“L’ergastolo ostativo non è una pena di morte in senso proprio, ma non ne è lontano” di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2019 La Corte europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza “Viola contro Italia”: “È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura”. Stella L., studentessa di un liceo delle scienze sociali entrata in carcere con la sua classe per confrontarsi con le persone detenute: “Una delle cose che mi ha colpito di più è stata venire a confronto con l’idea e il concetto dell’ergastolo ostativo e con le persone che vivono tale realtà. L’ergastolo ostativo non è una pena di morte in senso proprio, ma non ne è lontano. Forse in effetti l’unica differenza tra la pena di morte ed un ergastolo ostativo è l’incognita della morte, che invece di essere programmata per un giorno fisso, avverrà naturalmente per tutti, ergastolo o meno. Vorrei ringraziare in particolare i detenuti che ci hanno parlato, per averci offerto un incontro unico e di grande valore per la nostra vita. In un certo senso forse hanno contribuito a creare un futuro migliore e più sensibile a questi fatti, dato che i giovani di oggi che li hanno ascoltati saranno gli adulti del domani”. Se metto insieme le parole dei giudici della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e quelle di una studentessa che ha partecipato a un progetto in cui sono le persone detenute a portare la loro testimonianza, un motivo c’è: ed è che la Corte europea ha detto all’Italia quello che tanti nel nostro Paese non vogliono sentirsi dire, che l’ergastolo ostativo è disumano e degradante. Una verità che si può capire meglio se si decide di entrare in carcere e di vedere l’umanità delle persone rinchiuse, come ha fatto di recente la Corte costituzionale nel suo viaggio nelle carceri, e come fanno tanti studenti coinvolti in progetti di confronto vero con il mondo delle pene e del carcere. Ma attenzione, non c’è nessun atteggiamento di sottovalutazione dei reati, in questo, né una mancanza di rispetto nei confronti delle vittime: al contrario, è molto meno rispettosa del dolore di chi ha subito un reato una pena, che trattando male gli autori di reato li fa sentire a loro volta vittime, di una pena in cui lo Stato mostra un volto umano e dà all’autore di reato una lezione di civiltà e di equilibrio. I ragazzi delle scuole questo lo capiscono, e sono disposti a mettere in discussione le loro certezze, soprattutto se hanno davanti detenuti che sanno assumersi le loro responsabilità, che non cercano giustificazioni ma raccontano un percorso di presa di coscienza vero e profondo. Questa sentenza della Corte europea però non richiama solo il legislatore a rivedere quella legge, che rende possibile per gli ergastolani accedere ai benefici unicamente se collaborano con la Giustizia, ma sottolinea che se “la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all’ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici”, questa strada è in realtà troppo stretta. Nella sentenza si ricorda, infatti, che la scelta di collaborare non è sempre libera, per esempio perché alcuni condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari. Quello che dovrebbe fare l’Italia quindi è agire "con una riforma della reclusione a perpetuità in modo da garantire la possibilità agli ergastolani di ottenere un riesame della pena". Questo, dicono i giudici della Corte europea, "permetterebbe alle autorità di determinare se durante la pena già scontata il detenuto ha fatto progressi tali sul cammino della riabilitazione da renderne ingiustificabile il mantenimento in prigione". Ma qualcun altro dovrebbe forse essere richiamato alla propria responsabilità da questa sentenza: prima fra tutti l’Amministrazione penitenziaria. Perché se ci sono ancora più di 9000 persone detenute da anni, da decenni nei circuiti di Alta Sicurezza, non è forse anche per una inerzia dell’Amministrazione penitenziaria? Possibile che tra quelle 9000 persone quasi nessuna abbia fatto un percorso che la renda degna di essere declassificata dal circuito di Alta Sicurezza a una carcerazione un po’ più civile? Soprattutto una carcerazione che permetta a queste persone di confrontarsi davvero con la società, come succede a Padova, in una piccola sperimentazione che consente ai detenuti dell’Alta Sicurezza di partecipare a un progetto di confronto con le scuole, e le costringe, in un certo senso, a mettersi in discussione, a parlare del loro passato, a prendere le distanze realmente dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Tornano allora utili le parole del nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini “41-bis e Alta Sicurezza non devono essere tatuaggi indelebili nelle vite delle persone”: in realtà, succede ancora che le declassificazioni sono pochissime, e quello che le frena è che incidono tantissimo le informative delle Direzioni Distrettuali Antimafia, troppo spesso ferme alla fotografia del detenuto al momento dell’arresto e legate a formule stereotipate come quella che “non si possono escludere collegamenti con le organizzazioni di appartenenza”, mentre non incide quasi per nulla il percorso fatto dalla persona detenuta, la sua presa di distanza dalle organizzazioni criminali a cui apparteneva. Per far capire che le Istituzioni sono davvero interessate al fatto che anche dal carcere si possa lottare contro la criminalità organizzata, bisogna allora cominciare a togliere quelle stesse persone dalle sezioni chiuse dell’Alta Sicurezza e permettergli di confrontarsi con la società, di sperimentarsi in percorsi di reinserimento veri. Una persona che in carcere si impegna in un percorso di assunzione di responsabilità e di risocializzazione deve avere sempre una prospettiva possibile di libertà: questo ci dice la sentenza della Corte Europea “Viola contro Italia”, e questo deve richiamare tutti quelli che si occupano di carcere, dall’Amministrazione penitenziaria alla Magistratura di Sorveglianza, al Volontariato e al privato sociale a fare la loro parte, cioè a valorizzare per quanto possibile i percorsi di reinserimento anche degli ergastolani ostativi, che è l’unico modo oggi per richiamare il legislatore a fare il suo dovere, cioè a rivedere una legge che lascia ancora spazio, contro la nostra Costituzione, a una carcerazione disumana e degradante. Un grazie va a tutti quelli che si sono adoperati per arrivare a questa sentenza, a partire da Davide Galliani, Professore associato di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano, e Andrea Pugiotto, Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara. *Presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti L'ergastolo ostativo viola l'art. 3 della CEDU: è inumana la pena perpetua senza prospettive di libertà di Maria Brucale* Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2019 L'art. 3 della CEDU esprime con chiarezza un concetto assoluto, il divieto di tortura: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La potenza cogente di tale disposizione si manifesta in molteplici ambiti e racchiude in sé numerosi precetti posti a tutela di diritti inalinenabili: alla vita, alla libertà, alla sicurezza, a un equo processo, a un trattamento sanzionatorio equo, al rispetto dei rapporti affettivi e della sfera familiare, tutti connotanti un paradigma superiore e immanente, la dignità dell'uomo. La sentenza 'Viola v. Italia' affronta il tema, assai dibattuto negli ultimi anni, della sussistenza della violazione dell'art. 3 CEDU in caso di condanna all'ergastolo c.d. ostativo, 'life imprisonment without hope'. Nella interlocuzione con la CEDU, il governo italiano aveva affermato che il sistema nazionale contempla criteri chiari e obiettivi per la revisione dell'ergastolo poiché il condannato conosce i meccanismi della collaborazione con la giustizia e, dunque, qual è la via, specificata da norme dell'ordinamento penitenziario (artt. 4 bis e 58 ter), per accedere ai benefici premiali. Aveva precisato che l'ergastolo ostativo è de jure et de facto 'riducibile', anche per la previsione della grazia presidenziale e della possibilità di sospendere la pena per gravi motivi di salute. Aveva specificato che lo Stato italiano assolve ai suoi obblighi positivi di offrire, a tutte le persone ristrette, concrete opportunità di reinserimento attraverso il sostegno di interessi culturali, umani e professionali. Aveva, tuttavia, mancato di spiegare come una persona senza alcuna concreta proiezione di vita futura, possa lavorare al suo reinserimento in società, possa partecipare a un'opera di rieducazione se è fine a sé stessa poiché non si traduce in alcuna concreta ambizione di libertà. Non una pena dinamica, in movimento, dunque, tesa ad accompagnare l’individuo al suo rientro nel sociale, ma una pena in cui lo Stato tutela chi sta fuori uccidendo (eliminando dalla società) chi sta dentro e vanificando del tutto anche una “rieducazione già avvenuta”. Il ravvedimento, quello autentico di chi ha trascorso anni di carcerazione ripercorrendo il proprio vissuto in modo autenticamente critico, di chi ha riconosciuto il proprio errore e ne ha fatto occasione struggente di rimorso, quello, con l’ergastolo ostativo, non conta nulla. “In vigilando, redimere”, era l'antico motto degli agenti di custodia. Ma a che serve vigilare se non ha senso redimere? E la dignità dell’uomo, cui aspira l'intero tessuto costituzionale, viene completamente annichilita perché non si può neppure minimamente immaginare un concetto di dignità che sia coerente con lo spegnimento di ogni aspettativa futura, con la preclusione di ogni ideazione o progettualità, nella consapevolezza che la vita di domani è uguale a quella di ieri ed è sottratta al tuo libero arbitrio, governata e scandita dai tuoi custodi. La soppressione dell’idea stessa del domani e delle proiezioni in divenire delle proprie azioni, priva l’uomo della sua stessa natura. E proprio di dignità parla la pronuncia della CEDU, chiarendo che "è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno". La Corte Europea non si pone in termini assoluti contro l’ergastolo; non esprime un giudizio di illegittimità della pena perpetua rispetto ai parametri dei diritti fondamentali, ma censura una sanzione che sia mutilazione definitiva di vita senza aspirazione di reinserimento e di riabilitazione, che neghi il senso della buona condotta in carcere, della pedissequa adesione alle regole del vivere sociale, al cambiamento, che neghi, in ultima analisi, una concreta prospettiva di libertà (prospect of release o possibility of review). "La natura della violazione riscontrata ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato dovrebbe introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell'ergastolo che preveda la possibilità di un riesame di pena che consenta: alle autorità di determinare se, durante l'esecuzione, il detenuto si è evoluto così tanto e ha progredito sul sentiero dell'emendamento che nessuna ragione legittima di ordine penologico giustifichi ancora la sua detenzione, e, alla persona condannata, di godere del diritto di sapere cosa deve fare per essere considerato per il rilascio e quali sono le condizioni. La Corte ritiene, pur ammettendo che lo Stato possa richiedere la dimostrazione di "dissociazione" dall'ambiente della mafia, che questa rottura possa essere espressa diversamente che con la collaborazione con la giustizia e l'automatismo legislativo attualmente in vigore". La pronuncia fa eco alla Corte Costituzionale che con la sentenza n. 149/2018 aveva chiarito che “incompatibili con il vigente assetto costituzionale sono previsioni che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione e rispetto ai quali non sussistano gli indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4 bis o.p.- in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati. Questi ultimi criteri (…) non possono, nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena”. Bene, dunque, se la persona detenuta offre una collaborazione utile con la giustizia, ma se non lo fa, la legge deve comunque prevedere - pena la violazione della Convenzione EDU - ulteriori possibilità perché la sua riabilitazione sia rivalutata e consenta, in concreto, una aspirazione di ritorno alla vita libera. Il 22 ottobre la Corte Costituzionale si troverà a valutare la legittimità dell'art. 4 bis, ordinamento penitenziario, laddove esclude che chi è condannato all'ergastolo "per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p. cod. pen., ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio". Un'occasione preziosa per il Giudice delle leggi per emettere, nel solco tracciato dalla CEDU, una sentenza interpretativa che apra a ogni condannato, per qualunque reato, uno spiraglio di speranza. *Avvocato I bulli del diritto di Mattia Feltri Il Secolo XIX, 14 giugno 2019 La sensibilità penale italiana poggia su due capisaldi: “buttare le chiavi” e “marcire in cella”. La Cedu, che non è l’università di Del Piero ma la Corte europea dei diritto dell’uomo, dunque per la maggioranza degli italiani fumisteria da professoroni, ha giudicato inumano e degradante l’ergastolo ostativo cui fa ricorso la giustizia italiana. L’ergastolo ostativo è quello che nega al condannato la speranza di recuperare un giorno la libertà, e in Italia lo stanno scontando oltre mille detenuti. La Corte si è espressa sul caso di Marcello Viola. Caso interessantissimo: Viola è mafioso, omicida, sequestratore. Nella smania contemporanea di giudicare al volo tutto e tutti, lo si potrebbe dire il peggio del peggio. Non ha benefici, cioè non uscirà mai, perché non si è pentito, almeno non nella nostra bizzarra accezione. Pentirsi, ecco una categoria forse afghana del diritto, di sicuro italiana, come se il pentimento non fosse una faccenda da sbrigare con la coscienza, anziché con gli inquirenti. Però funziona così: se parli e sputtani qualcuno, ti diamo un premietto. Ma ci pensate all’orrore di un baratto del genere? Beh, la Cedu lo ha detto meglio ma lo ha detto: fa un po’ schifo. Non solo, ha anche ricordato che per la Convenzione europea dei diritti umani e, aggiungiamo qui, per la Costituzione italiana, la pena deve tendere alla rieducazione, e a nessuno può essere sottratto l’obiettivo del ritorno nel consesso civile. Ci toccherà adeguarci, nonostante gli ultimi due statuti confliggano con l’evoluzione della sensibilità penale italiana, che poggia su due capisaldi: buttare le chiavi e marcire in cella. Un bell’indizio, che siamo diventati i bulli del diritto, dacché ne eravamo la culla. Ridiscutere il carcere a vita di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 giugno 2019 Storica e giusta sentenza della Corte di Strasburgo contro l’ergastolo ostativo. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto all’Italia di rivedere le norme che regolano l’ergastolo ostativo (il carcere a vita), affermando che queste sono contrarie all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. L’ergastolo ostativo prevede che il condannato non possa ottenere, come gli altri detenuti, nessun beneficio (come riduzioni di pena o permessi d’uscita), a meno che non collabori con la giustizia. Il criterio della collaborazione, però, ha notato la Corte di Strasburgo, rappresenta una strada troppo “stretta”. La scelta di collaborare, infatti, non è sempre “libera”, per esempio perché alcuni condannati hanno paura che questo metta in pericolo i loro famigliari, e “non si può presumere che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”. La decisione della Corte, di portata storica, assume molteplici significati se si guarda al contesto politico vissuto dall’Italia. Innanzitutto, ricorda a tanti esponenti politici- in primis al vicepremier Salvini - che non si può augurare il “carcere a vita ai delinquenti” (e “buttare via la chiave”) pur di raccattare consensi, perché questo auspicio è contrario alla Convenzione europea e quindi anche alla nostra Costituzione: nessuno può rimanere in carcere a vita, senza che sia valutato il suo percorso rieducativo. Il messaggio al governo gialloverde diventa ancor più evidente se si pensa che la recente riforma “spazza-corrotti” ha esteso l’ambito dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, introducendo anche i reati più gravi contro la Pa. Ma la Corte sembra anche dare una bella picconata alla prassi, adottata da alcuni magistrati, di ricorrere ai pentiti per cercare, anche in assenza di prove, di venire a capo di inchieste giudiziarie. Se si lega la concessione dei benefici al pentimento, allora quest’ultimo rischia di non essere sempre genuino (vedasi il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio). Infine, la decisione costituisce un chiaro assist alla nostra Corte costituzionale, che a ottobre sarà chiamata a esprimersi sulla costituzionalità dell’ergastolo ostativo. la Corte europea boccia l’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2019 La legge italiana viola i diritti umani. L’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione europea che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti, configurando un ergastolo incomprimibile. Così ha deciso ieri la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul ricorso dell’ergastolano Marcello Viola e assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo. La pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Marcello Viola, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine alla pena perpetua che è, appunto, l’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato istanze di concessione del permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa. Ma ora i giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, a cui subordinare la concessione dei benefici durante l’esecuzione della pena, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Quindi, in sintesi, la Cedu fa cadere l’automatismo della collaborazione. I giudici della Corte Europea, di fatto, mettono in discussione quella forma di ergastolo, e dunque la preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per i condannati non collaboranti, quando la condanna riguarda i reati dell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario. Tra le premesse, la Cedu spiega in sostanza che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Non a caso, nella motivazione della sentenza, la Cedu inizia con un excursus delle varie sentenze dei tribunali italiani sulla questione dell’ergastolo ostativo, tanto da citare il caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte Costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4bis. Tale ordinanza della Cassazione relativa a Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione proprio all’art. 3 della Convenzione Europea, ora riconosciuto violato dalla Corte Europea. Come già annunciato da Il Dubbio, la Corte Costituzionale, il 22 ottobre dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4bis. La sentenza della Corte Europea, quindi, offrirà sicuramente una grande sponda ai giudici della Consulta se avranno la volontà di decidere sull’illegittimità costituzionale dell’automatismo che preclude i benefici in mancanza di una condotta di collaborazione con la giustizia di cui all’art. 58 ter dell’ordinamento penitenziario. Lo ricorda anche l’associazione Nessuno tocchi Caino, da anni impegnata, con il Partito Radicale, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. “Il successo alla Corte Edu - commenta Sergio d’Elia, il Segretario di Nessuno tocchi Caino - è il preludio di quel che deve succedere alla Corte Costituzionale italiana che il 22 ottobre discuterà l’ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro, nel quale Nessuno tocchi Caino è stato ammesso come parte interveniente. Il pensiero non può non andare che a Marco Pannella, al suo Spes contra Spem, che ci ha animati e nutriti in questi anni, e ai detenuti di Opera protagonisti del docu- film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem-Liberi dentro” che contro ogni speranza sono stati speranza, con ciò liberando oltre che se stessi anche le menti dei giudici di Strasburgo”. Ma quali conseguenze avrà, di fatto, la decisione della Cedu? Improbabile che i legislatori vorranno mettere mano al 4bis, visto l’affossamento parziale della riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, che già era stata in parte disattesa dal governo precedente, quando non aveva preso in considerazione la completa riforma del 4bis indicata dagli stati generali sull’esecuzione penale. Ma la sentenza della Cedu avrà come effetto innumerevoli ricorsi da parte dei cosiddetti “fratelli minori”, ovvero coloro che, pur non avendo mai personalmente ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si trovano nell’identica posizione sostanziale del caso Viola. Di conseguenza la Cassazione si ritroverà sommersa di casi identici relativi alla preclusione automatica dell’accesso ai benefici. Questo, almeno fino a quando non ci sarà una sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarerà l’incostituzionalità. A quel punto, i legislatori saranno costretti a metterci mano. Ergastolo, legge italiana contro i diritti umani di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2019 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019 sul ricorso 77633/16. La legge italiana sull’ergastolo non convince la Corte europea dei diritti dell’uomo. Con una sentenza depositata ieri, i giudici hanno boccato la disciplina italiana e ne hanno chiesto la modifica. La legge, infatti, nella lettura che ne ha dato la Corte, va contro la dignità umana, sottoponendo i detenuti che non collaborano con la giustizia a trattamenti inumani: a loro infatti viene negato l’acceso una serie di benefici che vanno dai permessi premio, alla semilibertà alla liberta condizionale, passando per il lavoro esterno al carcere. La pronuncia, se non sarà oggetto di ricorso (come in realtà è probabile), sarà definitiva fra 3 mesi. Il caso affronta dai giudici di Strasburgo riguarda un cittadino italiano in carcere dall’inizio degli anni Novanta per associazione mafiosa, omicidio, rapimento e detenzione di armi. Sinora l’uomo, che on ha mai voluto collaborare, si è visto sempre rifiutare tutte le richieste presentate per ottenere permessi premio. La sentenza, nella quale si mette in evidenza comunque come il tenore della decisione non avrà come conseguenza la scarcerazione, contestando la graniticità della legge italiana, ferma nel negare qualsiasi tipo di beneficio a chi non collabora, mette al centro della riflessione l’utilizzo distorto fatto dal tema della collaborazione. Non è vero, afferma la Corte, che la collaborazione porta con sé l’interruzione dei rapporti con le organizzazioni criminali e l’azzeramento del pericolo per la società; e allora sopravvalutarne la portata in chiave ostativa rappresenta una grave errore. L’ergastolo italiano bocciato dalla Corte Ue: “Viola i diritti umani” di Cristiana Mangani Il Messaggero, 14 giugno 2019 Il tribunale di Strasburgo dà ragione a un condannato per mafia “La pena ostativa va rivista, il detenuto deve poter ottenere benefici”. La legge sul carcere a vita va rivista. Così la pensa la Corte europea dei diritti umani che ha chiesto all’Italia di riformare le norme in materia di ergastolo ostativo. Secondo i giudici di Strasburgo, la legge vìola la dignità e sottopone a trattamenti inumani i detenuti quando a priori - perché non collaborano con la giustizia - impedisce loro di ottenere permessi premio, la semilibertà o la libertà condizionale, oppure di lavorare fuori dal carcere. Il verdetto, che in assenza di ricorsi diventerà definitivo tra tre mesi, riguarda in particolare il caso di Marcello Viola, condannato per associazione mafiosa, omicidi e rapimenti, e sottoposto a ergastolo ostativo all’inizio degli anni Novanta e al regime di 41bis dal 2000. L’uomo non ha mai fornito elementi sulla organizzazione mafiosa tantomeno ha dato segno di voler collaborare. Ma ha tenuto in carcere una buona condotta e ha mostrato un comportamento tale da dare l’idea di essersi ravveduto. La Corte è arrivata alla sua decisione considerando l’ergastolo ostativo contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. L’Italia era già stata condannata da Strasburgo per il regime del 41bis quando ha deciso, a ottobre 2018, di rinnovare l’applicazione del regime speciale di detenzione del 41bis al boss mafioso Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino alla sua morte, il 13 luglio dello stesso anno. Nella sentenza i giudici hanno accordato a Marcello Viola 6 mila euro per le spese legali ma nessun risarcimento per i danni morali. Non viene negata, infatti, la gravità dei reati commessi. L’uomo aveva chiesto 50 mila euro di risarcimento. Inoltre i togati hanno chiarito che la decisione non implica un rilascio imminente. La bocciatura della legge riguarda in particolare un punto: la mancata collaborazione da parte dell’ergastolano ostativo (secondo i dati forniti alla Corte nel 2016 erano 1.216) che lo esclude dal poter ottenere benefici. Ed è questa ineluttabilità a essere criticata. Strasburgo infatti afferma che il detenuto può avere molte ragioni per non collaborare, anche temere per la vita dei propri familiari. Osserva pure che la collaborazione non significa necessariamente che la persona abbia interrotto ogni contatto con le associazioni per delinquere e che quindi non sia più un pericolo per la società. Il verdetto della Corte è stato accolto con entusiasmo dalle associazioni che si occupano di diritti dei detenuti. “Si tratta di una decisione di grande rilievo - considera il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - La dignità umana è un bene che non si perde mai”. Parla invece di “pronunciamento storico” l’associazione Nessuno tocchi Caino sottolineando che la sentenza “svuota l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia”. Come tutte le sentenze della Corte europea, anche questa farà giurisprudenza e avrà effetti più ampi: potrà essere applicata nei confronti di chiunque si trovi a scontare una pena di questo genere. Cesare Mirabelli: “La nostra legge è garantista, nessuno passa la vita in cella” intervista di Cristiana Mangani Il Messaggero, 14 giugno 2019 In Italia l’ergastolo è la massima pena prevista nell’ordinamento giuridico penale per un delitto. L’ergastolo ostativo, poi, esclude il detenuto da qualsiasi tipo di beneficio, anche dopo 26 anni passati in carcere. Una condizione che la Corte europea dei Diritti dell’uomo ci contesta da tempo. Ma è realmente così afflittivo il nostro sistema giudiziario? Quanti ergastolani concludono la loro vita in carcere? Il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, ritiene che “la nostra sia una giustizia molto garantista”, e che dall’entrata in vigore della Legge Gozzini, i condannati a fine pena mai possono vedersi riconosciuti parecchi benefici di legge. Presidente, perché l’ergastolo ostativo è una pena detentiva difficilmente rivedibile? “Va premesso che di ergastolani ostativi in Italia ce ne sono pochissimi. Nel caso preso in esame dalla Corte europea il condannato non si è mai pentito, nonostante abbia tenuto una buona condotta in carcere. Ora va valutato se questa buona condotta equivalga anche a un pentimento personale, seppure il detenuto abbia scelto di non fornire indicazioni sui complici o sull’organizzazione mafiosa. Altrimenti potrebbe voler dire che i rapporti non sono cessati e che lui è come un buon soldato pronto a tornare al posto di combattimento”. La Corte europea critica l’Italia perché considera la pena troppo afflittiva e non umana. Come ritiene che sia il nostro ordinamento giudiziario? “Devo dire che un regalo di civiltà dovrebbe portare, in futuro, al superamento dell’ergastolo: trenta anni di detenzione, credo che siano una sofferenza sufficiente. Ma, bisogna riconoscere, che in Italia difficilmente un ergastolano rimane tale a vita. Le nostre leggi sono molto garantiste, soprattutto rispetto ad altri paesi europei o anche ad alcuni Stati americani. In tante occasioni il giudice ha bloccato l’espulsione, perché nel paese di provenienza c’era la pena di morte. E spesso sono i detenuti stessi a preferire le carceri italiane piuttosto che quelle estere”. La sentenza non implica la liberazione del detenuto, anche se l’Italia dovrà pagargli 6 mila euro di spese. In che modo si potrà contrastare la decisione? “Spetterà allo Stato decidere di presentare il ricorso, e certamente lo farà rivolgendosi alla Grande camera, diciassette giudici che vengono chiamati a pronunciarsi su casi eccezionali. Se il Governo non lo facesse, il verdetto diventerà definitivo entro tre mesi”. Corte europea: “L’ergastolo ostativo viola i diritti umani”. Intervista a Mauro Palma di Teresa Valiani Redattore Sociale, 14 giugno 2019 Con sei voti a favore e uno contrario, la Corte europea dei diritti dell’uomo affronta il tema riconoscendo la violazione e invitando l’Italia a un cambio di direzione. Il Garante Palma: “La Corte ci invita a riflettere sulle finalità della pena”. “L’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione europea”. Con sei voti a favore e uno contrario, la Corte europea dei diritti dell’uomo per la prima nella storia italiana ha affrontato la questione dell’ergastolo ostativo riconoscendo la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta trattamenti inumani e degradanti come la tortura. Il caso, che sta aprendo una profonda riflessione sul diritto penale e penitenziario, arriva dal ricorso di un detenuto, rinchiuso in carcere ininterrottamente dal 1992. “Quella di oggi è una decisione importante, soprattutto perché deve far riflettere sulla pena e sulla sua finalità - dichiara a Redattore Sociale il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Non è una cosa da sbandierare con posizioni preconcette ma un invito forte a una riflessione su quale sia la prospettiva della pena. Anche nei casi in cui si utilizzano regimi forti la finalità non deve essere mai persa, così come deve essere sempre tenuta presente la possibilità che quelle persone nel tempo possano mutare. Altro aspetto importante: la dignità umana è un valore assoluto che prescinde da tutto e che va sempre ricordato. Tengo a precisare che la Corte non mette in discussione di per sé il 41bis o la necessità di misure severe, tra l’altro qui parla del 4bis, ma stabilisce prima di tutto il primato della dignità da tenere presente e poi invita lo Stato italiano a riflettere su come si possano determinare situazioni che rischiano di far perdere di vista la finalità rieducativa dell’articolo 27 della nostra Costituzione”. Che cosa succede adesso? “La Corte dice che questo non significherà nulla rispetto alla libertà del soggetto, ma che lo Stato deve interrogarsi sull’assolutezza che copre non solo i benefici ma anche la prospettiva di una liberazione condizionale. Teniamo presente che la liberazione condizionale, che è nel codice non nella legge penitenziaria, è prevista dopo 26 anni. Ora, 26 anni fatti senza beneficio sono proprio 26. D’altra parte la Corte in precedenti sentenze che avevano riguardato il Regno Unito e la Bulgaria aveva dato indicazioni secondo cui dopo 25 anni, più o meno, sarebbe importante interrogarsi sulla persona che ci si trova davanti e guardare anche al percorso che ha fatto”. Quante sono state le sentenze sul tema? “In termini assoluti le sentenze sono state 30 e hanno riguardato ben 13 Stati. Mentre ci sono al momento altri casi pendenti. Nella sentenza di oggi si registra una evoluzione perché la Corte se nel 2008, in un caso rispetto a Cipro, aveva detto che il fatto che ci potesse essere la grazia presidenziale era di per sé una speranza, poi via via ha modificato, facendola evolvere, la sua giurisprudenza. Tanto che nel 2013 in un caso rispetto al Regno Unito ha sostenuto che non poteva bastare la sola grazia del sovrano ma che c’era bisogno di una norma che prevedesse una revisione dopo un certo numero di anni. Ecco, in questo solco si inserisce la sentenza di oggi che non è solo una questione italiana ma resta un punto di riflessione importante anche per noi”. Una prima volta per l’Italia? “In realtà - spiega Palma - per l’Italia c’era stato un altro caso su cui la Corte si era interrogata rispetto a un ergastolo, nel 2008, dichiarandone però l’inammissibilità per come era formulato, perché chiaramente infondato: non c’era ancora l’ostatività, come termine, per il ricorrente. In questo senso oggi siamo davanti a una prima volta importante anche perché la Corte ha accettato le terze parti, i cosiddetti amici curiae composti da gruppi che facevano capo all’università di Milano e di Firenze. Proprio perché è un tema su cui si voleva riaprire una discussione e che va affrontata con calma. È inutile ora schierarsi. La decisione ci pone dei principi: quello della modificabilità dei destini della persona e quello della dignità come valore fondante. Ecco, abbassiamo i toni e discutiamo di questo. Ci farà bene per discutere anche sul significato della pena. Mi auguro che l’Italia metta in piedi un gruppo di lavoro a livello parlamentare o esecutivo per ragionare insieme su come muoversi dopo questa sentenza”. Carceri, Bonafede a Napoli: “Ereditata situazione drammatica” La Repubblica, 14 giugno 2019 “La situazione del mondo penitenziario in Italia è una situazione che abbiamo ereditato: è drammatica”. Così Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, a margine della firma del protocollo a Palazzo Salerno a Napoli per il passaggio di immobili dal ministero della Difesa a quello della Giustizia. “Quello che abbiamo deciso di fare - prosegue Bonafede - a differenza di quanto si faceva in passato, quando si facevano indulti svuota carceri che non servivano a nulla, è di investire risorse sia nelle carceri sia nell’educazione dei detenuti”. Il ministro definisce il livello dell’edilizia carceraria “molto basso, a volte non rispettoso della dignità dei detenuti che ci vivono e anche per la polizia penitenziaria”. “Il numero delle strutture che passeranno è ancora un numero da determinare nel totale - spiega Elisabetta Trenta, ministra della Difesa - per ora si lavora sulle prime idee di quattro strutture. Questa è la risposta dello stato, non di un solo ministro, perché nel momento in cui c’è un cittadino al centro, chiunque sia, tutte le spese dello stato devono essere messe insieme in sinergia evitando sprechi per risolvere il problema. Così - conclude - stiamo affrontando i problemi in questo governo”. La caserma Battisti - “La Difesa, con riferimento ad un primo portafoglio immobiliare, con questo protocollo si impegna a cedere al ministero della Giustizia la caserma Cesare Battisti di Napoli”. Così Elisabetta Trenta, ministro della Difesa, dopo aver firmato il protocollo quadro a Napoli, a Palazzo Salerno, con cui il suo dicastero cede alcuni immobili sul territorio nazionale al ministero della Giustizia. Nella struttura di Bagnoli sarà realizzato un istituto di custodia ‘attenuata’. Tra gli esempi fatti dalla ministra c’è quello di un istituto per detenute madri o per minori. Il caso Csm - “Voglio che sia chiaro che la situazione è chiaramente grave, e questa gravità va affrontata dalle istituzioni che devono rimanere compatte”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sull’avvio della procedura disciplinare del ministero sul caso Csm. “La magistratura italiana - ha detto - è di un livello altissimo, una delle migliori magistrature al mondo, sicuramente c’è un sistema delle correnti, un sistema contro cui in tanti ci siamo impegnati, anche la magistratura stessa, a combattere”. Radicalizzazione in carcere, il ruolo chiave dell’Italia nel progetto Ue di Marina Caneva* gnewsonline.it, 14 giugno 2019 Le nuove Strategie sulla prevenzione e la lotta alla radicalizzazione nelle carceri e sulla gestione di terroristi ed estremisti violenti dopo il rilascio sono state recentemente approvate dal Consiglio dell’Unione Europea, una delle quattro più importanti istituzioni della Ue. Priorità assoluta nell’agenda del Consiglio, la lotta al terrorismo e alla radicalizzazione pone continue sfide nell’ottica di un approccio multi-agenzia, pubblico-privato, in ambito europeo e nelle regioni transfrontaliere. La valutazione delle minacce sul tema dell’antiterrorismo ha evidenziato l’urgenza di identificare misure di contrasto efficaci e progetti di reinserimento alla luce del fatto che numerosi detenuti estremisti violenti o accusati di terrorismo potrebbero essere rilasciati nei prossimi due anni. Le conclusioni del Consiglio Europeo hanno individuato le iniziative di maggiore impatto, definite ‘buone prassi’, in vari ambiti, fra cui quello della formazione. Tra le attività formative di maggior importanza sono state segnalate quelle implementate dalle agenzie e dalle reti UE come Cepol (European Union Agency for Law Enforcement Training) e Ran (Radicalisation Awareness Network) e dal progetto europeo Derad (Counter radicalization through the Rule of Law) individuato quest’ultimo come lo standard nella formazione giuridica in materia. Il Ministero della Giustizia, per il tramite del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, ha coordinato il progetto Derad in qualità di capofila, e consegue così un risultato senza precedenti, ottenuto grazie ai finanziamenti europei e senza alcun onere per il Ministero. “Gli obiettivi raggiunti e riconosciuti da 28 Paesi Membri - ha dichiarato il Provveditore Enrico Sbriglia - potranno consentire al nostro Paese di avanzare in futuro maggiori aspettative, anche ove si ipotizzasse l’istituzione di un’agenzia europea che, se costituita in Italia, confortata e sostenuta dall’Amministrazione Penitenziaria a livello centrale, rappresenterebbe indubbio vanto per il nostro Paese”. Oltre 1.000 sono state le unità formate in 27 Paesi europei grazie alle attività predisposte, che hanno consentito di dare vita a un campus virtuale, la piattaforma di formazione online Hermes, contenente 7 moduli innovativi, basati soprattutto su filmati originali per esercitazioni pratiche in tutte le lingue della UE, utilizzati per formare magistrati nazionali e della Corte Europea dei Diritti Umani. Infine, 50 punti di contatto nazionali in 27 Paesi membri hanno collaborato alla costruzione del toolkit, che fa da base all’intero programma formativo. La sicurezza dell’ordine costituito dei Paesi Membri richiede l’istituzione di un fronte unico, che muova anche da una formazione di base omogenea, a contrasto del concreto pericolo derivante dalle tragiche conseguenze che il radicalismo violento può generare. Con il progetto Derad, per la prima volta nella storia delle istituzioni europee, il Consiglio della UE riconosce finalmente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un ruolo all’avanguardia nel progetto di omogeneizzazione legislativa e formativa. *Referente per la comunicazione del Prap Triveneto I reati si dimezzano, ma fomentare la paura fa crescere l’audience di Angela Azzaro Il Dubbio, 14 giugno 2019 Il ruolo dei Tg, il racconto mediatico, il lavoro svolto dai giornalisti: così si crea una percezione sbagliata. Nel 2017, i casi di legittima difesa sono stati 27, di cui quattordici non sono stati neanche rinviati a giudizio. Se accendete la tv o leggete i giornali o andate a un comizio di Matteo Salvini, vi convincerete che le persone accusate e condannate per aver sparato a un ladro che stava entrando in casa, siano mille, duemila, un milione. Comunque tanti, troppi casi, al tal punto da pensare che la questione sia una emergenza e che ha fatto bene il ministro dell’Interno a modificare la legge. Stesso ragionamento, vale per i reati. I dati del Viminale dicono che negli ultimi dieci anni sono dimezzati furti, rapine, omicidi. Ma la percezione delle persone è opposta, a tal punto che tra gli italiani crescono - come raccontato in questi anni dal Censis - odio e paura. Come mai? È la domanda che si sono fatti sul Corriere della sera Milena Gabanelli e Luigi Offedu. La risposta la hanno trovata mettendo sotto accusa i nostri Tg. Nei cinque principali telegiornali il 36,4 per cento dei servizi è occupata dalla cronaca contro il 18,2 per cento della tv tedesca. La considerazione è esatta ma va ampliata tenendo conto di tutta la televisione italiana e ancora più in generale di tutta l’informazione. Sembra infatti che la responsabilità sia sempre degli altri (in questo caso i Tg) quando tutto il sistema mediatico italiano in questi anni ha soffiato sul fuoco, costruendo l’idea diffusa che siamo un Paese ad alto rischio criminalità e che lo Stato è assente in difesa dei propri cittadini. Qualche tempo fa, partecipando a una trasmissione, il conduttore mi ha chiesto: “Ma se i reati diminuiscono perché le persone hanno questa percezione?”. La risposta era insita nel suo programma, nelle ore e ore di servizi dedicati alle rapine, ai furti, ai furbetti del cartellino sottoposti alla gogna del pubblico e dopo qualche tempo assolti senza avere diritto di replica. L’attenzione va infatti posta non solo e non tanto sui Tg, quanto sull’intera programmazione della tv pubblica e privata. Dalla mattina fino a tarda notte chi guarda il piccolo schermo viene bombardato da servizi dedicati alle rapine, ai furti, alle persone che delinquono o alle persone che vengono accusate di aver commesso un reato e solo per questo sono considerate colpevoli. È una dinamica che si fonda su alcuni fattori chiave. Proviamo a metterne in risalto alcuni. Il primo è quello della ridondanza: la stessa rapina viene mandata in onda più volte, con un montaggio e una musica che tendono a enfatizzare gli elementi violenti. Il secondo è quello della saturazione: tutto il palinsesto è costruito mettendo in evidenza gli aspetti negativi che accadono nella realtà. Il terzo è quello della “colpevolezza”: se si parla di una inchiesta viene presentata come una sentenza. Basta cioè un avviso di garanzia per essere giudicati colpevoli. Se questo vale per l’informazione di carta, su cui bisogna rileggere la validissima ricerca fatta dall’Osservatorio informazione dell’Unione Camere penali, ancora di più è vero per la televisione, in cui l’impatto emotivo è più forte. Le immagini abbassano il livello di criticità, siamo più proni a pensare che ciò che vediamo sia vero, dimenticando - anche quando lo sappiano - che dietro c’è un punto di vista, una costruzione discorsiva, una visione del mondo. Per questo leggendo Gabanelli, domenica scorsa sul Corriere, sono rimasta un po’ allibita. Report per primo ha fatto passare l’immagine di un Paese allo sbando, in preda a bande di corrotti, dove tutto va male. In linea con l’attacco alla cosiddetta “casta” che ha conquistato un pezzo del giornalismo nostrano, il programma di Rai3 ha contribuito ad aumentare la sfiducia nei confronti della politica e dello Stato. Quello cioè che mi ha colpito dell’articolo della giornalista è la mancanza di un “mea culpa”. Un “mea culpa” che invece va fatto. Oggi infatti è facile, se non banale, attaccare Salvini che usa il tema della legittima difesa come una bandiera che produce consenso. I dati sul calo dei reati si sa da diversi anni, ma l’informazione sembra accorgersene solo ora, quando - da alcuni punti di vista - è quasi troppo tardi. Il ministro dell’Interno ha sfruttato quella percezione, diffusa nella popolazione italiana, creata da alcuni politici, lui compreso, e da quasi la totalità dell’informazione italiana. È facile prendersela con lui, quando la vera critica dovrebbe essere mossa verso il modo in cui si sono date, per anni, le notizie. Certo, il piano emotivo- simbolico agito dalle forze politiche non può essere trascurato. Tutt’altro. Ma pensiamo in primis alle nostre responsabilità. In nome dell’audience o delle vendite si è fatto credere che eravamo un Paese violento, corrotto, sotto scacco a causa delle caste, e oggi è molto difficile tornare indietro. Ma va fatto, a tutti i costi. O almeno il mondo dell’informazione smetta di chiedersi come e perché nasca il gap tra fatti e percezione. Di te fabula narratur.... Legittima difesa, decide solo il giudice di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 14 giugno 2019 Non credo che il tabaccaio di Pavone Canavese, che pare abbia sparato dal balcone di casa sette colpi di pistola contro tre ladri dopo che era scattato l’allarme antifurto del negozio, fosse al corrente dei contenuti della recentissima riforma della legittima difesa. Probabilmente però era stato raggiunto dalle dichiarazioni del ministro dell’interno che il 26 aprile, in occasione dell’approvazione della “sua” legge che modificava la legittima difesa, aveva parlato di “un bellissimo giorno per gli italiani in cui viene riconosciuto il sacrosanto diritto alla legittima difesa”, tra l’altro esibendo nel corso della conferenza stampa la storica maglietta recante la scritta “la difesa è sempre legittima”. La legittima difesa “classica” era disciplinata dall’art. 52 del codice penale del 1930 con una formulazione semplice e sintetica: in un unico comma di poche righe si stabiliva che non è punibile chi ha commesso un reato (ad esempio ha sparato e ucciso) per esservi stato costretto dalla necessità di difendere la vita e l’incolumità fisica e anche i propri beni contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (ad esempio l’aggressione di ladri o rapinatori), sempreché la reazione di difesa dell’aggredito fosse proporzionata all’offesa. Per oltre 75 anni l’art. 52 ha funzionato egregiamente: una consolidata giurisprudenza ha stabilito che si poteva reagire legittimamente solo contro un’aggressione in atto (e non anche contro un aggressore in fuga), che la proporzione tra la difesa e l’offesa andava intesa nel senso che non si poteva reagire sparando contro un ladro disarmato, non essendovi proporzione tra la tutela del patrimonio e il bene della vita dell’aggressore. Negli ultimi mesi del terzo Governo Berlusconi una legge del 2006 ha introdotto la c. d. legittima difesa “domiciliare”, al fine di apprestare una più efficace tutela per la le vittime di furti nell’abitazione e in ogni luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Sono stati così aggiunti due commi nell’art. 52 del codice penale, grazie ai quali si ritiene sussistere il requisito della proporzione tra difesa e offesa se l’aggredito usa un’arma da lui legittimamente detenuta al fine di difendere la propria incolumità ovvero i suoi beni, sempreché non vi sia desistenza e permanga il pericolo di aggressione. Dovrà comunque essere sempre il giudice a valutare se sussistono i requisiti della legittima difesa, anche nella situazione del c. d. eccesso colposo, cioè quando la vittima del furto ha ritenuto per errore di essere vittima di un’aggressione, mentre in realtà non vi erano gli estremi per reagire in stato di legittima difesa. Dopo 13 è anni è intervenuta la riforma Salvini, forse per tradurre in termini giuridici il motto che “la difesa è sempre legittima”. Ne è sortito un groviglio incomprensibile per il comune cittadino e da cui sarà difficile districarsi anche per le più raffinate menti giuridiche. Limitandoci ai casi di eccesso colposo (il tabaccaio di Pavone Canavese potrebbe appunto essere indagato per omicidio colposo), nell’art. 55 del codice penale è stato aggiunto un secondo comma che, in riferimento alla legittima difesa “domiciliare”, esclude la punibilità se chi ha sparato per difendere la propria incolumità si trovava in condizioni di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la difesa, ovvero “in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Quest’ultima condizione, assai stravagante e sinora sconosciuta nell’ordinamento giuridico, è di pressoché impossibile interpretazione: è presumibile che chi si trova esposto ad una aggressione che mette in pericolo la propria vita e/ o i propri beni rimanga quantomeno un po’ turbato, ma rimane il problema di quali siano le manifestazioni del turbamento “grave”, che deve essere coevo alla situazione di pericolo in atto, per cui ai fini dell’esclusione della punibilità non dovrebbe avere rilievo uno stato di grave turbamento che perdura quando il pericolo è cessato essendo gli aggressori in fuga. Per fortuna la nuova disciplina non opera automaticamente, ma vi sarà sempre un giudice chiamato a interpretarne il significato in rapporto alle condizioni generali della legittima difesa “domiciliare”, a stabilire i criteri interpretativi del grave turbamento, e anche a verificare gli eventuali profili di illegittimità costituzionale della norma introdotta. Tra legittima difesa e giusta pena di Mario Chiavario Avvenire, 14 giugno 2019 Ciò che davvero offende la sicurezza dei cittadini. “Prudenza”, continua giustamente a raccomandare Giuseppe Ferrando, il procuratore della Repubblica di Ivrea cui spetta dirigere le indagini sul caso del tabaccaio che ha ucciso una delle tre persone venute a rubare nella sua proprietà. Un dato sta comunque emergendo, a smentita delle illusioni alimentate dal trionfalismo con cui si è propagandata la ‘nuova legittima difesa’. Neppure adesso, il procurarti un’arma può farti sentire più sicuro contro i furti o le altre intromissioni in casa tua o nel tuo negozio, quasi che tu potessi comunque usarla senza avere, al di là di quelli di coscienza, problemi legali. Ma, allora... quel “sempre” che si è introdotto nel testo dell’articolo 52 del codice penale sull’onda di uno slogan di facile presa (“La difesa è sempre legittima”)? No; neanche quell’avverbio - e meno male... - può impedire che degli inquirenti coscienziosi e preparati facciano il loro lavoro di ricostruzione dell’effettiva dinamica di un episodio che ha provocato un evento tragico qual è la morte di un uomo. E, qualora si venisse ad appurare che il colpo letale è stato sparato su una persona in fuga, nemmeno la nuova dizione della legge potrebbe assicurare la totale impunità a chi ha premuto il grilletto: questa - a meno di cambiare completamente il senso a parole di universale comprensione - non è nemmeno più un’autentica ‘difesa’, quali che possano poi essere le parziali giustificazioni e le attenuanti da riconoscere. Ricordarlo non è ‘buonismo’ verso l’aggressore né crudeltà verso chi reagisce all’aggressione. È puro e semplice freno al rischio di farsi avvolgere da una spirale di disumanità, all’esito della quale non è del resto escluso che venga un incoraggiamento alla delinquenza, a farsi sempre più feroce... e più capace di sparare per prima. Sbaglia però chi, specialmente di fronte a tragedie come questa, crede di poter liquidare con qualche battuta l’esasperazione che si va diffondendo in larghi strati della popolazione, giudicandola come mero effetto di un’abile propaganda e della risonanza che a certi episodi viene data dai media. Propaganda e sfruttamento mediatico ci sono ma non basterebbero, da soli, a suscitare dimostrazioni come la fiaccolata a sostegno del tabaccaio eporediese. E a chi avverte attorno a sé, o addirittura ha sperimentato personalmente, il peso di ripetute e impunite manifestazioni di delinquenza importa poco il sapere dalle statistiche che il tasso di criminalità, da noi, sta diminuendo e che addirittura l’Italia ‘è il Paese più sicuro d’Europa’: valide per gli omicidi e le grandi rapine (dove è certamente minimo lo scarto tra le denunce e i delitti effettivamente commessi), quelle risultanze sono assai meno significative per quanto concerne minacce, scippi, furti in casa… tutti reati per i quali la ‘cifra oscura’ degli eventi non denunciati è alimentata dalla crescente sfiducia sulla possibilità di veder realmente perseguiti i colpevoli; senza contare, almeno in certi casi, il timore di ritorsioni. Si sa che alle radici di molta criminalità stanno problemi sociali e individuali anche di grande complessità e nessuno, certo, ha in tasca soluzioni magicamente idonee a ridurre, se non a sgonfiare, i problemi che ne nascono. La stessa, pur giusta richiesta di una più consistente e più efficace prevenzione da parte dello Stato incontra dei limiti se non si vuole che ciò si traduca in una gestione del territorio prossima a quella di uno Stato di polizia. Non deve comunque passare un messaggio troppo facilmente indulgenziale, neppure verso quella che viene definita, e per lo più è oggettivamente, “microdelinquenza”, ma che tale non può essere sempre percepita da chi la subisce. Men che meno, certamente, può valere, per coloro che vivono in quel sottobosco, l’auspicio sinistro e sempre disumano del ‘marcire in galera’; al contrario, è proprio per questi casi, che dovrebbero esser potenziate e rese sempre più efficaci le misure sanzionatorie e cautelari diverse dal carcere; però, l’alternativa non può essere quella di un andirivieni tra qualche giorno di arresto e il ritorno all’esercizio, sostanzialmente indisturbato, di un ‘lavoro’ che spesso è preludio di qualcosa di ancor più pericoloso, per sé e per gli altri. Toghe in guerra, l’alt del Colle di Valentina Errante Il Messaggero, 14 giugno 2019 Il Consiglio superiore della magistratura perde un altro pezzo. Il terzo dimissionario è Antonio Lepre. Dopo l’autosospensione, segue i colleghi Gianluigi Morlini e Luigi Spina. Restano nel limbo dell’autosospensione Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli, le altre due toghe del Csm intercettate a discutere di nomine durante una cena con i parlamentari del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti. E il presidente Sergio Mattarella volta pagina: elezioni suppletive. Il 6 e il 7 ottobre le toghe torneranno alle urne per sostituire due consiglieri. Lo scioglimento è escluso: senza una riforma riproporrebbe le stesse logiche a Palazzo dei Marescialli. Fare in fretta per restituire prestigio alla magistratura. “Voltare pagina”. Il presidente della Repubblica, dopo giorni di riflessione e contatti continui con il vicepresidente del Csm, David Ermini e il ministero della Giustizia, sceglie di non sciogliere il Consiglio e indice nuove elezioni. Mattarella non nasconde la propria preoccupazione e la traduce in atti e inviti: apre alla riforma delle procedure di elezione dei membri del Csm e indica le suppletive, che ovviamente avverranno con le attuali regole. Il capo dello Stato ha deciso di non attendere oltre. La motivazione è forte: lo scioglimento cambierebbe poco, riproponendo, con tutta probabilità, le stesse criticità che le indagini stanno portando a galla. “Diverse forze politiche auspicano un cambiamento e chiedono una riforma delle norme di elezione”, spiegano fonti del Quirinale facendo anche riferimento alle spinte dei partiti che chiedono modifiche sostanziali. Naturalmente l’obiettivo del presidente Mattarella è uno solo: restituire quel prestigio e quell’indipendenza della magistratura che oggi sono fiaccati dall’inchiesta e dall’amplificazione mediatica. Un’inchiesta che ha “incrinato” il prestigio della magistratura. La sostituzione dei dimissionari è il primo passo. Gli equilibri all’interno dell’attuale consiglio cambieranno, al posto di Gianluigi Morlini, entrerà Giuseppe Marra di A&I, la correte di Davigo. Se dovessero dimettersi anche gli altri consiglieri coinvolti di Mia sostituirli saranno un altro esponente di A&I e uno di Area, la corrente di sinistra. Ieri, intanto, anche il Guardasigilli ha integrato l’atto di incolpazione notificato due giorni fa alle toghe, contestando ai cinque magistrati coinvolti nella vicenda, anche la violazione delle norme “che stabiliscono la necessità di preservare l’autonomia valutativa del Csm”. Spina, Cartoni, Criscuoli, Lepre e Morlini “gettando discredito sull’ordine giudiziario incidevano negativamente sulla fiducia e sulla considerazione di cui il magistrato deve godere”. Al centro dell’accusa del ministro, come del pg, c’è sempre la cena del 9 maggio alla quale le cinque toghe discutevano con i parlamentari Ferri e Lotti “completamente estranei - si legge nel documento - alle funzioni ed alle attività consiliari e con i quali gli incolpati pianificavano la possibilità di incidere sulle future nomine di direttivi di uffici giudiziari, tra cui, specificamente, la proposta inerente la nomina del Procuratore della Repubblica di Roma, di diretto interesse personale per il pm Palamara e Lotti. In particolare, nei confronti di quest’ultimo, per il quale era già stato richiesto il rinvio a giudizio dinnanzi al Tribunale di Roma, il nominando Procuratore della Repubblica di Roma avrebbe dovuto sostenere la funzione di accusa”. La spinta di Mattarella per riformare il Csm di Marco Conti Il Messaggero, 14 giugno 2019 Non scioglie il Csm per non insabbiare né l’intenzione mostrata dai partiti di cambiare i criteri di elezione, né i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati coinvolti nella “tratta” delle procure. Al termine di una giornata di polemiche e pressing, Sergio Mattarella traduce in un atto la sua preoccupazione per la bufera che sta travolgendo l’organo di autogoverno della magistratura. In qualità di presidente del Csm, Mattarella fissa elezioni suppletive (che porteranno a un ulteriore slittamento delle nomine per le procure vacanti, a partire da quella di Roma) in modo da evitare che il ritorno al voto con le stesse regole diventi una sorta di colpo di spugna. Dal Quirinale ieri sera spiegavano che “lo scioglimento immediato del Csm comporterebbe la rielezione dei suoi membri con i criteri attuali, mentre diverse forze politiche auspicano un cambiamento e chiedono una riforma delle norme di elezione”. Un argomento in scia alle richieste dei partiti che sembrano scoprire solo ora - e non sono i soli - i meccanismi correntizi sulla base dei quali sono stati sinora assegnati a magistrati i più importanti uffici giudiziari. Una riprova si ha con le suppletive che Mattarella è stato costretto ad indire per rimpiazzare i due dimessi (Antonio Lepre e Sergio Spina) che componevano una lista di quattro (quattro candidati per quattro posti, per quattro correnti) senza quindi possibilità di attingere da una lista di non eletti. Uno scioglimento dell’intero Csm avrebbe inoltre rinviato di mesi le azioni disciplinari che sono state già istruite dal procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio nei confronti dei cinque togati coinvolti nelle inchieste. Ciò che però interessa soprattutto a Mattarella è che le forze politiche diano seguito alla volontà di cambiare passo procedendo ad una riforma il più possibile condivisa. Dell’importanza di una “reazione” aveva parlato giorni fa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede reduce proprio da un incontro con il presidente della Repubblica. D’altra parte di riforma dei meccanismi di elezione del Csm si parla anche nel contratto di governo e per il Guardasigilli dovrebbe andare avanti insieme alla riforma dell’ordinamento giudiziario. In queste settimane Mattarella ha avuto continui contatti con i vertici del Csm e con il ministro della Giustizia. In una prima fase il Capo dello Stato aveva dato mandato al vicepresidente David Ermini approfondire la gravità della situazione. Con la nota di ieri Mattarella spinge affinché si possa “voltare pagina” cambiando i meccanismi di elezione ed evitando che uno scioglimento, e nuove elezioni con le stesse regole, contribuiscano a lasciare le cose come stanno. Obiettivo del presidente Mattarella è quello di restituire alla magistratura quel prestigio e quell’indipendenza che secondo il Quirinale sono stati “incrinati” da ciò che emerge dall’inchiesta. Un’inchiesta che ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica meccanismi che, al netto di eventuali aspetti corruttivi tutti da chiarire, erano già noti. Un vaso di Pandora esploso all’improvviso nel corso di una guerra tra bande, che ha mostrato la commistione tra politica e magistratura i cui effetti vengono mediaticamente ampliati - anche ora che sono coinvolti magistrati - dalla diffusione di trascrizioni di intercettazioni. Un clima di veleni, millanterie e accuse che ha anche sfiorato la presidenza della Repubblica attraverso conversazioni assai indirette degli intercettati sul ruolo di un presunto informatore addirittura dentro il Quirinale. Voci non circostanziate, subito smentite con nettezza dal Colle, ma che sono il segnale di un degrado del sistema giustizia che va fermato. Ammesso che i partiti ne abbiano la voglia e, soprattutto, la forza. Mattarella sul Csm: “Voltare pagina”, ma non lo scioglie di Liana Milella La Repubblica, 14 giugno 2019 Il Capo dello Stato: elezioni suppletive per sostituire i magistrati dimissionari. “Prestigio e fiducia incrinati, ma è inutile azzerare tutto senza cambiare le regole”. Il Csm a guida Ermini andrà avanti. Per ridare subito “prestigio e fiducia” alla magistratura e voltare pagina. Con una mossa a sorpresa, il capo dello Stato, nonché presidente del Csm Sergio Mattarella, ha indetto le elezioni - si svolgeranno il 6 e 7 ottobre - per scegliere i due togati che appartengono alla categoria dei pm e che dovranno prendere il posto dei dimissionari Luigi Spina e Antonio Lepre. Che ieri ha lasciato il Consiglio. Si va avanti nonostante lo scandalo “toghe sporche”, e le dimissioni, già date o in procinto di esserlo, di ben cinque togati su sedici. Nessuno scioglimento dunque, come chiede Forza Italia, o auto scioglimento, perché se ciò accadesse - ed è questa la motivazione del Colle - si finirebbe per votare con le stesse regole attuali che invece il Guardasigilli Alfonso Bonafede già annuncia di voler cambiare. Introducendo il sorteggio per ridimensionare il potere finora assoluto delle correnti delle toghe. Se invece il Colle rimandasse tutti a casa oggi si voterebbe proprio con le stesse regole che il governo vuole cancellare. Per completare invece la rosa dei dieci giudici - ne mancano tre - si attingerà alla lista dei non eletti, giusto tre per tre posti, visto che nelle elezioni del luglio 2018 c’erano pochissimi candidati, quattro pm per quattro posti, 13 giudici per 10 posti, quattro toghe della Cassazione per due posti. Sono le 19 quando Mattarella rende pubblica la decisione e chiude la porta a qualsiasi manovra dentro l’attuale Csm o alle richieste politiche, come le dimissioni in blocco avanzate da Fi. A fronte della resistenza di chi, come i giudici coinvolti nelle intercettazioni Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli che, pur destinatari di una doppia procedura disciplinare dal Pg della Cassazione Riccardo Fuzio e dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, ancora non si dimettono, mentre lascia Antonio Lepre, il capo dello Stato fissa la data delle prossime elezioni per i due posti da pm. La prima settimana di ottobre per consentire la campagna elettorale. La ragione è semplice, ed è politica, perché lo scioglimento immediato di questo Consiglio comporterebbe la rielezione del Csm con gli stessi criteri seguiti a luglio 2018 in quanto non si farebbe in tempo in tre mesi ad approvare una nuova legge. Ma c’è di più nel passo del presidente del Csm, che anche questa volta si è mosso in piena sintonia con il suo vice, l’ex Pd David Ermini. La sostituzione è il primo passo per restituire alla magistratura indipendenza e prestigio. “Prestigio e fiducia” che, secondo Mattarella, sono state incrinate dallo scandalo esploso con l’inchiesta di Perugia. Dunque questo Csm riparte. Anche se, a fronte delle dimissioni date ieri da Antonio Lepre, mancano ancora quelle di Cartoni e Criscuoli, che però dovrebbero giungere nel fine settimana. Si preparano i sostituti. Già ieri il plenum ha votato il rientro in ruolo di Giuseppe Marra, giudice della corrente di Piercamillo Davigo e primo dei non eletti. In una settimana potrebbe entrare, dopo la verifica dei titoli, anche la collega Ilaria Pepe, sempre di Davigo, e Bruno Giangiacomo di Area. Magistratura indipendente si riduce da cinque a due membri e paga uno scotto pesante. Mentre Davigo raddoppia la sua pattuglia e passa da due a quattro consiglieri. La sinistra di Area arriva a cinque. La storia stessa di questo Csm, dove finora ha dominato, soprattutto nelle nomine, l’asse Unicost-Mi, è destinata a cambiare. A cominciare dalla scelta dei vertici delle procure di Roma, Perugia, Torino, Brescia. La mossa di Mattarella delude Forza Italia, che con un diktat di Berlusconi ha chiesto al Colle lo scioglimento del Consiglio, anche se i due laici designati da Fi, gli avvocati Michele Cerabona e Alessio Lanzi, ieri affermavano la propria indipendenza - “non siamo dei politici, non riceviamo ordini, nessuno si è permesso di darceli” - e la volontà di non mandare in crisi il Consiglio. Ma sia Fi che Fratelli d’Italia propongono una commissione parlamentare d’inchiesta sulle toghe sporche. Il Guardasigilli Bonafede conferma invece il progetto di incidere per legge sul Csm. Perché “nessuno tra i magistrati che ogni giorno lavorano e portano faticosamente avanti la macchina della giustizia possa pensare che per fare carriera si deve stare in una corrente”. Csm, veleni infiniti. Ora le intercettazioni fanno paura ai pm di Errico Novi Il Dubbio, 14 giugno 2019 I trojan di Perugia usati pure contro il Colle. A volte le osservazioni giuste vengono dalle persone sbagliate. Da Luca Lotti, per esempio, che le intercettazioni del Gico hanno sorpreso a fantasticare di piani galattici sulle Procure. Tra un “si vira su Viola” e un “ti togliamo Creazzo dai coglioni”, l’ex ministro affida finalmente al suo sfogo via Facebook di ieri una bella domanda, anzi due: “Com’è che durante un’inchiesta ancora in corso vengono pubblicate intercettazioni, senza rilievo penale, di non indagati? Come sono arrivate nelle redazioni dei giornali?”. Belle domande davvero. Decisive. Ma di semplice soluzione. Le intercettazioni arrivano nei giornali perché costa nulla pubblicarle. Altrimenti chi le controlla non le farebbe trasudare dal velo del segreto istruttorio. Sia detto meglio: costa non proprio nulla ma pochissimo, 129 euro per la precisione. Che ci si creda o no, a tanto ammonta la cifra che consente di “oblare” il reato previsto all’articolo 684 del codice penale, la pubblicazione di atti giudiziari. Un gettone da 100 euro o poco più e il gioco è fatto. Può mai essere il segreto istruttorio affidato a una tanto ridicola forma di dissuasione? Ogni ora che passa si scopre qualcosa. Ieri altre intercettazioni captate originariamente per l’indagine di Perugia su Luca Palamara sono divenute pubbliche. Anche per via dell’atto di incolpazione firmato dal pg della Suprema corte, Riccardo Fuzio, contro i togati coinvolti nel caso Csm, atto disponibile on line da mercoledì sera, su fonti “aperte”. Si scopre per esempio che nella cena con Lotti e Cosimo Ferri, deputato e presunto leader ombra del gruppo di Magistratura indipendente, il consigliere (ora autosospeso) Corrado Cartoni, pure lui di “Mi”, dice che David Ermini “si deve svegliare”. Il vicepresidente del Csm non recepisce le “sveglie” congiunte del Pd e di vari togati, soprattutto su alcune scelte della sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. Ne esce da persona specchiata e seria qual è, Ermini. Ma non è che si può giocare alla roulette russa delle intercettazioni. La credibilità di organi di rilievo costituzionale non può essere affidata al caso. Cioè al fatto che qualcuno parli bene di te mentre ha un trojan nel cellulare. Anche perché nella roulette russa finisce che in un altro brano segreto, reso ovviamente pubblico da alcuni giornali di ieri, viene citato un consigliere del Capo dello Stato. Secondo Ferri, verrebbe da tale consigliere la prima rivelazione sul trojan “inserito” nel portatile di Palamara. E chi può escludere che la frase di Ferri debba in realtà dissuadere gli inquirenti dall’approfondire il materiale intercettato, visto il rischio di chiamare in causa persone rispettabili? Siamo a questo. È il caso di fermarsi? Ieri il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza ha chiesto un “tavolo” con le toghe per trarre le conclusioni dal terremoto Csm: “Va temperata l’obbligatorietà dell’azione penale”, ha ribadito. Sarebbe bello se i magistrati eventualmente chiamati a discutere con il leader dei penalisti proponessero a loro volta di rendere davvero vietata la pubblicazione di intercettazioni. Sarebbe bello se nella commissione d’inchiesta proposta ieri da parlamentari di Fratelli d’Italia, gli stessi magistrati ammettessero di aver troppo spesso usato i giornali per ottenere il tifo degli italiani per le loro indagini. E non sarebbe male se il Parlamento chiedesse ad avvocati e giudici di scrivere insieme una legge seria per impedire che le conversazioni segrete siano usate, ancora in futuro, come arma letale. Certo, il massimo desiderabile sarebbe se i magistrati si rendessero conto da soli che il gioco al massacro non può andare avanti. Che si rischia di travolgere con il solito fango le più alte istituzioni della Repubblica, presso le quali i magistrati stessi giurano dopo aver vinto il concorso. Se poi vogliamo sognare in grande, dobbiamo illuderci che a chiedere di smetterla con l’uso letale delle intercettazioni possa essere Giuseppe Marra, primo dei non eletti nella “sezione” da cui proveniva Gianluigi Morlini, il secondo togato dimessosi dal Csm (preceduto da Luigi Spina e seguito ieri da Antonio Lepre). Marra subentrerà a Morlini: il plenum ha già votato il suo rientro in ruolo al massimario della Cassazione, presupposto necessario per l’ingresso a Palazzo dei Marescialli. Lascia la direzione assunta pochi mesi fa al dipartimento Affari di giustizia del ministero. Marra era candidato al Csm per Autonomia & indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo. La più pessimista, diciamo, sulla moralità delle classi dirigenti. Visto che anche la magistratura è classe dirigente, e non la si può abbattere a colpi di trojan, davvero non sarebbe male se le contromisure fossero proposte da chi condivide quel pessimismo con Davigo. Perché adesso è difficile crederlo, ma magari anche i piani galattici di Lotti e Palamara per il “danneggiamento di Creazzo” potevano essere arginati senza che tutta Italia li conoscesse in anticipo. Legittima norma italiana che limita patteggiamento alla modifica dei fatti Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2019 Corte Ue - Sentenza 13 giugno 2019 - Causa C-646/17. È legittima la normativa italiana che consente agli imputati di patteggiare in dibattimento unicamente quando mutano i fatti contestati e non quando muta la loro qualificazione giuridica. Lo ha stabilito la Corte Ue, sentenza nella Causa C-646/17, del 13 giugno. Il caso - In un procedimento penale italiano, l’imputato, accusato di ricettazione, ha confessato di averli rubati. Nel corso del dibattimento, il pubblico ministero non ha però modificato l’imputazione - da ricettazione a furto - lasciando espressamente al giudice del Tribunale di Brindisi il compito di riqualificare i fatti. Questa decisione del Pm ha provocato il rigetto della domanda di patteggiamento presentata dall’imputato. Dopo l’inizio del dibattimento, infatti, il patteggiamento è ammissibile solamente se l’imputazione viene modificata per l’addebito di un fatto storico nuovo o diverso, mentre, nel caso di specie, era necessaria soltanto una riqualificazione giuridica del medesimo fatto. Il rinvio - A questo punto il Tribunale di Brindisi si è rivolto alla Corte di giustizia per chiedere se una simile differenziazione tra gli effetti della modifica dell’accusa - a seconda che si tratti di modifica in fatto o di modifica in diritto - che comporta anche delle sostanziali disparità in merito all’esercizio del diritto di difesa, come l’ammissibilità o meno dell’istanza di patteggiamento, sia compatibile con il diritto dell’Unione. La decisione - Per la Corte di Lussemburgo il diritto dell’Unione non osta a una normativa nazionale, come quella italiana, secondo cui l’imputato può domandare, nel corso del dibattimento, il patteggiamento nel caso di una modifica dei fatti su cui si basa l’imputazione, e non, invece, nel caso di una modifica della qualificazione giuridica dei fatti oggetto dell’imputazione. Con riferimento al dibattimento penale, più specificamente, la Corte rileva che l’effettività della difesa non esclude che la qualificazione giuridica dei fatti contestati possa essere modificata o che nuovi elementi di prova possano essere inseriti nel fascicolo nel corso della discussione. In ossequio al fondamentale diritto di difesa, siffatte modifiche e siffatti elementi devono però essere comunicati all’imputato o al suo avvocato in un momento in cui questi ultimi abbiano ancora la possibilità di reagire in modo effettivo, prima della deliberazione. La Corte sottolinea poi che gli Stati membri restano comunque liberi di assicurare un livello di tutela più elevato di quello garantito dal diritto dell’Unione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Infine, la Corte conclude che sia il diritto all’informazione garantito dalla direttiva sia il diritto di difesa garantito dalla Carta risultano rispettati. Infatti, né l’uno né l’altro implicano l’obbligo di riconoscere all’imputato la facoltà di chiedere il patteggiamento nel corso del dibattimento. Milano: suicidio in carcere, uomo di 59 anni trovato morto a San Vittore milanotoday.it, 14 giugno 2019 Un uomo di 59 è morto all’interno del carcere milanese di San Vittore. La scoperta del cadavere è arrivata all’alba di venerdì. Attorno alle 5 sul posto - via Gian Battista Vico - è intervenuto il 118 con un’automedica e un’ambulanza. Il personale dell’Azienda Regionale Emergenza Urgenza, però, non ha potuto fare nulla per salvare la vita dell’uomo. Non ci sarebbero dubbi sulla natura suicidaria del gesto. Le indagini sull’accaduto sono in mano alla Polizia penitenziaria. Santa Maria Capua Vetere (Ce): morto in carcere, è giallo “Angelo stava bene” edizionecaserta.com, 14 giugno 2019 “Angelo stava bene. Non ha mai avuto un problema”. Lo ripetono comunque un mantra. I familiari di Angelo Serra, ma anche i suoi compagni di cella. Nessuno riesce a spiegarsi come, quel ragazzone di 38 anni, sia morto all’improvviso. Coloro che condividono con lui la camera alla casa circondariale ieri mattina sono andati a svegliarlo e hanno fatto la drammatica scoperta. Inutili i soccorsi, il 38enne di Caivano era già deceduto da tempo probabilmente per un malore ma questa resta solo una delle ipotesi. Al momento le indagini vanno avanti in un riserbo stretto ed anche il suo legale di fiducia, l’avvocato Daniele Delle Femmine, attende di conoscere i primi atti dell’indagine. La famiglia al momento non ha presentato denuncia, ma la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha voluto comunque predisporre l’esame autoptico. La salma è stata così sequestrata e trasferita all’istituto di medicina legale di Caserta dove domani mattina sarà effettuato il test, a questo punto indispensabile per conoscere la verità sul decesso. Soltanto dopo l’autopsia i familiari potranno rivedere il corpo del loro caro. Serra era recluso in quanto stava scontando una condanna per rapina: l’ultimo arresto era avvenuto proprio a Caserta nel gennaio 2018: venne bloccato dagli agenti della questura in piazza Carlo III dopo aver depredato una donna della sua borsa, sotto minaccia di una pistola rivelatasi poi finta. Un’esistenza piena di tunnel e costellata di problemi con la giustizia, dalla quale ora chi gli ha voluto bene attende una parola definitiva sulla sua morte. Terni: detenuto del 41bis, colpito da un aneurisma, muore in ospedale umbria24.it, 14 giugno 2019 Rosario Allegra, cognato del boss latitante Matteo Messina Denaro, è morto il 13 giugno 2019 all’ospedale di Terni. Il sessantacinquenne era stato arrestato dai pm di Palermo che lo consideravano il reggente designato del mandamento di Castelvetrano in assenza del padrino ricercato. Allegra era detenuto da molti anni in regime di 41bis e il 28 maggio scorso a suo carico si era aperto anche il processo per l’operazione Anno zero a carico di 18 presunti mafiosi e fiancheggiatori di Cosa nostra nel Belicino. Davanti al tribunale di Marsala per rispondere dell’imputazione di associazione mafiosa Allega, però, non è comparso. Il sessantacinquenne, infatti, era già stato ricoverato all’ospedale di Terni a causa di un aneurisma, che dopo oltre due settimane di ricovero gli ha stroncato la vita. Verona: a Montorio è ancora emergenza affollamento, otre 200 detenuti in più di Angiola Petronio Corriere di Verona, 14 giugno 2019 La relazione della Garante: “Molti dovrebbero essere in altre strutture”. Una Caienna. Dove il sovraffollamento è direttamente proporzionale alla mancanza di personale. Non ha lasciato alibi la relazione fatta ieri in consiglio comunale da Margherita Forestan, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sulla casa circondariale di Montorio. Ci dovrebbero essere 335 posti nelle celle scaligere. “Ad oggi sono oltre 550”. Una caienna. Dove il sovraffollamento è direttamente proporzionale alla mancanza di personale. Dove dovrebbero esserci solo detenuti in attesa di giudizio. E invece è un pullulare di condanne in via definitiva, anche per reati gravi. Dove le persone, sia quelle “costrette” che quelle che ci lavorano, sono il valore che rende sopportabile la vita quotidiana. Non ha lasciato alibi, la relazione fatta ieri in consiglio comunale da Margherita Forestan, garante dei diritti delle persone private della libertà personale sulla casa circondariale di Montorio. Hanno parlato i dati, per quello che i veronesi chiamano “carcere” ma che, tecnicamente, non lo è. Una “sottigliezza”, ma che per Montorio è fondamentale. Ci dovrebbero essere 335 posti disponibili, nelle celle scaligere. Ma dentro ci sono 525 persone: 474 uomini e 51 donne. Vale a dire 190 di troppo, rispetto alla capienza massima. I dati sono riferiti al 2018. “Ad oggi - spiega Margherita Forestan - sono oltre 550”. Lei, la “garante”, è quella figura che media tra chi è detenuto e l’amministrazione penitenziaria. “Tutte quelle persone in più - racconta - le senti e le vedi soprattutto nella difficoltà di gestire la loro pena. Verona nasce come casa circondariale, ma ormai si è trasformata in una casa penale. Dovrebbero esserci solo detenuti in attesa di giudizio, invece sugli oltre 550 presenti in questi giorni più di trecento hanno condanne definitive. Persone che, ovviamente, vanno condotte e seguite in maniera diversa. E in altre strutture. Invece sono qui. E garantire loro un percorso diventa difficile quando, come nel cado di Montorio, ti mancano anche i pedagogisti. Su sei previsti ce ne sono 4...”. Viene gonfiato, Montorio. Di detenuti. Nonostante l’anemia di personale. “Verona - continua Forestan - ha un’ottima polizia penitenziaria, che cerca di ovviare alle mancanze dell’amministrazione penitenziaria”. Anche qui parlano i dati: sui 380 agenti previsti - e che vengono calcolati sulla massima capienza e non su quella reale - gli effettivi sono 344. Con un problema anche a monte: quello dei magistrati di sorveglianza. “Sono tre e fanno un ottimo lavoro, ma manca il personale di sostegno e le pratiche si accumulano”. Eppure a Montorio molte cose funzionano: il lavoro, con oltre un centinaio di detenuti impiegati con le cooperative. Per loro corsi di formazione sartoriale, cura degli animali, saldatori, falegnami. E la scuola. “Se ne fa molta, anche perché sono convinta che la cultura, lo sport, mostrino a queste persone l’altra medaglia della vita”. In 135 uomini e 10 donne l’anno scorso hanno frequentato corsi di alfabetizzazione e di scuola primaria inferiore. Altri 29 sono stati studenti dell’istituto alberghiero Berti. In 23 hanno seguito il corso liceale e in 4 sono iscritti all’università. Poi c’è la struttura. Quella gracile, di una casa circondariale che ha solo 27 anni, ma che si sta piegando al tempo. “Molte aree hanno problemi di infiltrazione d’acqua con cedimento di soffitti e pavimenti e questo nonostante la continua manutenzione che pur in presenza di ridotti finanziamenti la direzione cerca di garantire”. Ha lanciato un j’accuse duro, ieri, la Garante. “La delusione per la mancata approvazione da parte del governo della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ci avrebbe aiutati a risolvere il sovraffollamento e non solo...”. Ma anche facilitare quella “messa alla prova” che al momento a Verona coinvolge 558 persone. Per loro non si aprono le celle, con l’impegno davanti a un giudice di seguire un percorso di reinserimento. “Nessuno è tornato a delinquere o è entrato in carcere per altri reati - analizza Forestan -. Ampliare questa misura con quella riforma sarebbe stato fondamentale”. E forse Montorio tornerebbe ad essere più vivibile. Non solo per i detenuti. Cosenza: cancellati corsi di scuola per detenuti, ma l’istruzione è un diritto di tutti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2019 “Sono agevolati la frequenza e il compimento degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d’intesa con istituzioni universitarie e con istituti di formazione tecnica superiore”, si legge nell’ordinamento penitenziario riformato lo scorso ottobre. L’istruzione è innanzitutto un diritto fondamentale della persona, libera o reclusa che sia. In secondo luogo, è lo strumento principale di emancipazione da qualsiasi percorso criminale. Infine, la legge italiana lo elenca tra gli elementi di quel trattamento rieducativo che dovrebbe portare la persona detenuta a reintegrarsi nella società e a non commettere più reati. Dunque, il nostro ordinamento la considera un elemento di tutela della sicurezza. Nelle ultime settimane abbiamo ricevuto varie segnalazioni in merito alla chiusura improvvisa e immotivata di corsi scolastici all’interno di carceri della provincia di Cosenza. Abbiamo scritto al Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per la Calabria per chiedere smentite, conferme o motivazioni; ma non abbiamo ricevuto risposta. Abbiamo anche scritto al dirigente scolastico dell’istituto toccato dalla prima segnalazione, l’istituto professionale Ipseoa di Paola, ma anche da qui non abbiamo saputo nulla. Sembra che oggi nelle carceri di Castrovillari, Paola, Rossano e Cosenza siano stati cancellati tutti i corsi di scuola secondaria superiore, se non per qualche classe quinta rimasta senza troppo criterio. Ben 34 classi sarebbero state soppresse. I docenti dell’istituto tecnico industriale Enrico Fermi di Castrovillari, destinatari di trasferimenti forzati, si stanno attivando per ricorsi a titolo personale. Gli studenti detenuti iscritti ai corsi, niente affatto in numero irrisorio, resteranno in cella a oziare sulla branda. Nel corso del 2018 si sono iscritte a corsi scolastici 20.357 persone detenute, 2mila in più dell’anno precedente. A metà anno, risultava iscritto a qualche livello del percorso scolastico il 34,64% della popolazione carceraria italiana. Una percentuale sempre troppo bassa, se si considera lo scarso tasso di istruzione, e perfino l’analfabetismo, che ritroviamo in carcere. Ma comunque due punti in più rispetto alla medesima percentuale relativa a un anno prima. Cosa sta succedendo a Cosenza? Come associazione che da quasi tre decenni lavora nel campo della promozione dei diritti e delle garanzia in ambito penale e penitenziario, chiediamo che ci venga data almeno una risposta. *Coordinatrice associazione Antigone L’Aquila: detenute in sciopero della fame contro il 41bis infoaut.org, 14 giugno 2019 Grazie al coraggio di due detenute si torna a parlare delle vergognose condizioni detentive al carcere de L’Aquila. Lo sciopero arriva nel contesto di un tentativo di inasprimento del regime del 41bis. Il 6 giugno scorso il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha ipotizzato un ulteriore restrizione della possibilità di interrompere l’isolamento a cui sono costretti i detenuti sottoposti 41bis. Il dirigente del Dap, in commissione antimafia, ha parlato di “una proposta di modifica normativa nel senso di escludere i garanti locali dal potere di visita e di colloquio con i detenuti al quarantuno bis”. La gravità di tali esternazioni ha prodotto immediatamente polemiche: prima tra tutte è arrivata la reazione dell’Unione delle Camere Penali che ha espresso la sua preoccupazione per una norma che interviene su detenuti a cui sono già “oltremodo contratti i diritti soggettivi e le libertà individuali” (oltre a rivelare la cultura dell’amministrazione penitenziaria che considera evidentemente i garanti un ostacolo al sereno funzionamento del carcere). Si capirà nei prossimi mesi se questo orientamento troverà ulteriore corrispondenza nell’attività del legislatore, certamente è in continuità con l’atteggiamento mantenuto dallo stato italiano sul 41bis: nonostante le condanne degli organi della giustizia comunitaria e le denunce delle associazioni per i diritti umani, il ricorso a questa forma di tortura non è mai stato messo in discussione, ne tanto meno è stato rivista la natura di tale regime detentivo. Del resto già l’estensione del ricorso alla videoconferenza per le udienze andava nelle direzione di irrigidire l’isolamento dei detenuti, impedendo il contatto “dal vivo” anche durante le scadenze processuali e limitando enormemente la possibilità di difendersi. Le dichiarazioni del capo del Dap confermano la predisposizione verso una regolamentazione ulteriormente restrittiva e un’applicazione sempre più estensiva della carcerazione speciale. È il caso questo della casa circondariale de L’Aquila. Su circa 180 detenuti, 150 sono confinati nelle 7 sezioni di 41bis. Per gli altri, di fatto, il regime detentivo è molto simile. Per garantire l’isolamento totale di chi è sottoposto al carcere duro si isola anche chi dovrebbe essere in “semplice” regime di alta sorveglianza 2 o chi è un detenuto comune. Le celle sono organizzate per il 41bis e le guardie conoscono solo quel regolamento. Così a tutti quanti è impedito di tenere libri con se e le perquisizioni corporali avvengono più volte al giorno. Alla violenza della legge e agli arbitri dell’amministrazione penitenziaria si aggiungono l’incuria e la mancanza di manutenzioni. I pochi spazi comuni previsti dall’architettura distopica della casa circondariale sono interdetti alla frequentazione di chi è privato della propria libertà: il campo da calcio è infestato dalle erbacce, il piccolo spazio verde per i colloqui chiuso da più di sei anni. La tortura dell’isolamento presso che totale viene inasprita dalla pioggia che cade nelle celle e dall’assenza di acqua calda. Dal 29 maggio scorso due detenute della sezione AS2 de l’Aquila, Anna e Silvia, hanno deciso di intraprendere una sciopero della fame per reagire a questa tortura nella tortura che è il carcere speciale, per far sapere fuori l’arbitrio costante a cui sono sottoposte, chiedono l’immediata chiusura di queste sezioni infami. Sono ormai al diciassettesimo giorno di sciopero della fame e la sola risposta arrivata dalla direzione del carcere è il consiglio di smetterla con la protesta mentre per ripicca è stato loro vietato di usufruire della sola ora di socialità fuori dalla cella che era loro concessa. Palermo: i detenuti imparano l’arte della pasticceria siciliana Redattore Sociale, 14 giugno 2019 Sessanta detenuti, uomini e donne, impareranno a preparare il cannolo, la pupa di zucchero, il torrone e la pasta reale. Tra gli obiettivi anche la realizzazione di una cooperativa e tirocini formativi esterni. Apprenderanno la millenaria arte della pasticceria siciliana con i suoi dolci più tipici. Si tratta di 60 detenuti (uomini e donne) del carcere di Palermo, su 120 partecipanti selezionati, che verranno coordinati dal maestro pasticcere Salvatore Cappello, che vanta una tradizione familiare centenaria tramandata di padre in figlio. Nello specifico, 32 uomini e 8 donne, parteciperanno alle varie fasi del progetto mentre altri 20 detenuti avranno la possibilità di fare i tirocini formativi che si potranno svolgere all’interno o all’esterno del carcere secondo quanto prevede l’articoli 21 del codice penale. La presentazione è avvenuta ieri mattina nel teatro della Casa circondariale “Pagliarelli - Antonio Lorusso”. Il progetto “Sprigioniamo Sapori” è finanziato dal Dipartimento Regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali nell’ambito dell’Avviso 10/2016. Tutto il percorso è gestito dall’associazione I.D.EA. presieduta da Fabrizio Fascella, in partenariato con l’associazione Orizzonti onlus e la pasticceria Cappello con la collaborazione del “Pagliarelli” che, attraverso varie attività (orientamento, formazione, laboratori e tirocini), favorirà l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti. Il progetto è già iniziato lo scorso novembre con la prima fase di orientamento professionale dedicata alle 70 donne di tutta la sezione femminile da cui sono state scelte adesso 8 recluse. “Il nostro progetto - spiega Aurelia Graná, direttore del progetto - prevede un corso di formazione di 600 ore per 8 donne che potranno acquisire una formazione spendibile a livello europeo, sempre grazie al maestro Cappello. Quattro, poi, saranno i corsi brevi dedicati e pensati per insegnare ai detenuti la realizzazione di dolci tipicamente siciliani come il cannolo, la pupa di zucchero, il torrone e la pasta reale che poche pasticcerie sanno fare a livello esclusivamente artigianale. Speriamo così di dare loro l’occasione per diventare esperti e competenti. Ci saranno, poi, 24 borse di tirocinio che, in parte si faranno dentro il carcere come impresa simulata e in parte fuori, attraverso alcune associazioni di categoria del settore della pasticceria finalizzate all’inserimento più rapido nel mondo del lavoro. L’obiettivo è quello di accompagnarli verso un concreto reinserimento sociale che parta proprio dal lavoro come già abbiamo sperimentato a Siracusa. Un altro obiettivo per i detenuti è quello di creare una cooperativa di produzione al linterno finalizzata alla commercializzazione”. “Insieme a mio figlio abbiamo partecipato dentro al carcere a parecchie iniziative come volontari. Questa volta invece si tratta di un progetto diverso che è finanziato e che vuole dare delle opportunità professionali significative ai detenuti, uomini e donne - sottolinea il maestro pasticciere Salvatore Cappello. Abbiamo già, infatti, iniziato da tre mesi con 8 donne che, ieri durante la presentazione del progetto, ci hanno commosso per la testimonianza poetica che ci hanno voluto dare finora sull’esperienza svolta. Speriamo che sapranno sviluppare in futuro le competenze che in questi mesi acquisiranno. La pasticceria artigianale è una attività molto impegnativa che, proprio perché richiede dedizione e sacrificio, fanno oggi in pochi ma che invece va pienamente valorizzata rispetto ai dolci industriali”. Salerno: pizzeria sociale nel carcere, arrivate macchine e attrezzature zerottonove.it, 14 giugno 2019 Arrivato al carcere di Fuorni un tir con macchinari e attrezzature necessari alla realizzazione della pizzeria sociale. L’opera è stata avviata lo scorso 25 marzo. È arrivato nel pomeriggio di ieri presso la Casa Circondariale di Salerno un tir con i macchinari e le attrezzature necessarie alla realizzazione della pizzeria sociale, in fase di allestimento per il reinserimento dei detenuti del carcere “Antonio Caputo”. Il carico è stato sistemato all’interno delle mura del carcere di Fuori, grazie all’impegno dei volontari dell’Associazioni Volontari Penitenziari Cattolici, coordinati da Pasquale Vertucci. L’operosità e la solerzia dei volontari, la cui presenza è sempre di grande utilità ed importanza all’interno del carcere, ha consentito in poche ore di sistemare nei luoghi della pizzeria sociale i tanto attesi “pacchi”. Uno straordinario passo in avanti per il completamento dell’opera, che è stata avviata lo scorso 25 Marzo, alla presenza del Direttore della struttura detentiva Rita Romano e del Presidente della Fondazione Casamica, Carmen Guarino. Continuano, intanto, gli appuntamenti nelle attività che hanno aderito alla campagna di raccolta fondi per la realizzazione della pizzeria all’interno della Casa Circondariale di Salerno. Grazie alle cifre raccolte fino ad adesso sono stati ultimati i lavori edili e acquistate le attrezzature utili. Il progetto ad oggi ha visto coinvolti ben 10 operatori della ristorazione, tra pizzerie e ristoranti del territorio, che hanno dato la propria disponibilità ad “ospitare” serate finalizzate a sostenere il progetto sociale per l’inserimento lavorativo dei giovani detenuti. Le cene di solidarietà sono volute da Fondazione Casamica insieme ai partners Fondazione Comunità Salernitana, Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Salerno, Casa Circondariale, con la collaborazione di Fondazione Carisal e Camera di Commercio di Salerno. Il prossimo 18 Giugno nuovo appuntamento al ristorante Nice in via Velia, 56 di Salerno. Aperte le prenotazioni per i posti a sedere disponibili. Il Progetto, lo ricordiamo, ha l’obiettivo di attrezzare un locale, all’interno dell’Istituto di pena di Salerno, con un forno e con tutto ciò che occorre per poter realizzare una Pizzeria e formare i detenuti con un Percorso formativo di Qualifica professionale. Bari: riusare per rinascere, il lavoro come baluardo contro la recidiva di Giuseppe Abbatepaolo* gnewsonline.it, 14 giugno 2019 Il carcere non è una discarica di rifiuti umani dove poter ammassare gli “ultimi” della società e sbarazzarsi di loro come inutili, ingombranti e sgraditi. Ad arginare la sempre incombente pervasività di quest’idea soccorre il precetto costituzionale che impone l’obbligo giuridico, prima ancora che civile e sociale, di fare in modo che le pene tendano alla rieducazione del condannato. Non a caso, i dati ci mostrano come il rischio di recidiva si abbatta notevolmente se il detenuto trova un nuovo lavoro. E così, in un incredibile gioco di parole e assonanze, se per i rifiuti industriali si deve prevedere la possibilità di un riuso e riciclo, al pari si pone la necessità della valorizzazione del percorso rieducativo dei detenuti per una loro ricollocazione sociale, attraverso la formazione e l’apprendimento al riutilizzo e recupero di quelle materie contenute nei prodotti industriali destinati a essere buttati via: le cosiddette materie prime seconde. I limiti dell’economia lineare, quella dell’usa e getta, e le sue conseguenze possono essere superati dal modello di un’economia circolare che si appropri della cultura del riutilizzo dello scarto industriale. Il valore economico delle materie prime utilizzate che possono rinascere a una nuova vita, tra cui metalli preziosi quali oro e argento, è stimato intorno ai 21 miliardi di euro annui e incrocia evidentemente la possibilità di creazione di nuovi posti di lavoro anche attraverso il trattamento rieducativo penitenziario. Sono questi gli assi portanti del Protocollo Operativo stipulato ieri, presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Bari, tra il Provveditore regionale Carmelo Cantone, il Direttore della Casa Circondariale di Bari Valeria Pirè, i due Magnifici Rettori, Antonio Felice Uricchio per l’Università degli Studi di Bari e Eugenio Di Sciascio per il Politecnico di Bari, e l’amministratore delegato della Glob Eco Srl Angelo Messina. Secondo Cantone: “Si tratta di un progetto concreto e articolato, con il prezioso sostegno dei due poli universitari baresi, che prevede la creazione di un laboratorio allestito all’interno della Casa Circondariale di Bari che consentirà la formazione professionale dei detenuti finalizzata all’apprendimento delle teorie e delle tecniche necessarie per lo smontaggio guidato di materiali secondari”. Il progetto, che prenderà concretamente avvio a settembre una volta ultimata la procedura di allestimento dello spazio dedicato alle attività laboratoriali, nella fase iniziale vedrà il coinvolgimento di 10 detenuti, mentre a regime costituirà una fondamentale articolazione lavorativa della Casa Circondariale di Bari. La firma del protocollo è stata inoltre l’occasione per lanciare sul tavolo negoziale, da parte dei rappresentanti universitari, l’ambiziosa e futuribile creazione di un Polo Didattico Penitenziario. *Referente per la comunicazione del PRAP Puglia e Basilicata Bari: la cultura che unisce, dentro e fuori il carcere di Rita Schena Gazzetta del Mezzogiorno, 14 giugno 2019 Che cos’è un carcere? Un luogo di detenzione ed afflizione o un luogo dove poter rinascere a nuova vita? Il dibattito sembrerà datato (dal saggio di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” del 1764 in poi) ma ancora oggi non è ben chiaro a tutti che chi è recluso non sconta una “vendetta di Stato”, ma una punizione per un atto commesso che gli dovrebbe permettere, una volta scontata, di reinserirsi nella società. Ecco perché è sempre bello raccontare che torna per la sesta edizione (dal 17 al 28 giugno), “Caffè Ristretto”, laboratorio di scrittura creativa e di incontri culturali dedicati ai detenuti dell’istituto penitenziario per adulti “Ruggi” e, da tre anni, anche ai ragazzi dell’Istituto Minorile “Fornelli”, Il progetto ideato, organizzato e curato dalla scrittrice e drammaturga Teresa Petruzzelli, è svolto in collaborazione con l’insegnante e operatrice culturale Mariangela Taccogna e finanziato anche quest’anno dall’Assessorato alle Politiche giovanili del Comune. Un segno tangibile di quanto non sia sprecato investire su chi si trova in detenzione. Durante “Caffè ristretto” sono previsti laboratori di scrittura, teatro, cinema, storytelling e incontri con autori, esperti di teatro e giornalisti. Il mondo del “fuori” che incontra quello “dentro” a dimostrazione che si può ripartire, anche con la cultura. Spoleto (Pg): genitorialità in carcere, a Maiano successo per il “Trofeo Papone” di Sara Fratepietro tuttoggi.info, 14 giugno 2019 Prosegue il progetto di genitorialità “La storia di papà” all’interno del carcere di Spoleto per favorire il rapporto tra i detenuti ed i loro figli. Un altro tassello al carcere di Spoleto per far sparire le barriere tra papà detenuti ed i loro figli. Prosegue all’interno della casa di reclusione di Maiano il progetto di genitorialità “La storia di papà”, che grandi emozioni ha già suscitato a dicembre tracciando un percorso per sostenere la funzione genitoriale in un contesto difficile, spesso dimenticato, come quello penitenziario. Il progetto in questione, infatti, nella seconda parte del 2018 ha condotto alla scrittura e all’incisione del singolo “Grazie a lei”, una canzone inedita scritta e cantata dai nove papà facenti parti del gruppo che hanno raccontato, in musica, la gratitudine nei confronti di tutte quelle figure che si stanno occupando dei figli in loro assenza. Oggi la canzone, musicata dal maestro Francesco Morettini, conta più di mille visualizzazioni su Youtube. Da questa prima innovativa ed esaltante esperienza il progetto sta proseguendo anche nel 2019, con l’avallo e l’incoraggiamento della Direzione dell’Istituto e del personale tutto, al fine di continuare ad attraversare una serie di tematiche attinenti la genitorialità. Negli incontri ideati e condotti dalle dottoresse Elisa Montelatici, Chiara Napolini e Sonja Tortora, si prova a tenere a mente un duplice aspetto che, evidentemente, riguarda tutti i padri, inclusi i detenuti: da un lato l’attualità delle problematiche inerenti la genitorialità, dall’altro ci si propone di riflettere sulla genitorialità in senso lato, dunque sicuramente in qualità di padri, ma anche come figli, nella relazione con il materno ed il paterno in un significato più ampio ed eterogeneo che travalichi gli stretti confini dell’oggi. A metà di questo percorso e in vista del prodotto finale che verrà realizzato e consegnato come sempre sotto Natale, si è pensato ad un incontro padri e figli in cui si potesse creare un momento diverso dal solito colloquio e di partecipazione. Da qui l’idea di un torneo, denominato “Trofeo Papone”, che nei giorni scorsi ha visto, all’interno della casa di reclusione di Maiano, padri e figli formare una squadra e cimentarsi insieme in giochi a staffetta. I detenuti ed i loro figli hanno partecipato a giochi a squadre come la staffetta con cucchiaio ed oliva o ruba bandiera dove i papà giocavano in squadra con i propri figli. Tutto si è svolto, grazie alla disponibilità del direttore del carcere Giuseppe Mazzini e della polizia penitenziaria, nel campo all’aria aperta. Ovviamente hanno vinto tutti, e non poteva essere altrimenti visto lo scopo dell’iniziativa, ed a ciascuno è stato consegnato un diploma. È seguito un buffet preparato dagli stessi papà. L’obiettivo è stato quello - facilitato dall’impostazione del gioco di squadra- di creare attraverso il gioco una comunicazione e collaborazione tra di loro, non abituati a questo tipo di relazione e contesto. L’idea, perfettamente portata a termine, era quella di una giornata differente per i bambini - e ovviamente i loro padri - che per una volta non hanno avuto intorno a sé sbarre, né hanno dovuto portare un peso non loro o essere obbligati a trovare un argomento in poche ore: per un giorno sono stati soltanto figli che giocano senza pensieri con il loro papà. Reggio Calabria: “TeatriAmo in Carcere”, l’iniziativa targata Biesse di Domenico Suraci citynow.it, 14 giugno 2019 Il protocollo di intesa firmato stamane mira a realizzare azioni per i detenuti reggini che hanno una “seconda opportunità” durante la vita carceraria. È stato siglato un importante protocollo d’intesa tra Biesse (Associazione Culturale Bene Sociale), Casa Circondariale ed Ufficio del Garante dei Diritti dei Detenuti, durante una conferenza stampa presso l’istituto penitenziario “G. Panzera” di Reggio Calabria. CityNow ha intervistato i protagonisti di questo momento, presente il dott. Maurizio Vallone - Questore di Reggio Calabria che ha dichiarato: “Sono importantissimi i progetti svolti all’interno delle carceri. Non possiamo pensare che, siano nostri nemici i detenuti. Dobbiamo rimanere al fianco di coloro che stanno cercando di recuperare la propria vita e dare la possibilità di non uscire per delinquere bensì per una redenzione personale magari tramite attività lavorative per tornare ed essere cittadini liberi”. Bruna Siviglia (Presidente Biesse): “La firma del protocollo di intesa alla presenza del Questore dott. Maurizio Vallone “TetriAmo in carcere” è un’iniziativa simbolo del nostro impegno che attuiamo esclusivamente per spirito di servizio. Il carcere è un momento di riabilitazione personale, a tutti può essere data una seconda chance. Il teatro è un momento di rinascita. Ringrazio Gianni Festa che sarà il regista, i detenuti saranno gli attori e le scolaresche potranno presenziare durante le varie esibizioni. La grande novità è che la performance teatrale si svolgerà durante la festa della Polizia di Stato nel 2020. Ringrazio la preside dell’alberghiero di Villa San Giovanni, che metterà a disposizione il proprio personale per una serie di attività volte all’inclusione”. Calogero Tessitore - Direttore della Casa Circondariale “G. Panzera”: “Da sempre l’amministrazione giudiziaria si è prodigata per svolgere di attività di inclusione sociale, in special modo quella teatrale. A ciascuno dei partecipanti con l’introspezione permessa dal teatro verrà data la possibilità di ricominciare a vivere rispettando le regole sociali. Questo è il nostro obiettivo”. Agostino Siviglia - Garante dei diritti dei detenuti Comune Reggio Calabria: “Il teatro è uno strumento per emanciparsi dalla criminalità, una scelta di vita positiva. Io ho accolto con grande entusiasmo tale iniziativa. La presenza del signor Questore è fondamentale è estremamente significati perché vanno bene le azioni di repressione ma altrettanto importanti sono quelle che avvengono dopo la carcerazione”. Un momento di riflessione e di azione che intende coinvolgere molti soggetti impegnati quotidianamente e che dà sostanzialmente una seconda chance a chi ha commesso un reato, tramite questa attività culturale ci si può rendere conto che un’alternativa al vivere criminale esiste ed è realizzabile. Radio Radicale, aiuto tampone in extremis. Dimenticati i giornali di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 giugno 2019 La maggioranza si spacca su un emendamento al dl Crescita che stanzia 3 milioni per l’archivio storico ma non rinnova la convenzione. Luigi Di Maio e Vito Crimi attaccano Matteo Salvini : “Dovrà spiegare perché hanno votato con il Pd”. La lista dei pomi della discordia tra i due contraenti del patto di governo è sempre più lunga, ma su Radio Radicale è quasi rissa tra i rispettivi vicepremier. Talmente inconciliabili, le loro posizioni al riguardo, che ieri nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera la Lega ha votato insieme alle opposizioni a favore di un emendamento tampone presentato dal Pd che salva l’emittente almeno per il 2019, in attesa di una nuova gara. Il governo, rappresentato dalla vice ministra Laura Castelli, del M5S, si era schierato contro il provvedimento che stanzia un contributo di 3 milioni di euro per la radio, non più come corrispettivo della convenzione con il Mise, che è scaduta il 21 maggio scorso e non è stata rinnovata, ma come finanziamento per completare la digitalizzazione e la conservazione degli archivi storici multimediali. Bocciati invece gli emendamenti che erano stati ammessi al testo, contrariamente a quello che rinnovava la convenzione di Radio Radicale giudicato estraneo alla materia, e che abolivano i tagli al fondo per il pluralismo dell’informazione imposti dal sottosegretario Vito Crimi nell’ultima legge di Bilancio. Tagli che mettono a rischio l’esistenza di questo quotidiano, de l’Avvenire, di Libero e di centinaia di cooperative che editano periodici locali. Nel salutare “con grande soddisfazione l’intervento in extremis del parlamento a favore di Radio Radicale”, un segnale “che il Parlamento, quando vuole, può tornare in prima linea a difesa del pluralismo al di là delle singole posizioni di parte”, la direttrice de il manifesto, Norma Rangeri, e il direttore editoriale, Matteo Bartocci, rilevano però che “gli editori non profit e in cooperativa come il manifesto, insieme a decine di altre testate locali e nazionali, sono invece lasciate all’inferno dei tagli e bavagli”. Ecco perciò la richiesta “alle forze politiche di non lasciar cadere l’impegno dimostrato fin qui per la libertà di stampa e di ristabilire il diritto di fronte alle scelte del governo di turno. L’accanimento dei 5 Stelle e di Di Maio contro i giornali in cooperativa - continuano i direttori - sarebbe ridicolo se non fosse drammatico. Proprio il caso di Radio Radicale dimostra che l’informazione autonoma e indipendente non può dipendere dall’arbitrio del momento ma deve trovare un quadro di regole e di risorse certo e stabilito solo dalla legge. La battaglia per il pluralismo - promettono a nome di tutto il manifesto - continua”. Anche sull’emendamento “salva Radio Radicale”, che porta la firma dei deputati dem Roberto Giachetti (in sciopero della fame da settimane) e Filippo Sensi, c’era il no categorico di Vito Crimi e di conseguenza del capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, che pure qualche tempo fa aveva promesso una soluzione positiva in favore dell’organo della lista Marco Pannella. Per fortuna però l’appello alla libertà di coscienza che si è levato da ogni parte politica ha avuto effetto perfino negli irregimentati ranghi a 5 Stelle. E infatti mentre uno dei due relatori del provvedimento, il leghista Giulio Centemero, ha dato il suo parere favorevole all’ammissione dell’emendamento, l’altro, Raphael Raduzzu del M5S, si è astenuto. Siccome sul testo del decreto Crescita, così come è stato emendato in commissione, dovrebbe essere posta la fiducia e dunque non sarà più possibile alcuna correzione, quando da lunedì arriverà in Aula, il voto di ieri ha creato non poche tensioni all’interno del M5S. Di Maio si sfoga sui social, o almeno fa ammuina, come si direbbe dalle sue parti: “È una cosa gravissima, di cui anche la Lega dovrà rispondere davanti ai cittadini. Sono franco: dovrà spiegare perché ha appoggiato questa indecente proposta del Pd! Una radio privata che ospita giornalisti con stipendi da capogiro di anche 100 mila euro l’anno (notizia smentita dall’ad di Radio Radicale, Paolo Chiarelli, ndr). Tutti pagati con i vostri e i nostri soldi, da sempre. Dopo di che - rassicura il ministro del Lavoro - si va avanti, perché siamo persone serie”. Ma mentre Matteo Salvini la prende con filosofia - “Ho sempre detto che non si chiude una radio, un giornale, una televisione con un emendamento o un tratto di penna - dice ai microfoni di Radio Radicale, dimenticando evidentemente il manifesto - Chiariremo tutto anche in questo caso” - Vito Crimi non mostra altrettanto pragmatismo. “Prendo atto che la Lega ha votato insieme al Pd per regalare altri 7 milioni di euro a Radio Radicale (3 milioni nel 2019 e 4 nel 2020) che vanno ad aggiungersi ai milioni già spettanti nel 2019”, scrive il sottosegretario su Fb moltiplicando i finanziamenti e facendo conti che nessuno comprende. Neppure dalle sue parti, sembrerebbe, se è vero che, come riporta l’agenzia Dire, nelle chat tra i parlamentari pentastellati si festeggia quasi quanto in via Principe Amedeo: “Abbiamo finito di perdere tempo con questa baggianata di Radio Radicale che sembrava l’unico tema”, scrive qualcuno, per esempio. E le stelle (filanti) si moltiplicano. Diritti, libertà e servizi: viaggio nell’Italia della salute mentale di Clara Capponi Redattore Sociale, 14 giugno 2019 Dialogo con Gisella Trincas, presidente di Unasam, fra i promotori della conferenza nazionale in programma il 14 e il 15 giugno a Roma. Al centro della discussione l’appello elaborato alla fine di un percorso di 31 incontri regionali in un anno a cui hanno aderito più di 100 associazioni. Venerdì 14 e sabato 15 a Roma, si celebreranno le due giornate conclusive della Conferenza nazionale per la salute mentale, in programma alla facoltà di Economia dell’università Sapienza, che è partner di questa avventura. Giusto così si può definire un percorso lungo un anno, articolato in 31 incontri realizzati su tutto il territorio nazionale e che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone, tra operatori, organizzazioni sindacali, associazioni di famigliari, utenti di servizi e singoli cittadini. A promuoverlo, un cartello di 113 organizzazioni, fra cui CSVnet, che a Roma si confronteranno a partire dall’appello, realizzato sulla scorta di quanto emerso dai territori, e sulle tre parole chiave che compongono il titolo della conferenza “Diritti, libertà e servizi”. A raccontare senso ed obiettivi di questo percorso e di quello che accadrà a Roma, Gisella Trincas, presidente dell’unione nazionale delle associazioni per la salute mentale (Unasam). “Non si tratta della prima iniziativa di questo genere; la prima conferenza si tenne sempre a Roma nel 2001, a seguito di una grande manifestazione promossa dalle associazioni; all’epoca fu sostenuta dalla ministra della Salute e vide una forte presenza delle istituzioni; quella che di quest’anno non sarà una conferenza governativa, ma auto organizzata da tantissime associazioni, che in occasione dei 40 anni dalla legge 180 - che porta il nome di Franco Basaglia, lo psichiatra che l’ha ispirata - hanno deciso di mettere insieme forze e idee vista la grave situazione in cui versa non solo la salute mentale ma tutta la sanità pubblica, due temi scomparsi completamente dall’agenda politica”. “Abbiamo attraversato l’Italia in lungo e in largo incontrando cittadini, utenti, operatori dei servizi, e quello che emerso è un quadro che è fatto di tante criticità e difficoltà ma anche di ricchezza; il nostro obiettivo è di portare a casa risultati concreti su diversi obiettivi” spiega la presidente di Unasam. Il primo - che sarà anche oggetto di una delle sei sessioni tematiche in cui è articolato il denso programma della due giorni - “è quello di riportare il diritto alla salute mentale e pubblica al centro della politica nazionale e locale. Bisogna anche recuperare un dialogo con la conferenza delle regioni perché sono loro a dare concretezza alle leggi nazionali, ai piani strategici, alle convenzioni internazionali. I dipartimenti per la salute mentale presenti su tutto il territorio nazionale dovrebbero essere in egual modo forti di risorse economiche e professionali perché oggi la situazione in Italia è a macchia di leopardo - denuncia Trincas - e le persone che vivono un disturbo psichico non godono ancora in modo omogeneo di percorsi terapeutici e riabilitativi che possano farli uscire dalla condizione di sofferenza garantendo un pieno reinserimento sociale. “Occorre costruire servizi forti che siano in grado di rispondere alla complessità dei bisogni di queste persone nei loro contesti di vita; oggi invece la maggior parte dei fondi è destinata alla residenzialità così detta pesante, alle Rsa per intenderci, dove vengono mandati molti pazienti, spesso in regioni diverse rispetto alla loro residenza, lontano da loro casa e dagli affetti”. Sui servizi Trincas ha le idee chiare “tra le istanze contenute nell’appello e che proporremo al ministro della Salute Giulia Grillo - la cui presenza è prevista nel programma - c’è l’impegno concreto a ristabilire una rete capillare di dipartimenti di salute mentale in tutti i territori, attraverso un finanziamento che non può scendere al di sotto del 5 per cento della spesa sanitaria nazionale - mentre invece la media di spesa in Italia è del 3 per cento, a fronte del 12-15 per cento di risorse che si spendono in Europa”. “Siamo inoltre contrari, all’accorpamento - sempre a causa dei tagli alle risorse finanziarie- dei centri di salute mentale che invece dovrebbero avere un bacino di utenza ben definito e dovrebbero essere aperti non meno di 12 ore al giorno 7 giorni su 7, con l’obiettivo, nel lungo termine, di estendere l’apertura a 24 ore”. La situazione è critica anche per la realizzazione di quel sistema integrato di interventi sanitari e servizi sociali previsto dalla legge 328 del 2000 “che continua ad essere completamente disattesa”. “Vogliamo affrontare inoltre il tema delle cattive pratiche - prosegue Gisella Trincas -soprattutto quelle coercitive: la questione della contenzione, il trattamento sanitario obbligatorio (Tso), un atto che spesso viene trasformato nella ‘caccia al matto’. Per non parlare della farmacoterapia, una questione molto discussa nel nostro ambiente; noi vogliamo che le persone che vivono la condizione di sofferenza mentale siano riconosciute capaci di interloquire con l’equipe curante sugli espetti positivi o negativi degli interventi farmacologici, che in molti casi sono imposti senza possibilità di discussione”. Un ruolo da valorizzare soprattutto nella costruzione di politiche per la salute, è quello delle associazioni, dei famigliari, degli utenti e degli operatori, che devono poter dialogare con le istituzioni perché solo allargando al partecipazione democratica in questi processi si possono affrontare le situazioni, individuare i bisogni e porvi rimedio. Basterebbe attivare - spiega Trincas - la commissione tecnica che il ministero della Salute ha istituito di recente e che non ha ancora iniziato ad operare”. Le associazioni inoltre - conclude la presidente di Unasam - hanno un ruolo importante anche sui territori, perché agiscono da un punto di vista politico e culturale, organizzando iniziative di sensibilizzazione e informazione ma soprattutto realizzando progetti che in molti casi risultano più sostenibili ed efficaci dei servizi messi in campo dal pubblico. Mi riferisco alle esperienze di coabitazione fra persone con disturbo psichico, iniziative di formazione per i famigliari, utenti e operatori per non parlare delle attività di volontariato realizzate all’interno dei dipartimenti. Esperienze che dovrebbero essere sostenute sempre di più, sopratutto finanziariamente, sempre nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità al fine di evitare sovrapposizioni coni servizi pubblici, che devono mantenere la titolarità della gestione e delle verifiche”. Migranti. La Libia offre un porto. La Sea Watch: non è sicuro, lo dice l’Onu di Ilaria Solaini Avvenire, 14 giugno 2019 I legali annunciano querela per diffamazione contro il ministro. Erano a bordo di un gommone in difficoltà. Sono state portate a bordo della nave della Ong, nel rispetto del diritto internazionale. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini - a colpi di Tweet - ha affermato di aver chiesto alla nave Sea Watch 3, che mercoledì aveva soccorso 52 migranti in mare, di riportare tutte le persone a bordo della loro nave in Libia. “Se la nave illegale Ong disubbidirà, mettendo a rischio la vita degli immigrati, ne risponderà pienamente”, ha scritto Salvini su Twitter. Va precisato che l’attività della Sea Watch 3 non è “illegale” come dichiarato dal ministro: lo scorso primo giugno la nave stessa è stata dissequestrata dalla Procura di Agrigento e dunque ha potuto riprendere il mare. Inoltre i migranti a bordo della nave, secondo quanto riportato dal personale medico della Sea Watch, non sarebbero in pericolo di vita come affermato da Salvini. Alla luce di queste premesse e soltanto dopo i tweet del ministro italiano dell’Interno, nel primo pomeriggio la ong Sea Watch, che controlla la nave Sea Watch 3, ha mostrato prova di una mail, intercorsa con la cosiddetta Guardia costiera di Tripoli. Nella mail si legge l’offerta di Tripoli per un porto libico di approdo che continua a non essere e non avere le caratteristiche di un pos, place of safety come richiesto dalla Convenzione di Amburgo che regola i soccorsi in mare. Per questa ragione, nel comunicato, la Sea Watch ha fatto sapere che non intende: “riportare coattivamente le persone soccorse in un Paese in guerra, farle imprigionare e torturare” poiché si tratterebbe di “un crimine”. La motivazione della Ong? “Tripoli non è un porto sicuro” come documentato da numerose inchieste giornalistiche di Avvenire e di altre testate internazionali sugli abusi, le torture e le violenze commesse nei centri di detenzione libici dove vengono riportati i naufraghi, gli stessi da cui scappano. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato alla fine del 2018 e già acquisito dagli investigatori della Corte penale internazionale dell’Aja, le persone presenti nei centri di detenzione libici - a tutti gli effetti delle carceri di stato in cui vengono rinchiusi i migranti privi di documenti - sono ancora oggi sottoposti a “orrori inimmaginabili”. Va ricordato che l’Italia era già stata condannato nel 2012 dalla Corte europea per i diritti umani per un caso di respingimento avvenuto nel 2009 quando a sud di Lampedusa, delle navi militari italiane intercettarono delle imbarcazioni con a bordo circa 200 migranti di origine eritrea e somala, tra cui bambini e donne in gravidanza, e, senza ricorrere ad alcuna procedura di riconoscimento, le reindirizzarono verso il porto di Tripoli, consegnandole alle autorità libiche. L’avvenimento è la prova che la Libia non ha porti sicuri poiché è un Paese che non possiede una normativa in materia di diritto d’asilo, non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra e le cui condizioni carcerarie sono pessime e rischiose da più punti di vista per i detenuti. Al momento sembra che la nave Sea Watch abbia deciso di fare rotta verso Nord, in direzione Lampedusa. Nelle prossime ore resterà da vedere dove potranno approdare i 52 naufraghi soccorsi. I legali della Sea watch: querela a Salvini per diffamazione - I legali della Sea Watch, Alessandro Gamberini e Leonardo Marino, annunciano una querela per diffamazione nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Salvini. “A seguito del soccorso di 53 naufraghi da parte della Sea Watch 3 - spiegano gli avvocati - il ministro Salvini ha rilasciato, ancora una volta, innumerevoli dichiarazioni diffamatorie a mezzo stampa insultando la Ong e l’operato della sua nave; operato che si sostanzia, sempre, in legittima attività di soccorso e salvataggio. Occorre precisare che le autorità libiche non hanno dato alcuna indicazione alla nave della ong da noi rappresentata la quale ha rispettato la vigente normativa internazionale che, come oramai noto, vieta il trasbordo e lo sbarco in territorio libico”. “Il ministro - continuano Gamberini e Marino - sa bene che fare rientrare chi fugge da guerre, violenze e soprusi in un paese che non è qualificato come “porto sicuro”, in costante guerra civile, costituisce una gravissima violazione dei diritti umani, del diritto del mare e del diritto dei rifugiati”. Come si è svolta l’operazione di soccorso: in salvo 52 persone - Mercoledì “il nostro equipaggio ha concluso il soccorso di 52 persone da un gommone al largo della Libia, a circa 47 miglia di Zawiya. Alle 9.53, l’aereo di ricognizione Colibri aveva avvistato l’imbarcazione, informando le autorità competenti e la nave” aveva comunicato su Twitter la Ong tedesca Sea Watch. “La cosiddetta guardia costiera libica - si leggeva in un altro tweet - successivamente comunicava di aver assunto il coordinamento del caso. Giunti sulla scena, priva di alcun assetto di soccorso, abbiamo proceduto al salvataggio come il diritto internazionale impone. I naufraghi sono ora a bordo della Sea Watch”. La nave Sea Watch, fa sapere la Ong in serata sempre via Twitter, “resta in attesa di indicazione di un porto sicuro, con richiesta inviata a Libia, Olanda, Malata, Italia. Una motovedetta libica, con mitragliatrice a prua, è sopraggiunta a trasbordo ormai concluso e ha stabilito contatto radio senza fornire indicazioni. Ha poi lasciato l’area”. Se la Sea Watch 3 farà rotta verso l’Italia sono pronti “i nuovi strumenti del decreto sicurezza bis, per impedire l’accesso alle nostre acque territoriali”. Lo dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini, sottolineando che l’imbarcazione della Ong tedesca “è una vera e propria nave pirata a cui qualcuno consente di violare ripetutamente la legge”. 1.151 morti in un anno. La denuncia delle Ong - Ad un anno dall’annuncio del governo italiano di chiudere i propri porti alle navi umanitarie almeno 1.151 persone, uomini, donne e bambini, sono morte, e oltre 10.000 sono state riportate forzatamente in Libia, esposte ad ulteriori ed inutili sofferenze. Lo scrivono Sos Mediterranee e Medici senza frontiere che chiedono di garantire con urgenza un sistema di ricerca e soccorso in mare adeguato, “compreso un coordinamento delle autorità competenti nel Mar Mediterraneo, per evitare morti inutili”. “La risposta dei governi europei alla crisi umanitaria nel Mar Mediterraneo e in Libia è stata una corsa al ribasso” sostiene Annemarie Loof, responsabile per le operazioni di MSF. “Un anno fa abbiamo implorato i governi europei di mettere al primo posto la vita delle persone. Abbiamo chiesto un intervento per mettere fine alla disumanizzazione delle persone vulnerabili in mare per finalità politiche. Invece, ad un anno di distanza, la risposta europea ha raggiunto un punto ancora più basso”. Da quando è stato bloccato l’ingresso nei porti italiani alla nave di ricerca e soccorso Aquarius, gestita da Sos Mediterranee in collaborazione con Msf, esattamente un anno fa, “lo stallo è diventato la nuova regola nel Mar Mediterraneo centrale, con oltre 18 incidenti documentati”, fanno sapere le due organizzazioni. Questi blocchi si sono protratti per un totale di 140 giorni, ovvero più di 4 mesi in cui 2.443 uomini, “donne e bambini sono rimasti trattenuti in mare mentre i leader europei decidevano il loro futuro. La criminalizzazione del salvataggio di vite in mare non solo porta conseguenze negative per le navi umanitarie, ma sta erodendo il principio fondamentale del prestare assistenza alle persone che si trovano in pericolo. Le navi commerciali, e addirittura quelle militari, sono sempre più riluttanti nel soccorrere le persone in pericolo a causa dell’alto rischio di essere bloccate in mare e di vedersi negato lo sbarco in un porto sicuro. Per le navi mercantili che effettuano un salvataggio, in particolare, diventa estremamente complicato rimanere bloccati o essere costretti a dover riportare le persone in Libia, in contrasto con il diritto internazionale”. Solo nelle ultime 6 settimane, un numero crescente di persone ha cercato di fuggire dalla Libia, con oltre 3.800 persone che sono salite a bordo di imbarcazioni insicure per tentare l’attraversata. Anche se l’Unhcr e altre organizzazioni come Msf hanno chiesto un’evacuazione umanitaria di rifugiati e i migranti dalla Libia dall’inizio del conflitto a Tripoli, la realtà, dicono le organizzazioni umanitarie, è che per ciascuna persona che viene evacuata o trasferita nel 2018, più del doppio viene riportato forzatamente in Libia dalla Guardia costiera libica. “L’assenza di navi umanitarie nel Mediterraneo centrale in questo periodo mostra l’infondatezza dell’esistenza di un fattore di attrazione - dichiara Frédéric Penard, direttore delle operazioni di Sos Mediterranee - la realtà è che anche con un numero sempre minore di navi umanitarie in mare, le persone con poche alternative continueranno a provare questa attraversata mortale a prescindere dai rischi. L’unica differenza, ora, è che queste persone corrono un rischio quattro volte maggiore di morire rispetto all’anno scorso, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni”. Emergenza in mare anche tra Marocco e Spagna - E la Guardia costiera spagnola è alla ricerca di due imbarcazioni a bordo delle quali si trovano, complessivamente, 111 migranti. “Una viaggia con 53 persone a bordo, l’altra con 58, tutte di origine sub-sahariana”, ha detto un portavoce. L’allarme era stato lanciato dall’ong Walking Borders, ma le condizioni meteorologiche non buone hanno ostacolato l’individuazione delle imbarcazioni, che si troverebbero nell’area di mare tra Spagna e Marocco. Dall’inizio dell’anno almeno 8.056 migranti sono arrivati via mare in Spagna, a bordo di 286 imbarcazioni, secondo un rapporto del 2 giugno scorso del ministero dell’Interno spagnolo (6,6% in meno rispetto al 2018 nello stesso periodo). Stati Uniti. Polizia uccide un 20enne afroamericano, proteste e guerriglia urbana a Memphis La Repubblica, 14 giugno 2019 Secondo la versione della polizia, il giovane era ricercato e stava cercando di scappare, armato. Ma i familiari e alcuni testimoni contestano la ricostruzione degli agenti. Il cugino: “Gli hanno sparato 20 colpi”. Negli scontri nella notte sono rimasti feriti 25 agenti e tre giornalisti. Aperta un’indagine. Notte di tensione e scontri a Memphis, nello stato del Tennessee, dopo che un agente della task force regionale dei Marshals, un’agenzia federale di polizia penitenziaria, ha ucciso un ragazzo afroamericano, Brandon Webber, 20 anni, in un quartiere operaio della città, Frayser. L’uomo, scrive il quotidiano locale Daily Memphian, sarebbe stato raggiunto da venti colpi d’arma da fuoco, secondo quanto hanno raccontato il cugino della vittima e alcuni testimoni, ma la ricostruzione della vicenda viene contestata dalla polizia. Stando a quanto riportato da Reuters, poco prima della sparatoria mortale, Webber avrebbe pubblicato un video su Facebook Live mentre si trovava in automobile. Dopo aver avvistato una volante della polizia nei paraggi, il giovane si sarebbe rivolto alla camera avvisando: “Have to kill me” (“Devono uccidermi”). Il video sembra sia stato poi rimosso dalla sua pagina Facebook. L’assassinio ha scatenato le proteste dei cittadini che si sono radunati nella notte tra mercoledì e giovedì e hanno lanciato pietre e mattoni contro le forze dell’ordine: al momento il bilancio è di 25 agenti e due giornalisti feriti e tre persone arrestate. Notte di tensione e scontri a Memphis, nello stato del Tennessee, dopo che un agente della task force regionale dei Marshals, un’agenzia federale di polizia penitenziaria, ha ucciso un ragazzo afroamericano, Brandon Webber, 20 anni, in un quartiere operaio della città, Frayser. L’uomo, scrive il quotidiano locale Daily Memphian, sarebbe stato raggiunto da venti colpi d’arma da fuoco, secondo quanto hanno raccontato il cugino della vittima e alcuni testimoni, ma la ricostruzione della vicenda viene contestata dalla polizia. Stando a quanto riportato da Reuters, poco prima della sparatoria mortale, Webber avrebbe pubblicato un video su Facebook Live mentre si trovava in automobile. Dopo aver avvistato una volante della polizia nei paraggi, il giovane si sarebbe rivolto alla camera avvisando: “Have to kill me” (“Devono uccidermi”). Il video sembra sia stato poi rimosso dalla sua pagina Facebook. L’assassinio ha scatenato le proteste dei cittadini che si sono radunati nella notte tra mercoledì e giovedì e hanno lanciato pietre e mattoni contro le forze dell’ordine: al momento il bilancio è di 25 agenti e due giornalisti feriti e tre persone arrestate. La portavoce del Tennessee Bureau of Investigation Keli McAlister ha detto che la Gulf Coast Regional Fugitive Task Force dei Marshals era andata in una casa di Frayser per cercare un sospettato con diversi mandati di cattura a suo carico. Gli agenti hanno visto un uomo entrare in un’auto e poi uscirne armato rivolgendosi minacciosamente contro le auto dei federali. A quel punto hanno aperto il fuoco. McAlister non ha spiegato quanti agenti hanno sparato o quanti colpi. La polizia, intanto, ha aperto un’indagine sulla morte del giovane per “conoscere le circostanze in cui è avvenuta la sparatoria che ha coinvolto gli agenti”, ha fatto sapere il Tennessee Bureau of Investigation. Stati Uniti. Sentenza in California: “Sì alla marijuana in cella per i detenuti” Avvenire, 14 giugno 2019 I detenuti della California possono possedere una modica quantità di cannabis anche in cella. È questa la sentenza che sta facendo discutere di una Corte d’appello di Sacramento che ha rovesciato le condanne di cinque detenuti che erano stati trovati in possesso di marijuana, facendo riferimento al referendum del 2016 in cui si è legalizzato il possesso di cannabis per tutti i californiani, anche per quelli che sono in prigione. Nella sua sentenza il presidente della Corte d’appello del terzo distretto, Vance W. Raye, ha infatti ricordato che il codice penale californiano criminalizza il consumo di cannabis per i detenuti, ma non affronta la questione del possesso. Quindi, secondo il giudice, le prigioni hanno la possibilità di regolare il possesso di cannabis, come fa con sigarette ed alcol, ma i detenuti non rischiano allungamenti della pena se scoperti. Immediata la replica del dipartimento carcerario dello Stato che ricorda che “mentre è ancora in corso la revisione della decisione della corte, vogliamo chiarire che l’uso e la vendita di droga nelle prigioni dello Stato rimane proibito”. Mentre l’ufficio dell’attorney general della California sta valutando se ricorrere alla Corte Suprema contro la sentenza che di fatto potrebbe legalizzare l’uso della cannabis nelle prigioni statali.