In memoria di Antonio Floris Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2019 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi, che raggruppa associazioni e cooperative attive nella Casa di Reclusione di Padova, lunedì 17 giugno 2019 promuove un incontro per ricordare Antonio Floris, morto in modo tragico nel novembre del 2015. Molti di noi lo hanno conosciuto e accompagnato nel suo percorso “dentro” di persona detenuta: gli insegnanti dell’Istituto “Gramsci”, i volontari e le persone detenute della redazione di Ristretti Orizzonti, i volontari e gli operatori (oltre che gli utenti) dello Sportello giuridico... molti lo hanno incrociato e apprezzato sia “dentro” che “fuori”, ed è comune il desiderio di avere un momento di riflessione condiviso, per onorarne la memoria, anche con le sue sorelle, che verranno dalla Sardegna per questa occasione. Vi aspettiamo numerosi. Lunedì 17 giugno 2019, ore 18-20,30, Casa Comboni, via Giovanni da Verdara 139 (ampio parcheggio oltre il cancello). Qui sotto le pagine di Ristretti del 2016 che lo ricordano, con un suo scritto, “L’albero del pero”. Ricordando Antonio, che non era certo solo il suo reato di Ornella Favero Nelle rassegne stampa e nelle cronache televisive di questi giorni avrete letto come prima notizia che il detenuto Antonio Floris è “evaso da un permesso”, e a seguire le descrizioni fantasiose di quella evasione. Niente di tutto questo, la storia è anche più tragica, Antonio è stato ucciso, ma io non so cosa è successo e non mi interessa nemmeno fare ipotesi, non ho ipotesi, ma non ho mai creduto all’evasione, e soprattutto di lui voglio ricordare, per la sua famiglia e per tutto il bene che gli voleva, la sua umanità. Antonio è stato senz’altro un delinquente, e io non voglio fare a finta di dimenticarmelo, ma ce la stava mettendo tutta per diventare una persona diversa. Lo faceva per la sua famiglia, una famiglia onesta, colta, dove lui era un po’ la “pecora nera”, e ricordo sua sorella, che arrivava ogni tanto dalla Sardegna pur di vederlo e stargli vicino, e che diceva spesso quanto le dispiaceva che suo fratello avesse usato così male la sua intelligenza. E forse la passione per lo studio che aveva era proprio un modo per “ripagare” la sua famiglia e i suoi amici per averli tante volte “traditi”: e infatti, anche se in passato già aveva fatto le scuole superiori, lui si era buttato sui libri anche in galera e aveva completato gli studi all’Istituto Gramsci, sempre da primo della classe, e poi si era impegnato nella redazione di Ristretti Orizzonti, con una grande competenza in questioni di legge, lui era “l’avvocato” della situazione, ma anche con una capacità di vedere il mondo con occhi che non avevano dimenticato la poesia e l’amore per la vita. Per ricordarlo com’era davvero, con i suoi disastri, i suoi anni di galera, ma anche il suo desiderio di ritrovare la sua umanità, voglio proprio ripubblicare un suo racconto, la storia di un albero di pero che è anche una delle pagine più significative che io abbia letto sul carcere. L’albero del pero di Antonio Floris Seguire di giorno in giorno il crescere lento e faticoso di un albero davanti alla finestra della cella è un modo diverso per provare a spiegare quanto può essere lunga una pena. La finestra della mia cella, nella quale vivo da oltre tre anni, si affaccia su un campetto incolto in mezzo al quale si innalza, solitario tra le erbacce, un alberello di pero selvatico. Ormai sono tre primavere che lo osservo e mi sono accorto che ogni primavera questo albero allunga la sua cima di circa 30 centimetri. In pratica da quando lo sto osservando è cresciuto di quasi un metro. Parlando di quest’albero con un altro detenuto, sono venuto casualmente a sapere che era stato lui a piantarlo nel lontano 1995, ovvero 16 anni fa. Nel 1995 si era voluto abbellire il nuovo carcere Due Palazzi (nuovo perché era in funzione solo da qualche anno) piantando in quegli spazi, non occupati da edifici, degli alberelli. Erano stati creati dei fossi, comprate delle piantine e messe a dimora in questi fossi. Dopo di che le piantine sono state abbandonate al loro destino, senza che nessuno si sia occupato mai né di potarle né di dare qualche colpo di zappa. In questo modo sono andate avanti nell’abbandono, più o meno come succede di questi tempi per i detenuti, solo che a differenza dei detenuti che vivono nella miseria e nella penuria di tutti i generi, gli alberi possono contare sulla generosità del cielo e sulla fertilità della terra, che è sicuramente una delle più pingui d’Italia. Oltre al fatto che quest’alberello, assieme alle erbacce, è uno dei pochi esseri vegetali viventi che danno uno scorcio di natura in un ambiente fatto solo di ferro e cemento, esso dà uno spunto di riflessione sul passare monotono degli anni. Quando era stata messa a dimora la piantina era alta circa un metro. Ora ha un’altezza più o meno di 5 metri e per diventare così ci ha messo 16 anni. Qui in carcere, durante gli incontri con gli studenti, di frequente si fanno discussioni sulla lunghezza delle pene e spesso succede che qualche studente, sentendo dire che tizio, accusato di omicidio, è stato condannato ad “appena” 15 o 20 anni, se ne esce dicendo che 15 anni o anche 20 sono pochi. Per uno che guarda da fuori 15 o 20 anni potrebbero forse sembrare pochi, ma così pochi non sono per chi li deve effettivamente trascorrere dietro le sbarre. Allora per spiegare che non sono affatto pochi (soprattutto se trascorsi nell’ozio e nelle attuali condizioni di sovraffollamento) ognuno di noi cerca un paragone appropriato per dare un’idea di quanto lunghi possano essere. Chi si ingegna a cercare un paragone e chi un altro, ma fra tanti che se ne possono trovare questo dell’albero chiarisce il concetto in modo assai realistico. Se qualcuno pensa che 16 anni sono pochi provi a immaginare che un bel giorno si metta a piantare un alberello davanti alla finestra di casa sua, poi che in quello stesso giorno cada vittima di qualche incantesimo o sortilegio a causa del quale deve stare chiuso in una casa senza poter uscire mai, fino a che l’albero, senza essere né concimato né curato da nessuno, arrivi all’altezza di 5 metri. Per chi non avesse fatto mai quest’esperienza, possiamo assicurare che è molto fastidioso e irritante vedere con che estrema lentezza l’albero cresce. Fa quella breve esplosione di crescita di appena 30 centimetri in primavera, poi durante l’estate, l’autunno e peggio ancora l’inverno, non aumenta di un millimetro. E la cosa più fastidiosa ancora è stare a fissare l’albero per anni e anni facendo di questa abitudine l’occupazione principale, senza potersi dedicare ad altro che non sia guardare la televisione o leggere oppure scrivere, senza veder mai i frutti del proprio lavoro e senza concludere niente di valoroso né per se stesso né per gli altri. Lo stare a guardare l’albero che cresce e sapere che quando raggiungerà una certa altezza uno avrà finito la pena, per quanto lunga essa possa essere, è comunque fonte di speranza. Non tutti i detenuti però possono coltivare questa speranza, in quanto per tanti di loro il fine pena non esiste. Fortunatamente io non sono di questi ultimi. Io so per quanto tempo ancora devo stare a guardare l’albero che cresce e già ho calcolato che altezza avrà raggiunto il giorno che lo dovrò salutare. Dietro l’albero c’è il muro della palestra e guardando dalla mia finestra, la cima dell’albero è più bassa di un metro del muro. Per poter uscire dovrò aspettare che sia più alta del muro di almeno due metri. Quest’inverno chiederò se me lo fanno potare, perché sfoltendolo dei rami inutili forse crescerà più in fretta. Carcere, l’affettività come via del recupero di Samuele Ciambriello* Cronache di Napoli, 15 giugno 2019 Gli Stati Generali dell’esecuzione penale avevano 2 tavoli, sia sullo spazio della pena, che si proponeva di individuare interventi architettonici degli Istituti presenti e di elaborare nuove configurazioni degli spasi della pena, in conformità con le direttive europee per curare in modo adeguato affetti, attività lavorative e attività trattamentali; che un altro tavolo, che si è occupato del mondo degli affetti e della territorializzazione della pena, cioè dei problemi connessi al riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del detenuto, all’esecuzione del diritto/dovere genitoriale, al mantenimento di relazioni positive con il proprio mondo familiare e affettivo legati tutti anche al principio di territorializzazione della pena, per un positivo reinserimento sociale. Queste belle cose che vi ho raccontato non sono letteratura, ma principi valoriali che non sono stati applicati successivamente al 2015, per ignavia del Governo precedente e per populismo penale do quello attuale, perché come dico sempre tra il dire e il fare non c’è di mezzo solo il mare, ma per i politici, tra il dire e tifare e e di messo il coraggio. Adesso, in questa mia breve riflessione, rilancerò questi due argomenti, in direzione ostinata e contraria: Affettività e Spazi della pena. Riflettere sullo spazio fisico del carcere, in termini anche di edilizia, può sembrare un discorso che compete soltanto ad ingegneri, architetti o tecnici. In realtà, indagare sulla dimensione spaziale, richiama la riflessione su altri temi “sensibili” come appunto la vicinanza e la distanza nelle celle (contributi significativi ci giungono dalla recente disciplina della prossemica), carenza di spazio vitale, vuoto comunicativo e relazionale ed infine la mancanza d’igiene, diffusamente denunciata da me. Un carcere, dunque, che è l’espressione di una scelta architettonica rigida che favorisce l’isolamento e la periferizza-zione. Intendo rilevare, approfittando della platea presente a codesta tavola, l’inesistenza di spazi per i colloqui, di luoghi dedicati all’incontro ira il detenuto e la sua famiglia e di spazi per praticare attività sportive e ricreative. La nota sentenza Torreggiani 2013 è stata determinante sia a far emergere situazioni critiche e sia a operare un’apertura verso la vita detentiva in sé. Alla luce di quanto detto, gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, all’inarca qualche anno dopo, realizzarono un’esperienza unica coinvolgendo 18 tavoli tematici con diverse personalità inserite nell’ambito carcerario e penale, il filo conduttore, era riportare al centro dell’esecuzione penale il riconoscimento del detenuto come persona, e di conseguenza, assicurargli una vivibilità all’interno della struttura, nel rispetto della sua dignità, ovvero “di essere trattato come uomo”, da uomini suoi pari. E veniamo all’affettività. Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili, perché se e ‘è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere. La questione poi, pone senz’altro di fronte ad un problema etico: è giusto concedere momenti di piacere a chi, con le sue azioni, ha causato dolore ad altri? La moderna criminologia ha però dimostrato come incontri frequenti e intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel difficile percorso di recupero del reo. A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative volte a garantire l’esercizio, in ambito carcerario, del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei. Carcere deriva etimologicamente dall’ebraico “carcar”, che significa tumulare, luogo senza tempo, che nega la vita; trattare di affetti in carcere e, molto di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. Prima facie (a prima vista), si potrebbe pensare che la sessualità sia un aspetto, un sottoinsieme dell’affettività. Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi ad una relazione genitoriale o tra parenti in linea diretta o, ancora, ad una relazione amicale) e sessualità senza affettività, quale estrinsecazione della personalità e/o di un’autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico). Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi, che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte. Nel carcere, in questo luogo “senza tempo”, vanno declinate l’affettività e la sessualità, anche per mantenere le relazioni familiari, per rafforzarle anche grazie all’intervento de magistrati di sorveglianza che possono concedere la possibilità al detenuto di uscire più spesso dal carcere, per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, affettivi, sessuali, culturali e di giustizia riparativa, Così si evitano anche le recidive, *Garante Campano delle persone private della libertà personale Il cielo europeo dei diritti umani si colora di “Viola”! camerepenali.it, 15 giugno 2019 La sentenza sull’ergastolo ostativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Viola c. Italia”, appare destinata a rivoluzionare la politica penitenziaria nel nostro Paese. È la prima volta che l’istituto, tutto italiano, dell’ergastolo ostativo, noto ai più come “fine pena mai”, viene posto all’attenzione della Corte di Strasburgo e la risposta, chiare e netta, è che la pena perpetua non riducibile (ergastolo ostativo) rappresenta una palese violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte ribadisce innanzitutto che “la dignità umana” costituisce il fondamento su cui si è costruito, nel secondo dopoguerra, il complesso sistema dei diritti umani in ambito europeo e che, pertanto, essa non sia per nulla negoziabile, risultando perciò incompatibile con i principi convenzionali “ privare una persona della sua libertà senza lavorare, allo stesso tempo, al reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare, un giorno, la sua libertà”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’approcciarsi al caso denunciato dall’ergastolano Marcello Viola, affronta il tema della compatibilità del “fine pena mai” innanzitutto con l’art. 3 Cedu, con particolare riguardo alla “collaborazione”, unica chance di libertà secondo il sistema vigente, per i “condannati a vita” per reati di particolare gravità quali quelli di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario. La Cedu ritiene che “l’assenza della collaborazione non può sempre essere collegata a una scelta libera e volontaria né giustificata dalla persistenza dell’adesione ai valori criminali e dal mantenimento di legami con l’organizzazione mafiosa”, dubitando “sull’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale della persona condannata”, anche perché non è sempre detto che la collaborazione sia il segno di “un vero cambiamento” o prova esclusiva di “effettiva dissociazione dall’ambiente criminale”. Ed ancora, occorre comunque tenere in considerazione “altri indici che consentono di valutare i progressi compiuti dal detenuto” anche come forma di dissociazione dal crimine. La Corte ricorda che il sistema penitenziario italiano, con le sue opportunità progressive di contatto con la società - lavoro all’esterno, permessi premio, semi-libertà, liberazione condizionale - si pone il fine “di favorire il processo di reinserimento del detenuto”. Costellare il sistema penitenziario di automatismi preclusivi di un trattamento di risocializzazione costituisce un grave vulnus per il detenuto. “La personalità di una persona condannata non rimane fissa nel momento in cui il reato è stato commesso. Può evolversi durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione che consente all’individuo di rivedere criticamente il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Per questo, il condannato deve sapere cosa deve fare affinché la sua liberazione possa essere presa in considerazione”. Inoltre, la Corte di Strasburgo segnala come “l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale” cristallizza “la pericolosità dell’interessato al momento della commissione del reato invece di prendere in considerazione il reinserimento e ogni progresso fatto dopo la condanna”, sottraendo al giudice il diritto/dovere “di verificare se il detenuto si è evoluto ed ha progredito sulla via del cambiamento” e se “il mantenimento della detenzione” abbia ancora un senso. Ed infine, nessuna lotta al crimine, nemmeno quella al flagello mafioso, può rappresentare una “deroga alle disposizioni dell’articolo 3 della convenzione che vieta in termini assoluti le pene inumane e degradanti”. In conclusione, nessun automatismo ostativo, ma solo il rispetto della funzione di risocializzazione della pena che ha anche l’obiettivo di “prevenire la recidiva e proteggere la società”, un tentativo che anche gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, a cui parteciparono i componenti dell’Osservatorio Carcere Ucpi, aveva posto in essere e che la riforma dell’attuale maggioranza ha del tutto vanificato. Sin qui le prime battute della sentenza “Viola c. Italia” che ha demolito il sistema del “diritto penale del nemico” e la sua estrinsecazione nel trattamento penitenziario dei detenuti con l’art. 4 bis, 58 ter e 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario e che ricorda come in Italia esista una Costituzione che esprime principi, valori e diritti irrinunciabili come quello consacrato nell’art. 27 secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’U.C.P.I. adotterà ogni più opportuna ed efficace iniziativa politica per far sì che il Parlamento italiano prenda atto di questa fondamentale decisione della Corte Europea ed adegui, di conseguenza, tutto il sistema dell’esecuzione penale, riportandolo nell’alveo della legalità costituzionale. La Giunta L’Osservatorio Carcere Ergastolo, dalla sentenza della Cedu arriva una lezione sulla dignità della persona di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2019 È una sentenza destinata a restare scolpita nella pietra, quella di ieri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Viola vs Italia. Non solo perché afferma che una pena perpetua senza possibilità di revisione è contraria al senso di umanità. Ma anche e soprattutto perché sostiene che nessun automatismo può da solo costituire una modalità di revisione sufficiente. In Italia esistono due tipi di ergastolo: quello ordinario, rivedibile dopo 26 anni con la liberazione condizionale e aperto ai benefici che la legge garantisce al detenuto che tenga in carcere una buona condotta, e quello ostativo, comminabile per alcune tipologie di reato e destinato a durare quanto la vita intera tranne che per una circostanza. Quest’ultima consiste nella collaborazione del condannato con la giustizia. O collabori o non collabori, tertium non datur. Se non collabori, ovvero se non fai i nomi dei complici di crimine di un tempo, o dimostri che la tua collaborazione è impossibile o inesigibile oppure sei automaticamente escluso anche da un potenziale ritorno in libertà. L’impossibilità o inesigibilità segue alcuni parametri che ad esempio nel caso del ricorrente non si soddisfano. La Corte di Strasburgo ha affermato che una pena così regolamentata è contraria al senso di umanità. Qualsiasi pena deve tendere a reintegrare il condannato nella società. E deve dunque lasciare aperta una prospettiva di reintegrazione. Non sempre è tale quella che vede nella collaborazione con i giudici il solo indice della volontà di affrancamento dalla vita criminale. Il ricorrente sosteneva infatti di non voler fare i nomi dei complici del passato non perché ancora a loro legato bensì per paura di ritorsioni su lui stesso e sulla sua famiglia. Ma dal 1991 a oggi, lungo tutti gli anni trascorsi ininterrottamente in stato di detenzione, non aveva mai ricevuto neanche un provvedimento disciplinare. Un segno quantomeno da valutare per comprendere se la nuova adesione alle regole sia da intendersi come un serio ravvedimento. Inutile dire che la Corte non ha minimamente suggerito che il ricorrente debba tornare in libertà né ha fatto considerazioni sul reato commesso, che assolutamente non le spettano. La sentenza è tecnicamente complessa e di non facile intuizione. Ma il punto centrale ribadito dalla Corte, un punto che si pone al cuore della stessa filosofia della pena, è che quest’ultima non debba mai contenere elementi di mera afflittività, incapaci di guardare al recupero sociale della persona. Il che non significa che necessariamente la pena sarà capace di recuperare l’ergastolano. Ci sono condanne che durano l’intera vita e continueranno a esserci. Ma ciò non può essere stabilito in anticipo, senza possibilità di modificare un futuro scolpito nella pietra. La persona può sempre cambiare. Nessuno è inchiodato per sempre al momento della commissione del delitto, anche il più efferato. Abbiamo conosciuto ergastolani - si pensi a Carmelo Musumeci, che in carcere ha studiato fino a ottenere due lauree triennali e una specialistica e ha scritto libri apprezzati da tanti - che sono oggi persone completamente diverse da quelle che fecero ingresso in carcere. Persone che oggi sono tornate in libertà e offrono il loro contributo alla società. Persone nei cui confronti la pena è riuscita nella propria spinta responsabilizzante e risocializzante. Queste sono vittorie della società intera. Sono vittorie dello Stato e dimostrano la sua forza. Solo uno Stato forte può permettersi di non essere mai meramente vendicativo. Non c’è lassismo in una pena capace di mettere sempre in conto il recupero della persona condannata. Non c’è lassismo in una pena capace di rispettare sempre la dignità della persona, chiunque essa sia. È questa una delle lezioni della sentenza Viola vs Italia. *Coordinatrice associazione Antigone Il giurista Salvatore Amato: “Il perdono è cristiano, ma non il perdonismo” di Stefano Zurlo Il Giornale, 15 giugno 2019 “La sentenza europea? Plausibile l’ergastolo ostativo se non c’è il pentimento”. Senza benefici e senza spiragli: in galera fino alla morte. È la questione spinosa su cui riflette Salvatore Amato, cattolico, ordinario di filosofia del diritto a Catania. Professor Amato, la Corte di Strasburgo dà un colpo di piccone al fine pena mai. Sacrosanto? “Un attimo. Siamo davanti a un problema delicatissimo, in cui contano molto le sfumature, i dettagli, insomma i casi concreti in carne e ossa”. Parliamo in sostanza di mafiosi e terroristi che non hanno tagliato i ponti con il loro passato. È giusto negare loro benefici e uno spiraglio di luce? “Il diritto alla speranza è molto importante. Ed è ancora più importante, come sottolinea Strasburgo, che non sia negato a priori. Con una specie di riflesso pavloviano, no in automatico”. Ma se non si recidono quei legami tossici? “Eccoci al secondo lato del nostro ragionamento. Io credo che la Corte abbia solo evidenziato questo aspetto su cui, fra l’altro, in molti paesi europei che non hanno avuto la nostra storia sanguinaria, c’è una sensibilità diversa: no all’ergastolo ostativo a scatola chiusa, sì a una valutazione che tenga presente la complessità di una vita umana”. Dunque, si può arrivare a un sì ma anche a un no alla scarcerazione? “Certo. Il ravvedimento non può essere solo un fatto personale, quasi privato, intimo. Se hai ucciso, se hai fatto del male, io mi aspetto che tu mandi dei segnali contrari, se hai tolto la speranza io mi attendo che tu riporti un po’ di speranza con i tuoi gesti, con i tuoi atti, con le tue parole”. Il perdono? “Alt, il perdono non è mai perdonismo. Il cristianesimo non è mai sentimentalismo, il cristiano abbraccia l’altro dentro un giudizio. E il giudizio può anche essere negativo: sarai pure diverso da prima, ma non si vede. E questo può essere declinato in molti modi”. Ad esempio? “Può essere che il soggetto in questione non abbia spezzato quei vincoli per interesse: perché magari i clan aiutano economicamente la sua famiglia. Se è cosi, anche l’eventuale buona condotta conta poco o nulla. La verità è un’altra: la rete del malaffare domina ancora, la liberazione sarebbe una resa dello Stato. Allo stesso modo se io non collaboro e il mio silenzio permette ad un sicario nell’ombra di continuare ad uccidere allora mi assumo responsabilità gravissime”. Ma se il rifiuto di collaborare nasce dalla paura di ritorsioni, come nota Strasburgo? “Entriamo in vicende molto articolate e difficilmente comprensibili dall’esterno. Ma in linea generale possiamo dire che al coraggio della denuncia dovrebbe corrispondere la capacità dello Stato di tutelare i familiari. Non si può pretendere che un delinquente si trasformi addirittura in un eroe”. E adesso che succederà dopo questo verdetto? “L’Italia pagherà un indennizzo poco più che simbolico all’ergastolano i cui diritti sono stati violati, ma non è obbligata a cambiare la norma. Roma farà le sue considerazioni e poi deciderà”. Rivolte, proteste e violenze. Le carceri sono una polveriera di Matteo Marcelli Avvenire, 15 giugno 2019 Da Rieti a Campobasso, si moltiplicano gli episodi di tensione nei penitenziari italiani. Sindacati e Garante: non è solo un problema di numeri, serve un ripensamento. Prima un pestaggio ai danni di un detenuto italiano, poi la vendetta contro gli aggressori (quattro nigeriani) a cui sono seguiti i disordini sedati poco dopo dagli agenti della polizia penitenziaria. Due giorni di inferno nel carcere di Rieti, che tra mercoledì e giovedì è stato il teatro dell’ennesima tensione all’interno di un istituto di pena. Solo la settimana scorsa un detenuto 60enne, riconosciuto semi infermo mentale e condannato per l’omicidio della madre, si è tolto la vita nel carcere di Perugia e pochi giorni prima due ragazzi nordafricani erano evasi dall’istituto penitenziario minorile di Nisida. C’è poi la rivolta dei detenuti islamici di Spoleto, il 26 maggio, e quella di Campobasso il 24. Episodi determinati da circostanze specifiche, ma che dall’inizio dell’anno si ripetono con una frequenza preoccupante e, sommati assieme, evidenziano problemi strutturali. Per rendersene conto basta guardare alcuni dei dati prodotti dal Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) relativi al 2018: oltre 7mila colluttazioni, più di mille ferimenti, 61 suicidi (1.198 quelli sventati), 91 evasioni e più di 10mila atti di autolesionismo. Gesti di ordinaria disperazione che per il sindacato corrispondono a criticità evidenti e segnalate da tempo. “Ci portiamo dietro una grave carenza di organico - ricorda il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Siamo circa 37mila, divisi nella varie qualifiche, e fatichiamo a tenere testa alle esigenze operative. I detenuti attuali sono circa 61mila e un agente, in media, ha sotto il suo controllo dai 70 ai 100 detenuti. Serve un ripensamento dell’operatività dei poliziotti penitenziari, meno servizi connessi alla sicurezza e più personale operativo”. Dei 37mila uomini a disposizione del Dap, infatti, solo 20mila sono impiegati nei servizi operativi a turno, gli altri si occupano appunto dei servizi cosiddetti “connessi alla sicurezza detentiva”, come ad esempio il piantonamento, le traduzioni in carcere o le scorte. Ma sarebbe sbagliato ridurre tutto a una questione di quantità perché, come spiega ad Avvenire Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ci sono almeno due ragioni che possono aiutare a spiegare questi episodi: “Innanzi tutto la sensazione di assoluta inessenzialità del carcere: prima magari ci si scontrava, anche con posizioni diverse, ma il carcere era al centro di un dibattito. Si aveva la sensazione di essere rilevanti. Adesso si riduce tutto a un problema numerico e di spazio - ragiona Palma. L’altra questione è l’accentuazione di piccole regole che aumentano la conflittualità”. Il problema, insomma, è sempre lo stesso e sta nel modello di risposta al reato adottato finora. “Non possiamo puntare solo sul carattere punitivo della pena, che certo resta necessario - continua il Garante dei detenuti. La società deve rispondere anche con un progetto sulle persone. Il tema va riaperto non va ristretto alla sola questione della vivibilità”. Eppure solo due anni fa si era iniziato un percorso che avrebbe potuto invertire la rotta. Allora alla guida del ministero della Giustizia c’era Andrea Orlando, ma la sua iniziativa, gli Stati generali del carcere, un tentativo di spostare la prospettiva della questione verso il reinserimento, non ha dato i risultati sperati. “Dal punto di vista legislativo, il percorso di riforma partito con gli Stati generali si è esaurito - osserva Alessio Scandurra dell’associazione Antigone. Non mi pare ci sia l’intenzione di fare passi ulteriori”. La crisi al Csm sblocca la riforma della giustizia: “Facciamola subito” di Errico Novi Il Dubbio, 15 giugno 2019 Sergio Mattarella ha fatto scoccare la scintilla. “Le elezioni suppletive per sostituire i consiglieri dimissionari del Csm siano il primo passo per voltare pagina”, ha chiarito il Capo dello Stato. L’idea di poter riformare tutto, a cominciare dal Consiglio superiore, si rivela contagiosa: “Mercoledì, al massimo giovedì, incontreremo il ministro Bonafede per discutere della riforma della giustizia”, rivela Matteo Salvini al termine del summit leghista. Si rompe l’incantesimo che teneva in stand- by da oltre due mesi il ddl del guardasigilli. Dallo tsunami del Csm viene dunque un effetto positivo. La Lega è finalmente pronta a discutere del nuovo processo. L’intervento, aggiunge Salvini, deve riguardare la giustizia “penale, civile e tributaria”. Ottime intenzioni. Che si incrociano alla perfezione con i dossier già definiti nel dettaglio da Bonafede. Sul fronte penale e civile il ministro ha tratto le conclusioni dal tavolo con avvocati e magistrati. Rispetto al settore tributario si potrà fare affidamento anche alle proposte avanzate sempre dalla professione forense, in particolare dall’Uncat, l’associazione degli avvocati di settore. Ma ovviamente si discuterà anche di riforma del Csm, ancora ferma allo stadio delle ipotesi. Bonafede ha un’idea di partenza: “Il magistrato che entra in politica non potrà più tornare a fare il giudice o il pm, per non compromette la sua imparzialità”. I testi per mettere fine, o almeno limitare le porte girevoli vengono dalla precedente legislatura quando, al Senato in particolare, erano stati ipotizzati vincoli molto stringenti. Ma è chiaro che si dovrà intervenire anche sul sistema per l’elezione dei togati a Palazzo dei Marescialli. Il principio è ormai acquisito da tutti: limitare il peso delle correnti. Non è ancora definita la strada, ma è esclusa l’ipotesi di una modifica costituzionale. Si dovrà agire sui dettagli della legge ordinaria, per esempio sull’ampiezza dei collegi, da ridurre in modo da assicurare più autonomia dai gruppi della magistratura associata a quelle toghe dotate di particolare credito fra i colleghi del loro distretto. D’altra parte gli effetti del sisma al Consiglio superiore non accennano a esaurirsi. Ieri si è dimesso il quarto togato, Corrado Cartoni: “Non ho mai parlato di nomine, ma lascio per senso delle istituzioni e per difendermi nel processo disciplinare”, dice l’ormai ex consigliere di “Mi”, che lunedì il plenum sostituirà, intanto, alla sezione disciplinare. Si conoscono già gli elementi contestati a un altro collega che dovrà rispondere davanti allo stesso organismo del Csm e che costituisce la figura di innesco dell’intero caso, Luca Palamara. Nell’atto di incolpazione del pg della Cassazione Riccardo Fuzio si parla di “comportamento gravemente scorretto” e delle trame che avrebbero dovuto danneggiare, oltre al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, anche l’aggiunto di Roma Paolo Ielo. Il dato è che le vicende sconvolgenti della magistratura restituiscono alla politica la determinazione riformatrice. Con diversi risvolti positivi. Non solo rispetto alla necessità che, come dice la plenipotenziaria di Salvini sulla giustizia, Giulia Bongiorno, “Bonafede trovi gli anticorpi alle degenerazioni del correntismo”. Intanto la stessa ministra della Pubblica amministrazione prevede che non ci si limiterà a “cambiare qualche norma della procedura civile e penale” ma che negli incontri, “già fissati per metà della prossima settimana con il guardasigilli”, si toccherà per esempio anche il nodo “dell’accesso alla magistratura”. Oggi è affidato a un concorso di secondo livello, che per la stessa Anm è un problema perché alza l’età del primo incarico. Ma a colpire, più di tutto, è il passaggio di Salvini sulle intercettazioni (richiamato anche in altro servizio, ndr): “È incivile leggerle sui giornali, lo dico adesso che riguardano i magistrati”. Potrebbe finalmente cadere il tabù della privacy sacrificata sull’altare di un malinteso diritto di cronaca. Non è scontato. Ma come dice il vicepremier leghista, “o si fa ora, o la riforma della giustizia non si farà per i prossimi cento anni”. Solo il momento di crisi della magistratura poteva far vacillare tabù come quello sulle libere intercettazioni. Sarà sconsolante ammetterlo ma è così. Magistrati, i rischi per autonomia e indipendenza di Massimo Villone Il Manifesto, 15 giugno 2019 L’ultimo degli errori che potremo vedere nel marasma seguito all’inchiesta di Perugia è l’ennesima rappresentazione di uno scontro tra giustizialisti e garantisti. In questo, come in tutti gli altri casi, sarebbe una falsa rappresentazione. Le esigenze sono chiare: osservare e applicare le leggi; esercitare le funzioni pubbliche ricoperte con “disciplina e onore”, come richiede la Costituzione; assumersi la responsabilità politica se si ricopre un ruolo che la comporta. È possibile, o persino probabile, che Lotti non abbia fatto nulla di penalmente rilevante. Ma che i suoi comportamenti in un modo o nell’altro ricadano nelle categorie sopra indicate sembra sicuro. Ci informa che ha appreso dai giornali di aver causato imbarazzo ai vertici del suo partito. Non gli era venuto il sospetto che potesse accadere? Probabilmente, il segretario Zingaretti che ha camminato sulle uova per giorni, gli aveva dato una impressione diversa. Ma questo è un problema tutto interno al Pd e alle sue dinamiche correntizie, che il partito dovrà in un modo o nell’altro affrontare. Certo la vicenda non si chiude con l’autosospensione di Lotti. Ma alla fine interessa solo il Pd, i suoi militanti, i suoi elettori. C’è invece una vicenda che interessa il paese tutto, ed è il grave danno arrecato all’immagine delle magistratura. All’inaccettabile groviglio di relazioni improprie che ha inquinato l’organo di autogoverno, si sono aggiunti i maldestri tentativi di auto-assoluzione di alcuni consiglieri coinvolti, e la resistenza alle dimissioni, richieste con forza da più parti. Mentre va sottolineato con apprezzamento che è stata la stessa magistratura a fare luce, senza sconti a nessuno e senza timori delle conseguenze. Opportuno anche il ricorso all’azione disciplinare. Ma questo non impedirà che riparta il treno della riforma della giustizia, con in testa il vagone della subordinazione dei magistrati alla politica. In campo varie ipotesi, tra cui si segnala anzitutto la cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. In fondo basta poco: aggiungere alla formula dell’articolo 112 della Costituzione “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” le parole “nei casi e modi stabiliti dalla legge”. Un’aggiunta solo apparentemente innocua, perché può avere un unico significato: che in alcuni “casi e modi” l’obbligo viene meno. Il punto è che quei casi e modi sono stabiliti dal legislatore, e quindi dalla maggioranza pro tempore. Da tempo i costituzionalisti hanno colto che la riserva di legge ha visto indebolirsi la funzione di garanzia che ad essa era stata riconosciuta. L’ossequio prestato al totem della governabilità, le conseguenti alterazioni della rappresentatività attraverso sistemi elettorali volti a favorirla con incentivi maggioritari di vario tipo, hanno accentuato il carattere delle legge come espressione della maggioranza detentrice del potere politico. E dunque oggi il rinvio ai “casi e modi” stabiliti dalla legge non è di per sé garanzia dell’indipendenza del magistrato. Può essere l’esatto contrario. Non è questo il solo tema in discussione. Si punta alla riforma del Csm, che verrebbe sdoppiato, con una composizione paritaria laici-togati (oggi un terzo e due terzi). È del tutto evidente che si potrebbe giungere facilmente a una subordinazione dell’organo alla politica attraverso l’aggiunta ai laici di una piccola minoranza di togati. Sarebbe più o meno probabile in un siffatto organo collegiale il ripetersi di distorsioni come quelle che oggi si lamentano? Se si aggiunge a tutto questo la separazione delle carriere, di cui anche si discute, e l’intimidazione da ultimo platealmente praticata dal ministro dell’interno, il quadro è completo. La magistratura è la più forte difesa che la Costituzione appresta alle libertà e ai diritti. Di questo dobbiamo essere in ogni momento consapevoli. I problemi che si manifestano vanno affrontati con decisione. Ma non con l’obiettivo surrettizio di scardinare il disegno che vide in Assemblea Costituente un dibattito tra i più approfonditi. Non per aprire alla bassa cucina di un ceto politico privo di qualità. Per questo dobbiamo mobilitarci per la difesa e la piena attuazione della Costituzione repubblicana. Pagelle alle toghe e sorteggio, ecco la riforma del Csm di Alberto Gentili Il Messaggero, 15 giugno 2019 Pronta una bozza che Bonafede discuterà la prossima settimana con la Bongiorno. Contro il correntismo, l’elezione di una “rosa” di nomi tra cui estrarre i consiglieri. Dopo l’aut aut di Sergio Mattarella, il Guardasigilli Alfonso Bonafede si muove. Per provare a restituire credibilità, autorevolezza e indipendenza al Csm, il ministro della Giustizia ha cominciato in queste ore a elaborare una bozza di riforma del Consiglio superiore della magistratura che, in settimana prossima, confronterà con il ministro della Lega Giulia Bongiorno, noto avvocato penalista. In questa traccia di lavoro ci sono le “pagelle” per i giudici, rose ristrette per l’elezione nell’organo di autogoverno e qualche colpo al sistema delle correnti. Bonafede, secondo fonti del dicastero di via Arenula, “sta elaborando una serie di idee per attuare quel giro di vite, necessario soprattutto dopo l’emergere dei dettagli dello scandalo che sta investendo il Csm”. E la priorità “è garantire un riconoscimento più oggettivo della meritocrazia dei magistrati, con criteri che risultino del tutto oggettivi”. Tant’è, che gli uffici del ministero hanno elaborato in queste ore una proposta in tal senso, con l’obiettivo di “rimediare a due evidenti criticità”. La prima: “La dilagante prassi di generale standardizzazione delle valutazioni professionali dei magistrati, che ha generato un sistema appiattito di avanzamento automatico indifferenziato di tutti”. La seconda criticità: “L’eccesso di discrezionalità nel conferimento degli incarichi direttivi, che le circolari vigenti non sono riuscite a limitare adeguatamente”. In particolare, ai fini della scelta dei dirigenti, la proposta allo studio di Bonafede prevede “la quantificazione esatta di punteggi da assegnare ad ogni esperienza lavorativa, all’anzianità, ai risultati oggettivamente ottenuti - come ad esempio lo smaltimento dell’arretrato - la capacità di rendimento, la corretta gestione delle attività di ufficio, secondo precisi indicatori comuni ben tarati sulle singole realtà”. A questi criteri potrebbero essere aggiunte, anche recuperando soluzioni già emerse, le eventuali valutazioni - motivate e dettagliate - espresse da parte del Consiglio dell’Ordine. E, di contro, in negativo, dovrebbero trovare spazio eventuali condanne disciplinari o segnalazioni riscontrate e validate, provenienti dai whistleblower”. Vale a dire: i testimoni di un comportamento irregolare, illegale, potenzialmente dannoso che decidono di segnalarlo al Csm. In questo modo, secondo i tecnici di via Arenula, “ogni magistrato verrà “pesato” oggettivamente con un sistema di calcolo capace di mettere assieme tutte le informazioni e restituire un dato univoco”. A quel punto, per esempio, il Csm potrebbe esprimere appieno la propria alta discrezionalità scegliendo fra i primi tre candidati col punteggio più alto. Stessa procedura potrebbe applicarsi per la conferma nell’incarico, verificandosi ad esempio l’attuazione reale e concreta del progetto presentato dal candidato all’atto della nomina a giudice togato. Ma c’è di più. Tra le ipotesi allo studio da parte del Guardasigilli c’è anche un depotenziamento del ruolo delle correnti. Questo dovrebbe avvenire attraverso il superamento del collegio unico nazionale, passando a collegi più ristretti e territoriali. Attualmente, ad esempio, un magistrato siciliano vota un collega e candidato friulano in base all’appartenenza a una corrente. Con i collegi ristretti e territoriali il voto avverrebbe invece sulla base di una conoscenza diretta del candidato. In più, Bonafede studia il meccanismo del sorteggio per eleggere i membri togati del Csm. E questo sorteggio dovrebbe avvenire attraverso l’individuazione e il voto sulla base di un elenco di magistrati con particolari requisiti, poi ristretti attraverso l’elezione a una rosa più ristretta. I nomi presenti in questa rosa sarebbero infine sottoposti a sorteggio. Il meccanismo non è sgradito alla Bongiorno: “Ciò che è importante per la Lega è individuare un sistema che impedisca scambi opachi. Perciò vanno bene i collegi territoriali per l’elezione dei giudici che poi verrebbero sorteggiati. Oppure, si può valutare la creazione di un elenco nazionale di eletti in ragione di determinati requisiti. E far scattare il sorteggio su questo elenco”. La prima scelta del ministro leghista sarebbe però una riforma costituzionale “per una revisione complessiva del Csm”. Ma essendo “una riforma maxi è necessario un accordo complessivo con i 5Stelle”. Cosa non facile. Una riforma che è urgente a tutela anche delle toghe di Carlo Nordio Il Messaggero, 15 giugno 2019 Con una saggia e tempestiva decisione, il Quirinale ha indetto le elezioni suppletive del Csm evitandone la paralisi, e resistendo alle richieste del suo scioglimento. Resta tuttavia il rischio che questa iniziativa venga vanificata da una dissoluzione progressiva di questo organismo, come accade nella Sinfonia degli addii di Haydn dove gli orchestrali se ne vanno uno alla volta, o, se vogliamo citare un paragone più macabro, nel famoso giallo di Agatha Christie dove i convitati muoiono in rapida successione e alla fine non rimane nessuno. Ipotesi questa non del tutto remota, perché solo un ingenuo può pensare che le “contiguità” tra politici e magistrati siano state limitate agli approcci di Lotti con il dottor Palamara. Quest’ultimo, del resto, ha detto in un’intervista che i suoi incontri avvenivano anche con altri colleghi ed esponenti di partiti. Sarà stata un’ammissione, ma a noi è sembrato anche un ammonimento. A nessuno del resto è sfuggito il verecondo silenzio delle correnti dell’Associazione, che dopo l’indignazione tignosa e purificatrice dei primi giorni, sono diventate improvvisamente caute e guardinghe, come se si attendessero imbarazzanti novità nelle prossime puntate delle intercettazioni. Una nemesi storica nei confronti di quelle toghe che, quando manifestavamo preoccupazione per l’uso distorto di questo strumento di indagini ambiguo e invasivo, rispondevano supponenti che le cose andavano nel migliore dei modi possibili. Mai dunque, come in questo momento, vale il detto biblico che chi ha seminato vento raccoglie tempesta. Questa tempesta, naturalmente, non travolge solo la magistratura e le sue correnti ormai screditate. Coinvolge anche la politica, che con i suoi rappresentanti più o meno subalterni alle toghe hanno dimostrato di voler intervenire attivamente nelle nomine fatte dal Csm. Circostanza questa nota a tutti gli addetti ai lavori, ma sdegnosamente respinta negli anni passati come un’ intollerabile insinuazione. Per la verità, i cittadini si sarebbero già dovuti allarmare per il numero crescente di magistrati (diventati famosi per la carica ricoperta o i processi celebrati) candidati dai partiti con ostentazione orgogliosa. Poiché infatti una candidatura non si improvvisa in poche ore, era da supporre che questi giudici, mentre indossavano la toga, avessero avuto ripetuti ed intensi incontri con i rappresentanti dei rispettivi partiti. Stupirsi ora che questa baratteria contaminasse anche il Csm significa abusare della credulità degli italiani. I quali, peraltro, hanno già capito una cosa. Che così com’è strutturato il Csm non solo funziona male, ma non funziona affatto, e va radicalmente cambiato. Ebbene, se è vero che “oportet ut scandala eveniant”, è anche vero che questa indecorosa vicenda può essere l’occasione per una riforma che elimini lo strapotere delle correnti e renda effettivamente indipendente la magistratura non solo dalla politica ma anche da sé stessa e dalle degenerazioni di chi ne esercita la rappresentanza e il potere. Come? Con il sorteggio. Qualche anima bella ha ironizzato sul fatto che nessuno si farebbe operare da un tizio sorteggiato tra i passanti. Per la verità, la Corte d’Assise che ti condanna all’ergastolo è composta, nella sua maggioranza, proprio da giurati sorteggiati tra il popolo. Così come sono sorteggiati i membri del tribunale dei ministri, quelli, per intenderci, che volevano mandare a giudizio Salvini. Ma queste sono osservazioni marginali. Il sorteggio dovrebbe infatti avvenire dentro un paniere composto di magistrati di alto grado, di avvocati membri dei consigli forensi e di docenti universitari di materie giuridiche. Tutte persone, per definizione, intelligenti e competenti. Così si spezzerebbe davvero quel legame perverso che unisce eletti ed elettori, e quella assurdità tutta italiana per la quale la sezione disciplinare è, di fatto, nominata da quelli che deve giudicare. La magistratura è contraria? Non crediamo. Certo lo sono i rappresentanti del suo sindacato, e questo è ovvio perché il loro enorme potere risiede proprio lì, e non si può chiedere al tacchino di preparare il pranzo di Natale. Ma poiché ora si comincia a sentir puzza di bruciato, può anche darsi che sia opportuno cambiar forno. Tra riforme mancate e autoriforme fallite, le cause della deriva correntizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2019 Alla fine lo scandalo che investe il Csm è anche l’esito di riforme mancate e autoriforme inefficaci. Le prime, anche se non soprattutto, per le ansie revansciste della politica verso la magistratura; le seconde per la timidezza nell’affrontare nodi di fondo da parte dello stesso Consiglio. Dove a fallire sono stati i tentativi, a vario titolo, di arginare la deriva correntizia, incidendo sul sistema elettorale piuttosto che sui meccanismi di assegnazione degli incarichi di vertice. Così, la riforma del Csm ha rappresentato una delle grandi incompiute della passata legislatura, annunciata sì dal tandem Renzi-Orlando, mai però portata a termine, malgrado una commissione presieduta da Luigi Scotti (ex ministro e presidente del tribunale di Roma) avesse messo a punto un’articolata relazione. Il punto di riferimento continua a essere la legge Castelli del 2002 con cui il Governo Berlusconi II modificò la legge elettorale, prevedendo l’elezione di i6 magistrati (2 di Cassazione, 4 pubblici ministeri e io giudici) con un sistema maggioritario però su base nazionale. Sistema messo a punto per consentire a tutti i magistrati in servizio di potersi candidare, anche senza essere designati dai gruppi associativi dell’Anm, riducendone la capacità di influenza nella fase elettorale e poi nel funzionamento del Consiglio. Alla prova dei fatti, però, e a distanza di 17 anni, l’eliminazione del voto proporzionale per liste contrapposte non ha condotto ai risultati attesi e, anzi, ha rafforzato il potere dei gruppi associativi di determinare l’esito elettorale. Decisivo, come doveva anche allora apparire evidente, era, ed è, la possibilità del candidato di fare campagna elettorale su tutto il territorio nazionale, cosa nei fatti impossibile senza un aggancio a qualche struttura associativa. Ovvio che allora di candidati indipendenti se ne siano visti pochi, eletti nessuno. Di qui allora la proposta Scotti, mai approdata peraltro in consiglio dei ministri, che accantonò espressamente il sorteggio, a favore di un meccanismo a 2 fasi: la prima di tipo maggioritario per collegi territoriali e la seconda proporzionale per collegio nazionale su liste concorrenti. Nella scorsa consiliatura molto si lavorò per quella che poi è passata sotto il titolo di “autoriforma”. Leggasi, più nel dettaglio, Testo unico della dirigenza, approvato nel 2015, con i criteri sui quali modellare la nuova classe dirigente della magistratura. Un provvedimento tutto teso a rafforzare i margini di prevedibilità delle decisioni sui capi degli uffici giudiziari. Un set di regole oltretutto messo alla prova in una stagione nella quale, per effetto della decisione del Governo Renzi di abbassare l’età pensionabile dei magistrati, il Csm si è trovato a effettuare un numero di nomine senza precedenti (oltre i.000 tra direttivi e semi-direttivi). Ora, anche in questo caso, la prova dei fatti non ha dato risultati brillantissimi. Requisiti attitudinali più stringenti, tarati anche sulla dimensione dell’ufficio da guidare, valorizzando per quelli più piccoli il lavoro giudiziario e per quelli più grossi le capacità manageriali dei candidati, non sono serviti più di tanto a fare da argine alle tentazioni spartitorie delle correnti. Tanto più se si tiene conto che gli interventi sull’ordinamento giudiziario, con la valutazione quadriennale di conferma per i vertici, hanno condotto a un esito positivo pressoché generalizzato. Quindi, un Csm che, almeno nelle forma, aveva scelto di ingabbiarsi in regole più vincolanti, non ha tuttavia legato le mani ai gruppi associativi. Tanto da lasciare gioco facile alle contestazioni di un Piercamillo Davigo che, un anno fa, in piena campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio aveva censito 599 nomine su 832 (a marzo) effettuate all’unanimità. Plastico esempio della sopravvivenza delle logiche di spartizione che, portate in questi giorni al parossismo, hanno gettato il Csm nella sua stagione più buia. Il Csm e il gran festival dell’ipocrisia di Salvatore Merlo Il Foglio, 15 giugno 2019 I comportamenti arcinoti, i guai di Mattarella e l’asse Bonafede-Davigo. “Sa cos’è che trovo insopportabile? Trovo insopportabile questo festival dell’ipocrisia”, dice Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2006, e passato alle cronache probabilmente come il ministro più odiato di sempre dai giudici. “Trovo indisponente questo collettivo cadere dalle nubi, come direbbe Checco Zalone. Ma qualcuno la vuole dire la verità? Ciò che emerge adesso dal Csm, il degrado, gli scambi, le spartizioni, il mercato, è un sistema codificato che tutti, intendo tutti, e ripeto tutti, conoscono perfettamente. Si fa così da decenni”. E perché allora le cose non cambiano? Marcello Maddalena, l’ex procuratore della Repubblica di Torino, un galantuomo, ieri sul Foglio ha detto che sulla politica ricade la colpa principale di una debolezza supina e di una rassegnazione codarda nei confronti della magistratura: il sistema elettorale del Csm favorisce il correntismo esasperato, e nessuno in Parlamento, in politica, interviene. Tutt’al più si urla in televisione, e si fanno proposte senza senso, pirotecniche, come l’idea bislacca di sottoporre i magistrati a un test psico-attitudinale. “Per intervenire sulla giustizia devi avere un governo potentissimo”, dice Castelli. “E anche solidissimo. Sia al suo interno, nel rapporto con gli alleati. Sia nel rapporto con l’opinione pubblica. E un governo con queste caratteristiche in Italia non c’è mai stato negli ultimi 25 anni. Forse ce l’avrà Salvini, la prossima volta... speriamo”. Intanto il Csm sempre più sporcato dalle rivelazioni dell’inchiesta di Perugia, resiste. Sergio Mattarella non ha i poteri per scioglierlo, ha probabilmente tentato di spingere i componenti - tutti - alle dimissioni, ma si è dovuto arrendere di fronte a due resistenze: quella dei togati che non vogliono mollare e quella della maggioranza di governo, che è risultata incapace di garantire in tempi rapidissimi una riforma del sistema elettorale. Far votare infatti i magistrati con l’attuale sistema riproporrebbe esattamente lo stesso meccanismo malato di cui adesso tutti discutono. Si sarebbe punto e a capo. “Ci vuole un antidoto e lo stiamo preparando”, racconta allora Andrea Ostellari, il presidente leghista della commissione Giustizia del Senato. “Il tempo per fare una buona riforma del sistema elettorale del Csm c’è”, dice. “Dipende dalla volontà. Magari non in un mese, ma in un tempo congruo sì”, aggiunge. Lasciando forse intuire, a un ascoltatore che fosse particolarmente malizioso, come le resistenze non siano certo nella Lega, ma tra i Cinque stelle. “Il percorso lo ha delineato con estrema correttezza il presidente Mattarella”. Anche il sottosegretario leghista alla Giustizia, Jacopo Morrone, fa un esercizio di prudenza: “Ci stiamo confrontando in queste ore. Non è detto che il sistema elettorale che verrà scelto alla fine preveda il sorteggio”, specifica, facendo riferimento alle ipotesi attribuite al ministro Alfonso Bonafede. E insomma i leghisti di governo sono felpati, e misurati. “La verità?”, ride l’ex ministro Castelli. “La verità è che sulla giustizia non si può fare nulla perché il ministro Bonafede è allineato con le posizioni più estremiste dei più estremisti e conservatori tra i magistrati”. Si riferisce probabilmente alla convergenza, almeno ideale, tra i grillini e la componente dei togati guidata da Piercamillo Davigo, che per effetto delle dimissioni dei tre togati di Mi coinvolti nello scandalo diventa imprevedibilmente la forza di maggioranza dentro al Csm. “A noi non interessa parteggiare per una corrente o per l’altra”, dice Ostellari. “Noi adesso abbiamo il dovere di trovare una soluzione che restituisca legittimità e decoro al Csm”. L’unico modo è che il Consiglio si sciolga. Ma per sciogliersi i consiglieri dovrebbero dimettersi tutti. E non vogliono. Approvare rapidamente un sistema di voto equivale a spingerli alle dimissioni, rendendo questo Csm già delegittimato ancora più anacronistico. La Lega è pronta, pare. Manca l’altro lato della luna. “Non ci conterei troppo”, conclude Castelli. Bonafede: “Ora un muro tra politici e toghe. Sto con il Colle, si premi il merito” di Andrea Malaguti La Stampa, 15 giugno 2019 Scandalo Csm, parla il ministro Bonafede: Quirinale impeccabile, basta con il potere delle correnti. Toghe sporche. La sintesi giornalistica resta appiccicata al corpo sempre più fragile del Consiglio Superiore della Magistratura come un marchio d’infamia e mette a rischio la credibilità del potere forse più delicato dello Stato. Un potere, per citare le parole di Giulia Bongiorno, “molto simile a quello di Dio”. Sul banco degli imputati questa volta ci sono i giudici che giudicano i giudici. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, rispondendo a La Stampa dalla sua casa di Firenze, evita accuratamente di entrare nel merito dello scandalo ma racconta senza reticenze quello che secondo lui deve cambiare, e in fretta, nei rapporti malati tra le toghe e la politica. Ministro Bonafede, è necessario sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura? “Guardi, io non entro nel merito di decisioni che non mi competono, ma come ministro della Giustizia ho due compiti: quello di iniziare le azioni disciplinari (cosa che ho fatto nei confronti di alcuni consiglieri) e quello di avviare un pacchetto di norme che impediscano il ripetersi di fatti come quelli emersi. La penso esattamente come il presidente della Repubblica: è necessario cambiare le regole per voltare pagina”. Un filo vago… “Lo dico più chiaramente: dobbiamo alzare un muro che tenga distante la politica dalla magistratura”. Come si fa? “Per esempio riducendo il potere delle correnti e stabilendo un principio: i magistrati che entrano in politica non possono tornare indietro. Inoltre il nuovo progetto si deve fondare sul merito”. Le pagelle per i magistrati? “Quelle in qualche modo ci sono già. I magistrati sono soggetti a valutazioni di vario tipo. Dobbiamo cercare di rendere i parametri assolutamente oggettivi. L’importante è che il cambiamento non avvenga sulla base di un’onda emotiva, ma con un’attenta riflessione in Parlamento”. Come spiegherebbe a uno studente di giurisprudenza il meccanismo di nomina dei capi delle procure? “Gli direi che a capo delle procure vanno i magistrati migliori. E che con la riforma in arrivo blinderemo la meritocrazia. Aggiungerei che i nostri magistrati sono tra i migliori al mondo, perché non hanno solo passione, ma anche grande coraggio”. Le piace esagerare? “Al contrario. Fotografo l’esistente. I capi delle procure sono tutti di altissimo livello. Ma non ci sono dubbi che il correntismo provochi delle degenerazioni”. I privati cittadini lo sanno che i magistrati sono così bravi? “Io sono convinto di sì. Il loro lavoro - enorme - è sotto gli occhi di tutti. Chiaramente bisogna rispondere con determinazione a chi sbaglia in questo ruolo così delicato”. Cito Giuseppe Cascini, leader di magistratura democratica: “La debolezza delle correnti favorisce la formazione di aggregazioni occulte, che hanno come unico obiettivo la gestione del potere”… “Qui non è in discussione il diritto costituzionale di associarsi, ci mancherebbe altro. Qui si tratta di aprire gli occhi. Nel momento in cui una corrente smette di sviluppare la propria prospettiva giuridica per sostituirla col puro esercizio del potere allora bisogna intervenire. Se la magistratura vuole rilanciare la propria immagine deve riconoscere che il problema esiste. Ricordiamoci che la credibilità della giustizia è la credibilità dello Stato. Se. come è avvenuto nelle ultime elezioni, per quattro ruoli in posti apicali ci sono solo quattro candidati di quattro correnti diverse è ovvio che qualcosa non va”. Ancora Cascini: “Toghe sporche mi fa pensare alla P2”… “A me non piace commentare frasi come questa né alimentare polemiche. Siamo di fronte a un fatto grave che va affrontato con serietà, proteggendo la credibilità della giustizia”. Provo a chiederglielo diversamente: quanto è forte l’influenza della politica nelle nomine della procure? “Diciamo che ci sono dei campanelli d’allarme sui tentativi da parte di alcuni politici di incidere sulle nomine. Per questo il sistema deve reagire in maniera compatta”. Parafrasando Davigo, troverebbe sbagliato dire che non esistono magistrati onesti, esistono solo magistrati che non sono stati intercettati? “Non lo troverei soltanto sbagliato. Lo troverei offensivo. Mi perdoni, ma questo è un piano sul quale non voglio proprio scendere”. E la sua legge spazza-corrotti che ha rafforzato le intercettazioni… “Certo. E lo rivendico. Le vicende di queste ore stanno dimostrando l’importanza di un sistema che in passato era stato indebolito. Le intercettazioni sono uno strumento di indagine fondamentale”. È giusto utilizzare il trojan - vale a dire una sorta di microspia inserita negli smartphone che funziona anche a telefono spento - per reati diversi da mafia e terrorismo? “Sì. Anche se è uno strumento che va usato con cautela e tenendo presenti le esigenze della privacy”. Fa molto polizia segreta della Germania est… “È una fesseria”. Non è una fesseria notare che ogni singola parola finisce sui giornali prima dei processi… “Questo è un discorso diverso. I giornalisti fanno il loro mestiere e il diritto di cronaca è sacrosanto. Da parte nostra dobbiamo trovare un modo per rendere tracciabili i file con le intercettazioni per capire chi li usa e in che modo”. Luca Lotti... “La fermo. Non parlo delle indagini in corso”. Ha l’impressione che il Quirinale sia sotto attacco? “No”. Ministro, perché la sua riforma della giustizia si è arenata? “Non si è arenata affatto. La prossima settimana ricominceremo gli incontri di governo. Nei mesi passati i nostri colleghi di governo non si sono presentati. Lo dico senza polemica. Di recente sono stato io a decidere di sottrarre il dibattito sulla riforma al vortice della campagna elettorale”. Salvini vi ha messo con le spalle al muro? “Questo è un argomento che piace molto alla stampa ma non corrisponde alla realtà. Abbiamo fatto molte cose importanti assieme e nove su dieci dei provvedimenti più importanti di questo anno di governo sono a firma del Movimento 5 Stelle. A partire dall’anticorruzione”. La sua collega Giulia Bongiorno dice che “il potere di un magistrato è uguale a quello di un sacerdote o persino a quello di Dio e deve essere accompagnato da grande responsabilità”. I giudici-dio sono fuori controllo? “Le ho già detto quello che penso della qualità dei magistrati. E riserverei le questioni religiose ad altro. Però mi fa piacere il richiamo alla questione morale”. Traduco: la questione morale nel governo è colpa della Lega… “Traduce male. Io dico solo che sono d’accordo sulla centralità del tema e sulla necessità di averlo come stella polare”. Bongiorno: “Limiti sui tempi dei processi e sulle intercettazioni” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 15 giugno 2019 Il ministro della Pubblica amministrazione, tra i consiglieri giuridici più ascoltati da Salvini: “Termini perentori per le indagini. E divieto assoluto di pubblicazione di ciò che attiene alla vita privata delle persone”. Per il Csm sorteggio su base territoriale. “Le intercettazioni? Sono soltanto uno dei punti delle riforma della giustizia che a questo governo è richiesta”. Giulia Bongiorno è sì il ministro per la Pubblica amministrazione. Ma è anche uno dei consiglieri giuridici più ascoltati da Matteo Salvini sin da quando ha aderito alla Lega, quasi un ministro ombra. La riforma - Mercoledì il Guardasigilli Alfonso Bonafede presenterà la riforma della giustizia agli alleati. Ma su questo tema ci sono state forti tensioni e il nuovo confronto rischia di essere cruciale per il futuro del governo. “Preciso che io e nessun altro ha visto le carte e letto il provvedimento del ministro - spiega Bongiorno. Ma se lei mi chiede, certamente da parte nostra sono maturate alcune convinzione rispetto a ciò che è necessario alla Giustizia italiana e noi ci presenteremo all’appuntamento con spirito costruttivo. E guardi che non si tratta soltanto di giustizia. Il punto è che il buon funzionamento di quella è anche un importante fattore di competitività: dobbiamo evitare che gli imprenditori e gli investitori stranieri scappino dall’Italia a gambe levate per la lunghezza dei procedimenti”. Le intercettazioni - E quindi, stretta severa alle intercettazioni? “Con il decreto sicurezza bis - spiega il ministro - si sono differiti alcuni punti della riforma Orlando, che presentava numerosissime criticità. Detto questo, dobbiamo evitare le intercettazioni a strascico”, quelle che coinvolgono persone diverse da quelle inizialmente indagate o addirittura vengono disposte in assenza di legami diretti con il caso d’indagine. “Inoltre, occorre evitare la pubblicazione dei verbali nelle fasi precoci del procedimento. Infine, noi crediamo nel divieto assoluto di pubblicazione di ciò che attiene alla vita privata delle persone”. Ancora più chiara: “Non basta più dire: non pubblicate. È necessaria anche una sanzione per la pubblicazione delle cosiddette “intercettazioni gossip”“. La durata dei processi - Altro grande tema, su cui già non sono mancate le polemiche con i 5 stelle, è la durata dei processi. Premesso che il ministro è “contrarissima a levare pezzi di processo e quelli che ci sono devono restare, un punto fondamentale è riuscire ad evitare i tempi morti del processo”. La chiave del problema storico della giustizia italiana è “dare un limite perentorio a tutte le fasi del processo, ma in particolare alle indagini preliminari. I sei mesi oggi sono prorogati e poi riprorogati. Ci sono indagini preliminari che durano anni anche per la mancanza del tempo per chiuderle”. Bongiorno non vuole dire lei quanto debba essere lungo il termine perentorio: “Ma se è un anno, deve essere un anno”. Inoltre, “in caso di ritardi del tutto ingiustificati da parte dei magistrati, dovremmo introdurre importanti conseguenze processuali e anche disciplinari. Per dire: se una sentenza non viene mai depositata, io non posso mai impugnarla”. Per questo, “dato che stiamo parlando di vera paralisi, io credo si potrebbero introdurre dei manager con un principio semplice: ai giudici la giurisdizione, ai manager l’amministrazione. Se ne parla da tempo, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di introdurli”. Il Consiglio superiore della magistratura - Tema finale, ma non certo ultimo, la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Secondo Giulia Bongiorno, i fatti recenti “rischiano di avere un effetto deflagrante sulla giustizia, chi è indagato non riesce più ad accettare di essere indagato. Nella nostra società che assolve e condanna sono solo i sacerdoti e i magistrati e dunque questi ultimi devono avere un’immagine sacerdotale”. Sulla riforma del Csm per il ministro ci sono due strade: “La separazione del consiglio in due con la separazione delle carriere, oppure un intervento più rapido che riguardi solo la nomina dei componenti. Io sarei favorevole all’iter costituzionale ma, appunto, la situazione richiede anche incisività di azione”. E dunque, l’idea è quella che Giulia Bongiorno chiama “sorteggio mediato”. In che cosa consiste? “Prima si individua un elenco di persone che hanno i requisiti per fare i consiglieri. E sulla base di quello, pur consapevoli di alcune controindicazioni, si fa un sorteggio”. Ma gli elenchi da cui pescare gli eletti dovrebbero avere una base territoriale: “Penso alla creazione di piccoli collegi sui territori. Un’area indica alcuni nomi, è tra quelli si fa il sorteggio”. L’obiettivo è una grande discontinuità con l’attuale sistema: “Oggi le nomine vengono fatte dalle correnti della magistratura. E questo non va bene”. “Se Cucchi non fosse stato pestato non sarebbe morto” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 giugno 2019 Il perito Francesco Introna rettifica se stesso e ammette. Se Stefano Cucchi non fosse stato pestato fino a spezzargli la schiena, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, mentre era trattenuto dai carabinieri che lo arrestarono, “verosimilmente” non sarebbe morto. A riferirlo ai giudici della Prima Corte d’Assise, nell’udienza del processo bis che si è tenuta ieri in via straordinaria nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, non è un testimone di parte civile ma il prof. Francesco Introna, coordinatore del collegio di periti nominati nel 2016 dal Gip Elvira Tamburelli che eseguirono a quel tempo l’incidente probatorio necessario a stabilire le cause esatte di morte del geometra romano deceduto una settimana dopo il suo arresto nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini. Proprio quel Francesco Introna alla cui nomina inizialmente si era opposta la stessa famiglia Cucchi e il loro avvocato Fabio Anselmo perché lo consideravano “molto vicino a Ignazio La Russa e a Cristina Cattaneo, il medico legale che firmò la prima perizia d’ufficio sul corpo di Stefano in cui non c’erano tracce delle vertebre fratturate di recente”. Ieri però il capo dei periti, medico legale al Politecnico di Bari, incalzato dalle domande del presidente della Corte, il giudice Vincenzo Capozza, ha ammesso: “Nessuno può avere certezze, però se Stefano Cucchi non avesse avuto la frattura della vertebra S4 non sarebbe stato ospedalizzato; era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per problemi connessi alla frattura. Cucchi non avrebbe avuto la vescica atonica, probabilmente avrebbe avuto lo stimolo alla diuresi e verosimilmente la morte o non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un momento diverso”. Introna, così come gli altri esperti del collegio peritale sentiti ieri in udienza (Cosma Andreula, Vincenzo D’Angelo e Franco Dammacco), hanno di fatto rivisto quanto affermarono nel 2016 in fase di indagine preliminare, prendendo atto evidentemente del bagaglio di evidenze emerse durante il dibattimento e alla luce dell’inchiesta integrativa sui depistaggi aperta dal pm Giovanni Musarò. Anche se il capo del periti, rispondendo alle domande della difesa di uno dei cinque carabinieri imputati, ha ammesso di aver dato in passato una diversa interpretazione, peraltro già più volte confutata durante il processo bis, che presupponeva una condizione di deperimento fisico di Stefano prima di essere arrestato, non si sa bene se dovuta al suo passato da tossicodipendente, alla sua magrezza strutturale o all’epilessia di cui soffriva. Condizioni che, secondo l’accusa e la famiglia della vittima, nulla hanno a che vedere con la morte di un giovane di 32 anni che fino al giorno del suo arresto si era allenato in palestra e che ambiva a praticare costantemente la boxe. “Cucchi è morto per una concatenazione di diverse cause, non abbiamo mai detto che l’epilessia fosse l’unica causa della morte”, hanno precisato ieri i periti che stranamente dimenticano, tra le “concause della morte”, la frattura della vertebra L3 avvenuta contestualmente alla frattura della S4, evidentemente considerando poco influente le conseguenze psico-fisiche di un trauma di questo genere sulla vittima. Di fatto però il processo ha subito ieri l’ennesima accelerazione verso quella “verità processuale” che la famiglia Cucchi auspica e attende da tempo. “Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale - ha commentato infatti Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, a fine udienza - e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto”. “Ora - ha aggiunto l’avvocato Fabio Anselmo - nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria”. Nella prossima udienza, il 26 giugno, saranno sentiti i periti di parte. Nel frattempo, il 17 e il 18 giugno si terranno le udienze preliminari davanti al Gup per decidere sul rinvio a giudizio chiesto dalla procura di Roma per otto carabinieri (il generale Alessandro Casarsa, i colonnelli Lorenzo Sabatino e Francesco Cavallo, il maggiore Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, il capitano Tiziano Testarmata e i militari Luca De Cianni e Francesco Di Sano) accusati a vario titolo di aver depistato e insabbiato la verità per quasi dieci anni. Terni: il tribunale revoca l’ok alla visita, lui muore e la famiglia non lo vede di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2019 Era in imminente pericolo di vita al regime duro del carcere di Terni, per questo subito ricoverato d’urgenza all’ospedale, sempre in regime di 41 bis. I familiari sono riusciti ad ottenere un permesso speciale dal tribunale di Marsala per poterlo andare a trovare un’ora al giorno. Ma non hanno fatto in tempo a vederlo vivo. Dopo una nota del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, infatti, il tribunale ha fatto dietrofront, ripristinando il colloquio di un’ora al mese. Parliamo di Rosario Allegra, uno dei cognati del super latitante Matteo Messina Denaro - arrestato ad aprile dell’anno scorso - e ristretto al 41 bis, in custodia cautelare, dal 5 maggio scorso. Il detenuto, come detto, versava - così scrivono i medici - “in gravissime condizioni di salute irreversibile” e così il suo avvocato aveva presentato, il giorno dopo il ricovero, avvenuto il 23 maggio, istanza di revoca della misura o di autorizzazione almeno ad una visita - ulteriore rispetto a quella prevista per il mese successivo a norma di legge -, affinché incontrasse la moglie e i figli. Il motivo della richiesta era l’imminente pericolo di vita. Il Tribunale di Marsala ha rigettato la richiesta di revoca della misura ma, visto che nel frattempo il detenuto iniziava a versare in condizioni terminali e si trovava in ospedale in stato praticamente di incoscienza, ha autorizzato la moglie e i due figli al colloquio di un’ora al giorno per vederlo in via straordinaria. Nell’occasione il Tribunale ha osservato che, se è vero che i detenuti in 41 bis possono usufruire di un solo colloquio al mese, è vera anche la previsione che, in caso di eccezionali circostanze, sia consentito di prolungare la durata del colloquio per i congiunti e conviventi. Pertanto, ritenendo la veridicità del pericolo di vita, evidenziato dalle risultanze degli atti medici prodotti dalla difesa, il Tribunale di Marsala, in un’articolata e motivata ordinanza completa di richiami normativi all’ipotesi della eccezionalità, ha applicato la norma che consente il prolungamento dei colloqui almeno fino al mutamento dell’eccezionale urgenza e dell’imminente pericolo di vita. Per questo, il Tribunale ha autorizzato i colloqui supplementari giornalieri ai figli e alla moglie nel luogo di degenza. Questo è accaduto il 6 giugno scorso, dietro istanza del difensore. Lo stesso giorno il Dap scrive però una nota al Tribunale di Marsala e lo invita a rivisitare il provvedimento, segnalando che il ministro aveva già autorizzato un colloquio visivo “viste le gravi condizioni di salute, in cui versava”. Il tribunale di Marsala il 7 giugno ha recepito la nota e “melius re perpensa” ha revocato l’ordinanza del precedente 6 giugno, nella parte in cui aveva autorizzato per un’ora al giorno i colloqui con la moglie e i figli. Il tutto accade dietro la deduzione di un’attesa valutazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sulla effettiva ricorrenza dell’ipotesi dell’imminente pericolo di vita. Ciò, anche se il paziente era in effetti “in imminente pericolo di vita”, come si evinceva dalle carte mediche, ed anche se necessitava di “supporto per tutte le funzionalità” secondo il bollettino clinico del 2 giugno dell’Azienda Ospedaliera di Terni - in possesso anche dell’Amministrazione del carcere. In soldoni, nel giro di poche ore il tribunale ha revocato l’autorizzazione, prima concessa ai congiunti prossimi, di vedere un’ora al giorno il detenuto. Giovedì mattina, Rosario Allegraè morto e, almeno fino al pomeriggio i suoi figli - incensurati - non hanno potuto vederlo. Tutto questo - con tanto di documentazione - lo denuncia a Il Dubbio l’avvocato Michele Capano, componente del Comitato di Radicali Italiani. “A parte la chiara e vergognosa sudditanza del potere giudiziario a quello esecutivo che il carteggio prova - spiega Capano - è una questione che testimonia del degrado nella magistratura ben più che le vicende di Palamara & company: la prova di disumanità di una Repubblica che - dopo non avere consentito gli estremi conforti al moribondo - ha anche “trattenuto” la salma, evidentemente per non meglio precisate operazioni da compiere”. Continua l’attivista dei Radicali Italiani: “In questa maniera impediscono anche che i familiari si raccolgano nel pianto vicino al cadavere: sono punti di non ritorno nell’imbarbarimento del sistema detentivo”. E conclude: “Così viene meno ogni credibilità istituzionale nella lotta alla mafia e si guadagna consenso alla mafia”. Bolzano: nuovo carcere, al via lavori di costruzione nel 2020 salto.bz, 15 giugno 2019 Il presidente della Provincia Kompatscher incontra la nuova direttrice Francesca Gioieni. “Massimo impegno della Provincia per il cantiere”. La data è un anticipo rispetto al 2021 indicato. L’attuale struttura è in condizioni critiche e quella nuova è per ora solo sulla carta, condizionata dalle incognite che interessano l’azienda vincitrice dell’appalto, Condotte spa, tutt’altro che fugate. Arno Kompatscher assicura però “il massimo impegno della Provincia affinché i lavori del possano iniziare nel 2020, nonostante le ben note difficoltà di carattere economico che stanno colpendo la società”. La Provincia si impegnerà al massimo affinché i lavori del possano iniziare nel 2020, nonostante le ben note difficoltà di carattere economico che stanno colpendo Condotte spa (Arno Kompatscher) Così interviene il Landeshauptmann a margine dell’incontro con Francesca Gioieni, nuova direttrice della casa circondariale di Bolzano. Originaria della Puglia, da marzo Gioieni ha preso il posto di Rita Nuzzaci che per 16 anni è stata alla guida del carcere altoatesino. La dirigente ha incontrato per la prima volta, nel suo ufficio di Palazzo Widmann, il presidente della Provincia Kompatscher. Insieme si sono soffermati sulle note problematiche che affliggono la struttura di via Dante. Il progetto: i dati sul nuovo carcere di Bolzano nel dossier discusso nella clausura di giunta a maggio a Carezza. Oltre al penitenziario la Condotte spa deve costruire anche il nuovo polo bibliotecario “Francesca Gioieni - sottolinea il governatore, soddisfatto del colloquio - ha dimostrato grande spirito di iniziativa e si pone come obiettivo quello di avviare una serie di misure e iniziative per migliorare la situazione di chi deve scontare la pena, ma anche di chi opera e lavora all’interno del carcere”. Francesca Gioieni si pone l’obiettivo di migliorare la situazione di chi deve scontare la pena, ma anche di chi opera e lavora all’interno del carcere. Il presidente promette il massimo impegno dell’amministrazione locale affinché si dia avvio al cantiere già nel 2020. In realtà, si tratta di un’anticipazione rispetto alla data segnata sul dossier discusso nella clausura di giunta di inizio maggio. Le tappe previste sono: progetto esecutivo a metà 2020, inizio lavori nella primavera 2021, fine lavori a marzo 2023. Il costo dell’opera, compreso l’acquisto dell’area, è di 63 milioni di euro. Trani (Bat): nuovo padiglione carcere, a luglio il certificato di collaudo barlettanews.it, 15 giugno 2019 Il certificato di collaudo tecnico-amministrativo relativo al nuovo padiglione dell’istituto penitenziario di Trani verrà rilasciato presumibilmente entro il mese di luglio 2019. È quanto si apprende dal funzionario responsabile del Provveditorato interregionale opere pubbliche presso il Ministero delle Infrastrutture e trasporti in risposta alla richiesta formulata nel mese di aprile dal sen. Dario Damiani (Forza Italia). In data 12 aprile scorso, infatti, il senatore Damiani aveva effettuato un sopralluogo nella nuova ala del carcere tranese, un padiglione da 200 posti ultimato ma ancora inagibile per ritardi nel rilascio della documentazione tecnica. L’indicazione del mese di luglio prossimo fa quindi ben sperare in una soluzione rapida della grave problematica, che comporta per i detenuti e per gli agenti penitenziari in servizio una seria compromissione dei propri diritti essenziali. “A breve finalmente l’opera già ultimata potrà entrare nella piena disponibilità dell’ente penitenziario. Anche a seguito del mio interessamento, sono state attivate le opportune verifiche che consentiranno, a luglio, di rendere la struttura fruibile - commenta con soddisfazione il sen. Damiani - Continuerò a seguire la vicenda, affinché non resti un’ulteriore opera incompiuta. È inaccettabile che i detenuti continuino a subire condizioni di sovraffollamento e di emergenza igienico-sanitaria nella vecchia struttura ormai fatiscente e che gli agenti siano costretti a svolgere il proprio lavoro con aggravio di mansioni e carenza di sicurezza”. Sassari: il carcere raccontato da chi l’ha vissuto “la persona non è solo il suo reato” di Giampiero Marras L’Unione Sarda, 15 giugno 2019 La vita dei detenuti al centro dell’incontro organizzato all’università. Dal racconto in prima persona di Federico Caputo, ex detenuto che è stato anche nella struttura di Alghero, alle parole di Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia. “Mio fratello Giovanni una volta disse: ‘Non bisogna mai dimenticare che in ognuno degli assassini c’è un barlume di umanità”. È stata una mattinata intensa anche emotivamente quella dedicata all’editoria carceraria nell’ambito di “Dentro & Fuori”, il workshop organizzato dal Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari insieme a numerosi partner per fornire un contributo significativo al dibattito in corso su dove va, e dove dovrebbe andare, il sistema carcerario italiano. “La persona non è solo il suo reato, ma è qualcosa di più complesso” ha detto Federico Caputo, che nel 2014 ha finito di scontare una pena di 14 anni, abbreviata di 4 anni, resa ancora più pesante dalle precarie condizioni fisiche. Ha scritto un libro dal titolo “Sensi ristretti” perché, come ha spiegato: “L’odore indefinibile, l’assenza di colori, il silenzio rumoroso interrotto solo dai cancelli che sbattono. Il sapere interpretare qualsiasi rumore. Tutti i sensi si attivano perché devi sopravvivere in carcere. Sono libero da cinque anni, ma quando chiudo gli occhi l’odore del carcere lo sento ancora”. Giovanni Gelsomino, operatore nella Casa di reclusione di Nuchis, a Tempio, ha sottolineato quanto lo studio possa aiutare una persona che vive rinchiusa da anni, senza la cognizione di come si vive fuori. “La metà dei detenuti di Nuchis frequenta la scuola e molti sono avviati alla laurea. Percentuali da record non solo in Italia, ma credo siano tra le più alte d’Europa. Per dare un’idea di cosa voglia dire stare dentro per anni, quando abbiamo accompagnato un detenuto fuori, è uscito sotto la pioggia ad abbracciare gli alberi”, ha detto Ferrara: la mappa del teatro-carcere in Emilia Romagna Redattore Sociale, 15 giugno 2019 Cento detenuti coinvolti ogni anno, 40 spettacoli realizzati e 9 laboratori. Gli operatori si incontrano per la prima volta a Ferrara per creare un coordinamento. Martiello, (Csv): “È il momento di rendere stabili queste esperienze”. Sono più di cento i detenuti coinvolti ogni anno in attività teatrali in Emilia Romagna: 9 i laboratori attivi al momento e 40 gli spettacoli realizzati negli ultimi anni, la maggior parte dei quali rappresentati anche all’esterno delle prigioni. Sono i numeri dell’indagine sul teatro in carcere presentata oggi a Ferrara nel forum sul tema, che riunisce per la prima volta gli operatori delle varie esperienze presenti in regione. “La funzione trattamentale del teatro è ormai ampiamente dimostrata - spiega Vito Martiello, coordinatore del Centro servizi per il volontariato di Ferrara, che ha contribuito a realizzare la mappatura: ora ora queste esperienze hanno bisogno di un riconoscimento”. L’obiettivo del forum, prosegue Martiello, è appunto “la costituzione di un coordinamento di tutte le attività di teatro carcere in regione, come già successo in Toscana”. Un riconoscimento ufficiale, insomma, ma anche un modo per rendere più stabili le esperienze che si sono sviluppate in questi anni. “Si tratta di progetti sempre precari - sottolinea Martiello - che nascono su iniziativa dei teatranti e che ogni anno devono lottare per trovare finanziamenti”. Qualcosa in questo senso si sta già muovendo, tanto è vero che il censimento delle esperienze teatrali è stato commissionato al Comune di Ferrara dall’assessorato alle Politiche sociali della regione. Comune e Csv di Ferrara hanno così realizzato schede per ognuno dei laboratori presenti in Emilia: 3 a Bologna, 2 a Modena (contando la casa circondariale di Castelfranco Emilia) e uno rispettivamente a Ferrara, Parma, Reggio Emilia e Rimini. L’ingresso del teatro in carcere, avvenuto negli anni 80, si è dimostrato quindi efficace. “Per i detenuti e per il pubblico il teatro rappresenta la possibilità di vedersi sotto un’altra veste - commenta Martiello -: si tratta di esperienze fondamentali per mettere in contatto le carceri e le città che le ospitano”. La mappa presentata a Ferrara mostra una realtà viva e dinamica, nonostante le inevitabili difficoltà. Fra le esperienze più longeve c’è quella bolognese del Teatro del Pratello, che dopo dieci anni di lavoro con i ragazzi dell’omonimo carcere minorile, nel 2008 ha visto per la prima volta il regista Paolo Billi dirigere detenuti adulti nello spettacolo “Cantico degli Yahoo”, presentato nel cartellone dell’Arena del Sole. Sempre a Bologna, dal 2001 l’associazione La città invisibile lavora con i detenuti della sezione alta sicurezza, che finora non hanno però potuto esibirsi al di fuori dalla casa circondariale. A Modena, invece, il progetto è andato oltre il teatro, portando alla nascita di “Buona condotta”, un inserto pubblicato su un settimanale di strada locale per comunicare all’esterno quello che succede in carcere. Scorrendo la mappa, si scopre che i detenuti-attori di Castelfranco si sono presi anche qualche soddisfazione artistica, raggiungendo nel 2007 le finali del Premio Ustica con lo spettacolo “Frammenti”. E in alcuni casi la recitazione si è trasformata in un vero lavoro, contrattualizzato e retribuito, seppure in modo occasionale. Roma: lo zen a Rebibbia di Damiano Tavoliere Alias - Il Manifesto, 15 giugno 2019 Dal braccio della morte di San Quintino ai detenuti del carcere romano: la compassione di un monaco buddista. “Anche un serial killer riesce a fare meditazione, a contattare livelli di calma profonda e avere un’importante trasformazione interiore, persino superiore a quanto avviene con la psicanalisi. Nello Zen si parla di condizionamenti (mentali, sociali, culturali, familiari, storici…) e afflizioni (ignoranza, paura, rabbia, odio…) che offuscano la nostra vera natura luminosa. Chi non è in grado di gestire le proprie emozioni e l’aggressività connaturata all’uomo, finisce preda delle stesse”. Allora che dire dell’attuale ministro degli Interni che chiude i porti e fa morire la gente in mare? “Una persona che si comporta con tutto quest’odio, tutta questa rabbia, quanto sta male? Quanto dolore ha in sé per rovesciare crudeltà su persone che neppure conosce? Poiché chi sta male scarica la sua sofferenza sugli altri; la meditazione (che è il mio percorso, per altri può essere altro) aiuta le persone a contattare la propria sofferenza e prendersene cura, a guardare ansie paure angosce che guidano la propria esistenza, a riconoscere il proprio ego ipertrofico e le ferite profonde dentro di sé invece di proiettarle sull’altro da sé, in questo caso i migranti. Ma -come per chiunque- tale aiuto va desiderato, non imposto”. L’abbraccio di San Quintino - Dario Doshin Girolami nasce a Roma il 29 settembre 1967 da una famiglia di cineasti: figlio del regista Marino e della costumista Silvana Scandariato, fratello dell’attore Enio (Fellini, Visconti…) e del regista Enzo G. Castellari (adorato da Quentin Tarantino e citato in Bastardi senza gloria). Il suo destino sembrava inciso geneticamente, ma a sei anni il medico curante -nonché insegnante di yoga e meditazione- vede nel bambino vibrazioni speciali, gli trasmette disciplina e testi orientali: un imprinting fatale che diviene nel tempo scelta di vita, studio e pratica, senza nulla togliere al gioco o agli amori e all’infinita attrazione per il mare e i suoi sport. Seguono la laurea e l’opzione monastica, con specifici approfondimenti sulle emozioni che lo conducono al Centro Zen di San Francisco, guidato da Eijun Linda Cutts. Lì lo Zen intreccia valori essenziali in Occidente: “la democrazia, il femminismo, l’uguaglianza di genere, infatti è la badessa la mia maestra, quella che mi ha trasmesso il Dharma, ossia l’autorizzazione ad insegnare a mia volta, mentre in Oriente c’è separazione uomini/donne e queste sono subordinate”. Girolami fa esperienza nel penitenziario di San Quintino coi detenuti condannati a morte (“uno di loro mi disse che ero la prima persona ad averlo abbracciato”), poi a Roma fonda il Centro Zen l’Arco, sposa una fascinosa docente di danza indiana, insegna Taichichuan, tiene seminari e corsi di meditazione all’università e nel carcere di Rebibbia (una sua collaboratrice opera nel settore femminile). Il famigerato Ashin - La fede buddista è certamente tra le più pacifiche, ma l’inaffidabilità umana fa breccia in tutti gli ambiti e in tutte le epoche, per cui il cronista non può eludere domande sui massacri odierni compiuti esattamente da chi per eccellenza predica la tolleranza: è recente il documentario girato clandestinamente dal regista Barbet Schroeder sul famigerato monaco birmano Ashin Wirathu (Il venerabile W), fautore di una pulizia etnica antimusulmana e di sterminio della minoranza Rohingya, con l’ausilio della giunta militare al potere, il favore pressoché totale del popolo fanatizzato e l’appoggio di San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991 (ora in tanti ne chiedono la revoca); non dissimile il nazionalismo religioso nello Sri Lanka contro cristiani e musulmani. Girolami non si scompone, respira profondamente come volesse assorbire il male del mondo e purificarlo, riabbozza un sorriso di misericordia per le debolezze e le ambiguità costitutive nella nostra specie: “Occorre bloccare e ingessare chi fa del male a sé e agli altri, non girare la testa altrove, come sono fermati e ingessati coloro che incontro in carcere. Personalmente mi ispiro al modello di Gandhi, faccio del mio meglio per attenermi ai precetti filosofico-religiosi, ma se un malvivente non sente ragione chiamo un carabiniere. Ognuno di noi ha lati oscuri di rabbia e paura che -se non contattati e curati- possono portare alla follia hitleriana, al razzismo, al genocidio. Wirathu va contro gli insegnamenti del Buddha, mi vergogno per la sua condotta, la nostra comunità -soprattutto occidentale- condanna a voce alta il clero buddista birmano legato al regime militare. Dobbiamo illuminare gli angoli bui che ci affliggono dentro: essere buddisti non significa essere santi, siamo umani e i nostri precetti etici e morali devono orientare il nostro cammino, ma proprio perché umani rischiamo sempre di perdere la bussola. Pure il clero zen giapponese è contravvenuto ai nostri principi di etica, saggezza e compassione: nella Seconda guerra mondiale ha sostenuto lo sforzo bellico nazionalista e -mi duole il cuore a dirlo- alcuni monaci hanno imbracciato le armi violando apertamente l’insegnamento del Buddha”. Dario Girolami è persona assai evoluta, il suo Centro Zen è aperto a tutti senza distinzione di “età, genere, orientamento sessuale, etnia, nazionalità…”, la scuola giapponese Soto Zen di cui fa parte consente il matrimonio e le badesse nei templi. Fra le sue varie cariche, egli è membro fondatore di Cmc (Consciousness Mindfulness Compassion), coordinatore Ebu (Unione buddista europea), copresidente di RfP (Religions for Peace). È cosciente di avere potere su chi gli si rivolge in quanto Maestro, come è cosciente della propria fallibilità in quanto essere umano; perciò, sebbene in teoria autosufficiente e indipendente come Maestro col livello iniziatico più alto (a maggio 2019 diviene Abate del Tempio dell’Arco), la sua continua autosorveglianza s’accompagna alla supervisione della sua storica insegnante spirituale e di uno psicologo, “così verifico che il potere non mi dia alla testa deviando dalla rettitudine e dall’umiltà”. Insensatezza e compassione - “L’unica risposta possibile all’insensatezza della realtà nella quale viviamo è la compassione, volerci bene e sostenerci, senza distogliere lo sguardo dalla sofferenza di tutti gli esseri viventi, senzienti e non senzienti, poiché siamo tutti interrelati e interconnessi in una dimensione impermanente: il carcere è un buco nero che nessuno vede, la società lo rimuove, ma lì ci sono umani sofferenti; troppo facile condannarli: che vita han fatto per finire lì?, e noi, la buona società, cosa abbiamo fatto per loro? Siamo individui unici e irripetibili, ma siamo pure una sola natura in una società definita. Quando entro in carcere so di incontrare dei malfattori, magari degli assassini, ma io li incontro come esseri umani (né m’interessa il reato commesso), mi preme dargli rispetto, affetto, attenzione, è questo che può cambiare la persona, insieme all’investigazione interiore per capire da quali ferite profonde originano il male e le difese di rabbia e odio. In una lettera bellissima un ex detenuto mi ha scritto: tu sei il primo che mi ha fatto sentire di valere qualcosa”. Bologna: “La bellezza dentro”, le carceri femminili negli scatti di Corelli Redattore Sociale, 15 giugno 2019 Donne, madri, detenute ma anche agenti della polizia penitenziaria e addette alla sorveglianza. Sono le protagoniste delle immagini che il fotoreporter ha realizzato nelle case circondariali femminili d’Italia. Dal 15 al 30 giugno in mostra a Bologna. Donne, madri, detenute, ma anche agenti della polizia penitenziaria, addette alla sorveglianza. Sono tutte donne accomunate, nelle proprie differenze dalla condivisione di uno spazio limitato e definito, il carcere. Sono le protagoniste delle immagini del fotoreporter Giampiero Corelli che, con i suoi scatti, ha raccontato la realtà degli istituti femminili italiani. “La bellezza dentro”, questo il titolo della mostra promossa dall’associazione il Poggeschi per il carcere e dal Comune di Bologna, sarà visibile dal 15 al 30 giugno a Palazzo d’Accursio. Corelli, che da trent’anni collabora con diverse testate giornalistiche e ha realizzato, tra gli altri, un reportage sulle donne soldato in Afghanistan, è entrato in quasi tutte le case circondariali femminili d’Italia: da Palermo a Trento, passando per Rebibbia, San Vittore e Bologna. “Le foto fanno emergere l’umanità rinchiusa dentro la realtà delle case circondariali, dove le persone condividono anche le situazioni più intime e personali e i sentimenti positivi e negativi si esaltano. Il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione del ministero della Giustizia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alle case circondariali con il loro personale “ma anche alla direzione, agli educatori, agli agenti di polizia penitenziaria e alle tantissime donne, detenute che si sono prestate a essere fotografate, in un momento della propria vita non certo facile”. I temi della mostra saranno approfonditi il 20 giugno nella tavola rotonda “Alla ricerca della bellezza dentro” che si terrà nella Sala Anziani di Palazzo d’Accursio a partire dalle 17. Sono previsti intervisti di Cecilia Alessandrini, presidente dell’Associazione Il Poggeschi per il carcere, Antonio Ianniello, garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Marcello Marighelli, garante per i diritti delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, Susanna Zaccaria, assessore alle Pari opportunità, Contrasto alle discriminazioni e Patto per la Giustizia del Comune di Bologna, Massimo Ziccone, direttore area educativa Casa Circondariale di Bologna. San Gimignano (Si): a Ranza una partita tra studenti del Roncalli e detenuti iisroncalli.edu.it, 15 giugno 2019 Si è svolta mercoledì 5 giugno, presso la casa circondariale di Ranza, nel comune di San Gimignano, una partita di calcio organizzata dall’area educativa del carcere in collaborazione con l’IIS Roncalli di Poggibonsi. Protagonisti gli studenti dell’IIS Roncalli: quelli detenuti che frequentano il corso Turismo della scuola carceraria dell’IIS Roncalli e gli studenti della Vafm dell’Istituto valdelsano, accompagnati dalla docente Angela Ferretti, dal Dirigente Scolastico e dal professor Luigi Zonno, coordinatore della sezione carceraria. L’incontro si è svolto in tre tempi di 50’ ciascuno, il terzo dei quali ha visto confrontarsi due squadre miste di giovani studenti e detenuti. Un momento formativo importante che ha lasciato tutti soddisfatti. “È stata una bella esperienza - dichiara Niccolò Cibecchini della Vafm - all’inizio avevo un po’ di ansia ed ero un po’ disorientato, ma poi abbiamo trovato un ambiente accogliente e ci siamo divertiti”. “Ho partecipato personalmente all’incontro che ha rappresentato un momento importante per tutti gli studenti del nostro istituto coinvolti - commenta il Dirigente scolastico Gabriele Marini- per gli studenti della Vafm che hanno avuto l’opportunità di fare un’esperienza didattica significativa, che si inserisce in un più ampio percorso di Educazione alla cittadinanza attiva e partecipata, e di confrontarsi con la complessità della vita carceraria; per gli studenti detenuti, che hanno avuto l’opportunità di un contatto e di un confronto con la realtà esterna, in un’ottica anche riabilitativa della pena. La sezione carceraria si inserisce nell’ambito della nostra offerta formativa dedicata agli adulti e siamo contenti di poter svolgere una funzione così importante come quella educativa e culturale all’interno del carcere di Ranza”. Migranti. Sea Watch davanti Lampedusa. Salvini: “Non la passeranno liscia” di Carlo Lania Il Manifesto, 15 giugno 2019 Matterella firma il decreto sicurezza bis. La commissione Ue: “La Libia non è un porto sicuro”. Solo sedici miglia separavano ieri sera la Sea Watch 3 da Lampedusa. La nave della ong tedesca è rimasta tutto il giorno al largo dell’isola senza neanche tentare di entrare nelle acque territoriali italiane per non offrire pretesti al ministro degli Interni Matteo Salvini. “Ciondolano nel Mediterraneo e giocano sulla pelle dei migranti”, è tornato ad attaccare il leghista, al quale ieri si è aggiunto anche il premier Giuseppe Conte che da Malta, dove si trovava per il vertice dei Paesi Ue del Mediterraneo, ha chiesto “maggiore trasparenza da parte delle ong”. A bordo della nave, che mercoledì ha salvato 53 migranti tra i quali quattro bambini e nove donne, quello di tornare indietro e di sbarcare i migranti in Libia, come chiede Salvini, è un pensiero che non sfiora nemmeno le menti del comandante e dell’equipaggio. Con la guerra civile che infuria da mesi provocando morti e feriti, il Paese è lontano dall’essere il porto sicuro richiesto dai trattati internazionali nel quale poter sbarcare uomini, donne e bambini. E questo anche se giovedì le autorità del Paese nordafricano hanno indicato alla Sea Watch 3 proprio Tripoli come porto dove effettuare lo sbarco. Un’indicazione che, visto come vanno le cose in Libia tra guerra civile e violenze sui migranti, ha tutto il sapore della provocazione. “Il fatto che la Libia non sia un porto sicuro non lo diciamo noi, che riportando indietro i migranti commetteremmo un crimine”, ha spiegato la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi. “Lo dice la stessa missione Onu in Libia, l’Unhcr, la Commissione europea, la Farnesina e lo ha ammesso lo stesso ministro degli Interni”. Parole confermate ieri dalla portavoce della commissione Ue che, pur riconoscendo che la commissione non ha competenze per quanto riguarda l’assegnazione di un porto sicuro, ha però ricordato come “tutte le navi con bandiera europea devono seguire le regole internazionali, che significa che devono portare le persone in un porto che sia sicuro. La commissione - ha concluso al portavoce - ha sempre detto che queste condizioni non ci sono attualmente in Libia”. Ieri sera il presidente Mattarella ha firmato il decreto sicurezza bis che diventerà operativo oggi con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Questo significa che il comandante della Sea Watch 3 rischia i sequestro della nave e una multa tra i 10 mila e i 50 mila euro, e ha permesso a Salvini di affermare che “ci sono in acqua tutti i mezzi e gli strumenti legislativi necessari per evitare che questi aiutanti dei trafficanti, nei fatti, arrivino in Italia”. In attesa che la situazione si sblocchi alcune città tedesche, tra le quali Berlino, si sono offerte di accogliere i migranti che si trovano sulla Sea Watch. “Se necessario sono pronto a mandare degli autobus per prendere queste persone”, ha detto il sindaco di Rottenburgs, nel Land del Baden-Württemberg. Perché questo possa accadere, però, è necessario che prima la Sea Wach 3 possa trovare un approdo. Cosa che la momento appare difficile. “I porti italiani restano chiusi, non pensino di passarla liscia”, tuonava ancora in serata Matteo Salvini Africa. Cambiare affinché nulla cambi di Anna Bono Italia Oggi, 15 giugno 2019 Contro questo rischio i cittadini di Sudan, Algeria e Liberia scendono in piazza per protestare. Alla base di tutto il familismo e la corruzione endemica. Protestano i cittadini di tre paesi africani (Sudan, Algeria, Liberia) sfilano per le strade delle capitali, erigono barricate. In Sudan e Algeria le manifestazioni sono cominciate mesi fa. In Sudan fino ad aprile la gente è scesa in strada contro il presidente Omar al-Bashir, da 30 anni al potere, talmente feroce nel reprimere ogni opposizione e nella realizzazione del suo progetto di arabizzazione del paese, costato milioni di morti e di profughi, da aver meritato nel 2009, primo presidente al mondo, di essere incriminato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio. Dopo che l’11 aprile i militari lo hanno deposto, le proteste sono riprese non appena si è capito che un nuovo regime rischia di sostituire quello precedente. Dall’inizio di giugno, quando il Consiglio militare di transizione ha ordinato alle Forze speciali paramilitari di aprire il fuoco sulla folla inerme per disperderla e liberare le strade dalle barricate, i morti sono già decine, forse più di 100. In Algeria le proteste erano iniziate a febbraio, all’annuncio che il presidente Abelaziz Bouteflika, in carica dal 1999, si sarebbe candidato per un quinto mandato alle elezioni in programma il 18 aprile. La rivolta era contro “le pouvoir”, il potere: così gli algerini chiamano il sistema corrotto e clientelare consolidatosi nei 20 anni di Bouteflika. L’11 marzo l’ufficio di presidenza annunciava la rinuncia del presidente a candidarsi, l’imminente formazione di un nuovo governo e il rinvio delle elezioni sine die. Ma le proteste sono continuate: anche dopo le dimissioni di Bouteflika, rassegnate il 2 aprile, dopo la nomina del presidente del consiglio Abdelkader Bansalah a capo dello stato ad interim e dopo l’annuncio della data delle elezioni, fissata al 4 luglio. La popolazione contesta la persistenza al potere, neanche dissimulata, della vecchia leadership e le ingerenze dei militari negli affari politici. Per tutta risposta il 3 giugno il Consiglio costituzionale ha annullato il voto del 4 luglio. Le ragioni dei manifestanti a Khartoum e ad Algeri sono chiare: protestano contro regimi corrotti e violenti e contro chi li vuole rimpiazzare senza che però niente cambi. Che la Liberia sia in rivolta invece sembra insensato. Il paese è stato governato per 12 anni, dal 2006 al 2017, da Ellen Johnson Sirleaf, premio Nobel per la pace 2011. Alla scadenza dei suoi due mandati, nel gennaio del 2018, la carica è passata a George Weah, ex giocatore di calcio, vincitore di elezioni giudicate dagli osservatori internazionali “fair and free”, trasparenti e libere. Nel 2006 la Liberia usciva da due guerre civili e 14 anni devastanti. Johnson Sirleaf promise che la lotta alla corruzione sarebbe stata il “nemico pubblico numero uno”. Invece ha lasciato che la corruzione continuasse a dilagare. “Fedele” alla consuetudine dei leader africani, ha assegnato cariche governative importanti a tre fi gli e a una sorella. A chi la criticava rispondeva: “Dov’è il problema? Avevo bisogno di persone di fiducia”. Alla sua seconda vittoria ha contribuito il sostegno politico di Prince Johnson, ex leader del gruppo armato National Patriotic Front of Liberia, protagonista della prima guerra civile, combattuta dal 1989 al 1996. Nel 1990 il suo Fronte riuscì a rapire il presidente Samuel Doe che fu torturato per molte ore prima di essere ucciso. Torture ed esecuzione furono filmate e il video diffuso in tutto il mondo. Riprende Johnson che assiste alle torture, che beve birra, mentre i suoi uomini tagliano un orecchio al presidente. Tuttavia, nel 2005 Johnson ha vinto un seggio al Senato e tuttora vi rappresenta la contea Nimba. George Weah, all’indomani del suo insediamento, ha detto di aver ereditato un paese “fallito, impoverito dal malgoverno”, e ha dichiarato un impegno totale per garantire d’ora in poi trasparenza e buon governo. Dopo un anno e mezzo, però, ancora nulla è cambiato. Invece, nel frattempo, Weah ha avviato l’ampliamento dei poteri presidenziali e la concomitante riduzione dell’autonomia di istituzioni come la Commissione anticorruzione. Per gli enormi problemi economici del paese, il 5 febbraio scorso ha esortato la popolazione a pregare Dio due ore al giorno affinché intervenga a risolverli e ha chiesto a tutti i credenti di dedicare alla preghiera l’intera notte precedente l’ultimo venerdì di ogni mese, per chiedere a Dio di benedire il governo. Weah ha voluto come vicepresidente Jewel Taylor, ex moglie dell’ex presidente liberiano Charles Taylor, condannato e attualmente in carcere per crimini di guerra. Jewel, che ebbe un ruolo attivo durante la presidenza del marito, è stata anche nominata presidente del Comitato Sanità e Welfare del Senato su gender, donne e infanzia. Le manifestazioni di protesta in corso in Liberia sono le più grandi dalla fi ne della guerra civile. “Salva lo stato!” scandiscono i partecipanti che chiedono a Weah di combattere la corruzione e mettere fine alle violazioni della costituzione e lo accusano di ignorare le difficilissime condizioni della popolazione e di pensare solo ad accumulare ricchezze. Due scandali in particolare che riguardano la scomparsa di fondi pubblici hanno suscitato l’indignazione generale: i container pieni banconote appena stampate per un valore di 104 milioni di dollari svaniti nel nulla appena sbarcati nei porti liberiani e il cattivo uso di 25 milioni di dollari nel 2018. Nella scomparsa di 104 milioni di dollari, lo scandalo più grosso, è coinvolto il figlio di Johnson Sirleaf, Charles, vice governatore della Banca centrale della Liberia, arrestato a marzo con altri funzionari con l’accusa di sabotaggio economico, uso illecito di denaro pubblico e cospirazione criminale. Mentre era vice governatore della Banca centrale della Liberia, Charles avrebbe fatto stampare da una ditta svedese delle banconote per un totale tre volte superiore a quello autorizzato dalla banca. La differenza, 104 milioni di dollari (pari a circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo del paese), pare non sia stata depositata nelle casse della Banca centrale. Una parte di quei milioni sarebbe finita nelle tasche del figlio dell’ex presidente. Era stata Ellen Johnson Sirleaf a nominare Charles vice governatore della Banca centrale. Invece al figlio Robert aveva affidato la presidenza della Compagnia nazionale petroli, fallita nel 2015. La Liberia è al 181esimo posto nell’Indice di sviluppo umano 2018 su 189 paesi classificati. La speranza di vita alla nascita è di 63 anni, 20 meno che in Italia. Il tasso di occupazione dei liberiani di 15 anni e oltre è del 54,3 per cento, il Pil pro capite annuo è 753 dollari. All’epoca dell’epidemia di Ebola, nel 2014-2015, si è scoperto che il paese ha solo 80 posti letto di ospedale ogni 100 mila abitanti e 50 dottori su una popolazione di 4,3 milioni. Eppure, Ellen Johnson Sirleaf non solo ha vinto il Nobel per la pace, ma ha anche ricevuto il premio Mo Ibrahim, della fondazione Mo Ibrahim, che viene conferito a ex capi di stato e di governo che si siano distinti per eccellenza di leadership, aver sviluppato i loro paesi, rafforzato democrazia e rispetto dei diritti umani. Nel 2011, intervistata dal Corriere della Sera, aveva dichiarato: “La mia presidenza è stata un grande successo. Per il fatto di essere donna ho portato una quota di sensibilità in più. Grazie al mio istinto materno, siamo stati in grado di rispondere a donne e giovani. Non a caso mi chiamano Mama Ellen. Nel mio Paese mi considerano la madre della nazione”. Lo scorso marzo, in Italia, invitata all’Inventing for life-Health Summit, ha illustrato il suo impegno per la salute e l’istruzione delle donne del suo paese. Prima donna africana a essere eletta capo di stato, Ellen Johnson Sirleaf aveva in effetti suscitato grandi speranze nelle donne liberiane. Ma, anche sotto questo profilo, le aspettative sono state deluse. Aveva avuto a disposizione 12 anni, ma soltanto tre giorni prima di cedere la carica a Weah si è “ricordata” che in Liberia circa metà delle donne subiscono mutilazioni genitali femminili e ha firmato un ordine esecutivo per proibirle alle minori di 18 anni. Se queste sono le performance di un presidente che ha meritato un Nobel per la pace e un premio Mo Ibrahim, si può immaginare quali siano quelle di leader che neanche cercano una parvenza di rispettabilità e si capisce come mai il Mo Ibrahim, il premio più cospicuo al mondo con un assegno di 5 milioni di dollari e un vitalizio di 200 mila dollari l’anno, sia stato assegnato solo sei volte da quando è stato istituito nel 2007. Messico. Mattanza di cronisti, già dieci vittime da quando Obrador è presidente di Andrea Cegna Il Manifesto, 15 giugno 2019 L’ultima a essere uccisa, Norma Sarabia, indagava sulla corruzione nella polizia. Lo scrittore Juan Villoro: “In questo momento la libertà di espressione non è del tutto garantita”. Marco Miranda, giornalista dello Stato di Veracruz, è stato sequestrato nella giornata di mercoledì, mentre martedì una giornalista che si occupava di cronaca nera, Norma Sarabia, è stata uccisa in un agguato mentre tornava a casa nel Tabasco, lo Stato nel sud-est del Messico dov’è nato il presidente Andrés Manuel López Obrador, Amlo. Due uomini mascherati a bordo di una moto le hanno sparato numerosi colpi. Il suo giornale, Tabasco Hoy, ha fatto sapere che indagava su episodi di corruzione nella polizia e che aveva ricevuto minacce anonime. Si tratta dell’ottavo omicidio di un giornalista dall’inizio dell’anno in Messico, il decimo dall’inizio del governo Obrador. Lo scorso anno furono 8 tra giornaliste e giornalisti ad essere uccisi. Se iniziamo a contare dal 2000 arriviamo a quota 129. Spesso non si sa nulla del perché dell’omicidio, a volte chi è stato ucciso si era imbattuto nelle promiscuità tra trafficanti di droga, apparati dello Stato e operatori di economie legali. Quasi sempre si è data la colpa ai fantomatici “cartelli”, soggetti quasi mitologici a cui vengono attribuite le colpe di ogni male del Paese, quasi come un mantra buono e utile a non affrontare i singoli casi. Juan Villoro, scrittore e giornalista ci dice: “Da quando Obrador è presidente la violenza non è diminuita. Non si tratta certo di una responsabilità dell’attuale governo, perché siamo davanti a un problema strutturale che esiste da decine di anni. Jorge Ramos, giornalista messicano che lavora negli Usa, ha assistito a una delle conferenze stampa mattutine di Amlo e ha fatto domande sulla violenza. Il presidente ha risposto dicendo che l’aritmetica non è il suo forte ma in sostanza ha confermato i tragici numeri elecati da Ramos. Non tenta di negare il problema”. Secondo Villoro “in questo momento la libertà di espressione non è del tutto garantita. C’è il timore che gli uffici pubblici che si occupano di comunicazione si convertano in uffici di propaganda. L’agenzia Notimex ha licenziato tutti i suoi corrispondenti per assumere persone vicine al governo Obrador. Preoccupa che invece che attivare percorsi di protezione dei giornalisti si chiudano gli spazi di critica. Gli organi informativi pubblici debbono essere di Stato e non di governo”. Se guardiamo alla violenza, continua lo scrittore: “A città del Messico pochi giorni fa è stato ucciso uno studente universitario. Non ci sono passi in avanti nell’inchiesta su Ayotzinapa, anche se è stata creata una commissione d’inchiesta. Ma il governo di Obrador è in carica da soli sei mesi, impossibile pensare che potesse cambiare tutto in un periodo così breve. Ha creato la Guardia nazionale, scelta molto criticata da settori che pensano che accresca la militarizzazione del Paese, e per attribuirle poteri e competenze son stati modificati 10 articoli della Costituzione. Però con l’accordo firmato con gli Usa di Trump la Guardia nazionale sarà usata soprattutto per arrestare migranti, e non contrastare la violenza nel Paese”. Libano. Quei ritorni tutt’altro che “volontari” dei rifugiati siriani Corriere della Sera, 15 giugno 2019 Se c’è un paese in cui espressioni come “invasione” o “alterazione etnica” potrebbero avere un senso, questo non è l’Italia ma il Libano. E non è per un presunto “piano Kalergi” ma per la guerra accanto. Tra registrati (938.531 secondo le Nazioni Unite) e irregolari (550.000 secondo il governo di Beirut), dal 2011 un milione e mezzo di rifugiati siriani - cui vanno aggiunti altri 31.000 palestinesi fuggiti dalla Siria - hanno aumentato di un quarto la popolazione del Libano. Le loro condizioni sono state raccontate in un bellissimo reportage di Marta Serafini. Pur in presenza di denunce di sfruttamento lavorativo e sessuale e di discriminazione, il Libano ha fatto molto più di paesi europei dotati di ben altre risorse. Ma da almeno un anno e mezzo, è stata registrata un’inversione di rotta. Dal dicembre 2017 al marzo 2019, secondo fonti ufficiali, 172.046 rifugiati siriani sono rientrati “volontariamente” nel loro paese. Di “volontario” in realtà c’è ben poco. Sono i servizi di sicurezza siriani, attraverso interrogatori intimidatori, a stabilire chi può rientrare e chi no. Con quale destino, non è dato saperlo. E a “volontarizzare” le richieste di rientro contribuiscono ulteriori fattori: gli ostacoli frapposti al rinnovo dei permessi di soggiorno, gli sgomberi forzati di accampamenti precari, i tagli ai servizi essenziali, i coprifuoco, gli arresti di massa e - se tutto questo non bastasse - gli attacchi ai campi per rifugiati. Come quello del 5 giugno a Deir al-Ahmar, un campo informale nella valle della Bekaa che ospitava 600 rifugiati siriani e che oggi non esiste più: una cinquantina di uomini, nottetempo, ha dato fuoco a tre tende e ne ha rase al suolo con un bulldozer altre due. Chi soffia sul fuoco? I sovranisti locali: il Movimento dei liberi patrioti. L’8 giugno ha avviato una distribuzione massiccia di volantini con questi slogan: “La Siria è un paese sicuro e il Libano non ce la fa più”, “Proteggiamo i lavoratori libanesi” dalla presenza di rifugiati che accettano salari minori da parte di datori di lavoro (libanesi) senza scrupoli. Tutto il mondo è paese. Soprattutto quando, anziché dare una mano, i leader europei tirano un sospiro di sollievo se vedono un altro paese accollarsi la maggior parte dell’onere dell’accoglienza. Stati Uniti. In California anche i detenuti possono avere una modica quantità di cannabis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2019 La decisione di una Corte d’appello di Sacramento. Anche i detenuti della California possono possedere una modica quantità di cannabis in carcere. È questa la sentenza di una Corte d’appello di Sacramento che ha rovesciato le condanne di cinque detenuti che erano stati trovati in possesso di marijuana, facendo riferimento al referendum del 2016 in cui si è legalizzato il possesso di cannabis per tutti i californiani, anche per quelli che sono in prigione. Nella sua sentenza il presidente della Corte d’appello del terzo distretto, Vance W. Raye, ha infatti ricordato che il codice penale californiano criminalizza il consumo di cannabis per i detenuti, ma non affronta la questione del possesso. Quindi, secondo il giudice, le prigioni hanno la possibilità di regolare il possesso di cannabis, come fa con sigarette ed alcol, ma i detenuti non rischiano allungamenti della pena se scoperti. Una sentenza che fa discutere negli Usa, ma inevitabilmente si ripercuote anche nel nostro Paese dove possedere la cannabis è proibito per tutti e dove, addirittura, si è messo in discussione anche quella “light” grazie alla famosa sentenza della Cassazione che vieta la vendita di oli, resina, inflorescenze e foglie di marijuana sativa perché la norma sulla coltivazione non li prevede tra i derivati commercializzabili. A proposito della cannabis illegale Rita Bernardini del Partito Radicale da anni sta facendo disobbedienza civile coltivando numerose piantine di marjuana, tant’è vero che stasera, a partire dalle 17 e 30, parteciperà assieme all’associazione La Ripiantiamo alla manifestazione “Notte verde per la vita di Radio Radicale”, proprio a largo Argentina, vicino alla sede del Partito Radicale. È per denunciare, ancora una volta, l’urgenza di un cambiamento sul tema della cannabis terapeutica. “Non so se piangere o ridere - commenta Rita Bernardini a Il Dubbio in merito alla vicenda californiana - a leggere questa notizia che metto in relazione alla disastrosa situazione italiana. Mentre in California si discute se regolamentare o meno il possesso di marijuana anche in prigione, visto che fuori è legalizzata, qui da noi è tutto proibito ma tutto è disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte, sia in galera che fuori. Da noi, infatti, si preferisce fare la faccia feroce “contro la droga”, scegliendo così oggettivamente di favorire i profitti delle mafie anziché regolamentare un fenomeno che riguarda milioni di consumatori”. Rita Bernardini poi fa un riferimento alla Direzione Nazionale Antimafia, la quale ha affermato che le azioni di contrasto finora svolte non hanno determinato “non solo, una scomparsa del fenomeno (che per quanto auspicabile appare obbiettivamente irrealizzabile), non solo un suo ridimensionamento, ma neppure un suo contenimento”. L’esponente del Partito Radicale conclude: “Di fronte a queste dichiarazioni del massimo organo di contrasto alle organizzazioni mafiose, che vuol fare il governo attuale, riempire ancor di più le carceri e celebrare milioni di processi come se fossero pochi quelli che intasano i tribunali italiani?”.