Se il linguaggio dei politici chiude al recupero dei detenuti di Antonio Mattone Il Mattino, 18 giugno 2019 Il linguaggio di alcuni politici con degli slogan che stanno diventando un mantra di giustizialismo come “buttare la chiave”, “marcire in galera”, certezza del carcere”, non lasciano ben sperare. Che qualcosa non andasse per il verso giusto si percepiva da qualche tempo. Piccoli segnali di un malessere che piano piano si andava insinuando nei corridoi e tra i reparti del carcere di Poggioreale. Segnali che tuttavia non lasciavano presagire che si potesse sfociare in una sommossa. Atti di violenza e aggressioni verso gli agenti e altri detenuti, come quello di alcuni mesi fa nel padiglione Napoli, quando una trentina di carcerati ha aggredito un giovanissimo nigeriano per poi scaraventarlo dai ballatoi sulle reti di protezione, facendogli fare un volo di circa dieci metri, per “toglierlo dalle mani di chi lo stava ammazzando di botte” ha affermato l’autore di questo gesto. Più recentemente un recluso ha tirato uno sgabello contro un compagno mancandolo, ma colpendo il dito di un poliziotto penitenziario, procurandogli una grave ferita. Altri episodi potremmo aggiungere a questi, indice di una tensione sempre più alta che sta percorrendo il penitenziario con il maggior numero di detenuti nell’Europa occidentale. Cosa sta succedendo nel carcere di Poggioreale? O forse potremo dire meglio, cosa sta avvenendo nelle prigioni italiane visto che proteste, rivolte e violenze si susseguono con una certa frequenza? Infatti prima di Napoli, Sanremo, Rieti, Spoleto, Campobasso, solo per fare qualche esempio, sono stati teatro di disordini che evidenziano il clima di inquietudine ed esasperazione che si respira nelle nostre galere. Il sovraffollamento sta raggiungendo livelli insostenibili. Se negli istituti di pena della Campania si registra un tasso medio pari al 130%, nelle carceri di Poggioreale, Benevento e nel femminile di Pozzuoli viene superata la soglia del 150%. A questo aggiungiamo il caldo torrido di questi giorni che rende infernale la vita all’interno delle celle. Immaginiamo soltanto cosa voglia dire essere in 12 e fare la fila la mattina per andare in bagno. E poi ci sono tutte le altre criticità di cui abbiamo parlato più volte e che restano sempre lì, senza alcuna soluzione, come la difficoltà per le cure sanitarie, e la presenza di un numero sempre più elevato di persone con disagio psichiatrico. Una condizione che può essere già presente al momento del reato o che può sopraggiungere perché non si regge alla permanenza in cella. È stato proprio il mancato trasferimento in ospedale di un detenuto che si temesse avesse contratto una malattia contagiosa, a scatenare la protesta di domenica. Mi sembra che però a queste criticità si aggiunga qualcosa di nuovo. I messaggi che partono dal governo e dall’amministrazione penitenziaria inducono a gettare nello sconforto e a deludere le aspettative di benevolenza da parte della popolazione penitenziaria. Se il ministro Bonafede parla solo di costruire nuove carceri, senza investire nel cambiamento e nella rieducazione dei detenuti lancia un segnale di poca speranza. Pensare di creare strutture per madri detenute con i loro figli, come annunciato nei giorni scorsi a Napoli, appare poi davvero un segno anacronistico e di chiusura. A questo si aggiunge l’emanazione di circolari che aumentano la conflittualità, come quella che prevede la chiusura di luce e televisione nelle ore notturne. Ma anche il linguaggio di alcuni politici con degli slogan che stanno diventando un mantra di giustizialismo come “buttare la chiave”, “marcire in galera”, certezza del carcere”, non lasciano ben sperare. La rivolta dei detenuti del padiglione Salerno è un ulteriore campanello d’allarme che non può essere non ascoltato, e si deve solo alla professionalità del comandante se la vicenda non è degenerata. Il sindacato di polizia penitenziaria parla di carenza degli organici e critica il regime delle stanze aperte. Ma non è solo aumentando gli agenti e rinserrando i detenuti nelle celle che si può avere un carcere più vivibile. Qui si tratta di ripensare in modo rinnovato il sistema carcere, se vogliamo che da questi luoghi escano persone migliori. Rivolta nel carcere di Poggioreale: l’Ucpi proclama lo stato di agitazione camerepenali.it, 18 giugno 2019 La detenzione in Italia è un inferno fuori legge: 148 le morti in carcere nel 2018, 57 ad oggi nel 2019. Un morto ogni 3 giorni. Una strage di Stato a cui non si vuole porre rimedio. La delibera dell’Unione. La dura protesta esplosa nel carcere di Napoli-Poggioreale per ottenere il ricovero ospedaliero di un detenuto in gravi condizioni di salute è l’ennesima rivolta nelle carceri italiane dove sovraffollamento, caldo, mancanza di acqua, condizioni igieniche drammatiche, assenza di attività trattamentali, ricoveri urgenti non eseguiti rendono la detenzione un inferno fuori legge: 148 le morti in carcere nel 2018, 57 ad oggi nel 2019. Un morto ogni 3 giorni. Una strage di Stato a cui non si vuole porre rimedio. Ieri l’ultima rivolta è stata messa in atto a Napoli-Poggioreale per il mancato trasferimento in ospedale di un detenuto. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, se da un lato condanna qualsiasi forma di violenza, dall’altro evidenzia come tali azioni siano dovute alle condizioni in cui sono ristrette le persone detenute e alla mancanza di una rete di assistenza sanitaria che possa intervenire per le patologie più gravi. L’episodio di Napoli-Poggioreale è l’ultimo in ordine di tempo ed è emblematico di una situazione fuori controllo, da Nord a Sud, dove per ottenere il rispetto di diritti fondamentali delle persone detenute, sembra non resti altro che la rivolta. Il detenuto malato è stato infine tradotto in ospedale, ma gli autori della protesta sono stati già puniti con il trasferimento in altre strutture, mentre i Sindacati di Polizia Penitenziaria chiedono più sicurezza per i loro agenti. Il Ministero della Giustizia non vuole prendere atto delle continue violazioni delle norme dell’Ordinamento Penitenziario e dei principi costituzionali e convenzionali che vietano i trattamenti penitenziari disumani e degradanti, ritenendo di poter affrontare la situazione con la forza, mentre le condizioni di detenzione peggiorano di giorno in giorno e saranno rese ancor più drammatiche dal caldo estivo ormai esploso. L’Unione Camere Penali Italiane nel denunciare le condizioni di ingravescente illegalità nelle carceri di tutto il Paese, alle quali corrisponde la totale indifferenza del Governo, che anzi ha scelto di determinarne il collasso grazie alla adozione di politiche securitarie e carcero-centriche, proclama lo stato di agitazione dei propri iscritti e riserva ogni altra e più dura iniziativa di protesta. Il Presidente Ucpi, Avv.to Gian Domenico Caiazza Il Segretario Ucpi, Avv.to Eriberto Rosso Intercettazioni, scontro Lega-M5s sulla riforma di Errico Novi Il Dubbio, 18 giugno 2019 Alla vertice sulla giustizia mancano poche ore. Domani il guardasigilli Alfonso Bonafede e la plenipotenziaria della Lega Giulia Bongiorno tireranno le somme sia sulla riforma del processo e che sulle nuove regole per il Csm. Ma un tema è destinato a restare fuori dal discorso: quello che, negli auspici di Salvini e della ministra alla Pa, dovrebbe impedire la pubblicazione delle intercettazioni- gossip. Bonafede è netto: è giusto che finisca sui giornali “ciò che ha rilevanza pubblica”. D’altronde l’ultimo tentativo di mettere ordine, il decreto Orlando, è stato di nuovo congelato proprio con un provvedimento caro a Salvini, il decreto Sicurezza bis. Al vertice di domani sulla giustizia, tra Movimento 5 Stelle e Lega ci si riuscirà a intendere su altre questioni. Come l’eliminazione dei “tempi morti” nel processo e, soprattutto, nelle indagini. Ma sulle intercettazioni i margini di intesa sono praticamente nulli. Lo ha ribadito il ministro Alfonso Bonafede nell’intervista rilasciata al Fatto quotidiano di ieri: “Il diritto all’informazione non può essere limitato”, ed è perciò giusto che sui giornali finisca “ciò che ha rilevanza pubblica”. Tradotto: non verrà punito il cronista che citi atti giudiziari anche segreti. Non ci sarà alcuna sanzione ulteriore. Il guardasigilli non intende insomma rafforzare quanto previsto all’articolo 684 del codice penale: la “pubblicazione arbitraria di atti giudiziari” è sì un illecito penale, ma può essere “oblata” col versamento di appena 129 euro. Norma praticamente disapplicata, vista l’irrilevanza, e risalente al Codice Rocco, a quando cioè non solo non esisteva internet, ma neppure la tv, almeno in Italia. Resteranno dunque irrisolte le perplessità della Lega. Che ci sono eccome. Già una settimana fa il vicepremier Matteo Salvini aveva definito “incivile leggere sui giornali le intercettazioni: lo dico adesso che riguardano i magistrati”. Due giorni fa Giulia Bongiorno, che nella Lega ha il controllo totale sul dossier giustizia, ha invocato “sanzioni per chi pubblica trascrizioni gossip”. Ma la risposta negativa di Bonafede è netta. La sua posizione si basa su principi del diritto europeo (che però paiono insufficienti a evitare le devastazioni del processo mediatico) secondo cui rispetto alla privacy deve prevalere l’interesse dei cittadini a conoscere fatti di grande rilievo. Partita chiusa? Probabile. Domani lo si saprà con certezza. Al vertice decisivo, con il guardasigilli e la sua collega responsabile della Pubblica amministrazione, ci sarà sicuramente Salvini. E il premier Giuseppe Conte. Che sulla giustizia avrà un ruolo da mediatore, ma il quale ancora ieri ha chiesto che “la riforma sia ponderata bene: non possiamo certo intervenire per reazioni emotive”. Impossibile che si scongeli all’improvviso proprio un dossier come quello sugli “ascolti”: basti pensare alle volte in cui è stata differita l’entrata in vigore dell’ultimo tentativo di mettere ordine nella materia, la riforma di Orlando (per i codici, il decreto legislativo 216 del 2017). In quel testo c’erano norme che in teoria limitavano proprio le “trascrizioni gossip” additate da Bongiorno, ma che creavano anche un’enorme serie di problemi agli stessi difensori. Non si è riusciti finora ad accordarsi sulla parte di quel testo da mettere in salvo. Anzi, l’ultima volta se n’è posticipata l’entrata in vigore al 31 dicembre 2019 - con un provvedimento caro proprio a Salvini, come il decreto Sicurezza bis. Tutto lascia pensare che quella riforma sia destinata a restare virtuale, almeno con l’attuale maggioranza. Nel frattempo, come più volte rivendicato in queste ore dal ministro della Giustizia e da Luigi Di Maio, ha avuto un impatto enorme l’estensione dell’uso dei trojan ai reati contro la Pa. Se ne ha ora una prova con il caso Palamara: se sappiamo tutto dei suoi colloqui con i togati del Csm o della sua cena con Luca Lotti e Cosimo Ferri è perché nella “spazza corrotti” è stata inserita una micidiale integrazione all’articolo 266 del codice di procedura penale, dove sono definiti i limiti all’uso delle intercettazioni: ebbene, è lì che si è ampliato l’uso dei trojan, ben al di là di quanto avrebbe fatto l’eternamente differita riforma Orlando. Il fatto che i pur parziali correttivi previsti dall’ex guardasigilli siano stati congelati fino a fine anno fa intendere come sulle intercettazioni i margini per la stessa Lega siano affievoliti. Difficile spingersi troppo in là con una battaglia che agli occhi dell’opinione pubblica, per ora appare come un tentativo di mettere la mordacchia ai pm e il bavaglio alla stampa. Difficile anche che abbia respiro l’idea, cero più realistica, di Bongiorno, relativa alle trascrizioni gossip: dopo le parole di Bonafede, pare impossibile che si rafforzino le sanzioni per chi pubblica atti segreti. Sono più chiare e praticabili invece le idee sul Csm: inserire per esempio il “sorteggio parziale” per individuare i magistrati candidabili a Palazzo dei Marescialli, una rosa “casuale” che limiterebbe il controllo delle correnti, insieme con la restrizione dei collegi annunciata da Bonafede. Vero che adesso gli equilibri in plenum favoriscono il gruppo fondato da Piercamillo Davigo, Autonomia & indipendenza, non sgradito al M5s, ma è vero pure che sul dossier vigila il presidente della Repubblica, posto dalla Costituzione anche al vertice del Csm: non è da escludere una sua moral suasion, qualora le modifiche al sistema elettorale del Csm si arenassero. Tra gli interventi praticabili a breve, c’è il ripristino del divieto di assumere incarchi di vertice negli uffici giudiziari (o incarichi fuori ruolo) per i magistrati appena reduci da un quadriennio a Palazzo dei Marescialli. Proprio il nuovo presidente dell’Anm Luca Poniz ha ricordato ieri che “una manina cancellò nottetempo” quella regola sacrosanta. Una cosa è certa: grazie a quel colpo di bianchetto, finito nella legge di Bilancio per il 2018, Luca Palamara avrebbe potuto essere nominato sia procuratore aggiunto a Roma che garante della privacy. A impedirlo, nel frattempo, è stata solo l’indagine-tsunami di Perugia. E intanto il capo dello Stato Mattarella annuncia la propria presenza al plenum straordinario del Csm di Venerdì. Governo paralizzato. Conte: niente fretta sulla giustizia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 giugno 2019 Dopo lo scandalo. Domani vertice, ma per il premier “non si fanno interventi a caldo”. Tanta saggezza spiegata dalle divisioni tra alleati. Vecchie e nuove. Salvini incalza e M5S manda la palla in tribuna. Difficili anche gli interventi richiesti da tutti. Piedi di piombo. “La riforma della giustizia deve essere meditata bene, non possiamo intervenire per reazioni emotive e a caldo”. Con poche parole, pronunciate a Parigi mentre partecipa a un salone aeronautico, il presidente del Consiglio certifica che le divisioni nella maggioranza impediscono passi avanti sulla giustizia. Lo scandalo che ha semi-travolto il Consiglio superiore della magistratura non basta a dare la spinta verso quell’accordo su una materia che Lega e 5 Stelle affrontano con approcci antitetici. Il partito di Salvini si veste di garantismo (ma ditelo a qualsiasi straniero condannato via tweet dal ministro dell’interno subito dopo un fermo di polizia, e talvolta subito prima), i 5 Stelle quando si va sul generale e non sulle vicende che li riguardano recuperano il sostanzialismo di bandiera. Anche l’unica “riforma” destinata ad avere impatto sui tempi della giustizia, nel senso di allungarli, la cancellazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (inserita nella legge anti corruzione e destinata a scattare a gennaio 2020) secondo la Lega andrebbe congelata, adesso che è chiaro che non ci sarà nessuna revisione del processo penale in vigore entro la fine di quest’anno. Il vertice sulla giustizia di Conte, Bongiorno (ministra ombra della giustizia in quota Salvini) e Bonafede (guardasigilli titolare) resta confermato per domani a palazzo Chigi. Ma è infilato tra due appuntamenti più urgenti - sulla risposta da dare alla lettera Ue e il Consiglio dei ministri - che fanno capire che non sarà risolutivo. I nuovi argomenti che il “caso Palamara” porta con sé del resto non facilitano anzi complicano il dossier. Dai fatti di cronaca la Lega trae la conclusione che è il caso di stringere le maglie attorno alle intercettazioni pubblicabili, dimenticando che a giugno dell’anno scorso diede il suo assenso alla decisione del governo di bloccare la riforma approvata nella scorsa legislatura, che una stretta del genere promuoveva. Il ministro grillino Bonafede annuncia un intervento opposto per liberare la stampa da ogni bavaglio, dimenticando che lo aveva annunciato appunto un anno fa. Opposte le posizioni anche sui tempi delle indagini preliminari: dopo aver ascoltato il giudice Davigo e imposto lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, il ministro della giustizia ha dovuto prendere atto che la gran parte delle prescrizioni arriva in fase di indagini. Via libera dunque a una più rigorosa scansione dei tempi per i pm, ma restando nei tempi minimi e massimi attuali secondo i 5 Stelle (da sei mesi a due anni in casi particolari), accorciando invece la durata delle indagini secondo la Lega. Quest’ultima divisione è precedente allo scandalo Csm, e riguarda direttamente la riforma del processo penale, promessa con legge delega per febbraio scorso e mai arrivata. Del resto gli alleati di governo hanno idee opposte anche sui successivi gradi di giudizio: per i grillini (e per l’Anm) andrebbe ridotta al massimo la possibilità di ricorsi e impugnazioni, per Bongiorno (e l’unione camera penali) non se ne parla. Solo in teoria sarebbe più semplice trovare un’intesa sulla nuova legge elettorale per il Csm, da tutti invocata. È vero che nelle dichiarazioni degli esponenti della maggioranza non si registrano notevoli distanze, più o meno tutti hanno indicato la soluzione prepolitica del sorteggio (nelle tre formule: assoluto, oppure prima o dopo un turno elettorale). Ma in questo caso argomenti tecnici e di convenienza politica consigliano di prendersela comoda. Innanzitutto l’introduzione del sorteggio dovrebbe comportare una modifica costituzionale (l’articolo 104 prescrive un’elezione). Una nuova legge elettorale, poi, imporrebbe lo scioglimento del Consiglio in carica (già abbastanza delegittimato): naturale che i consiglieri in carica frenino, tanto più in un quadro di nuova maggioranza (più forte la componente di Davigo e in prospettiva, in caso di dimissioni anche del consigliere Criscuoli, Area). Certamente per muovere un passo si attenderà il turno suppletivo convocato dal presidente della Repubblica per ottobre. E infatti Bonafede si fa ecumenico: “Del metodo di elezione del Csm deve occuparsene il parlamento, non il governo da solo”. Identiche ragioni di opportunità lasciano prevedere che non si farà nemmeno quella piccola riforma per il Csm suggerita direttamente dall’ultimo scandalo e invocata dal nuovo presidente dell’Anm Poniz. Si tratterebbe di tornare alla norma che fino all’anno scorso impediva il passaggio immediato di un magistrato dal Consiglio alle funzioni direttive e semi-direttive, o fuori ruolo (come nel caso del consigliere giuridico della presidente del senato Casellati, che era con lei al Csm nella scorsa consiliatura). Prima delle novità introdotte dal centrosinistra nel 2017 e nel 2014, infatti, uno come Palamara non avrebbe potuto aspirare al posto di procuratore aggiunto di Roma se non dopo due anni dalla fine del mandato al Csm (dunque a fine 2020). Ma proprio un Csm in scadenza ravvicinata rende improbabile la stretta (che Bonafede vorrebbe portare, altro annuncio, a 5 anni). E il primo effetto delle dimissioni dei consiglieri coinvolti nello scandalo è stato quello di consentire a una toga della corrente di Davigo il salto opposto e altrettanto immediato: il giudice Marra è passato dal fuori ruolo come collaboratore del ministro Bonafede al Csm. L’allarme del Quirinale per la magistratura di Concetto Vecchio La Repubblica, 18 giugno 2019 Nel mirino di chi cavalca lo scandalo rischiano di finire la parte sana dei giudici e le authority di garanzia. Assume una forza simbolica la presenza del presidente Sergio Mattarella venerdì al plenum del Csm. La preoccupazione sulla delegittimazione della magistratura è infatti vivissima da parte della presidenza della Repubblica. “Una crisi istituzionale con pochi precedenti”, la definisce una fonte. A una settimana dall’esplosione del mercato delle nomine è questa infatti la principale preoccupazione che anima il Quirinale: il potere giudiziario, un architrave dello stato di diritto, è finito nel fango di uno scandalo. E tutto ciò è successo proprio mentre in Italia governano i populisti. Anche perciò, s’intuisce, il presidente sarà presente a palazzo dei Marescialli, anche se in fondo si tratta di una seduta in teoria tecnica, relativa all’insediamento dei nuovi componenti del Csm, e all’indizione delle elezioni supplettive dei due componenti del Consiglio tra i pm. Ma stavolta la presenza va nettamente al di là della necessità formale imposta dal ruolo. La torbida manovra di schizzare di fango il Quirinale da parte dei protagonisti dello scandalo si è sgonfiata rapidamente, era un tentativo tra i più maldestri: e questo ormai è chiaro a tutti. Però restano le conseguenze di quanto sta avvenendo. Ovvero, la delegittimazione della magistratura. Anzi, l’auto-delegittimazione. Dalla vicenda escono malconci i gruppi dirigenti delle principali correnti dei giudici, che è anche frutto di una caduta della cultura giuridica e istituzionale, che non può non preoccupare la massima autorità dello Stato. Anche perché, nell’opinione pubblica, il danno d’immagine è fortissimo perché investe l’istituzione nel suo complesso. E proprio mentre Procure importanti indagano su esponenti di primo piano del partito che, dopo le Europee, è maggioritario. Com’è stata possibile questa regressione, da parte dei gruppi dirigenti della magistratura? E stato fatto notare che il Quirinale, per coprire in ordine i posti direttivi rimasti vacanti, aveva suggerito di procedere in ordine cronologico, partendo dai posti rimasti vacanti da più tempo, un principio di rigore, ma è esattamente il contrario di quello che intendevano fare i protagonisti coinvolti nello scandalo. Gli schizzi di fango si spiegano anche così. Come interpretare altrimenti quanto accaduto? Come il tentativo di mettere sotto accusa le poche istituzioni di garanzia che reggono il sistema democratico. E il Quirinale figura naturalmente tra queste. Con un consenso molto forte nel Paese. Le continue standing ovation che vengono tributate a Mattarella nelle sue uscite pubbliche lo dimostrano. Non è passato inosservato, al Colle, il fatto che alcuni siti sovranisti nei giorni scorsi abbiano colto subito la palla al balzo per attaccare il Capo dello Stato, insinuando, spargendo veleni. Oltre al Colle e alla magistratura nel mirino ci sono, da tempo, anche le authority. È notizia di qualche giorno che il Movimento Cinque Stelle voglia piazzare un avvocato vicino a Davide Casaleggio, Stefano Aterno, 50 anni, come Garante della privacy: a capo cioè dell’istituzione che ha multato la piattaforma grillina Rousseau per non avere assicurato adeguate garanzie di riservatezza agli iscritti. Un potenziale caso di conflitto d’interesse, su cui hanno alzato la voce le opposizioni, per denunciarne i rischi, le anomalie. Insomma, se da un lato il Capo dello Stato auspica che la vicenda Csm si chiuda rapidamente, convinto che ciò possa accadere, dall’altro non si nasconde le preoccupazioni per il quadro che emerge dall’inchiesta di Perugia, e per i rischi che corrono le istituzioni di garanzia in un momento delicatissimo della storia del nostro Paese. Il Csm volta pagina. Stop di Mattarella all’azzeramento senza nuove regole di Ugo Magri e Maria Rosa Tomasello La Stampa, 18 giugno 2019 Venerdì convocato il plenum per l’insediamento di due componenti - Ma l’arrivo di nuove carte da Perugia fa presagire altre tempeste. Il Csm volta rapidamente pagina. Venerdì si riunirà il plenum in seduta straordinaria per accogliere due nuovi membri: Giuseppe Marra, fino a ieri in forza al Ministero della Giustizia, e Ilaria Pepe, consigliere alla Corte d’Appello di Napoli. Subentreranno al posto di quelli che si sono dimessi in conseguenza dello scandalo nomine, Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni. Saranno quindi formalizzate le elezioni suppletive che a ottobre rimpiazzeranno altri due dimissionari. Ma la riunione convocata dal vice-presidente, David Ermini, non si limiterà a questi adempimenti. Non per nulla sarà presente il capo dello Stato che, secondo fonti autorevoli di Palazzo dei Marescialli, non solo seguirà attentamente il dibattito ma legittimerà gli avvicendamenti nel Consiglio, pronuncerà un discorso prevedibilmente severo sui mercanteggiamenti portati a galla dalle inchieste e darà l’impulso necessario perché l’organo di autogoverno dei magistrati riprenda a svolgere in pieno le sue funzioni. In altre parole, Sergio Mattarella decreterà ufficialmente la fine dei tentativi di azzerare il Csm che vedono protagoniste le componenti più penalizzate dai nuovi equilibri: dunque anzitutto Magistratura Indipendente e alcuni esponenti laici di centrodestra (in particolare Fi e Fd’I) destinati a perdere la presa che esercitavano su nomine, promozioni e carriere. La nuova geografia del Csm vedrà crescere viceversa il peso tanto di Autonomia e Indipendenza (la corrente di Piercamillo Davigo) quanto di Area-Magistratura democratica. Rafforzato ne risulterà pure il ruolo di Ermini, che Palamara e Lotti avevano individuato come principale bersaglio delle loro manovre. Ma altre tempeste potrebbero scatenarsi sul Csm con l’arrivo a Palazzo dei Marescialli delle nuove carte inviate dalla procura di Perugia che indaga sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Pesano le nuove rivelazioni dell’inchiesta, che fanno luce sulle trame per orientare i vertici delle procure. “Loro ti possono dire che io sono la P5… che sono quello che fa le nomine” dice Palamara, che già sospetta di essere stato intercettato a lungo, all’amico pm Stefano Fava. Al faldone sarebbe allegata, tra le altre, anche una conversazione (di cui non si conosce ancora il contenuto) intercettata il 27 maggio tra Palamara e il procuratore generale di Cassazione Riccardo Fuzio, che nei giorni scorsi aveva avviato l’azione disciplinare contro di lui e contro i cinque consiglieri del Csm presenti alla riunione notturna in un albergo romano, quattro dei quali hanno già lasciato l’incarico. Ieri, nel giorno in cui il plenum è convocato in via straordinaria per prendere atto delle dimissioni di Cartoni e Lepre (che tornano ai loro incarichi a Roma e a Paola), l’aria è tesa. Fuzio vota e lascia velocemente la sala. L’unico a prendere la parola è Giuseppe Cascini, leader di Magistratura democratica, che ricordando uno dei fondatori di Md, Salvatore Senese, magistrato e parlamentare scomparso ieri, commenta amaro: “Alla luce dei conciliaboli triviali di cui leggo in questi giorni, penso che sia andato via un gigante in un’epoca di nani. In questo momento buio per le istituzioni anche per lui abbiamo il dovere di non arrrenderci”. È una seduta lampo, con un unico altro atto formale. Paola Braggion, di Magistratura indipendente, viene eletta con un voto all’unanimità nuovo membro effettivo della commissione disciplinare in sostituzione di Cartoni. Luca Poniz (Anm): carrierismo vera questione morale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2019 La stragrande maggioranza dei magistrati italiani non si riconosce nelle condotte che stanno emergendo. Anzi, giustamente considera offensivo qualsiasi accostamento. E tuttavia non le può e non le deve ignorare, serve uno scatto etico perché tutti noi siamo all’altezza di un compito difficile ma cruciale come l’amministrazione della giurisdizione”. Lo dice in un’intervista al Sole 24 Ore il neo presidente dell’Anm, Luca Poniz. “La questione morale esiste però e si chiama carrierismo esasperato”, afferma Poniz. Nel suo discorso di insediamento lei riconosce l’esistenza di una “questione morale” all’interno della magistratura. Vede il rischio di una crisi sistemica, che l’eccessiva permeabilità di alcuni magistrati alle sollecitazioni della politica riesca in quello che non è riuscito a fare il ventennio berlusconiano, la distruzione della credibilità della magistratura? “No. Su questo bisogna essere chiari. La stragrande maggioranza dei magistrati italiani non si riconosce nelle condotte che stanno emergendo. Anzi, giustamente considera offensivo qualsiasi accostamento. E tuttavia non le può e non le deve ignorare, serve uno scatto etico perché tutti noi siamo all’altezza di un compito difficile ma cruciale come l’amministrazione della giurisdizione. Anm stessa deve essere promotrice di un confronto ampio e senza reticenze. Senza nessuna volontà di nascondere la spazzatura sotto il tappeto: la richiesta di trasmissione degli atti per l’avvio di un procedimento disciplinare interno va in questa direzione”. Innegabile però che l’indagine di Perugia costituisca l’aspetto più deteriore di quella che è però una prassi che ha largamente preso campo all’interno della magistratura, il carrierismo malato, a danno della stessa amministrazione di giustizia… “Questo è vero. Ed è questa la vera questione morale. Però come Anm non siamo stati certo reticenti, abbiamo denunciato già da tempo, ci sono i nostri congressi e non solo a provarlo, buon ultimo quello di Siena, le distorsioni di un sistema al quale però troppi sono sensibili”. In qualche modo però si era provato, anche di recente, a mettere in campo rimedi, come il Testo unico della dirigenza approvato nella passata consiliatura per ridurre i margini di discrezionalità e allargare quelli di prevedibilità… “Il Testo unico della dirigenza è stato una grande illusione, quella di tipizzare il più possibile tutti gli elementi da prendere in considerazione per l’assegnazione degli incarichi. La realtà però si è dimostrata quella di una totale sottovalutazione del lavoro tipico di un magistrato, quello giudiziario, a vantaggio di quelli extragiudiziari o para-giudiziari. Così si è costruito un percorso lungo il quale il magistrato molto ambizioso sa benissimo su cosa puntare per ottenere meriti da fare valere”. Ma allora è un nostalgico di quella “anzianità senza demerito” che ha caratterizzato invece il passato? “Nostalgico non lo so. No, non è affatto nostalgia di quello, ma una decisa rivisitazione dei criteri di valutazione dell’esperienza di lavoro. Faccio solo notare che il sistema attuale permette che al medesimo posto possa concorrere un magistrato con12 anni di anzianità e uno con 28. Con il primo però che magari si è distinto in attività che con l’esercizio della giurisdizione non hanno molto a che fare, e che come tali si prestano a letture comparative opinabili, per essere eufemistici. Regole sbagliate che hanno fatto da cavallo di Troia per la degenerazione dei comportamenti”. Da parte di Area, il suo gruppo associativo, è stato proposto di evitare di presentare candidature di corrente alle prossime elezioni suppletive del Csm. Condivide? “Va spiegato bene: la proposta in sé non ha nulla a che vedere con una brutale idea di “condivisione di responsabilità” senza distinzione alcuna. La proposta intende correggere uno dei difetti del sistema elettorale attuale, e vuole evitare che le candidature siano necessariamente riferibili a un gruppo associativo, con la correlata attività di promozione del candidato secondo le modalità a cui abbiamo assistito in questi anni. Serve invece una reale apertura della competizione anche a chi un gruppo non ha. In questa prospettiva, condivido la proposta, che si completa con quella di mettere a disposizione le stesse strutture dell’Anm per la presentazione e diffusione delle candidature”. Si profilano interventi sul processo penale, alla caccia di certezza dei tempi, soprattutto, sulla durata delle indagini preliminari. Con quali rischi? “Vorrei che su questo punto non si facesse demagogia. Come se a un pubblico ministero faccia piacere trattenere a oltranza i fascicoli e le indagini aperte. La durata dovrebbe essere commisurata alle risorse messe a disposizione. Sa cosa avverrebbe con l’introduzione di una maggiore rigidità, magari accompagnata da sanzioni processuali, come sembra di capire? Che il pubblico ministero, per rispettare i tempi, le indagini neppure le farebbe, con la completezza richiesta, con evidente rischio di un approccio meramente burocratico all’indagine. La doppia controffensiva giustizialista dei grillini di Dimitri Buffa L’Opinione, 18 giugno 2019 Forse adesso qualche deputato e senatore leghista avrà capito che stupidaggine ha compiuto votando ad occhi chiusi senza neanche un paio di giorni di riflessione leggi incostituzionali e abominevoli come il cosiddetto “Spazza corrotti”. Quella che permette (oltre alla retroattività di vendette giudiziarie come nel caso Formigoni) di piazzare i “trojan” anche nei telefoni di chi è sospettato di corruzione o del mitico “traffico di influenze”, altro reato che ancora non si riesce a capire come si possa definire su basi concrete e non solo ideologiche. E forse quando il vento comincerà a soffiare e a “spazzare via” nella loro direzione sarà sicuramente troppo tardi. Ma questi scandali montati ad arte nel mondo del Csm e della magistratura in generale - che consistono nel mettere in piazza le varie “scoperte dell’acqua calda” di repertorio - adesso mostrano il loro vero volto: che è quello di una doppia controffensiva, politica e mediatico-giudiziaria, da parte del pensiero unico grillino, troppo presto dato per sconfitto. Infatti il risultato certo della pubblicazione - sempre arbitraria quantunque incoraggiata dallo stesso ministro Alfonso Bonafede - di brandelli spesso poco comprensibili delle intercettazioni dei vari Palamara, Ferri, Lotti eccetera cosa stanno producendo, molto prima che una vera e propria indagine possa essere incardinata e ad anni luce da un futuro processo? Dal punto di vista ontologico un vero e proprio processo alle intenzioni di chi parla a ruota libera, non sospettando che anche il cazzeggio possa diventare reato. Dal lato pratico, però, il risultato vero consiste nel ripristino a tavolino di una maggioranza grillina e filo Davigo (sconfitta sul campo) in seno al Csm, nonché la ripresa “alla grande” di una ondata di giustizialismo teleguidato che poi coinciderà con la futura campagna elettorale dei Cinque Stelle. Che sarà diretta in primis contro la stessa Lega di Matteo Salvini. Con il corollario di una epurazione in chiave anti-renziana del Pd, che a quel punto sarà pronto per un accordo di vassallaggio con gli stessi grillini dopo future elezioni che Salvini rischia di vedere vincere da altri. Uno scenario da incubo che per gli italiani si tradurrà nello slogan “più tasse (e che tasse, patrimoniale, Imu sulla prima casa, ecc.) per tutti”. Per scongiurare questo immaginario da Venezuela occorrerebbe, invece che tante dirette su Facebook che francamente rasentano la malattia mentale della paranoia ossessiva, uno scatto di coraggio da parte della stessa Lega. Questa è una manovra a tenaglia, l’alleato è a dir poco infido, la magistratura si ricompatta dietro Piercamillo Davigo e Marco Travaglio e avrà il potere in un nuovo Csm dopo le elezioni suppletive. E le loro nomine nessuno le bollerà mai come figlie di chissà quali manovre di palazzo. Un capolavoro di ipocrisia, come ha giustamente detto Luca Lotti, che forse è uno che parla troppo al telefono e nelle riunioni conviviali, ma che di sicuro la sveglia al collo ancora non ce l’ha. Così come non ce l’abbiamo tutti noi che assistiamo a questo sfacelo sgomenti e inerti, non difesi da alcuna istituzione, neanche dalla presidenza della Repubblica, la cui prudenza sconfina nell’attendismo. Ma cosa vogliamo ancora aspettare? Al Governo abbiamo già delle persone buone a nulla e capaci di tutto. Hanno fatto leggi che distruggono lo stato di diritto e che si applicano soprattutto contro i nemici politici. Se si rompono anche gli equilibri in istituzioni di garanzia come la magistratura - e pure lì prevarranno i giustizialisti - non possiamo che attenderci processi di piazza, epurazioni e vendette collettive. Il modello Erdogan-Maduro è già pronto. Andrà di moda nella prossima stagione, pre e poi post-elettorale? A Salvini una pulce nell’orecchio bisognerà pur metterla. O no? Una giurisdizione nuova che garantisca la terzietà dei Pm e carriere separate di Vinicio Nardo Il Dubbio, 18 giugno 2019 Sono tempi difficili per la magistratura, colpita dalle vicende che sappiamo. Lo sono pure per la giurisdizione che perde di credibilità agli occhi dell’intera collettività. E noi avvocati ne facciamo parte, ragion per cui sarebbe sbagliato chiamarsi fuori o, peggio, inferire con critiche generalizzate. La magistratura resta sana e deve essere sostenuta nella sua reazione, di cui peraltro cominciano già a vedersi i primi risultati. Non per questo va minimizzata la deriva autoreferenziale e sclerotizzante di cui la vicenda Palamara rappresenta certo l’aspetto più sorprendente, mentre già si aveva sentore di una pratica sommersa di mediazioni tra correnti che hanno perso molto dell’originario spirito ideale. Un protagonista del passato come Luciano Violante ha parlato di “concezione proprietaria della funzione giurisdizionale da parte della magistratura”. Il nuovo Presidente dell’Anm, Luca Poniz (per lui auguri sinceri!), ha esordito con affermazioni forti. Ha detto che in Costituzione c’è scritto che il magistrato non deve pensare alla carriera ed ha dettato una serie di regole per esaltare lo spirito di servizio. Programma ambizioso, è difficile che basti l’appello alle coscienze (per giunta senza inibire l’accesso al Cosmag, sito di graduatorie e concorsi). Una riforma del Csm, volta a contrastare la spartizione carrieristica, appare ineludibile. Ma caso vuole che proprio adesso sia all’attenzione del Parlamento anche la riforma della separazione delle carriere. Una concomitanza che fa intensificare le opinioni contrarie che in questi giorni vengono espresse con la consapevolezza dell’accresciuta attenzione pubblica al tema. Ed infatti, il fuoco di sbarramento pare avere abbandonato i ritornelli un po’ consunti del passato, tipo la “cultura della giurisdizione” ed il “pericolo di assoggettamento al potere politico” dei pubblici ministeri. Alla sottomissione dei Pm ormai non crede nessuno, adesso ci si concentra sull’argomento dell’appartenenza alla giurisdizione. Tema portante della contrarietà alla separazione delle carriere è che, in tempi di populismo giudiziario, sganciare i Pm dai Giudici significherebbe creare una casta di super poliziotti dotati di poteri, autonomia e preparazione tali da favorire deviazioni autoritarie. Il Pm che condivide la carriera e la cultura del Giudice - si afferma - garantisce il rispetto dei diritti di tutti e non cede alle lusinghe del potere di cui dispone. Tutto molto bello, ma avrei due obiezioni. La prima è che anche l’avvocato è parte della giurisdizione e, tuttavia, riesce ad essere garante del ruolo che svolge (quello difensivo) senza dover condividere la propria carriera con altri. La tenuta etica e culturale dei soggetti della giurisdizione va ricercata in se stessi, non nel sostegno esterno, quasi ad ammettere che da soli non se ne ha la forza. La seconda osservazione è che proprio i fatti di questi giorni smentiscono che il sistema delle carriere congiunte sia in grado di evitare il fenomeno paventato dell’ipertrofia dei Pm. Fenomeno drammaticamente in atto, basti pensare che al centro delle trame in corso di disvelamento c’erano i prossimi incarichi delle grandi Procure. A questo si aggiunge che il ruolo dei pubblici ministeri è preponderante dentro l’Anm: si guardino i presidenti degli ultimi anni. Inoltre, la consacrazione della politica spartitoria si è vista proprio nella componente requirente dove - alle ultime elezioni del Csm - i Pm candidati erano quattro, quanto i posti assegnati. Rigorosamente uno per corrente! Inevitabile chiedersi: di più e di peggio della situazione attuale cosa potrebbe succedere se le carriere venissero separate? Quanto agli altri argomenti di battaglia, rimane l’intramontabile classico della mozione degli affetti: il giudice è bravo e serio, quindi è ingeneroso metterne in discussione l’imparzialità. Come dire, giochiamo gli internazionali di tennis anche se arbitra mio cugino, perché lui è persona integerrima; e se protesti fai la figura del malfidente. Ovviamente, non è un buon modo di ragionare. I sistemi devono poter stare in equilibrio in ogni evenienza, anche in quella più remota e patologica. E l’unico equilibrio possibile si fonda oltre che sull’imparzialità, anche sulla “terzietà”: requisito previsto dall’art. 111 della Costituzione che, chiaramente, presuppone l’appartenenza a carriere diverse, governate da Organi di governo separati. Il Giudice il cui avanzamento in carriera dipenda anche dal PM non si colloca dentro un sistema equilibrato: pertanto il cambiamento ci vuole. Salvo che ci si arrenda alla “concezione proprietaria” di cui parla Violante. Salvo illudersi che si possa davvero cancellare qualsiasi pensiero di carriera dalle menti (e l’accesso al Cosmag dai computer). *Presidente dell’Ordine avvocati di Milano Depistaggio Cucchi, il Gup accetta Governo, Arma dei carabinieri e Casamassima parti civili di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 giugno 2019 Ora è ufficiale: il Gup ha detto sì. La presidenza del Consiglio dei ministri e i ministeri della Difesa e dell’Interno saranno parti civili insieme all’Arma dei carabinieri e alla famiglia Cucchi, nell’eventuale processo agli otto militari (tra cui alcuni alti graduati) accusati di aver depistato e insabbiato le violenze subite da Stefano Cucchi mentre era nelle mani dei carabinieri che lo arrestarono il 15 ottobre 2009. Durante la prima udienza preliminare, ieri, la giudice Antonella Minunni ha accettato le richieste avanzate dal governo e dal generale Giovanni Nistri. Un atto sicuramente non inatteso, come non è sorprendente l’autorizzazione concessa anche all’associazione Cittadinanzattiva e ai tre agenti della polizia penitenziaria accusati erroneamente durante il primo processo proprio a causa delle attività di depistaggio. (La giudice ha invece escluso il Sindacato dei Militari perché all’epoca dei fatti non esisteva). Decisamente meno scontata invece la decisione del Gup di accettare come parte lesa anche il carabiniere Riccardo Casamassima, il militare che con sua moglie Maria Rosati, anche lei in forza all’Arma, aveva per primo rotto il muro di omertà, raccontando cosa aveva sentito in caserma, e aveva così permesso alla procura di Roma di riaprire l’inchiesta sulla morte del geometra morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini. Dopo quella deposizione l’appuntato scelto Casamassima percepisce di essere diventato il target di ritorsioni e denuncia di essere stato demansionato. Che sia vero o no, sicuramente su di lui c’è un fuoco di fila per dipingerlo come “inaffidabile”. Ancora adesso, durante il processo bis che vede alla sbarra cinque carabinieri di cui tre accusati di omicidio preterintenzionale. Lo stesso generale Nistri colse l’occasione dell’incontro con la sorella della vittima e con la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, nell’ottobre scorso, per parlarne male - almeno così riferì Ilaria Cucchi, tanto che Casamassima finì per querelare il suo comandante generale. Oggi ci sarà una nuova udienza e il 17 luglio il Gup deciderà se rinviare a giudizio gli otto indagati dal pm Giovanni Musarò: il generale Alessandro Casarsa, i colonnelli Lorenzo Sabatino e Francesco Cavallo, il maggiore Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, il capitano Tiziano Testarmata e i militari Luca De Cianni e Francesco Di Sano. Il giudizio di pericolosità nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2019 Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Individuazione categoria tipica - Giudizio sulla attuale pericolosità sociale - Elementi della valutazione. Il giudizio di prevenzione si compone di due fasi: la prima è diretta ad accertare l’inquadramento del proposto in una della categorie tipiche di pericolosità previste agli artt. 1 e 4 del d.lgs. 159/201, mentre l’altra, successiva, è finalizzata a formulare, in funzione dell’attualità della pericolosità, un giudizio sul rischio concreto di commissione di condotte illecite e pertanto, avendo ad oggetto il comportamento futuro del preposto, impone una valutazione della complessiva personalità dello stesso, risultante da ogni manifestazione sociale della sua vita, sulla scorta di elementi obiettivamene identificabili e non rimessi all’arbitrario apprezzamento del giudicante. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 3 giugno 2019 n. 24658. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - In genere - Sistema normativo in materia di misure di prevenzione - Conformità convenzionale ad esito della sentenza Cedu De Tommaso c. Italia - Requisiti. In tema di misure di prevenzione il giudizio di pericolosità necessario al fine di rendere le misure conformi convenzionalmente, in un’ottica costituzionalmente orientata ad esito della sentenza della Corte EDU De Tommaso c. Italia, si fonda su un’interpretazione restrittiva dei presupposti per l’applicazione ai c.d. “pericolosi generici” e, dunque, sull’oggettiva valutazione di fatti sintomatici collegati ad elementi certi e non su meri sospetti, significativi di un’effettiva tendenza a delinquere del proposto. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 2 marzo 2018 n. 9517. Misure di prevenzione - Misure personali - Indiziato di appartenere ad associazione di tipo mafioso - Pericolosità attuale del proposto - Valutazione specifica. Posto che nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali nei confronti degli indiziati di appartenere a una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare l’“attualità” della pericolosità del proposto, tale requisito non può discendere in via automatica dalla sola individuazione di appartenenza del soggetto all’associazione mafiosa, pur se riferibile a compagini storiche, ma richiede un’analisi specifica rapportata ai tempi di intervento e agli elementi di fatto accertati al momento applicativo. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 4 gennaio 2018 n. 111. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Appartenenti ad associazioni mafiose - Mafie storiche - Presunzione di pericolosità - Buona condotta carceraria - Irrilevanza - Ragioni. Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti alle “mafie storiche” (mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita), la presunzione semplice di pericolosità sociale confermata dall’esistenza di elementi indicatori della persistenza e attualità del vincolo, quali la rilevanza del tipo di contributo fornito all’associazione mafiosa e la condivisione del progetto antagonista e antistatuale dell’associazione mafiosa manifestatosi nella reiterata commissione di crimini violenti finalizzati agli scopi criminali dell’associazione, non può essere scalfita dalla buona condotta carceraria che non è indicativa della concreta cessazione dello stato di pericolosità e dell’esplicito recesso dal vincolo associativo. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 23 maggio 2018 n. 23128. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Pericolosità sociale - Misure di prevenzione personali - Accertamento della pericolosità attuale per ogni categoria di soggetti destinatari della proposta - Necessità - Elementi desumibili da procedimenti penali - Possibilità - Limiti. In tema di misure di prevenzione personali, la valutazione del requisito di attualità della pericolosità sociale deve essere effettuata per tutte le categorie dei soggetti indicati nell’art. 4, D.Lgs. n. 159 del 2011, che possono essere assoggettati a misure di prevenzione personali con la conseguenza che, non essendo ammissibile una presunzione di pericolosità derivante esclusivamente dall’esito di un procedimento penale, è onere del giudice verificare in concreto la persistenza della pericolosità del proposto, specie nel caso in cui sia decorso un apprezzabile periodo di tempo tra l’epoca dell’accertamento in sede penale e il momento della formulazione del giudizio sulla prevenzione. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 5 giugno 2014 n. 23641. Toscana: il Garante dei detenuti inizia digiuno per situazioni Sollicciano, Livorno e Pisa regione.toscana.it, 18 giugno 2019 Franco Corleone: “Non sono più accettabili ritardi su impegni già presi. La mia iniziativa è solo l’inizio, voglio risposte chiare e comprensibili”. Da mezzanotte, tre giorni di sciopero della fame. Partono da questa notte i tre giorni di digiuno del garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. Annunciato lo scorso 11 giugno ai giornalisti durante la conferenza stampa di presentazione dei progetti per il teatro stabile di Volterra, quello che comincia adesso, spiega Corleone, “è solo l’inizio di una serie di digiuni che intendo seguire”. Gli obiettivi “chiari e comprensibili” della sua iniziativa, annuncia il Garante, riguardano in questa prima fase gli istituti di Firenze, Livorno e Pisa. “Intendo conoscere la data di inaugurazione della seconda cucina a Sollicciano, così come quella di alta sicurezza a Livorno e l’esatta apertura dei servizi igienici della sezione femminile di Pisa. Non sono più accettabili ritardi o tempi improbabili per opere da troppo tempo promesse”, spiega il garante regionale. Ma sul tavolo c’è anche altro, a dimostrazione di quanto sia urgente e non più procrastinabile una “vera riforma del carcere in Toscana. È urgente - spiega Corleone - una decisione limpida e coerente sulla destinazione del Gozzini come sede di una Casa delle donne, non di un carcere femminile. Un istituto, cioè, rispettoso della differenza di genere, per una detenzione che offra la possibilità di un reale reinserimento sociale e una pratica di esercizio di diritti e responsabilità”. E tra gli “impegni da mantenere”, Corleone torna su quello del Teatro stabile di Volterra: “Chiedo un tavolo di confronto tra tutti i soggetti che hanno responsabilità”. Tra questi cita il provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, quello alle opere pubbliche, la sovrintendenza dei Beni culturali e architettonici. “Bisogna definire un progetto di valore culturale e una decisione che salvi il finanziamento”. Il Garante ricorda anche la petizione lanciata su Change che ha riscosso un “vasto consenso, arrivando finora a oltre 2mila firme. L’obiettivo - spera Corleone - è che alla fine degli spettacoli di quest’anno ci possa essere l’annuncio che finalmente un progetto è stato scelto e si realizzi una straordinaria opportunità di crescita sociale e recupero architettonico”. Abruzzo: il Consigliere Di Benedetto “urgente la nomina del Garante dei detenuti” corrierepeligno.it, 18 giugno 2019 Il Consigliere regionale Americo Di Benedetto (Legnini Presidente) è intervenuto oggi per richiamare l’attenzione dell’Assemblea regionale sulla necessità, ed urgenza, di adivenire al più presto alla nomina del Garante dei detenuti. Infatti l’Abruzzo, complice anche una legislazione regionale complessa, non è riuscita finora a centrare l’obiettivo. Secondo Di Benedetto “Nel carcere dell’ Aquila due detenute del reparto di massima sicurezza sono in sciopero della fame dal 29 maggio. Protestano per l’isolamento a cui sono costrette e denunciano una struttura chiusa e dura! La garanzia della certezza della pena non può escludere la tutela dei diritti basilari delle persone, men che meno privarle di un senso di umanità. La pena in uno stato di diritto non deve mai perdere il faro della rieducazione e della speranza. Voltaire diceva che il grado di civiltà di una nazione si misura dalla condizione delle proprie carceri”. “L’episodio dello sciopero della fame - sottolinea Di Benedetto - evidenzia la criticità di un carcere come quello dell’Aquila, adibito esclusivamente a detenuti e detenute in 41 bis ed ora anche con una sezione per detenute in massima sicurezza. L’Abruzzo ha diversi istituti penitenziari e tutti con tante problematiche. Alla luce di queste considerazioni si rileva ancor più l’urgenza della nomina del Garante regionale dei detenuti. Auspico, pertanto, che la nomina venga discussa il prima possibile in Consiglio regionale. L’Abruzzo è forse l’unica regione in Italia a non averlo”. “Il Garante - spiega il capogruppo di “Legnini Presidente” - serve per aiutare le stesse Istituzioni a capire le problematiche di un mondo diverso da quello nostro, il mondo della reclusione. Questo mondo non va delegato solo agli addetti ai lavori, direttori, funzionari e agenti penitenziari, ma deve coinvolgere la società nel suo complesso”. “Il carcere - conclude Di Benedetto - non deve essere una scuola per poi tornare a delinquere, ma deve aiutare a far cambiare in positivo le persone che hanno sbagliato! Non è una cosa semplice, ma va perseguita”. Napoli: rivolta a Poggioreale, il capo del Dap in carcere rileva “gravi deficit strutturali” di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 18 giugno 2019 Basentini dopo i disordini: presto lavori al padiglione Salerno. “Le proteste nel carcere di Poggioreale, provocate, secondo una prima ricostruzione, dal presunto ritardo nelle cure a un detenuto ritenuto in gravi condizioni di salute, hanno in realtà solo fatto precipitare una situazione determinata dallo stato di gravi condizioni di fatiscenza del padiglione Salerno”: questa l’impietosa analisi di Francesco Basentini, capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che ieri mattina ha visitato l’istituto al centro della violenta rivolta di domenica. Circa duecento detenuti hanno messo a soqquadro celle e corridoi del padiglione, minacciando gli agenti con pezzi di mobili e altri oggetti. La rivolta è poi rientrata al termine di una trattativa condotta dal comandante del reparto di polizia penitenziaria, Gaetano Diglio, e dal provveditore regionale, Giuseppe Martone. I più violenti tra i protagonisti della rivolta sono stati trasferiti in altre carceri. Il capo del Dap, accompagnato da Maria Luisa Palma, direttrice dell’istituto, dal provveditore regionale e da Samuele Ciambriello, garante dei diritti dei detenuti della Campania, ha visitato tutti i reparti del padiglione dove si è svolta la protesta e ascoltato a lungo le ragioni dei detenuti. Al termine della visita, Basentini ha parlato di “condizioni di deterioramento strutturale innegabili, per affrontare le quali è stato disposto, con l’Ufficio tecnico del Provveditorato, un cronoprogramma di lavori, da interventi immediati per rendere vivibile il reparto fino alla ristrutturazione complessiva del padiglione. Si è inoltre accertato e chiarito che Luciano De Luca, il detenuto affetto da gastroenterite era già stato accompagnato al pronto soccorso e dimesso in quanto dai medici non era stato ritenuto necessario il ricovero”. Dopo i colloqui con il capo dipartimento, gli stessi reclusi che avevano organizzato la protesta hanno provveduto a ripulire le aree danneggiate. La madre di Luciano De Luca, Tina, tuttavia non è convinta che l’emergenza sia stata superata. “Mio figlio - racconta in lacrime - è uno scheletro. Venerdì, quando l’ho visto, era tutto viola intorno agli occhi. Non so spiegare quello che sta passando. Ha sbagliato, deve pagare e lo sta facendo, ma non deve rimetterci la vita. Mi hanno riferito - prosegue - che i risultati delle le analisi sono buoni. Eppure, quando stamattina ho chiesto di sapere come sta, le guardie penitenziarie si sono limitate a dirmi: pensiamo che stia bene. Nella cella in cui era detenuto, nel padiglione Salerno, erano in 15. È svenuto più volte e un altro recluso che se n’è accorto ha urlato per farsi sentire, per chiedere aiuto. Oggi alcuni compagni di cella di mio figlio sono stati trasferiti per punizione, ma quelle persone hanno solo voluto aiutare Luciano. Le condizioni dei detenuti nel carcere sono pessime”. L’avvocato di De Luca, il penalista Celestino Gentile, non è riuscito ancora a incontrarlo: “Sembra che gli stiano somministrando delle flebo e che non sia in grado di svolgere il colloquio con il difensore. Domani (oggi per chi legge, ndr) sarà mia cura tornare in carcere per verificare il suo stato di salute. Magari, se è il caso, chiederò anche di far entrare un medico scelto dalla famiglia per farlo visitare. Il punto è che, secondo l’ordinamento, serve l’autorizzazione della direzione del carcere. In sua assenza non è possibile far entrare un medico. La cosa strana e preoccupante è che, come mi ha spiegato la madre, già venerdì il giovane manifestava segni di profondo malessere”. Napoli: rivolte, affollamento e crolli. Poggioreale, carcere da rifare Metropolis, 18 giugno 2019 Come se non bastasse il dramma sovraffollamento e le critiche sulle condizioni di abbandono dei detenuti, esplode l’emergenza legata alle condizioni strutturali del carcero di Poggioreale. A mettere a nudo l’ennesima criticità legata alla gestione del penitenziario napoletano - ritenuto uno dei peggiori d’Italia - è stata la visita del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Francesco Basentini che si è recato, ieri mattina, nella Casa circondariale in seguito alla protesta che, domenica, ha visto protagonisti 200 detenuti. Rivolta rientrata al termine di una trattativa condotta dal comandante del reparto di Polizia Penitenziaria dell’istituto Gaetano Diglio e dal Provveditore regionale Giuseppe Martono. Il capo del Dap, accompagnato da Maria Luisa Palma, direttrice dell’Istituto, dal Provveditore regionale e da Samuele Ciambriello, garante dei diritti dei detenuti della Campania, ha visitato tutti i reparti del padiglione “Salerno” dove si è svolta la protesta e ascoltato a lungo le ragioni dei detenuti. “Dal sopralluogo e dagli incontri - si legge - è emerso che la protesta provocata, secondo una prima ricostruzione, dal presunto ritardo nelle cure a un detenuto ritenuto in gravi condizioni di saluto, hanno in realtà solo fatto precipitare una situazione determinata dallo stato di gravi condizioni di fatiscenza del padiglione. Condizioni di deterioramento strutturale innegabili, per affrontare le quali è stato disposto, con l’Ufficio tecnico del Provveditorato, un cronoprogramma di lavori, da interventi immediati per rendere vivibile il reparto fino alla ristrutturazione complessiva del padiglione. Si è inoltre accertato e chiarito che il detenuto affetto da gastroenterite era già stato accompagnato al pronto soccorso e dimesso in quanto dai medici non era stato ritenuto necessario il ricovero. Dopo i colloqui con il Capo Dipartimento, gli stessi detenuti hanno provveduto a ripulire le aree danneggiate nel corso della protesta”. A rimarcare l’importanza dogli interventi di ristrutturazione da realizzare all’interno del penitenziario è anche il Garante dei Detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “La visita del Dap nella persona del capo Basentini è un segnale importante - le parole di Ciambriello - Ora bisogna accelerare con ì lavori di ristrutturazione, e che siano radicali”. Ciambriello ha chiesto interventi immediati per procedere alla ristrutturazione di alcuni padiglioni del carcere napoletano. Oltre al padiglione Salerno (dove domenica c’è stata la protesta dei detenuti), bisognerò procedere alla ristrutturazione, a giudizio di Ciambriello, anche dei padiglioni Livorno, Milano e Napoli. Oltre ai problemi strutturali di Poggioreale, il garante affronta anche la questione delle scarse risorse umane messe in campo: “Il sottorganico degli agenti, il cui lavoro è encomiabile, è un problema reale: dì 4.000 impiegati in Campania, 800 al giorno di media non lavorano per varie motivazioni, fra cui la principale è il logorio psicofisico professionale, per cui chi rimane fa dei turni massacranti. Basentini ha detto che in Campania entro settembre saranno allocati 70 nuovi agenti”. Per Ciambriello i soldi per mettere a posto il carcere ci sono già. “Ho già denunciato l’esistenza di 12 milioni di euro di finanziamenti da tre anni, ne dispone il Provveditorato regionale delle opere pubbliche che, per ora, ha fatto solo sopralluoghi: con quella cifra si sistema tutto, non solo apportando piccole ristrutturazioni in economia”. Roma: “mio figlio sta male e non può stare in carcere, lo stanno uccidendo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2019 La denuncia di Vincenzo Messina, il padre di Tiziano, detenuto a Rebibbia. “Mio figlio rischia di morire, è gravemente malato ed è ancora in carcere perché ancora non hanno individuato una struttura sanitaria in grado di ospitarlo”. È il grido di dolore di Vincenzo, il padre di Tiziano Messina, un ragazzo di 27 anni in carcere dal 2017 accusato di tentato omicidio e in attesa della sentenza di Cassazione. Ma in carcere è incompatibile a causa di un batterio che ha contratto in ospedale durante un intervento urgente che ha subito a dicembre. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è obbligato a trovargli una struttura idonea a curare la sua patologia, perché in carcere rischia di non farcela più. Attualmente è recluso nel reparto G14 di Rebibbia, una sezione per i detenuti malati. Ma l’ambiente non è assolutamente compatibile con la sua patologia. È dimagrito a dismisura, sanguina e può muoversi solo attraverso una sedia a rotelle. “Ogni volta che lo hanno portato in ospedale - denuncia a Il Dubbio il padre di Tiziano - noi familiari non venivamo mai avvertiti e lo apprendiamo solamente quando andiamo a fare il colloquio”. Tiziano Messina entra in carcere che sta bene, dopodiché a dicembre scorso ha un episodio di aritmia, il cuore gli pulsa fortemente, una tachicardia che ha messo in allarme gli operatori del carcere tanto da mandarlo urgentemente all’ospedale Pertini per una visita. I medici scoprono che ha una patologia al cuore e lo operano tramite un sondino. Durante questo intervento contrae un batterio ospedaliero, resistentissimo agli antibiotici e gli ha creato dapprima problemi intestinali, poi con il passar del tempo dei forti dolori al petto. Fanno l’ecografia e scoprono che è dovuto da una piccola perdita del pericardio, la quale ha creato un ematoma. Passa qualche mese e la sua situazione non migliora. Anzi, si aggrava. Siamo a febbraio quando il suo avvocato, Domenico Pirozzi, visto l’aggravarsi delle condizioni di salute di Tiziano, ha chiesto alla Corte d’Appello di Roma di autorizzare il suo trasferimento in struttura specialistica: i giudici rispondono alle istanze della difesa disponendo che la Direzione di Rebibbia inviasse una relazione in tempi brevi, 7 giorni, e si determinasse sulla compatibilità del detenuto e della sua malattia rispetto a quanto poteva offrire la struttura carceraria alla sua guarigione. Il 13 febbraio, scaduto il termine, la Corte ha ricevuto la relazione, ma “al fine di escludere eventuali profili di incompatibilità” ha nominato un perito perché predisponesse la perizia medica, con lo scopo di “accertare se sussistono patologie che rendono incompatibile la detenzione di Messina Tiziano con il regime carcerario e anche se dette patologie possano essere adeguatamente trattate e curate presso la struttura del carcere”. All’esito della perizia emerge che Tiziano non ha ricevuto alcun giovamento dai trattamenti sanitari, anzi le patologie si moltiplicano aumentando di intensità. L’aggravamento delle condizioni è la ragione per cui il difensore chiede un nuovo accertamento sulla compatibilità. Dopo un continuo ping pong, arriviamo così alla fine di aprile, quando il difensore propone nuova istanza di sostituzione della misura chiedendo gli arresti domiciliari nella casa della famiglia di Tiziano. “A seguito del colloquio avuto oggi si evidenzia un ulteriore perdita di peso, riferiva 43 kg ma dice che il medico indicasse fossero 51 spiegando che la bilancia era tarata male”, scrive l’avvocato alla Corte nella sua richiesta. Sembrava che questa richiesta avesse dato finalmente l’esito sperato, cioè quello di mandare Tiziano agli arresti domiciliari in una struttura di cura adeguata alle sue specifiche patologie: la Corte ha disposto nuova perizia e il perito ha osservato che la patologia può sì essere farmacologicamente controllata, ma che l’intervento terapeutico sarebbe stato di difficile attuazione in ambiente penitenziario, così da rendere attuabile solo una detenzione in struttura ospedaliera adeguata alla stabilizzazione del quadro clinico. Il 22 maggio la Corte ha ordinato i domiciliari presso una struttura adatta e il Dap avrebbe dovuto individuarla. Ma nulla di fatto. Siamo così arrivati all’11 giugno e il difensore ha presentato istanza alla Corte per sostituire la misura con gli arresti domiciliari: la Corte deciderà domani se lasciare Tiziano ad attendere in carcere di essere curato in modo adeguato, oppure se mandarlo a casa agli arresti domiciliari. Ma nel frattempo Tiziano peggiora sempre di più. L’Aquila: detenute in sciopero fame, l’on. Pezzopane chiede intervento ministro Bonafede abruzzoweb.it, 18 giugno 2019 “La situazione delle due donne detenute nel reparto di massima sicurezza del carcere dell’Aquila risulta preoccupante e ritengo vada verificata con urgenza. Conosco l’impegno costante e quotidiano del personale di Polizia penitenziaria e di tutta la struttura operativa a Costarelle, ma le notizie che arrivano non sono positive. Ho pertanto presentato una interrogazione al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere un suo immediato intervento”. Così la deputata del Pd Stefania Pezzopane dopo aver appreso la notizia che “dal 29 maggio scorso due detenute del reparto di massima sicurezza del carcere dell’Aquila sono in sciopero della fame per protestare - scrive nell’interrogazione Pezzopane - per l’isolamento totale a cui sono sottoposte”. Il tutto proprio nel giorno della protesta all’Aquila di due gruppi di anarchici che si oppongono alle restrizioni imposte dal regime carcerario del 41bis e chiedono la chiusura della sezione Alta Sicurezza 2: il primo ha occupato la sala Cesare Rivera di Palazzo Fibbioni e l’altro il cantiere del palazzo adiacente al Duomo, sede dell’Arcidiocesi dell’Aquila, ancora in Ricostruzione. La parlamentare abruzzese del Pd ha chiesto inoltre al ministro Bonafede di “verificare se la condizione di isolamento prevista dallo statuto carcerario non sia in contrasto con principi costituzionalmente sanciti e con i più elementari diritti umani e come intenda risolvere una situazione così pericolosa visto che le due donne sono già al diciassettesimo giorno di sciopero totale della fame”. Modena: delegazione M5S visita il carcere “i clandestini sono oltre la metà dei detenuti” modenatoday.it, 18 giugno 2019 Il Governo, il Parlamento e il territorio ce la stanno mettendo tutta per il Sant’Anna”. Lo afferma la deputata del Movimento 5 Stelle Stefania Ascari, componente della Commissione Giustizia”. Il carcere di Sant’Anna è stata meta di una visita istituzionale da parte della deputata M5S Stefania Ascari, insieme ai consiglieri comunali M5S Giovanni Silingardi ed Enrica Manenti. Accompagnata dal direttore Federica Dallari, la delegazione pentastellata ha incontrato persone detenute, agenti della Polizia Penitenziaria ed educatori. “Abbiamo visitato i reparti del vecchio e del nuovo padiglione - sottolinea la deputata - rivelando le differenze. A ottobre avevo presentato un’interrogazione parlamentare sul carcere, a cui il Ministero ha risposto in modo molto rassicurante. È stata confermata l’intenzione di dare risorse alla struttura per sistemare gli aspetti più vetusti da un punto di vista della sicurezza e dell’informatica, soprattutto potenziando gli organici”. Nella risposta all’interrogazione è stato ricordato il nuovo padiglione da 150 posti, ma non solo. “Nel corso del 2018 sono stati finanziati interventi di adeguamento dell’impianto elettrico dei locali dell’impresa di mantenimento - si rimarca nel testo - e dell’impianto termoidraulico presso la cucina detenuti e il magazzino”. V’è poi il nodo del personale. Undici gli agenti in più arrivati lo scorso settembre. “Con la legge di bilancio per il 2019 è stata pianificata l’assunzione di 1.300 unità del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’anno 2019 - è aggiunto nel testo di risposta - e di 577 unità dal 2020 al 2023, con uno stanziamento di maggiori risorse per 71 milioni e mezzo di euro, per il triennio 2019-2021. Inoltre, nella medesima direzione si iscrive l’immissione in ruolo di 976 allievi vice-ispettori che lo scorso mese di marzo hanno terminato il relativo corso di formazione. Quanto invece al ruolo dei sovrintendenti, sono tuttora in corso le procedure per il concorso interno a complessivi 2.851 posti per la nomina alla qualifica di vice-sovrintendente del ruolo maschile e femminile del Corpo”. I pentastellati hanno conosciuto progetti avviati in carcere per avvicinare le persone detenute al reinserimento sociale. “Trentacinque sono donne - prosegue Ascari - e l’aspetto che fa più riflettere è che oltre il 50% è composto dai cittadini extracomunitari senza titolo di soggiorno, mentre il 30% è italiano. Fa riflettere sulle persone clandestine e interrogare su una gestione del problema dell’immigrazione molto più complessa, a cui il Parlamento e il Governo stanno ponendo un’attenzione alta”. Un’attenzione richiesta dai consiglieri comunali M5S a livello locale. “Chiederemo al Comune di fare tutto il possibile per agevolare il corretto funzionamento della casa circondariale - conclude Silingardi - e dare sostanza all’articolo 27 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena. Il Comune deve portare avanti progetti per consentire ai carcerati d’iniziare un percorso che possa reinserire funzionalmente le persone nella vita sociale. Altri soggetti hanno avviato convenzioni, protocolli e progetti: è necessario lo faccia anche il Comune di Modena. Porteremo il punto in Consiglio, vedremo cosa risponderà la Giunta”. Monza; +Europa denuncia “il carcere è tra i più sovraffollati d’Italia” di Valentina Rigano mbnews.it, 18 giugno 2019 Lunedì 17 giugno, tre attivisti di +Europa Brianza hanno visitato la casa circondariale di Monza, in occasione trentaseiesimo anniversario dell’arresto di Enzo Tortora e in accordo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I delegati hanno incontrato la direttrice dell’istituto, dottoressa Maria Pitaniello, e un rappresentante della Polizia penitenziaria, ricevendo le loro osservazioni. Hanno poi visitato la sezione di prima accoglienza, le sezioni 2 e 4 del circuito di media sicurezza in regime di custodia aperta (con le porte delle celle che restano aperte durante la giornata), la sezione dedicata agli ospiti in monitoraggio sanitario/psichiatrico e la sezione di isolamento, dove attualmente è presente un solo detenuto con problemi psichiatrici. L’associazione, in una nota, ha poi comunicato come “la casa circondariale di Monza presenta una delle situazioni di peggiore sovraffollamento carcerario in Italia” dove gli ospiti “tutti di sesso maschile, sono 648 su una capienza di soli 403 posti, per un sovraffollamento del 161%, di cui 287 stranieri, ovvero il 44%”. Particolarmente difficile il quadro legato alle dipendenze, “con 295 detenuti che soffrono di problemi legati all’alcol, alle sostanze stupefacenti o al gioco d’azzardo.” La situazione di maggior sovraffollamento e fragilità si trova nelle sezioni del circuito di “media sicurezza”. “La direttrice del carcere ha lamentato l’eccessivo turn-over del personale medico, assunto mediante contratti a termine, mentre sarebbe necessaria una presenza prolungata e costante”, ha scritto Francesco Condò, referente della delegazione, che ha proseguito “un altro problema è quello della carenza di educatori, che sono solo quattro invece dei sei previsti dall’organico, mentre positivo è l’avvio nei prossimi giorni dei lavori di ristrutturazione dell’ex settore femminile e della caserma di polizia penitenziaria interna, finora inagibili, la cui messa a disposizione potrebbe arginare il sovraffollamento della struttura”. Infine l’associazione ha reso noto che in due camere di mancavano le lenzuola, con gli ospiti che dormivano su un materasso in gommapiuma e un cuscino privo di rivestimento. Cagliari: il Comune avrà il Garante dei detenuti Redattore Sociale, 18 giugno 2019 Il Consiglio comunale approva una mozione presentata dal Gruppo socialista per creare la figura di garanzia delle persone private della libertà personale. Non avrà poteri effettivi, ma opererà per migliorare la qualità della vita dei reclusi. Verrà nominato anche a Cagliari il Garante delle persone detenute: un’autorità di controllo della legalità nei luoghi di detenzione. Approvata all’unanimità in Consiglio comunale una mozione presentata nel luglio di due anni fa dal gruppo socialista composto fa Francesco Ballero e Raimondo Perra. “Dotata di autonomia e indipendenza - hanno spiegato i relatori - alla nuova autorità si potrà rivolgere il singolo detenuto per ottenere l’effettiva tutela dei propri diritti. Una figura di cerniera tra la realtà carceraria e l’esterno. Svolge funzioni di osservazione e vigilanza e ha la facoltà di promuovere iniziativa e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti dei detenuti”. Approvata la mozione, inserita all’ordine del giorno dell’ultimo consiglio anche se ormai datata, in Giunta già da qualche tempo si stava lavorando alla nascita del garante, ormai attivo in varie altre grandi città italiane tra cui anche Nuoro e Sassari. “Gli ambito di intervento specifici - spiegano Ballero e Perra - si possono essere diversi. Dalle visite periodiche di controllo ai luoghi di detenzione, alle iniziative di ascolto dei problemi dei detenuti, maanche la pressione e collaborazione con le amministrazioni penitenziarie per risolvere eventuali problemi. Potrà anche effettuare denunce pubbliche in caso di violazioni delle leggi sull’ordinamento penitenziario o sui regolamenti degli istituti di pena”. Il Garante, rispetto a possibili segnalazioni (telefonate, e-mail, lettere) si rivolge all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli interventi e le azioni necessarie per il ripristino di eventuali diritti violati del detenuto violati. Una figura nuova e sperimentale, non ancora dotata di poteri effettivi e non prevista dall’ordinamento penitenziario, ma che servirà comunque per ridurre i disagi che attualmente pagano le persone condannate che devono scontare le pene in carcere. Rimini: dopo tre anni di lavoro si è dimessa la Garante dei detenuti di Lucia Renati newsrimini.it, 18 giugno 2019 Ha dato le dimissioni Ilaria Pruccoli, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, nominata nel 2016. Oggi in commissione consiliare ha presentato la relazione degli ultimi tre anni di attività. La criticità più sentita è il turnover troppo frequente dei direttori. I detenuti nel carcere di Rimini sono 154. Quelli definitivi 73. I detenuti italiani 82 e 70 gli stranieri. Tra questi, le nazionalità più rappresentate sono Marocco (23 persone) e Albania (12). L’ istituto penitenziario di Rimini “I Casetti” è una Casa Circondariale, ciò significa che sono recluse persone sia con condanna definitiva che in attesa di giudizio che hanno ottenuto condanne inferiori ai cinque anni o con residuo pena inferiore ai cinque anni. Le sezioni sono 7, di cui due situate all’esterno delle mura di cinta ed ospitano rispettivamente i semiliberi e i tossicodipendenti. La criticità più evidente è l’assenza di una direzione stabile: in tre anni sono cambiati 5 direttori, ad oggi il posto della direzione è occupato, in maniera temporanea, dal dott. Gianluca Candiano, già direttore del carcere di Rimini nel 2014, per tamponare situazioni di posti vacanti. Un’instabilità che si è cronicizzata. Nel 2018, la Direzione dell’Istituto, il Dap e il Prap si sono interrogati sulla destinazione della sezione Vega che ospitava le detenute transessuali. Sono stati avviati lavori di ristrutturazione che dovrebbero convertire l’ uso di questa parte di Istituto, in palestra. Il ruolo del garante dei detenuti è stato istituito dal Comune di Rimini nel 2014. Ora il Consiglio Comunale provvederà a riemettere un bando per individuare un nuovo garante, come prevede il regolamento. Dalla relazione della Pruccoli una riflessione generale: “Ciò che risulta incomprensibile, incoerente, è che a tale aumento della popolazione carceraria, non corrisponde un aumento dei reati in Italia. Negli ultimi 10 anni gli omicidi sono passati da circa 600 all’anno agli attuali 350 annui. Ma non solo gli omicidi, anche gli stupri, le rapine e i furti sono calati sensibilmente. A mio avviso ciò che più influenza l’aumento dei detenuti in strutture carcerarie è da ricercarsi nella tipologia di persone recluse: è sempre più evidente che le persone detenute provengono da contesti di emarginazione sociale e a volte di disagio psichico, oltre che di povertà economica e culturale, che non permetterebbe ad esempio a queste persone ne di accedere a misure alternative né di assicurarsi un’adeguata difesa. la maggior parte degli stranieri si ritrova a scontare per intero la pena in carcere pur potendo usufruire di benefici quali l’ affidamento in prova o la detenzione domiciliare, proprio per mancanza di alcuni di quegli elementi fondamentali che il Magistrato di Sorveglianza valuta ai fini della pronuncia favorevole di misura alternativa: una dimora abituale e un ambiente socio-familiare positivo”. Nel corso dell’annualità marzo 2018-marzo 2019 si sono rivolti al Garante circa 25 detenuti. Le richieste di incontro sono sempre state formalizzate tramite domandina all’ interno della Casa Circondariale di Rimini. I colloqui effettuati in totale sono stati 30, in quanto uno stesso detenuto ha la possibilità di incontrare il Garante anche più volte. Le visite ispettive all’ interno dell’ istituto sono state 3 di cui una con la presenza del Garante Regionale, Marcello Marighelli in data 31.10.2018. Le visite ispettive sono realizzate senza preavviso e senza autorizzazione da parte dell’ amministrazione penitenziaria: la finalità di queste visite, infatti, è quella di verificare eventuali problematicità e successivamente di portarle alla luce facendole presente a chi di competenza. A giugno del 2018 è stata effettuata anche una visita presso tre strutture situate sulla Provincia di Rimini della comunità Papa Giovani XXIII insieme al Garante dei diritti dei detenuti della Regione Emilia Romagna. Abbiamo avuto l’ occasione di incontrare i detenuti accolti presso 3 strutture di accoglienza del progetto CEC, Comunità Educante con i Carcerati. A maggio 2018 vi è stato un incontro con il direttore della Casa Circondariale di Rimini per valutare la possibilità, poi purtroppo non concretizzata, di poter realizzare un percorso formativo destinato alle varie professionalità presenti in carcere. Il 27 giugno ho partecipato come Garante di Rimini, all’ incontro seminariale sulle funzioni di prevenzione dei Garanti della rete nazionale. A settembre 2018 è stata rinnovata la convenzione dei Lavori di Pubblica Utilità tra il Comune di Rimini e la Casa Circondariale di Rimini. La convenzione consente a 5 detenuti di poter svolgere sul territorio comunale, un’ attività non retribuita a favore della collettività. Questa convenzione ha una duplice finalità: la prima di favorire il miglioramento delle condizioni di detenzione delle persone recluse e la seconda di tutelare e valorizzare l’ambiente. Come Garante, ho richiesto la collaborazione delle varie realtà di volontariato vicine alle tematiche del carcere per coinvolgerle soprattutto nella fase dell’accompagnamento di tali detenuti per poter permettere loro di raggiungere i luoghi di “lavoro”. Purtroppo, solo una di questa associazioni ha effettivamente garantito una collaborazione stabile. Il 14 dicembre 2018 si è svolto a Roma il coordinamento nazionale di tutti i Garanti d’ Italia nel quale ho partecipato in qualità di Garante di Rimini. Pozzuoli (Na): noi Lazzarelle e il nostro caffè che sa di libertà di Bruno Delfino Corriere della Sera, 18 giugno 2019 L’odore del mare è forte, filtra attraverso le sbarre e sposa quello del caffè tostato dalle detenute del carcere femminile di Pozzuoli. Una miscela che profuma di libertà. Per (ri)conquistarla, insieme alla dignità perduta, in questa struttura a due passi dal porto, nata come convento nel 1700, adibita a manicomio giudiziario e oggi casa circondariale, è stata imboccata la strada del lavoro. È nata così, 19 anni fa, con il finanziamento della Regione Campania, la cooperativa Lazzarelle, vezzeggiativo dialettale che nel suo plurale, lazzari, ricorre spesso nella storia di Napoli. Un marchio per scrollarsi di dosso quello di pregiudicate, archiviare il passato e puntare al riscatto sociale. Una locomotiva sbuffante fuori dal tunnel ai piedi del Vesuvio, è l’immagine che fino ad oggi campeggia sulle confezioni di caffè su fondo fucsia che qui vengono prodotte e confezionate. Presto sarà sostituita dal logo, una tazzina stilizzata, disegnato dai ragazzi dell’Accademia di Belle Arti che cureranno anche l’immagine coordinata. Nel tempo l’attività si è infatti consolidata e oggi si producono 5omila pacchetti di caffè macinato da 250 grammi all’anno. È nata una collaborazione con l’Università Luigi Vanvitelli e con la cattedra di Economia Circolare per il riutilizzo degli scarti di produzione della torrefazione e sono state avviate nuove linee di prodotti, tè, tisane, biscotti, e nuovi progetti all’esterno del carcere. Tra questi l’apertura nella Galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo Archeologico Nazionale, del “Bistrot Lazzarelle”, vetrina di prodotti dell’economia carceraria. Le voci di dentro Nel carcere femminile di Pozzuoli sono presenti 198 detenute, più del doppio rispetto a quelle che potrebbe e dovrebbe ospitare. Solo chi ha una condanna definitiva può accedere al progetto. Negli anni si sono avvicendate 6o donne, regolarmente retribuite, uscite ogni mattina dalle celle in cui vivono fino a 8 persone, per partecipare a un’impresa di nome e di fatto. “Qualcosa di positivo per la prima volta nella mia vita”. “Quando ritorno in cella ho la polvere di caffè fin nei calzini, però sono contenta”, “Spero che questa esperienza mi faccia cambiare vita”, “A colloquio ho parlato di questa esperienza con mia figlia, mia madre e mia nonna, erano fiere di me”. Sono alcune voci di dentro che testimoniano l’importanza dell’iniziativa. A oggi il 90 per cento delle “lazzarelle”, una volta finita la detenzione, non è rientrato nei circuiti criminali. Tirocinio con i maestri artigiani, un po’ di caffè bruciato, qualche errore di percorso prima di vincere la scommessa e sfidare il mercato. “L’idea di fondo delle Lazzarelle - spiega Imma Carpiniello, presidente della Cooperativa - è quella di investire risorse umane ed economiche in un percorso di formazione e produzione. L’obiettivo è duplice: da un lato favorire il rapporto con l’esterno per evitare il rischio buco nero della detenzione; dall’altro costruire un’impresa capace di stare sul mercato con un prodotto artigianale etico e legato al territorio. Ma è anche un modo per ricordare e riaffermare che quando parliamo di politiche di pari opportunità bisogna costruire, nei luoghi dove le donne sono più vulnerabili, pratiche di inserimento e protezione sociale. Ecco allora che anche un caffè è un passo verso la strada della libertà”. Una strada, e qui il discorso si sposta sul piano nazionale, resa più difficile per la condizione femminile in carcere. “La bassa percentuale di donne detenute - sottolinea Carpiniello - è alla base di una generale tendenza a ignorarne i problemi. Le poche donne rinchiuse in carcere, il 5 per cento rispetto alla popolazione carceraria, sono costrette a scontare insieme alla pena il disagio di essere una minoranza in un universo pensato e organizzato sui bisogni e le caratteristiche del detenuto medio, di sesso maschile. Acquistati i chicchi da aziende che seguono progetti di cooperazione internazionale parte la lavorazione. Dal carcere al consumatore. Tostatura, secondo l’antica tradizione napoletana, lenta, 3o minuti, raffreddamento all’aria per evitare shock termici, poi nei silos dove il chicco dopo io-12 giorni arriva a maturazione e infine macinazione, seconda gassificazione e imballaggio sottovuoto. I canali di vendita sono le piccole botteghe, le fiere o il sito caffelazzarelle.jimdo.com. Funzione sociale “il carcere - dice Carlotta Giaquinto, direttore della casa circondariale di Pozzuoli - è il luogo in cui tutto si ferma e dove la società civile pensa di poter relegare ogni problema di criminalità. Ma l’unico modo in cui il carcere può realmente svolgere una funzione Sociale è il recupero, attraverso la cultura e il lavoro, delle persone che vi transitano. La Cooperativa Lazzarelle è una risorsa fondamentale ed è interesse della Direzione favorirne quanto più possibile la crescita per accompagnare le detenute con i dovuti requisiti verso un reingresso nella società supportandone l’integrazione”. “Lazzarelle non si nasce, si diventa”, è la scritta che personalizza le tazzine made in carcere. Una citazione, ispirata a Simone de Beauvoir, scrittrice, saggista, filosofa, insegnante e femminista francese, con la sostituzione della parola donna con quella della cooperativa. “Na tazzulella ‘e cafè e mai niente ce fanno sapè“, cantava Pino Daniele, denunciando a modo suo le mani sulla città. Qui invece il caffè, con il suo valore simbolico di relazione e condivisione, è anche e forse soprattutto, una mano tesa che chiede solo di essere stretta. Messina: genitori dietro le sbarre, detenuti registrano un cd di fiabe per i loro figli strettoweb.com, 18 giugno 2019 Si è concluso così, nel teatro Piccolo Shakespeare del carcere di Gazzi, il progetto “Detenuti e genitorialità” che, promosso dall’Amministrazione penitenziaria con il Cepas Messina e il Rotary Club Stretto di Messina, ha permesso di donare ai bambini i cd con le favole lette dai genitori. “Un evento di grande significato perché è un incontro tra padri e figli”, ha dichiarato la direttrice della casa circondariale, dott. Angela Sciavicco, che ha sottolineato il valore della collaborazione con le associazioni cittadine, come il Centro Prima Accoglienza Savio da sempre vicino ai detenuti, e il club-service che “ha donato anche un nuovo tappeto nell’area verde”. “La direttrice ha sempre dimostrato massima apertura e accoglienza a queste iniziative. È una giornata importante, un’occasione per guardarci e ascoltarci”, ha affermato don Umberto Romeo, presidente del Cepas Messina che, presente da trent’anni, ha prima coinvolto i detenuti della massima sicurezza e quest’anno quelli della media sicurezza in un progetto fondamentale per mettere in primo piano la genitorialità: “Vogliamo che la casa circondariale non sia vista come un luogo isolato ma che appartenga alla città”. Un’iniziativa sostenuta con entusiasmo anche dal Rotary Club Stretto di Messina: “Abbiamo abbracciato con piacere questa idea e riteniamo - ha aggiunto il presidente Giuseppe Termini - che sia gradita e gradevole. Speriamo che bambini e genitori ne possano trarre gioia”. Obiettivo sicuramente raggiunto per un progetto dal forte impatto emotivo, che ha avuto il merito di regalare ai bambini non solo i cd con le fiabe, ma anche la gioia di trascorrere un po’ di tempo con i loro padri: “La direttrice sostiene sempre le nostre pazze idee e i ragazzi hanno portato a termine questo laboratorio con la regia di Totò D’Urso”, ha spiegato la vice presidente del Cepas, prof. Lalla Lombardi: “Il nostro intento non era creare genitori perfetti, ma rafforzare il rapporto tra papà e figli, che vivono una situazione di lontananza. Ora i bambini potranno sempre ascoltare la voce del loro papà che - ha ribadito - non sono attori ma hanno raccontato con il cuore”. Quindi, spazio ai protagonisti della giornata, i papà che, sul palco e con il loro leggio, hanno regalato una simpatica quanto apprezzata recita, un momento per sentirsi davvero vicini, più di quanto la realtà quotidiana possa concedere. “Vedere i bambini che ascoltavano le fiabe lette dai loro papà è stato emozionante”, ha commentato il comandante della Polizia Penitenziaria, dott. Antonella Machì, così come il magistrato di sorveglianza, dott. Federica Ferrara: “Dobbiamo tutelare l’interesse del minore a mantenere il rapporto genitoriale e l’aiuto delle associazioni è indispensabile. Sono iniziative fondamentali per garantire il rapporto minore-genitore e per avviare un percorso di reinserimento che passa anche attraverso la famiglia”. Eboli (Sa): teatro-carcere, Antonello De Rosa dirige 12 detenuti dell’Icatt zerottonove.it, 18 giugno 2019 La cultura ed in modo particolare il teatro per una opportunità di riscatto. Tutto questo ha preso forma, venerdì sera, presso l’Icatt di Eboli. Teatro e sociale: in scena 12 detenuti in “De Pretore Vincenzo” di Eduardo De Filippo attraverso il certosino operato del LAB ICarte Teatro Terapia: ideato e promosso dall’avvocato Paola De Vita, in collaborazione con Cittadinanzattiva, e condotto dall’attore e regista Antonello De Rosa, con la sua Scena Teatro, all’interno della casa di reclusione ebolitana. Gli ospiti dell’Icatt sono stati impegnati in una performance itinerante alla presenza del direttore, Concetta Felaco, del comandante, Carolina Arancio, della dottoressa Rosamaria Caleca e dalle autorità istituzionali. “La detenzione è un momento in cui abbiamo il dovere - dichiara il direttore, Concetta Felaco - di offrire a chi è al nostro fianco una opportunità. L’Icatt, oramai da anni, è impegnato in tutto ciò e soprattutto attraverso il veicolo della cultura e, come in questo caso, del teatro. Questo è un progetto che parte da lontano e faremo in modo che possa proseguire ancora a lungo. Siamo soddisfatti ed ancora una volta ringrazio il grande impegno la grande professionalità profusi da Antonello De Rosa”. Gli attori, diretti da Antonello De Rosa, hanno condotto il pubblico nei luoghi di antica memoria del suggestivo Castello Colonna con uno spettacolo itinerante, dinamico e coinvolgente. “Quando sono in questi luoghi e con i miei ragazzi - commenta l’attore e regista teatrale, Antonello De Rosa - provo sensazioni che sono indescrivibili. Il lavoro e l’opportunità fornita mi riempiono di orgoglio. Abbiamo raggiunto un traguardo importante e siamo riusciti a regalare qualcosa di tangibile a persone che cercano un degno riscatto”. Un progetto di teatro sociale come strumento di catarsi, introspezione ed emancipazione che coinvolge i detenuti dell’Icatt in un percorso di recupero ed inclusione. Piacenza: il calcio entra in carcere con gli istruttori della Spes Borgotgrebbia sportpiacenza.it, 18 giugno 2019 Il calcio entra in carcere. Lo fa grazie alla Spes Borgotrebbia, che da qualche tempo grazie ai suoi tecnici e istruttori svolge attività con una quarantina di detenuti nella struttura di via delle Novate. Dei veri e propri allenamenti programmati una volta a settimana con tre gruppi di ragazzi di età compresa fra i 20 e i 40 anni, che martedì 18 giugno vivranno la giornata conclusiva della stagione. In programma un torneo che vedrà di fronte le tre formazioni del carcere e una squadra della Spes Borgotrebbia: si inizia alle 16.30 con la prima semifinale, quindi alle 17 la seconda semifinale, alle 17.30 la gara che assegnerà la terza posizione e alle 18 la sfida che mette in palio il primo posto. Al termine sono previste premiazioni per tutti, con le medaglie offerte da Sportpiacenza, e il rinfresco. “È un’iniziativa - spiega Francesco Sartori, responsabile del settore giovanile della Spes Borgotrebbia - ideata dall’associazione Oltre il muro e dal suo presidente Enrico Rizzo, che ha coinvolto la nostra società e, a titolo personale, il tecnico Marcello Sassi. Da tre mesi a questa parte io, Sassi e Matteo Gabba, un altro dei nostri istruttori, ci alterniamo in carcere per allenare questi ragazzi che hanno un grandissimo entusiasmo. Per quanto ci riguarda è stata un’esperienza personale molto intensa, abbiamo avuto a che fare con tante persone rispettose e con una grande voglia di mettersi in gioco. La sensazione più bella? Alcuni dei ragazzi che hanno iniziato il percorso con noi, martedì prossimo non ci saranno perché hanno terminato la condanna e adesso sono rientrati a pieno titolo nella società”. Egitto. Morsi muore in tribunale, in Egitto è allerta massima di Pino Dragoni Il Manifesto, 18 giugno 2019 L’ex presidente, l’unico democraticamente eletto, era stato deposto dal golpe di al-Sisi nel 2013. La famiglia aveva denunciato la “morte lenta” cercata dal regime: 23 ore di isolamento e assenza di cure mediche nella famigerata prigione di Tora. Timore di proteste dei Fratelli musulmani. L’ex presidente islamista Mohamed Morsi è morto ieri nel corso di un’udienza in tribunale. A darne la notizia, nel tardo pomeriggio, è stata la tv di Stato egiziana, secondo cui Morsi avrebbe accusato un malore dopo aver chiesto la parola e poi sarebbe morto praticamente sul colpo. Il corpo sarebbe stato portato immediatamente in ospedale, per avviare le procedure di rito. Intanto il quotidiano israeliano Haaretz riferisce che a seguito della notizia l’esercito e il ministero dell’interno egiziano avrebbero dichiarato lo stato di allerta per il timore di proteste. Morsi, 67 anni, era detenuto dal 3 luglio 2013, giorno in cui i militari guidati dal generale al-Sisi lo hanno deposto con la forza. Era sotto processo con l’accusa di spionaggio, ma scontava già diverse condanne (tra cui un ergastolo). Una precedente condanna a morte era stata annullata nel novembre 2016 dalla Cassazione. Dal 2015 era detenuto nella famigerata sezione Scorpion del carcere di Tora, riservata ai prigionieri politici, “progettata in modo tale che chi entra non può uscirne, se non da morto”, secondo la testimonianza di un ex secondino. Lì ha vissuto in isolamento per 23 ore al giorno, avendo contatti solo con le guardie, costretto a dormire sul pavimento, un trattamento assimilabile alla tortura secondo gli standard internazionali. Da quando era entrato a Tora i familiari lo avevano potuto visitare solo due volte. Lui stesso in un’udienza del 2017 denunciava le sue gravi condizioni di salute, un diabete aggravato dall’assenza di cure, che gli aveva provocato la quasi totale perdita della vista a un occhio. Un’inchiesta condotta da alcuni parlamentari britannici su iniziativa della famiglia era giunta un anno fa alla conclusione che “se Morsi non riceverà presto adeguate cure mediche, la conseguenza potrebbe essere la sua morte prematura”. In un articolo apparso sul Washington Post a marzo dello scorso anno il figlio Abdullah esprimeva il timore che la negligenza sanitaria fosse voluta, in modo da causarne il decesso “per cause naturali” il più rapidamente possibile. Ingegnere metallurgico, con un dottorato negli Stati uniti, Mohamed Morsi torna in Egitto nel 1985 per insegnare all’università. Espressione dell’ala conservatrice della Fratellanza musulmana, dal 2000 al 2005 è membro del parlamento (all’epoca il movimento islamista è ancora considerato illegale ma viene in parte tollerato dal regime di Hosni Mubarak). Nel 2012, nelle prime elezioni presidenziali post-rivoluzione, la Fratellanza decide di candidare Morsi dopo l’esclusione dell’uomo d’affari Khairat el-Shater (esponente dell’anima imprenditoriale del movimento). Al primo turno Morsi prende il 25% e poi per un pugno di voti vince al ballottaggio contro Ahmed Shafiq, esponente del vecchio regime, diventando il primo presidente democraticamente eletto nella storia del paese. Il mandato di Morsi è caratterizzato da una forte conflittualità sociale e dall’incapacità del governo di affrontare i numerosi problemi sociali ed economici e di realizzare le aspettative della rivoluzione (complice anche l’ostracismo degli apparati del cosiddetto “Stato profondo”). I Fratelli, abbandonate le piazze per cercare il compromesso con i militari, nel maldestro tentativo di occupare i gangli del potere statale finiscono per inimicarsi il movimento rivoluzionario e alienarsi gran parte del consenso popolare. In un anno riescono a polarizzare la vita politica egiziana riducendola allo scontro tra islamisti e laici. Il culmine lo raggiunge Morsi nel novembre 2012: in spregio alla costituzione si attribuisce poteri supremi. Il 30 giugno 2013, a un anno esatto dalla sua proclamazione, milioni di persone scendono in piazza per chiederne le dimissioni, aprendo la strada al colpo di stato militare e inaugurando l’epoca della “lotta al terrorismo” di al-Sisi, dal massacro di Rabaa alla repressione quotidiana. C’è da aspettarsi una reazione dei Fratelli musulmani e dei movimenti vicini, ma è difficile dire se questo inaugurerà un nuovo ciclo di proteste popolari. Di sicuro la morte di Morsi (con Mubarak a piede libero) segna un altro drammatico momento nella traiettoria della rivoluzione egiziana. Yemen. La guerra che non finisce mai per una popolazione civile ormai allo stremo delle forze La Repubblica, 18 giugno 2019 Gli attacchi reciproci delle forze a guida saudita e delle truppe Huthi, sciiti legati all’Iran. Decine di migliaia i morti. Oltre 20 milioni di persone dipendenti dagli aiuti umanitari. I dati Unicef e Medici Senza Frontiere. La Coalizione militare a guida saudita che combatte gli insorti yemeniti Huthi - gruppo armato sciita zaydita, attivo in funzione anti-governativa, che si definisce “Partigiani di Dio o Gioventù credente” - ha condotto nuovi raid aerei sulla capitale Sana’a, controllata, appunto, dalle formazioni Huthi vicine all’Iran. Non si hanno, al momento, notizie di vittime, anche se negli ultimi 3 anni e mezzo, il conflitto ha provocato oltre 10.000 morti e più di 22 milioni di persone che si trovano in situazioni di estremo bisogno e dipendenti dagli aiuti umanitari. Le informazioni non possono essere verificate da fonti indipendenti presenti sul terreno. Tuttavia, la TV panaraba-saudita al Arabiya, rende noto che sono state colpite postazioni di lancio di razzi e missili degli Huthi. Nei giorni scorsi gli Huthi hanno intensificato il lancio di droni armati e missili contro obiettivi civili e militari sauditi in territorio saudita. Gli episodi si inseriscono nel quadro dell’aumento della tensione tra Iran e Stati Uniti e i loro rispettivi alleati nella regione del Golfo e del Medio Oriente. Un quadro che vede ancora una volta vittime soprattutto la popolazione civile. Unicef: ogni 2 ore una madre e 6 neonati muoiono durante il parto. Succede a causa di complicazioni durante la gravidanza o il parto, secondo una serie di report sulla salute materna e infantile nel Paese. “Dare alla luce un bambino in Yemen può troppo spesso trasformarsi in una tragedia per intere famiglie - dice Henrietta Fore direttore generale UNICEF. “Decenni di sottosviluppo e anni di intensi combattimenti hanno lasciato sull’orlo del collasso totale i servizi pubblici essenziali, compresa l’assistenza sanitaria fondamentale per le madri e i bambini”. La serie Childbirth and parenting in a war zone, lanciata questa settimana, mostra anche che il tasso di mortalità materna è cresciuto ampiamente dall’intensificazione del conflitto: da 5 madri al giorno che morivano nel 2013 a 12 al giorno nel 2018. L’assenza dei rifornimenti e dei trasporti. L’accesso a servizi sanitari di qualità pre e post parto sono cruciali per la sopravvivenza di una madre e un neonato. In assenza di servizi adeguati e a causa dello scarso accesso e costi per il trasporto insostenibili, gli operatori sanitari delle comunità stanno presto diventando ‘l’ultima speranza’ per le donne e i bambini - soprattutto nelle aree remote, rurali e colpite dalla guerra. Tuttavia, anche essi troppo spesso si trovano ad affrontare sfide come l’insicurezza e la mancanza di rifornimenti e trasporti. La metà di tutte le strutture sanitarie in Yemen non è operativa a causa della mancanza di personale, di rifornimenti, dell’incapacità di far fronte ai costi operativi o a causa di accesso limitato. Coloro che ancora lavorano devono affrontare gravi carenze di medicinali, attrezzature e personale e mettono a rischio la vita. Medici Senza Frontiere: “Il costo enorme per la popolazione civile”. Centinaia di strutture sanitarie in tutto il Paese hanno smesso di funzionare a causa di attacchi aerei, bombardamenti, mancanza di forniture, finanziamenti o personale. Il crescente costo della vita ha reso estremamente difficile soddisfare le esigenze primarie per le famiglie. MSF ha ampliato le proprie attività per affrontare la mancanza di assistenza sanitaria e aiutare il crescente numero di vittime della guerra. Alla fine del 2016, le équipe di MSF fornivano direttamente assistenza sanitaria ai pazienti in 12 ospedali e sostenevano almeno altre 18 strutture sanitarie. Nel 2016, più di 32.900 pazienti in strutture gestite o supportate da MSF hanno ricevuto trattamenti per violenza fisica intenzionale, comprese le ferite di guerra. Di questi pazienti, 15.800 sono stati trattati da équipe di MSF. Grazie a quasi 1.600 collaboratori, tra i quali 82 operatori internazionali, il programma di MSF in Yemen è uno dei più importanti in tutto il mondo in termini di personale. Gli attacchi contro strutture supportate da MSF. A Sa’ada. Le équipe hanno lavorato nei reparti di maternità, chirurgia e medicina generale e hanno fornito assistenza sanitaria e fisioterapia nell’ospedale di Al Jomhouri. MSF ha fornito assistenza in pronto soccorso e nel reparto di maternità dell’ospedale di Shihara, colpito da un missile nel mese di gennaio del 2016. Il centro sanitario di Haydan è stato colpito da un attacco aereo nell’ottobre del 2015 e MSF ha continuato a lavorare lì fino ad agosto 2016. A Hajjah. MSF forniva assistenza sanitaria salvavita nell’ospedale di Al Jumhouri nella città di Hajjah e gestiva il reparto di emergenza, il reparto ospedaliero, i reparti di pediatria e maternità presso l’ospedale di Abs, oltre ad effettuare interventi chirurgici in entrambe le sedi. MSF ha ritirato temporaneamente le sue équipe dai due ospedali dopo l’attacco aereo sull’ospedale di Abs il 18 agosto 2016, ma ha ripreso a lavorare nel governatorato di Hajjah nel mese di novembre. MSF ha aperto un centro nutrizionale terapeutico ad Abs all’inizio di dicembre 2016 e ha inviato altri casi complicati agli ospedali specializzati di Hajjah, Sana’a e Hudaydah. MSF ha inoltre svolto attività medica decentrata per le persone che vivono dentro e nei dintorni dei campi per gli sfollati interni nel distretto di Abs. Le équipe di MSF hanno fornito assistenza medica e servizi di salute mentale. Alla fine dell’anno, MSF ha inoltre ampliato il proprio sostegno all’unità di maternità dell’ospedale di Hajjah. Ad Amran. Molte persone sono fuggite dal conflitto in altre parti del Paese per stabilirsi nel governatorato relativamente tranquillo di Amran. MSF supporta l’assistenza sanitaria e gestisce sistemi di riferimento nell’ospedale di Al-Salam e in quattro centri sanitari. Dona anche attrezzature mediche e logistiche. Nel mese di maggio, MSF ha condotto una campagna per la cura della scabbia, fornendo assistenza medica, trattando gli indumenti con acqua bollente per liberarli dal parassita, nonché distribuendo sapone e altri articoli, al fine di migliorare l’igiene nei campi per sfollati interni di Khamir e Huth. A Sana’a. MSF sostiene il reparto di pronto soccorso e la sala operatoria nell’ospedale di Al-Kuwait a Sana’a e dona forniture di emergenza agli ospedali di Al Jomhouri, Al-Thawra e Al-Sabeen. L’assistenza sanitaria materno-infantile è una parte importante del lavoro di MSF presso l’ospedale di Al Sabeen. L’impegno contro l’HIV. Il sostegno di MSF al programma anti-HIV del Ministero della Salute è proseguito. Nonostante la violenza, il 97 per cento dei 2.529 pazienti del programma ha ricevuto il trattamento antiretrovirale salvavita. Il trattamento ai pazienti è stato assicurato non solo a Sana’a, ma anche a Taiz, Mukalla, Aden e Hudaydah. La Dialisi. La guerra ha gravemente colpito le forniture ai centri di trattamento emodialitico. Da ottobre 2015, MSF sostiene i centri di Sana’a, Sa’ada e Hajja. Nel mese di agosto questo sostegno è stato esteso ai centri di Taiz e Mahweet. Ibb, la regione più popolosa. Il governatorato di Ibb è la regione più densamente popolata dello Yemen. MSF sostiene il dipartimento di emergenza dell’ospedale Al-Thawra, il più grande del governatorato, dove mira a migliorare la gestione sanitaria di emergenza e la gestione delle vittime di massa. Le équipe lavorano anche nell’ospedale generale rurale del distretto di Thi As-Sufal, al confine meridionale con il governatorato di Taiz, vicino a una delle linee del fronte più violente del Paese. Questo ospedale serve circa 500.000 persone. MSF ha ristrutturato l’ospedale ed eseguito interventi chirurgici salvavita nei casi più gravi. A Taiz. Nel 2016, a Taiz la situazione era critica. La maggior parte degli ospedali ha chiuso nel bel mezzo dei combattimenti più pesanti. L’ingresso e l’uscita dal centro della città erano limitati e pericolosi per i civili e gli operatori umanitari. MSF ha fornito attività mediche salvavita su entrambi i lati della linea del fronte, trattando prevalentemente pazienti con lesioni causate da attacchi aerei, esplosioni, granate, colpi d’arma da fuoco e mine. Inoltre, le équipe hanno continuato a gestire un ospedale materno-infantile e un centro traumatologico per ferite e traumi da guerra e ha sostenuto regolarmente quattro ospedali che offrono servizi di maternità, pediatria, chirurgia ed emergenza nel centro della città. A Dhale. Alcune aree di Ad Dhale sono state teatro di intensi combattimenti nell’agosto del 2016, con scontri armati, cecchini, bombardamenti e razzi. MSF opera nell’ospedale di Al-Nasr, fornendo una vasta gamma di attività. MSF lavora anche nell’ospedale Al Salam e nel centro sanitario di Thee Ijlal a Qatabah. Verso la fine del 2016, MSF ha iniziato a sostenere il centro sanitario di Damt nel governatorato. Ad Aden. MSF ha continuato a gestire il proprio ospedale chirurgico di emergenza per fornire assistenza sanitaria a migliaia di persone. Solo nel 2016, sono stati ricoverati 5.790 pazienti in pronto soccorso. L’ospedale riceve i pazienti provenienti da molti governatorati meridionali, tra cui Taiz, Lahj, Abyan, Ad Dhale e Shabwa. Nella prigione centrale di Aden, il personale sanitario di MSF ha fornito ai detenuti assistenza medica di base, conducendo una media di 50 consultazioni settimanali. MSF ha anche sostenuto l’ospedale di Al-Razi ad Abyan, con assistenza chirurgica e regolari donazioni di forniture mediche.