allarme arriva dal Sindacato Autonomo di Polizia penitenziaria, organismo più rappresentativo della categoria, che attraverso il segretario nazionale Emilio Fattorello chiede alle istituzioni competenti di “mettere mano senza indugio alle dovute soluzioni in un Sistema Penitenziario che implode in Regione e nella fattispecie intervenire sulla Struttura di Poggioreale dove non può esistere più una popolazione detenuta di tale dimensione ed in regime di custodia aperta”. Uno scenario apocalittico che il Sappe ripercorre carcere per carcere, sottolineando gli ultimi episodi. Dalle ultime clamorose evasioni che hanno interessato la Casa di Reclusione di Carinola e l’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida alle aggressioni e sommesse andante in scena in altri penitenziari. La Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere continua a registrare eventi critici di varia natura, dobbiamo riportare negli ultimi giorni aggressioni al Personale ivi in servizio. Apprendiamo di una prima aggressione avvenuta presso il Reparto Tevere ove un detenuto per futili motivi che accedeva al passeggio ha colpito con violenza con un pugno l’Assistente in servizio che ha dovuto far ricorso alle cure mediche. Altro episodio violento nei confronti del Personale di Polizia Penitenziaria è stato posto in essere da un detenuto con problemi psichici che con una stampella ha colpito prima un collega e poi altri due che erano intervenuti, per tutti e tre i colleghi contusi è stato necessario recarsi al Pronto Soccorso per le cure del caso ove gli è stata riconosciuta una prognosi di 7 giorni cadauno. Restando sempre sull’Istituto Sammaritano dobbiamo ricordare un tentativo di evasione sventato dal Personale di Polizia Penitenziaria posto in essere da un detenuto che aveva scavalcato il muro del “Cortile passeggi” e si avviava verso il muro di cinta. Altro evento critico che viene riferito è costituito dalla morte naturale di un detenuto risalente ad alcuni giorni fa. Tra l’altro ci giunge notizia a seguito dei numerosi eventi critici dell’Istituto che il Direttore ed il Comandante, come sembra, siano stati convocati dal Prefetto di Caserta. Ad Ariano Irpino non era terminata ancora l’eco della partenza dei detenuti ritenuti più rivoltosi qualche giorno addietro che nella giornata di ieri due detenuti del circuito “Media Sicurezza” ristretti per reati comuni hanno con violenza aggredito con pugni e calci un nostro collega colpevole solo di averli richiamati al rispetto delle regole mentre gli stessi erano di rientro dai colloqui con i familiari. Il collega mal capitato è stato trasportato all’Ospedale civile di Ariano ove gli è stata attribuita una prognosi di giorni 10 s.c. per le lesioni subite al volto e ad altre parti del corpo. Nella Casa Circondariale di Benevento anche ieri si sono vissuti momenti di tensione e panico per un incendio doloso causato da un detenuto sottoposto a osservazione psichiatrica che ha appiccato il fuoco alle suppellettili della cella. Ben tre agenti sono stati intossicati dal fumo tossico ed acre sprigionatosi dalla combustione di vario materiale e hanno dovuto far ricorso alle cure che il caso imponeva in due Ospedali cittadini. Casa Circondariale di Avellino come già riportato dalla scrivente O.S., negli ultimi giorni, l’Istituto Irpino è stato interessato da eventi critici cruenti che hanno visto precisamente in data 11 c.m. un gruppo di detenuti appartenente al circuito Alta Sicurezza ha messo in atto un vero e proprio raid punitivo nei confronti di altri detenuti ubicati in altra Sezione, in data 14 c.m. altro detenuto senza apparenti motivi ha con inaudita violenza colpito un Assistente Capo con pugni al volto tanto che il mal capito è stato costretto al ricovero presso l’ospedale civile cittadino dove gli sono state prestate le cure del caso per le evidenti lesioni subite e nella stessa settimana e con esattezza sabato 15 giungo è stato rinvenuto un telefonino nascosto nell’ano di un detenuto proveniente dalla Casa Circondariale di Napoli Poggioreale, uno dei tanti rinvenimenti del genere che dall’inizio dell’anno hanno raggiunto notevoli cifre (circa 30). Infine non si può fare a meno di riportare l’eclatante rivolta dei detenuti del Padiglione “Salerno” presso la Casa Circondariale di Poggioreale che ben 220 di essi hanno devastato la Struttura detentiva per futili motivi, notizia questa rimbalzata alla cronaca nazionale in data 16 c.m. e che ha visto il giorno successivo la veloce passerella del Capo del Dipartimento Francesco Basentini che si è limitato ad ascoltare alcuni detenuti, autori del folle gesto, quale la rivolta messa in atto evitando un dovuto confronto con il Personale della Polizia Penitenziaria e di altri Comparti che operano nella Struttura nonostante lo scrivente lo abbia invitato a ciò. A tal proposito è doveroso segnalare l’ottima gestione del grave evento critico in Poggioreale da parte del Comandante Commissario Coordinatore Gaetano Diglio e tutto il Personale presente in servizio, oculata gestione che è riuscita a garantire l’incolumità fisica sia dei detenuti rivoltosi che del Personale ivi operante. Napoli: la “polveriera” Poggioreale rischia di esplodere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 giugno 2019 La situazione dei 2.400 detenuti, 800 in più della capienza prevista, è ormai al limite. Dopo la protesta di domenica il Garante regionale Ciambriello ne chiede il commissariamento e l’Unione delle Camere Penali ha dichiarato lo stato di agitazione. Non si placano le polemiche dopo la rivolta dei detenuti reclusi in una delle sezioni più affollate di Poggioreale. La miccia che ha fatto scoppiare la ribellione - ricordiamo - è stato il mancato trasferimento in ospedale di un detenuto affetto da febbre alta. Il garante regionale dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello chiede ufficialmente il commissariamento. “La situazione è gravissima se mettiamo insieme sovraffollamento, problemi igienico- sanitari e il gran caldo di questi giorni - denuncia il Garante. Io qui voglio denunciare pubblicamente che per ristrutturare quattro padiglioni ci sono 12 milioni già stanziati”. Ciambriello quindi conclude con una richiesta: “Hanno iniziato i sopralluoghi ma rischiamo di ristrutturare 4 padiglioni tra due anni: chiedo ufficialmente un commissariamento”. In effetti, a Poggioreale ci sono oltre 2400 persone, 800 in più della capienza prevista con tutti i 10 padiglioni attivi, ma oggi due non sono agibili e uno lo è a metà. Così i detenuti sono costretti a vivere in maniera insostenibile e non mancano, infatti, celle con dai sei agli otto reclusi che non possono avere - di fatto - nemmeno uno spazio di socialità. Non a caso, l’attivista napoletano Pietro Ioia, sempre in prima fila per denunciare il mancato rispetto dei diritti dei detenuti, definisce il carcere di Poggioreale un “mostro di cemento”. È intervenuto anche il capo del Dap Francesco Basentini, che ha rivisitato il carcere di Poggioreale. Con lui erano presenti la direttrice dell’Istituto, Maria Luisa Palma, il provveditore regionale Giuseppe Martone e il garante per i detenuti in Campania, Samuele Ciambriello. Basentini è entrato in molte celle del padiglione Salerno, parte interessata della rivolta, ripristinata dal comandante Gaetano Diglio e dal provveditore regionale Giuseppe Martone. “Dottore in questo carcere noi abbiamo bisogno di non essere più trattati come belve in gabbia”, queste sono le parole di un detenuto riportate dal quotidiano Il Mattino, rivolte al capo del Dap. L’amministrazione penitenziaria, attraverso la visione delle critiche condizioni in cui riversano i detenuti, ha dichiarato di intervenire rapidamente. “Dal sopralluogo e dagli incontri - si legge nel comunicato - è emerso che la protesta provocata dal presunto ritardo nelle cure a un detenuto ritenuto in gravi condizioni di salute, hanno in realtà solo fatto precipitare una situazione determinata dallo stato di gravi condizioni di fatiscenza del padiglione. Condizioni di deterioramento strutturale innegabili, per affrontare le quali è stato disposto un programma di lavori, da interventi immediati per rendere vivibile il reparto”. All’indomani di questo ultimo evento, si è mossa anche l’Unione delle camere penali italiane proclamando lo stato di agitazione. “La dura protesta esplosa nel carcere di Napoli- Poggioreale per ottenere il ricovero ospedaliero di un detenuto in gravi condizioni di salute - si legge nella delibera dell’Ucpi - è l’ennesima rivolta nelle carceri italiane dove sovraffollamento, caldo, mancanza di acqua, condizioni igieniche drammatiche, assenza di attività trattamentali, ricoveri urgenti non eseguiti rendono la detenzione un inferno fuori legge: 148 le morti in carcere nel 2018, 57 ad oggi nel 2019. Un morto ogni 3 giorni. Una strage di Stato a cui non si vuole porre rimedio”. L’Unione delle camere penali italiane nel denunciare le condizioni di ingravescente illegalità nelle carceri di tutto il Paese, alle quali “corrisponde la totale indifferenza del governo, che anzi ha scelto di determinarne il collasso grazie alla adozione di politiche securitarie e carcero- centriche”, proclama lo stato di agitazione dei propri iscritti e riserva ogni altra e più dura iniziativa di protesta. Napoli: carcere di Poggioreale, polveriera a due facce di Antonio Averaimo Avvenire, 19 giugno 2019 I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlano da soli: 2.296 detenuti a fronte di una capienza di 1.638, ovvero un tasso di sovraffollamento del 140 per cento. Basta questo per fare del carcere napoletano di Poggioreale una bomba a orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento. Le cronache degli ultimi giorni parlano di una violenta rivolta scoppiata domenica nel padiglione Salerno a causa delle condizioni di salute preoccupanti di un detenuto. Ma è facile vedere dietro la protesta- e lo ha ammesso lo stesso capo del Dap Francesco Basentini, che lunedì ha visitato il carcere - l’insofferenza per le condizioni di vita nel penitenziario partenopeo, il più sovraffollato d’Italia. “Quello del sovraffollamento è un problema che accomuna molte carceri - afferma Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Unione sindacale della Polizia penitenziaria della Campania-. Poggioreale però è un caso limite, con 800 detenuti in più rispetto alla capienza”. A questo va a sommarsi “la carenza di agenti: in tutta la Regione ne mancano 600, a Poggioreale 200”. “Quanto accaduto - sostiene Vincenzo Palmieri, segretario regionale campano dell’Osapp - è stato il culmine di problemi che esistono da tempo. Si pone anche un problema di sicurezza per gli agenti di Polizia penitenziaria”. Il rischio di “una nuova pro - testa è dietro l’angolo”, denuncia Pietro Ioia, presidente dell’Associazione degli ex detenuti. Non è la prima volta che si verificano disordini fuori e dentro le mura dell’istituto. Nel febbraio scorso, i parenti di un detenuto - deceduto all’interno del carcere per le complicazioni di un’influenza - e gli altri detenuti portarono avanti per diversi giorni una clamorosa protesta contro le condizioni disumane in cui scontano la loro pena. Domenica, invece - e qui il condizionale è d’obbligo, vista la riservatezza che circonda gli ambienti carcerari - l’intero padiglione in cui è andata in scena la rivolta dei detenuti sarebbe stato letteralmente devastato. Il caldo torrido degli ultimi giorni certamente complica tutto. Infatti, proprio nei giorni precedenti alla rivolta, il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, raccogliendo le denunce provenienti dalle carceri della regione aveva denunciato la carenza di acqua corrente e altri disservizi: uno scenario che si ripresenta puntuale ogni anno. La legge introdotta nel 2010 sull’esecuzione domiciliare delle pene - che ha consentito di scontare presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, la pena detentiva non superiore a 18 mesi - non ha prodotto significativi miglioramenti a Poggioreale e nelle altre carceri sovraffollate. Celle affollate, mancanza di attività, alto numero di suicidi e casi di malasanità in carcere fanno di Poggioreale un caso emblematico di tutti i limiti del sistema carcerario italiano. “Già c’è il problema del sovraffollamento - spiega il Garante dei detenuti della Campania. A questo si deve aggiungere il fatto che due padiglioni e mezzo sono inagibili. I detenuti sono dunque costretti a vivere come bestie. Sono stati stanziati dal ministero delle Infrastrutture 12 milioni di euro già trasferiti al provveditorato regionale alle Opere pubbliche. La soprintendenza ha fatto un sopralluogo, ma i lavori rischiano di iniziare tra due anni. Non possiamo continuare a comprimere più di 2.400 persone. Propongo di nominare un commissario ad acta con l’obiettivo di coniugare efficacia ed efficienza”. Per Ciambriello c’è un’unica soluzione al problema: “Emettere pene alternative al carcere. Solo 892 detenuti di Poggioreale sono condannati in via definitiva. Potremmo limitare la custodia cautelare solo ai reati gravi”. Intanto il Dap ha comunicato l’avvio di interventi immediati nel padiglione interessato dalla protesta di domenica. Ma la tensione a Poggioreale resta altissima. Napoli: carcere di Poggioreale, una rivolta lunga cinquant’anni di Dario Stefano Dell’aquila napolimonitor.it, 19 giugno 2019 Il 12 luglio del 1968, mentre il sole rende incandescenti l’aria e il cemento, durante l’ora d’aria, circa seicento detenuti del carcere di Poggioreale (che ospita complessivamente 1870 detenuti maschi e 160 donne) immobilizzarono gli agenti di custodia. In breve, riescono ad aprire le celle dei padiglioni e a prendere possesso di parte degli edifici. Una volta aperte le celle, si legge nelle cronache dell’epoca, “vetri infranti, infissi divelti, mattoni asportati, mobilio distrutto. La sala di rappresentanza è ridotta ad un ammasso di rottami, i muri sono anneriti dal fumo per gli incendi appiccati dai rivoltosi, le celle inabitabili per mancanza di panche, brande e pagliericci; i padiglioni sono privi dei cancelli di ferro, abbattuti per ricavarne rudimentali armi”. Colpi di mitra feriscono gravemente alle spalle due detenuti, tre agenti di custodia riportano ferite che richiedono le cure dell’infermeria. I detenuti si asserragliano nei padiglioni Salerno e Livorno. Fuori il carcere si radunano preoccupati i familiari, dall’alto dei tetti fazzoletti che sventolano e grida di protesta. Accorrono i magistrati e i rinforzi circa cinquecento agenti di polizia penitenziaria; da Roma di urgenza arriva il rappresentante della Direzione generale degli istituti di prevenzione e di pena del Ministero di grazia e giustizia. Si apre una trattativa, lunga e non semplice, che si conclude il giorno successivo e che porta al rientro di una protesta che poteva avere un bilancio molto più grave. Il motivo primo della rivolta è la grave mancanza di acqua, erogata solo per qualche ora al mattino. Da settimane era in atto una protesta pacifica (con battitura delle celle). La direzione aveva promesso che si sarebbe trovata presto una soluzione. Invece, è arrivato il caldo, in reparti che ospitano anche sedici detenuti per cella, così l’ultimo episodio non è che l’innesco di una miccia accesa da tempo. Durante le trattative, le delegazioni dei detenuti chiedono un miglioramento della vita detentiva e sollecitano la riforma dell’ordinamento penitenziario, considerato che ancora si applica in quegli anni il regolamento approvato nel 1931 durante il fascismo. Nei giorni successivi, mentre il prefetto interviene con i tecnici dell’acquedotto napoletano, prima ancora che il problema dell’acqua venga risolto, ottocento detenuti vengono trasferiti di urgenza, mentre i rappresentanti degli agenti di custodia lamentano di essere sotto-organico (ce ne sono circa quattrocentocinquanta a Poggioreale). 16 giugno 2019, sono trascorsi cinquantun anni. Nel padiglione Salerno, scoppia una protesta accesa che non assume i contorni di una rivolta, ma ci somiglia un po’. Il sole è ancora lì a rendere incandescenti le celle, i cortili e il cemento, ancora si sta in quattordici per cella. Nel mese di gennaio nel carcere sono presenti 2.296 persone (tutti maschi, non c’è più la sezione femminile) rispetto alla capienza di 1.638 posti. La protesta nasce da un episodio, la richiesta di ricovero per un detenuto con febbre alta, ma anche qui le ragioni del malessere derivano da un più generale di sofferenza. Nella sua visita ispettiva di marzo scorso, il Garante nazionale per le persone prive della libertà, Mauro Palma, aveva dichiarato di “apprezzare lo sforzo di migliorare le condizioni materiali dei reparti, tuttavia a fianco a quelli ristrutturati, alcuni sono invece appena accettabili e altri del tutto inaccettabili” e inoltre di aver riscontrato “gravi criticità e una certa difficoltà da parte dell’area sanitaria a raggiungere tutte le persone e a rispondere ai bisogni di una popolazione che spesso viene dalle fasce più marginali e quindi già deprivate anche sotto il profilo della salute”. A ciò “si aggiungono le condizioni materiali che coinvolgono anche le strutture sanitarie: il Servizio di assistenza intensificata (Sai) posto nel padiglione San Paolo ha bisogno di interventi di adeguamento, così come l’ambulatorio di primo soccorso. Il degrado dell’ambiente non deve spingere ad abbassare l’attenzione nei confronti dei pazienti”. Ed anche il Garante regionale, Samuele Ciambriello, aveva più volte richiamato l’attenzione sui rischi del sovraffollamento e su ciò che comportava in termini di aggravamento delle condizioni detentive. Sarebbe sbagliato pensare o dire che in questi cinquanta anni nulla è cambiato, anzi. È anche (soprattutto) grazie alle proteste e alle lotte cominciate nel 1968 che si è avuta una riforma dell’ordinamento penitenziario, che sono state introdotte le misure alternative, che sono nate istituzioni di garanzia, come appunto quelle dei Garanti nazionale e regionale, che si è cercato in più modi e forme di dare sostanza al principio costituzionale per il quale la pena non può essere contraria al senso di umanità. Eppure, nonostante tutte le conquiste ottenute, i due passi avanti ogni passo indietro, Poggioreale ci ricorda che a separare queste due rivolte sono cinquantun anni che valgono poco più di un giorno. Perché tanto poco vale questo tempo che è passato senza che fossimo in grado di cambiare veramente lo stato delle cose e avere il coraggio di ammettere che ci sono luoghi che non vanno riformati. Più semplicemente, vanno chiusi. Napoli: scabbia nel carcere di Poggioreale, la denuncia dei familiari napoli.fanpage.it, 19 giugno 2019 Un giovane detenuto del carcere di Poggioreale è stato posto in isolamento per essere curato dalla scabbia: la scoperta dei familiari quando ad un colloquio hanno saputo dell’assenza del giovane, al quale era stata diagnosticata la malattia infettiva. L’avvocato ha fatto sapere a Fanpage.it di aver chiesto al Garante che “vengano disposti gli opportuni accertamenti e provvedimenti per il caso in questione” e che al giovane venga garantito di ricevere “tutte le cure idonee al caso”. Un caso di scabbia all’interno del carcere napoletano di Poggioreale. È la denuncia presentata dai familiari di un giovane detenuto, il cui avvocato ora chiede accertamenti e provvedimenti. La segnalazione di questo caso di scabbia all’interno delle mura del carcere di Poggioreale è un fatto che lascia pensare, soprattutto alla luce degli ultimi casi di cronaca che hanno portato sotto le luci della cronaca nazionale il carcere napoletano, tra la rivolta avvenuta nel padiglione Salerno nello scorso fine settimana ed il tentativo di suicidio di un detenuto in una cella appena ventiquattro ore dopo, fortunatamente evitato dall’intervento di un agente della penitenziaria. Il caso di scabbia è stato segnalato a Fanpage.it dall’avvocato del giovane detenuto, che ha spiegato anche come sia emersa la vicenda in maniera quasi “casuale”. È stata la madre del giovane a chiedere spiegazioni sull’assenza del figlio, detenuto dallo scorso aprile presso il padiglione Livorno del carcere di Poggioreale: lo scorso 14 giugno, infatti, la donna si era presentato per un colloquio nel penitenziario napoletano, chiedendo di parlare col figlio e scoprendo che lo stesso era assente perché affetto da scabbia e dunque si trovava in isolamento per ricevere le cure necessaria. La conferma è arrivata poi anche all’avvocato stesso, che pochi giorni dopo ha chiesto un riscontro alla casa circondariale stessa. E così l’avvocato ha chiesto al Garante dei detenuti che “vengano disposti gli opportuni accertamenti e provvedimenti per il caso in questione”, e che al giovane venga garantito di ricevere “tutte le cure idonee al caso”. Napoli: Garante cittadino dei diritti dei detenuti, presto la nomina sinapsinews.info, 19 giugno 2019 L’Assessore alle Politiche Sociali Roberta Gaeta ha incontrato questo pomeriggio i rappresentanti del Tavolo Comunale per la tutela delle persone recluse e prive di libertà, cui partecipano associazioni, comitati, movimenti cittadini attivi sul tema delle carceri, in seguito dell’episodio verificatosi domenica scorsa nella Casa circondariale di Poggioreale, che ha visto coinvolto il detenuto L.D.L. attualmente ricoverato all’ospedale “Cardarelli”. “Preme acquisire notizie - spiega l’Assessore - circa lo stato di salute del detenuto ed esprimere solidarietà e vicinanza alla famiglia, che sta vivendo un momento di grande dolore e preoccupazione. Un Paese veramente civile - continua la Gaeta - è quello teso a tutelare e far rispettare i diritti inalienabili di ogni uomo, compresi quelli dei detenuti. Come Amministrazione ci stiamo adoperando per la nomina del Garante cittadino dei diritti dei detenuti”. “Il Tavolo” - chiarisce l’Assessore Gaeta - “ha espresso grande preoccupazione per il sovraffollamento degli istituti penitenziari in città: si pensi che soltanto nel carcere di Poggioreale si ha un sovrannumero di circa mille persone rispetto alla capienza massima regolamentare. Preoccupano, inoltre, le conseguenti condizioni igienico-sanitarie e strutturali dell’istituto, che richiede urgenti interventi di manutenzione e messa in sicurezza. Questa precarissima condizione produce una difficoltà gestionale da parte del personale penitenziario addetto, che non è preparato a fronteggiare queste emergenze, e nel contempo è alla base di un crescente malessere nella popolazione carceraria”. “I valori di uguaglianza e solidarietà guidano l’azione amministrativa - conclude l’Assessore - e il Comune di Napoli con il Tavolo sta portando avanti attività che saranno di supporto al Garante cittadino dei detenuti, che verrà nominato a breve”. All’incontro ha partecipato anche la dott.ssa Carol Pellecchia, referente dell’Osservatorio carceri e misure alternative alla detenzione del Servizio Politiche di integrazione e nuove cittadinanze, diretto dal dr. Fabio Pascapè. Avellino: in carcere si litiga per la carenza di acqua, emergenza idrica per i detenuti irpiniaoggi.it, 19 giugno 2019 Il Garante campano delle persone private della liberà personale, Samuele Ciambriello, ha scritto agli organi di informazione per denunciare la situazione che si registra nel carcere di Avellino, a Bellizzi Irpino, dove i detenuti rifiutano di rientrare in cella, dopo il periodo di aria, per la carenza di acqua e l’impossibilità a rinfrescarsi e lavarsi. Lo stato di tensione, che potrebbe degenerare in una forma di protesta più intensa e preoccupante per le guardie carcerarie, viene così descritta: “Nelle carceri si sta consumando un’altra emergenza, non meno preoccupante, la carenza idrica, che in questi giorni di caldo rovente sta gettando nel caos diversi istituti penitenziari, limitando la fornitura d’acqua nelle ore notturne. È una scelta inadeguata e improduttiva”. Lo stesso Ciambriello fa sapere: “La società Alto Calore che gestisce il servizio idrico, deve rafforzare la fornitura per i 582 detenuti presenti. In questo carcere dal 2012 c’è un nuovo reparto, che conta quindi 150 detenuti in più, ma il sistema non funziona a regime. Non è stata adeguata la rete idrica e arriva un quantitativo di acqua inferiore alle necessità. Già nel 2015 ci fu una rivolta dei detenuti per questa emergenza”, avverte con preoccupazione Samuele Ciambriello. Roma: l’orto che fa incontrare i detenuti a fine pena e i bimbi delle occupazioni di Veronica Altimari romatoday.it, 19 giugno 2019 Al via l’Orto solidale, iniziativa promossa dal Centro oratori di Roma e Medicina solidale: centro estivo per i bambini che vivono nelle occupazioni. Parola d’ordine: solidarietà. Ma anche accoglienza, socialità, incontro. Questo quanto accade nella struttura di Isola Solidale a partire da oggi, martedì 18 giugno, in via Ardeatina. Un’opportunità di crescita, formazione e attività estiva a beneficio di oltre 50 bambini provenienti per lo più dall’occupazione Spin Time Labs di via Santa Croce in Gerusalemme, balzata agli onori della cronaca per la riaccensione della corrente elettrica da parte dell’elemosiniere del Papa, Konrad Krajewski, lo scorso 12 maggio. I piccoli che in questi giorni prenderanno parte al campo estivo “Bambini al centro è promosso dall’associazione Medicina Solidale e dal Centro oratori romani con il sostegno di McDonald’s e Comunità e Servizi srl. Un momento di incontro e formazione che non va a beneficio solo dei bambini,. L’Isola solidale infatti da oltre 50 anni a Roma accoglie i detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che hanno commesso reati per i quali sono stati condannati e che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. “Sono loro a curare l’orto, a preparare la merenda e a seguire i bambini nelle loro attività - spiega Alessandro Pinna, presidente di Isola solidale - quindi questo progetto a un duplice aspetto. Da un lato i più piccoli imparano il rispetto della natura, dall’altro a chi è in situazione di fine pena un’opportunità di incontro con la società esterna”. Rimini: volontari ospiti nel carcere, cronaca di una “giornata particolare” gnewsonline.it, 19 giugno 2019 Abbiamo ricevuto e abbiamo deciso di pubblicare questa testimonianza di un volontario che, insieme ad altri, è entrato nelle celle del carcere di Rimini per trascorrere una giornata con i detenuti. Un evento che potremmo definire storico: il 13 giugno scorso, la Chiesa nelle sue più belle espressioni di volontariato ha scelto di condividere per un giorno la sofferenza dei detenuti. Un giorno in carcere, non nelle sale tradizionali, ma dentro le sezioni, nelle celle. Tutto è iniziato con la Comandante dell’istituto, Aurelia Panzeca, che ha espresso vivo apprezzamento per l’iniziativa e un cordiale saluto. Di Pardo, il capo dell’area educativa, ha parlato dei momenti difficili del carcere, tra cui alcuni episodi di autolesionismo. Poi, dopo un breve momento di preghiera, a due a due, noi volontari siamo entrati nelle sezioni: lunghi corridoi che attraversano le celle. Italiani e stranieri, persone “diversamente delinquenti”. “Domani è il mio compleanno e lo vorrei festeggiare oggi con voi”, mi dice uno di loro: un’amicizia nel segno della gratuità. I colloqui sono sereni e carichi d’ascolto. Gli sguardi intensi, ma senza giudizio. Volti segnati dalle sofferenze, a volte dalle cicatrici da coltello. Alcuni evidenziano i tagli fatti alle braccia con la lametta. Ma tutto è superato dalla festa di questo incontro. Pranzo alle 12. Le celle si chiudono, ma è un momento intimo e gioioso. Poi l’ora d’aria alle 13. Il caldo non toglie la forza per camminare, parlare, giocare a calcio. Un rubinetto dell’acqua sempre aperto. Qualche volontario ha provato a chiuderlo, invano: “l’acqua deve essere sempre fresca!”. Alle 15 la conta e poi il momento di condivisione. Alcuni ragazzi, rientrati per cavilli burocratici dalle comunità del progetto Comunità Educanti con i carcerati (CEe) della comunità Papa Giovanni XXIII, raccontano sino alle lacrime le loro emozioni. Mario Galasso, presidente della Caritas, condivide questa riflessione: “Ci avete accolto benissimo. Bisognerebbe che la società civile possa accogliere allo stesso modo voi quando uscirete”. Un grande applauso alla Polizia penitenziaria, al direttore, agli educatori, veri eroi che nel quotidiano lavorano in condizioni difficili. Poi, fra confusione e gioia, condividiamo fragole, ciliegie, gelati e dolci. La festa finisce. Alle 17 tutti tornano nelle celle. Nessuno l’ha detto, eppure la domanda serpeggiava nell’aria: e adesso? Forse tutto rimane come prima o forse nulla può rimanere uguale. Il futuro, ce lo dirà! L’Aquila: “Oltre le sbarre”, presentazione di due libri e incontro su 41bis e detenzione news-town.it, 19 giugno 2019 41-bis, divieto di lettura in cella, detenzione e repressione. Se ne parlerà mercoledì 19 giugno (ore 18) nello spazio sociale CaseMatte, all’interno dell’ex ospedale di Collemaggio all’Aquila. Si chiama “Oltre le sbarre” il pomeriggio organizzato da 3e32/CaseMatte, durante il quale verranno presentati i libri “L’inferno dei regimi differenziati” e “Mi chiamano sbandato”, la campagna Pagine Contro la Tortura e Matricola 1312. “Abbiamo voluto organizzare questo incontro in una città come L’Aquila -scrivono in una nota gli organizzatori - dove nel carcere Le Costarelle Anna e Silvia, due militanti detenute nella sezione AS2, dal 29 maggio scorso sono in sciopero della fame per protestare contro le condizioni dell’istituto penitenziario aquilano”. “Il carcere di Preturo, infatti, è una struttura deputata solo al regime 41bis, ma da oltre un anno è stata creata una sezione femminile di AS2 (Alta Sicurezza 2) dove le persone detenute avrebbero diritto a un trattamento diverso anche rispetto al 41bis. Ma l’istituto aquilano non è in grado di differenziare i trattamenti e, di fatto, Anna e Silvia subiscono una carcerazione peggiore rispetto a quella a cui avrebbero diritto. Per questo ieri un gruppo di militanti anarchici ha occupato la sala Rivera della sede comunale dell’Aquila, e ha calato uno striscione da una gru in Piazza Duomo. Una protesta sostanzialmente pacifica che è riuscita a stimolare un inizio di dibattito sull’argomento in città”. “È di assoluta importanza infatti -prosegue il comunicato- che un carcere, dove peraltro si applica un regime di detenzione duro, non sia del tutto isolato dal territorio e la comunità in cui si trova perché solo in questo modo si può contribuire al rispetto dei diritti dei detenuti, la cosa di cui ci importa. Tanto più in una regione in cui vergognosamente ancora manca la figura, presente in tutte le altre regioni d’Italia, del Garante dei detenuti”. “Anche per questo domani - concludono gli organizzatori - si sviscereranno questi aspetti, affrontando le complessità senza pregiudizi e partendo dalla condivisione di una critica possibile anche al regime del 41bis, un regime carcerario così duro da sembrare a molti una sorta di vendetta inconciliabile con uno Stato di diritto e a cui sono sottoposti esseri umani sul nostro territorio e che quindi ci riguarda tutte e tutti”. Nel corso dell’incontro verrà presentato “L’inferno dei regimi differenziati” (Libriliberi Editore). Dietro sigle e numeri si nasconde quello che Alessio Attanasio definisce “L’inferno dei regimi differenziati”, un mondo fatto di divieti, isolamento e limitazioni, progettato e costruito per isolare e costringere “alla resa” il prigioniero. Alessio Attanasio è un giovane che dal 2002 vive ininterrottamente in regime differenziato. Per la sua azione instancabile fatta di reclami, scioperi e corrispondenza è stato trasferito numerose volte in diverse carceri, completando il giro delle sezioni 41bis del Paese. Contestualmente si parlerà di Pagine contro la Tortura, campagna nazionale contro il divieto di ricevere dall’esterno libri e stampe d’ogni genere nelle sezioni 41bis, alla presenza dei promotori della campagna. A CaseMatte verranno presentati anche “Mi chiamano sbandato”, il primo libro di Edmond, autore del blog Matricola1312 e dell’autoproduzione “Ho innalzato sogni più alti de ste mura”. Una raccolta di racconti e poesie per abbattere il muro dello stigma sociale. Una testimonianza di lotta e di voglia rivalsa. L’autore, in arte Edmond, ha combattuto a lungo dietro le sbarre. Le sue poesie e i suoi testi in prosa sono diventati prima il cuore del blog Matricola1312, poi reading in giro per l’Italia e infine un libro. Sarà presente una delle ideatrici del blog. L’Aquila: “Dalle sbarre alle stelle”, il progetto del Tsa sbarca all’università di Sassari abruzzoweb.it, 19 giugno 2019 “Dalle sbarre alle stelle”, il progetto teatrale del Teatro Stabile d’Abruzzo realizzato con la Casa Circondariale di Pescara, diventa il case history dell’importante progetto formativo sui percorsi da e per il carcere in Italia realizzato dall’Università di Sassari “dentro & fuori”. Entusiasmo unanime durante i lavori per Dalle sbarre alle stelle che è il risultato di un percorso teatrale sostenuto dal TSA con la direzione artistica di Simone Cristicchi, durato sette mesi e tenuto dal regista Ariele Vincenti, in collaborazione con il giornalista-regista Fabio Masi, in sinergia con il direttore, le assistenti sociali e le psicologhe della Casa circondariale di Pescara. Lo spettacolo è tratto dal libro Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle di Attilio Frasca e Fabio Masi (Itaca Edizioni), adattamento teatrale di Ariele Vincenti e Fabio Masi, regia di Ariele Vincenti, con dieci detenuti della Casa Circondariale di Pescara e con la partecipazione di Flavio Insinna. “È stata una grande soddisfazione per noi tutti essere qui con gli studenti dell’Università di Sassari, - ha sottolineato Fabio Masi - un’altra piccola medaglia che dedichiamo ai ragazzi della compagnia teatrale di Pescara. Ad ottobre nuove date nei teatri fuori. La tournée continua”. “Dalle sbarre alle stelle racconta la vita criminale di quest’ultimo, - ha spiegato il regista Ariele Vincenti - dai primi reati alla lunga carcerazione. Tutta la vicenda è intervallata dalle sue lettere e da quelle scritte da due suoi amici fraterni, anch’essi reclusi, che da vari carceri italiani arrivano a casa di un altro loro amico, Massimo, interpretato da Flavio Insinna. Pur rimanendo fedele alla storia dell’autore narrante in prima persona, il lavoro teatrale ha voluto universalizzarla, facendola diventare la voce narrante degli altri detenuti in scena. Il delirio di onnipotenza, la solitudine e la redenzione descritti nel libro, nello spettacolo vengono tradotti scenicamente da 10 attori detenuti, sempre in scena come un corpo unico, attraverso emozioni forti e intime che solo chi conosce la vita carceraria può arrivare a esprimere. Dalla spensieratezza dei bambini che giocano sui prati di borgata alle prime “marachelle”, dalla violenza allo stadio, ai reati “di strada” e non solo, fino all’inevitabile carcerazione, con tutto ciò che ne consegue”. “Un ringraziamento va a tutti i partner del workshop: il Polo universitario penitenziario dell’Università di Sassari, la Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, il Dipartimento ministeriale giustizia minorile, il Centro giustizia minorile di Cagliari e all’Ufficio inter-distrettuale per l’esecuzione penale esterna”. Genova: torna il teatro-carcere con lo spettacolo “Profughi da tre soldi” teatronazionalegenova.it, 19 giugno 2019 Il nuovo spettacolo con gli attori detenuti della Casa circondariale di Marassi si ispira all’Opera da tre soldi di Brecht per affrontare problematiche scottanti della nostra società. Assistendo ad una prova della celebre messa in scena dell’Opera da tre soldi di Giorgio Strehler al Piccolo di Milano nel 1956, durante il grande corale che chiude l’opera, suggestionato dall’immagine di tutti gli attori schierati in palcoscenico che cantano in coro “lottate contro l’ingiustizia”, Bertolt Brecht, seduto in platea, annotò su di un pezzo di carta una modifica al testo originale: “Non infierire sul povero che pecca” scrisse, con l’evidente intenzione di sottolineare così la profonda differenza fra il delitto causato dal bisogno piuttosto che dall’arrivismo e dalla brama di potere. È da questo assunto di base che prende vita Profughi da tre soldi, libera rivisitazione dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, messa in scena dalla compagnia teatrale Scatenati formata dagli attori detenuti della Casa Circondariale di Marassi. In uno scenario di scottante attualità, popolato da profughi provenienti dal Nord Africa così come da altri paesi, loschi individui che ricordano il signore e la signora Peachum, accolgono i nuovi arrivati in una sgangherata struttura di accoglienza dissimulando il loro reale obiettivo di instradarli invece verso il mondo della delinquenza e dell’accattonaggio, con lo scopo di trarre notevoli profitti da tale operazione. Come nel testo originale, a complicare le cose sopravvengono i sentimenti: la figlia di Peachum è innamorata di Mackie Messer, un gangster locale e, dopo un brevissimo fidanzamento, lo sposa contro la volontà dei genitori. Peachum tenta di far arrestare il genero, all’inizio senza alcun successo data l’antica amicizia che lega Mackie al commissario di polizia, ma, come nel lavoro di Brecht, l’arresto finale si tramuterà in una ironica ricerca del “lieto fine” a tutti i costi. Profughi da tre soldi, prendendo spunto da un classico di scottante attualità, intende mettere l’accento su uno dei nervi scoperti della società contemporanea. Istat: in Italia 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta di Paolo Baroni La Stampa, 19 giugno 2019 Dopo tre anni la crescita si arresta, ma siamo ancora sui livelli massimi dal 2005. Stabile ma a livelli record, o al rovescio - se vogliamo - sempre a livelli record, ma sostanzialmente stabile. È questa la lettura che da l’Istat della povertà in Italia. In base ai dati 2018, ultimo anno prima dell’avvio del reddito di cittadinanza (che ora, alla luce di questi dati, in molti chiedono di potenziare), si stima che siano oltre 1,8 milioni (1 milione 822 mila per la precisione, contro 1 milione e 778 mila del 2017), le famiglie in condizioni di povertà assoluta, con un’incidenza pari al 7,0%, per un numero complessivo di 5 milioni di individui (8,4% del totale). Le famiglie in condizioni di povertà relativa sono invece poco più di 3 milioni (11,8%), quasi 9 milioni di persone (15% del totale). “Pur rimanendo ai livelli massimi dal 2005 - nota l’istituto di statistica - si arresta dopo tre anni la crescita del numero e della quota di famiglie in povertà assoluta”. La povertà assoluta è concentrata soprattutto al Sud, dove il 9,6% delle famiglie si trova in condizioni di povertà assoluta, contro il 6,1% del Nord Ovest, il 5,3% del Nord Est e del Centro ed il 10,8% delle Isole. La povertà relativa - Le famiglie in condizioni di povertà relativa sono invece poco più di 3 milioni (11,8%), per un totale di individui di quasi 9 milioni (15,0%). Rispetto al 2017, segnala l’Istat, il fenomeno si aggrava nel Nord (da 5,9% al 6,6%), in particolare nel Nord-est dove l’incidenza passa da 5,5% a 6,6%. Il Mezzogiorno, invece, presenta una dinamica opposta (24,7% nel 2017, 22,1% nel 2018), con una riduzione dell’incidenza sia nel Sud (da 24,1% a 22,3%) sia nelle Isole (da 25,9% a 21,6%). Tornando ai dati sulla povertà assoluta rispetto al 2017 rimangono stabili i valori delle incidenze a livello nazionale per tipologia comunale di residenza delle famiglie. Al Nord i comuni centro delle aree metropolitane presentano incidenze di povertà (7,0%) maggiori rispetto ai comuni periferici delle aree metropolitane e ai comuni sopra i 50mila abitanti (5,4%) e ai restanti comuni più piccoli (5,7%). Al Centro, invece, i comuni centro di aree metropolitane presentano l’incidenza minore (3,5% di famiglie povere contro 5,6% dei comuni periferici delle aree metropolitane e comuni sopra i 50mila abitanti e 6,4% dei comuni più piccoli). Anche il confronto per tipologia comunale evidenzia lo svantaggio del Sud e delle Isole: l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta nei comuni centro di aree metropolitane è pari al 13,6% valore che raggiunge il 15,7% nel solo Sud. La piaga dei minori - I minori in povertà assoluta sono invece 1.260.000 (12,6% rispetto all’8,4% degli individui a livello nazionale). L’incidenza varia da un minimo del 10,1% nel Centro fino a un massimo del 15,7% nel Mezzogiorno; rispetto al 2017, si registra una sostanziale stabilità e prevale nelle aree metropolitane. Disaggregando per età, l’incidenza presenta i valori più elevati nelle classi 7-13 anni (13,4%) e 14-17 anni (12,9%) rispetto alle classi 0-3 anni e 4-6 anni (11,5% circa). Le famiglie con minori in povertà assoluta sono oltre 725mila, con un’incidenza dell’11,3% (oltre quattro punti più alta del 7,0% medio nazionale). La maggiore criticità per le famiglie con minori emerge non solo in termini di incidenza, ma anche di intensità della povertà: questa è, infatti, al 20,8% (rispetto al 19,4% del dato nazionale). Le famiglie con minori sono quindi più spesso povere, e se povere, lo sono più delle altre. Famiglie numerose - Anche nel 2018 si conferma poi un’incidenza di povertà assoluta più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti. È pari a 8,9% tra quelle con quattro componenti e raggiunge il 19,6% tra quelle con cinque e più; si attesta invece attorno al 7% tra le famiglie di 3 componenti, in linea con il dato medio. La povertà, inoltre, aumenta in presenza di figli conviventi, soprattutto se minori, passando dal 9,7% delle famiglie con un figlio minore al 19,7% di quelle con 3 o più figli minori. Anche tra i monogenitore la povertà è più diffusa rispetto alla media, con un’incidenza dell’11,0%, in aumento rispetto all’anno precedente, quando era pari a 9,1%. Nelle famiglie con almeno un anziano l’incidenza di povertà è pari al 4,9%, più bassa, quindi, della media nazionale; scende al 3,2% se si considerano le coppie in cui l’età della persona di riferimento della famiglia è superiore a 64 anni (tra quelle con persona di riferimento tra i 18 e i 64 anni questo valore sale al 5,2%). “In generale - sottolinea la ricerca dell’Istat - la povertà familiare presenta quindi un andamento decrescente all’aumentare dell’età della persona di riferimento: le famiglie di giovani, infatti, hanno generalmente minori capacità di spesa poiché dispongono di redditi mediamente più contenuti e hanno minori risparmi accumulati nel corso della vita o beni ereditati. La povertà assoluta riguarda quindi il 10,4% delle famiglie in cui la persona di riferimento ha un’età compresa tra 18 e 34 anni, il 4,7% se la persona di riferimento ha oltre 64 anni”. Altra conferma significativa: la diffusione della povertà diminuisce al crescere del titolo di studio. Se la persona di riferimento ha conseguito un titolo almeno di scuola secondaria superiore l’incidenza è pari al 3,8%, si attesta su valori attorno al 10,0% se ha al massimo la licenza di scuola media. Il dramma degli stranieri - Gli individui stranieri in povertà assoluta infine sono oltre un milione e 500mila, con una incidenza pari al 30,3% (tra gli italiani è il 6,4%). Le famiglie in povertà assoluta sono composte nel 68,9% dei casi da famiglie di soli italiani (1 milione e 250mila) e per il restante 31,1% da famiglie con stranieri (567mila) mentre le famiglie di soli italiani rappresentano il 91,3% delle famiglie nel loro complesso contro l’8,7% delle famiglie con stranieri. L’incidenza di povertà assoluta è pari al 25,1% per le famiglie con almeno uno straniero (27,8% per le famiglie composte esclusivamente da stranieri) e al 5,3% per le famiglie di soli italiani. La criticità per le famiglie con stranieri è maggiormente sentita nei comuni centro di area metropolitana, dove l’incidenza arriva al 26,2% (28,8% per le famiglie di soli stranieri) e al Sud dove la quota di famiglie con stranieri in povertà circa quattro volte superiori a quelle delle famiglie di soli italiani (rispettivamente 32,3% e 8,9%). Poveri e non poveri - Infine l’Istat segnala che classificazione delle famiglie in povere e non povere, ottenuta attraverso la linea convenzionale di povertà relativa, può essere articolata ulteriormente tramite l’utilizzo di soglie aggiuntive, corrispondenti all’80%, al 90%, al 110% e al 120% di quella standard, che permettono di individuare gruppi di famiglie distinti in base alla distanza dalla linea di povertà. Nel 2018 le famiglie “sicuramente” povere (che hanno livelli di spesa mensile equivalente inferiori alla linea standard di oltre il 20%) sono stabili al 6,2%, con valori più elevati nel Mezzogiorno (12,6%). Quelle “appena” povere (ovvero con una spesa inferiore alla linea di non oltre 20%) sono il 5,5% delle famiglie residenti (6,1% nel 2017) e raggiungono il 9,5% nel Mezzogiorno (12,2% l’anno precedente); tra le “appena” povere, il 3,1% presenta livelli di spesa per consumi molto prossimi alla linea di povertà (inferiori di non oltre il 10%) percentuale che sale a 5,2% nel Mezzogiorno. È invece “quasi povero” il 7,5% delle famiglie (spesa superiore alla linea di non oltre 20%) mentre il 3,5% ha valori di spesa superiori alla linea di povertà di non oltre 10% (5,3% nel Mezzogiorno). Le famiglie “sicuramente” non povere, infine, sono l’80,8% del totale (80,4% nel 2017), con valori pari a 88,1% nel Nord, 85,4% nel Centro e 66,7% nel Mezzogiorno. “Pensa solo ai minori stranieri”. Assedio al Garante dell’infanzia di Nadia Ferrigo e Giacomo Galeazzi La Stampa, 19 giugno 2019 Lo strappo sovranista dei responsabili regionali: “Ci sono tante emergenze tra i bimbi italiani, così il nostro ruolo sul territorio viene svilito”. Attesa oggi la relazione annuale in Parlamento. “Si occupa solo dei minori stranieri non accompagnati, ci esclude da ogni decisione e non difende i bambini italiani”. Clamoroso strappo tra sei garanti regionali dell’infanzia e l’Autorità nazionale. Oggi, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Garante per l’infanzia Filomena Albano presenta alla Camera la Relazione annuale al Parlamento. Non ci saranno, in aperta polemica, i responsabili di Lombardia, Lazio, Campania, Calabria, Puglia e Basilicata che hanno firmato un appello per esprimere il proprio radicale dissenso dalla linea dell’Autorità nazionale. Uno scontro frontale, senza mezzi termini. “Basta passerelle” - “In tre anni di Conferenza nazionale dei garanti, Albano si è interessata quasi esclusivamente di minori stranieri non accompagnati, eppure esistono tante altre emergenze e bimbi italiani in gravissimo stato di bisogno - spiega il garante calabrese Antonio Marziale. Sono stanco di assistere a sfilate festaiole. Nel territorio a più alto indice di povertà (con il 90% delle scuole senza decreto di agibilità e una sanità allo stremo) ho portato in Calabria la prima terapia intensiva pediatrica. Incidere sulle decisioni politiche è un obbligo”. L’ultimo aggiornamento dell’Istat non dà nessuna buona notizia: la povertà è a livello record. Un milione e 200 mila bambini vivono in povertà assoluta. Significa “non potersi permettere le spese minime per condurre una vita accettabile”. Nel 2005 la classe di età con il maggior disagio erano gli over 65, ora sono gli under 17. Tra i minori la percentuale di indigenza è triplicata: ora è al 13,4%. Una famiglia vive in condizioni di povertà relativa con un reddito di 800 euro in un’area metropolitana del Nord, 730 in una piccola città e 540 nel Sud e nel isole. “La povertà familiare diminuisce all’aumentare dell’età”, dice l’Istat. Significa che le famiglie più giovani hanno minori capacità di spesa, perché “dispongono di redditi mediamente più contenuti e hanno minori risparmi accumulati nel corso della vita o beni ereditati”. La povertà assoluta riguarda il 10,4% delle famiglie dove la persona di riferimento ha un’età compresa tra 18 e 34 anni, il 4,7% se la persona di riferimento ha oltre 64 anni. Un quadro a tinte fosche che richiede misure a breve termine. Per il garante della Lombardia Massimo Pagani “Filomena Albano, con le sue modalità autoreferenziali, svilisce e sminuisce il nostro ruolo di difensori dei bambini e degli adolescenti sul territorio”. Un ruolo “fatto di azioni concrete e non già passerelle”. Rincara la dose il responsabile del Lazio, Jacopo Marzetti: “In tre lettere, distanziate pochi giorni l’una dall’altra, abbiamo ricevuto dalla Garante nazionale soltanto inviti a celebrazioni o richieste di dati. Non siamo mai stati chiamati all’elaborazione di linee guida condivise per far fronte a tutte le emergenze che coinvolgono i nostri minori”. Per i bambini l’emergenza è un insieme di opportunità negate, che invece andrebbero loro riconosciute. I più a rischio sono quelli che vivono in luoghi ad alta intensità criminale, con due alternative: andarsene o essere reclutati. I più fragili: le vittime di abusi, i figli delle donne vittime, le famiglie numerose, chi vive con madri single e padri assenti, i figli dei detenuti. Povertà educativa vuol dire non avere un libro da leggere, nemmeno quelli di scuola, o un parco in cui giocare. Un autobus per poter frequentare la scuola, la possibilità di andare in vacanza. Nemmeno un pomeriggio al mare, una gita in centro. Si accompagna alla deprivazione materiale, e l’una alimenta l’altra. Senza tregua. La mancanza di un raccordo - Il garante della Puglia Ludovico Abbaticchio rivendica la funzione di “antenna in grado di raccogliere le istanze dei più piccoli anche nelle periferie”. Perciò “scegliere di lavorare in maniera autoreferenziale, come fa la Garante nazionale, significa impedire una visione strategica e una programmazione unitaria in tutto il Paese”. E aggiunge: “Non ci si può occupare solo di minori stranieri non accompagnati”. Per Giuseppe Scialla, garante della Campania “la referenza nazionale dovrebbe essere un raccordo e non lo è affatto. Nulla di nulla. Manca convergenza sulla sicurezza nei territori a rischio. Si rimane relegati ciascuno nel proprio territori ed isolati con i propri problemi”. I sei “frondisti” chiosano che altri garanti (come Leontina Lanciano del Molise), pur non avendo firmato il “J’accuse”, “sono critici”. Non siamo tra Paesi “normali” di Alberto Negri e Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 19 giugno 2019 L’Egitto di Al Sisi, dove è appena morto, detenuto e senza cure, l’ex presidente islamista, non è un Paese normale. Nemmeno l’Italia è un Paese normale visto quanto siamo amici del Cairo, nonostante gli oppositori a migliaia siano incarcerati e le sparizioni forzate continuino. E più amici di noi sono gli americani, i russi, i francesi. Non siamo tra Paesi “normali” e questo non è un momento “normale”. L’Iran non è un Paese normale, dice il segretario di stato Mike Pompeo, ma uno stato da strangolare o al quale fare la guerra mandando altri militari in Medio Oriente. Neppure l’Egitto del presidente Abdel Fattah Al Sisi, dove è appena morto, detenuto e senza cure, l’ex presidente islamista Mohammed Morsi, è un Paese normale. Nemmeno l’Italia è un Paese normale: se non ci fosse stato Giulio Regeni, torturato e ucciso dalle forze di sicurezza al Cairo nel 2016, anche noi saremmo molto amici del generale Al Sisi. Anzi, in realtà già lo siamo da un pezzo, nonostante gli oppositori a migliaia siano incarcerati e le sparizioni forzate continuino. Con un interscambio da sei miliardi di dollari l’anno, il mega-giacimento Eni di gas offshore di Zhor e le vendite di armi che non si fermano mai. Più amici di noi - loro possono esserlo anche ufficialmente mentre noi al Cairo mandiamo degli ectoplasmi a chiedere giustizia per Regeni - sono gli americani, i russi, i francesi. “Al Sisi è una persona fantastica”, ha dichiarato Donald Trump che ha ricevuto il generale in aprile alla Casa bianca confermando gli aiuti militari per 1,4 miliardi di dollari. Certo infastidisce gli Usa che Al Sisi sia anche amico di Putin da cui vuole acquistare due miliardi di dollari di caccia Sukhoi. Quanto a Macron ha elargito una linea di credito da un miliardo dell’agenzia di sviluppo francese in cambio di consistenti acquisti di armamenti. Tutti vogliono partecipare - anche noi italiani - al piano Vision 2030 dell’Egitto che prevede investimenti per oltre 45 miliardi di dollari. E chi è mai così stupido da inimicarsi l’Egitto, con le sue belle spiagge sul Mar Rosso che fanno da sfondo ai servizi sul beach soccer delle nostre tv? L’Egitto, la nazione più popolosa del mondo arabo, è d’importanza strategica per gli Stati uniti e l’Occidente per via del trattato di pace con Israele e per il controllo del Canale di Suez, vitale per il commercio globale e l’apparato militare americano. In questo Paese “normale”, amico di Israele che tiene sotto scacco i Territori occupati palestinesi, è morto sul colpo in tribunale Mohammed Morsi, il primo presidente eletto democraticamente nella storia del Paese, che scontava un ergastolo mentre in appello era stata annullata una condanna a morte. Morsi, era detenuto dal 3 luglio 2013, quando lo depose Al Sisi con la violenza dei carri armati, con almeno un migliaio di morti per soffocare la protesta dei sostenitori della Fratellanza. La sua parabola politica è stata particolare: non doveva essere lui il candidato dei Fratelli Musulmani per succedere a Mubarak dopo la rivolta del 2011 - da notare il diverso “trattamento” riservato a Mubarak, il Faraone contro cui insorse la Primavera araba egiziana, vivo e vegeto, a piede libero e quasi riabilitato con i potenti figli. Morsi, ingegnere chimico con dottorato negli Stati Uniti, venne scelto dopo l’esclusione dell’uomo d’affari Khairat el-Shater e poi vinse le presidenziali al ballottaggio per un pugno di voti contro Ahmed Shafiq, uomo del vecchio regime. È stato un leader incapace di affrontare - ma restò in carica poco più di un anno - i problemi del Paese, che coltivava legami letali con i jihadisti nel Sinai e pensava di superare le difficoltà economiche (tante quelle del Fmi) e gli ostacoli posti dagli apparati del vecchio regime attribuendosi poteri speciali. È stato spazzato via da un movimento di piazza ma soprattutto dal colpo di stato militare. Dei giorni precedenti il golpe restano i filmati delle interviste ai vertici dei Fratelli Musulmani e dei salafiti ospitati per un incontro, insolito, all’ambasciata italiana: i salafiti - ben più integralisti - già si smarcavano e poi avrebbero affiancato Al Sisi. A parte le invettive di Erdogan, nel mondo laico e nella comunità internazionale il golpe egiziano venne accolto con imbarazzo ma anche con un sospiro di sollievo, dall’Occidente ma soprattutto delle monarchie del Golfo come l’Arabia Saudita e gli Emirati che tutto avevano da temere dal messaggio destabilizzante e troppo “democratico” dell’islam politico dei Fratelli Musulmani fondati dall’egiziano Al Banna negli anni Venti. Oltre alla contrapposizione tra sciiti e sunniti, questa è stata l’altra decisiva frattura nel mondo musulmano che ancora oggi scuote la regione, come in Libia dove Egitto e monarchie del Golfo appoggiano il generale Khalifa Haftar contro gli islamisti di Tripoli che sostengono Sarraj. Queste cose le avrà certo spiegate Pompeo a Salvini, che per altro è filo-israeliano e anti-iraniano, quindi un candidato perfetto a eseguire da “sovranista” gli ordini americani quando ci sarà da usare le basi in Italia in caso di guerra contro Teheran. Uno dei pochi laici ad alzare la voce nel 2013 fu lo scrittore di Istanbul Orhan Pamuk. “Promuovere colpi di stato contro governi che sono stati eletti in modo democratico, solo perché non servono agli interessi occidentali è una cattiva abitudine”, disse allora e aggiunse che il golpe di Al Sisi ricordava “quello cileno di Pinochet nel 1973”, quando un altro generale traditore con il sostegno degli Usa fece fuori Allende. Per fortuna qui intanto siamo diventati uomini di mondo e sappiamo bene che i Paesi “normali” non esistono. L’opinione armata di Michele Serra La Repubblica, 19 giugno 2019 Ventuno mesi di carcere, in Nuova Zelanda, a un uomo che aveva inneggiato online alla strage di musulmani del marzo scorso. Quattro anni di carcere, in Inghilterra, a un ragazzo che aveva definito “traditore della razza” il principe Harry dopo il suo matrimonio con Meghan Markle, corredando la foto dei due con una svastica e una pistola. Si tratta di reati di opinione? Non proprio, perché le opinioni in questione sono state considerate, dai tribunali di due Paesi democratici, dichiaratamente omicide. E non su base teorica; su base statistica. Il suprematismo bianco è un serial killer, ha già ucciso in Scozia (Jo Cox, deputata laburista), in Polonia (Pawel Adamowicz, sindaco di Danzica), in Germania (Walter Luebcke, collega di governo della Merkel), in Norvegia (strage di Utoya), in Nuova Zelanda (strage di Christchurch), per restare solo ai fatti di sangue più eclatanti. Ai fascisti svedesi è attribuito l’assassinio del premier socialista Olof Palme (1986), il più clamoroso e anche il più dimenticato di tutti i delitti politici nell’Europa moderna. Il suprematismo bianco di estrema destra è genocida nei suoi presupposti, tanto quanto il jihadismo, e lo è anche nella sua prassi, quasi quanto il jihadismo. E così come si arrestano per terrorismo i fanatici che fanno proselitismo per l’Isis, è ovvio perseguire chi propaganda l’idea del genocidio e dell’eliminazione fisica degli avversari come prassi politica necessaria. Si chiama istigazione all’odio e alla violenza, dubito che esitano ordinamenti giudiziari nei quali non si configuri un reato identico o simile. Non esistono reati di opinione, ma esistono opinioni, per fortuna poche, che diventano reato, e vanno disarmate prima che sparino di nuovo. A Genova porto in sciopero contro il cargo delle armi di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 19 giugno 2019 Previsto domattina l’arrivo nel porto ligure della Bahri Jazan. “Abbiamo ricevuto tanti messaggi di stima - dice Degl’Innocenti del Calp - da dockers europei, l’idea è creare una rete contro i carichi che alimentano le guerre sporche”. Sarà sciopero al porto di Genova non appena la nave saudita Bahri Jazan accosterà alle banchine per imbarcare il materiale bellico che il cargo gemello - Bahri Yanbu - ha dovuto lasciare in deposito lo scorso 21 maggio a causa del primo atto di boicottaggio dei camalli verso chi alimenta la guerra in Yemen. Ieri la Camera del Lavoro del capoluogo ligure ha garantito la piena copertura sindacale, coerentemente con la protesta di maggio, che tra l’altro ha avuto un’eco internazionale notevole. Subito dopo Genova anche i dockers iscritti al sindacato Cgt del porto di Marsiglia- Fos sur Mer, uno degli scali commerciali più importanti d’Europa, si sono rifiutati di imbarcare i cannoni Caesar prodotti dall’ azienda francese Nexter sulla Bahri Yanbu. E se a Cagliari un’altra nave, la Bahri Tabuk, è riuscita a riempire la stiva di bombe Rwm prodotte a Domusnovas è perché gli armatori sauditi lì hanno potuto scortare le casse con guardie private e utilizzare per l’imbarco il personale di bordo, cosa impossibile nella maggior parte degli altri porti italiani. A Genova i giovani camalli si sono galvanizzati per gli attestati di stima e solidarietà arrivati da colleghi francesi, tedeschi e di altri scali italiani e nelle assemblee di questi giorni, in attesa dell’arrivo della nuova nave della compagnia statale Bahri - previsto per domattina - c’era chi si diceva pronto ad andare a bloccare l’approdo anche a bordo di canotti. Per convincere i lavoratori della compagnia unica dei portuali di Genova a trasportare a bordo della Bahri Jazan i materiali lasciati a terra e poi trasferiti nel Centro smistamento merci, gli armatori arabi avevano dichiarato che non si trattava di armi e convinto la prefettura e le autorità portuali a farsi da tramite nei confronti dei sindacati. Ma gli esperti della coalizione di associazioni pacifiste che hanno lanciato l’appello al boicottaggio dei traffici di armamenti destinati alla guerra in Yemen, dove le forze saudite sono accusate di crimini contro l’umanità dall’Onu - cioè Amnesty international Italia, Comitato per la riconversione Rwm, Movimento dei Focolari Italia, Rete della Pace, Rete italiana per il Disarmo e Oxfam Italia - hanno chiarito e portato prove sulla natura bellica della commessa. Si tratta di 4 coppie di shelter e gruppi elettrogeni, quindi su rimorchio, dotati di palo telescopico prodotti dall’azienda Teknel di Roma - comparto Difesa - per centri di comunicazione, comando e controllo di operazioni aeree e terrestre. Questi macchinari sono dual use, civile e militare, possono essere usati anche in caso di catastrofi ma, come documenta la relazione governativa 2018 sull’export militare e le autorizzazioni chieste all’authority preposta dalla Farnesina (Uama), fanno parte di un ordinativo di 18 coppie di shelter più generatore del valore quasi 8 milioni di euro, ad uso bellico. Del resto il destinatario indicato - la Guardia nazionale saudita - partecipa in prima linea alla guerra in Yemen, come fa notare il ricercatore di Opal Carlo Tombola. “Da altri porti abbiamo ricevuto tante proposte per creare una rete comune - racconta Riccardo Degl’Innocenti del Collettivo autonomo lavoratori portuali - che renda difficile a queste rolls royce della logistica militare di continuare a rastrellare armi dall’America all’Europa per fomentare una delle guerre più sporche al mondo”. Libia. Nelle carceri aumenta il rischio di infezioni da Hiv di Elisa Baioni galileonet.it, 19 giugno 2019 Virus e batteri non si curano di nazioni, confini, culture o lingue. Possono replicarsi e diffondersi? Lo fanno. È per questo che non vedrete mai un infettivologo dividere il mondo in altro modo che questo: chi ha un problema da curare, chi ancora non ce l’ha. Tullio Prestileo dirige l’unità operativa per le malattie infettive dell’ospedale civico Benfratelli di Palermo. Dal 2017 coordina il progetto I.Ta.C.A. - Immigrants Take Care Advocacy, una rete di 41 centri che forniscono assistenza a chi approda in Sicilia. Quando - tra una visita e l’altra - riesce a rispondere al telefono, subito mette in chiaro che il principio secondo cui opera “è come il Vangelo per i credenti”. Tutti, infatti, vanno curati, perché se le infezioni non hanno altro scopo che diffondersi, la risposta efficace non può che essere generale. Cos’è I.Ta.C.A, contro virus e batteri - “Ufficialmente, I.Ta.C.A nasce nel 2017 dalla sinergia di quattro persone. Davanti a una popolazione vulnerabile sempre più cospicua, io e Ornella Dino, insieme ad Antonio Craxì e Vito Di Mauro, ci siamo rimboccati le maniche e siamo partiti”, racconta con voce roca e pacata. Ornella Dino è medico dirigente dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo. Mentre Antonio Craxì e Vito di Mauro lavorano al reparto di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico Giaccone. “Ci siamo divisi i compiti secondo le nostre competenze. In particolare, Ornella Dino, è responsabile del triage al porto di Palermo. E fa il primo grosso smistamento tra chi ha problemi di salute urgenti e chi invece può essere mandato ai centri di accoglienza. Qui, dopo un periodo che io definisco il “tempo della fuga”, proponiamo uno screening medico a chi rimane”. Il medico racconta che il 20-30% dei ragazzi ospitati scappa entro le prime 6 settimane dall’arrivo. Il loro obiettivo è ricongiungersi coi propri parenti all’estero. Oppure la fuga è dovuta al fatto che sono rimasti intrappolati in reti criminali e deve fuggire per ripagare i propri debiti. “Una schifezza” chiosa Prestileo. Aumentano le infezioni da Hiv - Nei corpi e nelle storie di chi rimane si cercano gli indizi nascosti di patologie latenti o sommerse. “Fino al 2016, le malattie più rilevanti erano l’epatite B e la tubercolosi, quest’ultima, in realtà, quasi mai nella forma contagiosa. Poi, nel biennio 2017-2018 abbiamo osservato un incremento delle infezioni da Hiv a causa di tutto quello che accade in Libia”. Quasi il 70% dei migranti entrati nella rete I.Ta.C.A. riferisce di angherie, condizioni disumane e stupri. Dal 2017 - l’anno degli accordi stipulati dall’ex Ministro degli Interni Marco Minniti - il tempo di detenzione medio è salito da 13 a 50 settimane. A preoccupare, però, non è soltanto la durata della prigionia, ma anche un altro dato inquietante. “Nel 2017 e nel 2018 abbiamo osservato un forte aumento nel riscontro di infezioni da Hiv. Con delle analisi univariate e multivariate l’abbiamo potuto correlare all’incremento del tempo di permanenza in Libia e a tutte le porcherie che vengono compiute all’interno di questi lager”. Infezioni da Hiv e permanenza in Libia - Se, nel 2015, meno di una persona ogni cento risultava sieropositiva al virus, nel 2017 la percentuale è salita a quasi cinque persone su cento. Nel 2018 invece il numero si è assestato attorno alle quattro persone. Prestileo ha presentato i dati in occasione del convegno nazionale Let’s Stop HIV, tenutosi a Rimini e rivolto a medici e ricercatori impegnati nella lotta al virus. Attraverso delle analisi statistiche, Prestileo ha constatato come “tutti i parametri considerati, ossia età, sesso, area di provenienza, storia di pregresse infezioni sessualmente trasmissibili e condizioni di vita in Italia, rimanevano simili attraverso gli anni”. Solo uno cambiava: il tempo di permanenza in Libia. Per ulteriore conferma, il medico ha avviato un’indagine filogenetica del virus. Analizzando le informazioni genetiche che costituiscono l’Hiv, Prestileo vorrebbe capire quale ceppo del virus abbia infettato le persone da lui esaminate. È un procedimento lungo e complesso, il cui risultato non vedrà la luce prima di sei mesi. Questa ricerca, però, gli consentirà di comprendere, definitivamente, se la variante con cui sono stati contagiati era quella “prevalente nel paese d’origine di queste persone, o quella libica o italiana”. Dalle violenze alle infezioni da Hiv - La violenza imposta in Libia e cucita a doppio filo sui corpi dei migranti non assume soltanto la forma di cicatrici e lividi, ma anche quella di virus e batteri. È una violenza che, senza l’operato di Prestileo e dei suoi colleghi, risulterebbe visibile solamente dopo anni, quando contrastarla sarebbe davvero difficile. Ed è una violenza che, se non diagnostica oppure lasciata incurata, finirebbe con l’infettare altre vite. “La miglior risposta che si possa dare rispetto alla tutela della salute collettiva è farci carico di tutte le persone che sono in difficoltà, specialmente dei gruppi più fragili e marginali che, spesso, sono proprio quelli più a rischio” racconta Giovanni Baglio, dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà, di cui Prestileo è responsabile scientifico per la Sicilia. La salute dei migranti, centrale per loro e per noi - “Non siamo di fronte a un’epidemia montante. Siamo in una fase in cui i tassi delle malattie infettive si stanno riducendo complessivamente, e però l’incidenza a carico degli stranieri rimane più elevata rispetto agli italiani. Quindi noi dobbiamo occuparci della salute dei migranti perché è un loro diritto ma anche un interesse, ed entrambe le cose sono sancite dall’articolo 32 della Costituzione. La tutela dell’individuo e quella della collettività vanno sempre considerate assieme”. Grazie anche al fondamentale lavoro dei mediatori culturali, se qualcuno risulta positivo allo screening, riceve una spiegazione dettagliata sulle prospettive di cura e su come evitare di perdere i trattamenti. “Perché se poi vanno a Milano o a Marsiglia devono ricominciare tutto da capo, spendendo una quantità di soldi inutili e con l’aggravio delle complicazioni legate all’interrompere la terapia” commenta Prestileo. Egitto. Morte dell’ex presidente Morsi: necessaria un’inchiesta indipendente di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 giugno 2019 La morte di Mohamed Morsi, avvenuta il 17 giugno durante un’udienza in tribunale, solleva forti domande sul trattamento subito dall’ex presidente egiziano durante la detenzione. Posto agli arresti domiciliari subito dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013 e poco dopo portato in cella, Morsi risultò di fatto un “desaparecido” fino al 4 novembre 2013, quando comparve per la prima volta di fronte a un giudice. Per quasi sei anni, Morsi è stato tenuto in isolamento nel supercarcere di Tora, praticamente senza contatti col mondo esterno con la sola eccezione di tre visite familiari, senza poter avere accesso ai suoi avvocati e a un medico di fiducia: una condizione che ha comportato un considerevole stress psicofisico e che ha violato il divieto assoluto di maltrattamenti e torture. A causa delle limitazioni poste alle comunicazioni del detenuto col mondo esterno, si conoscono pochi dettagli sulle sue condizioni di detenzione. I familiari dell’ex presidente hanno reso noto che il loro congiunto soffriva di diabete, che nel corso della detenzione era collassato due volte e che non aveva avuto accesso a cure mediche adeguate. L’Egitto vanta una terribile storia di detenzione di prigionieri in isolamento per lunghi periodi di tempo e in condizioni durissime, così come di maltrattamenti e torture nei confronti dei detenuti. Ecco perché le organizzazioni per i diritti umani - Amnesty International e Human Rights Watch in testa - chiedono che le autorità del Cairo indaghino per determinare se maltrattamenti del genere abbiano contribuito alla morte di Mohamed Morsi e assicurare che i responsabili delle violazioni dei diritti umani commesse ai suoi danni siano chiamati a risponderne. Paraguay. Scontri nel carcere di San Pedro provocano 10 vittime agensir.it, 19 giugno 2019 I vescovi: “strutture sotto le condizioni minime richieste”. “Dolore e indignazione” viene espresso dalla Conferenza episcopale del Paraguay (Cep), in seguito ai fatti accaduti domenica nel carcere di San Pedro di Ycuamandyyú, nel dipartimento di San Pedro, dove in seguito a violenti scontri sono morti in modo sanguinoso e brutale dieci detenuti (alcuni sarebbero stati decapitati e altri bruciati). Secondo le autorità si è trattato di uno scontro tra organizzazioni criminali rivali. Numerosi anche i feriti. La nota della Cep, diffusa ieri, rende nota “la ferma condanna e il ripudio per questi crimini eseguiti con brutalità” e “la preghiera per le vittime e le loro famiglie, oltre che promettere l’accompagnamento da parte della Pastorale penitenziaria”. Secondo i vescovi, “i fatti accaduti mettono in evidenza una volta di più la situazione di precarietà e di mancanza di attenzione strutturale per i centri penitenziari del Paese, che si trovano impossibilitati a ospitare i detenuti nelle condizioni minime richieste per poter realizzare gli obiettivi di recupero e reinserimento nella società delle persone private della loro libertà”. Nel comunicato la Cep segnala alcuni fattori che aggravano la situazione, tra cui “un contesto legale che favorisce il carcere preventivo di persone che, in alta percentuale, vengono processate ma non condannate” e non meritano di stare in carcere in situazioni così disumane; “un sistema giudiziario lento, burocratico e costoso; infrastrutture e personale insufficienti nei centri penitenziari; la mancanze di carceri di massima sicurezza, separati dagli altri, per i gruppi di detenuti più pericolosi, legati alla criminalità organizzata e in particolare al narcotraffico, al traffico di armi e di persone”. Quanto accaduto, insomma “era solo questione di tempo”. I vescovi chiedono venga dichiarata “una situazione di emergenza” per affrontare un lavoro profondo e “articolato tra i poteri dello Stato” e una riforma adeguata del sistema carcerario.