Se scade il permesso di soggiorno il detenuto rischia la clandestinità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 giugno 2019 “Come si può parlare di reinserimento quando a noi, durante la detenzione, scade il permesso di soggiorno e, una volta usciti, finiamo nella clandestinità?”. È una delle tante domande che i detenuti pongono ai giudici della Consulta nel film di Fabio Cavalli sul “Viaggio nelle carceri della Corte Costituzionale”. Ed è un problema reale. La difficoltà di rinnovare il permesso di soggiorno durante il periodo di detenzione, è uno dei tanti ostacoli che si trovano di fronte i detenuti immigrati. Anche se le modifiche normative degli ultimi anni rendono più flessibile la legge (prima di un’espulsione si considerano diversi fattori) resta il fatto che uscito dal carcere il migrante può trovarsi privo di ogni tutela. Per questo motivo occorre, da una parte, consentire al cittadino straniero titolare di permesso di soggiorno di poter richiedere il rinnovo del suo documento proprio durante il trattenimento nell’istituto penitenziario, ma soprattutto bisogna metterlo nelle condizioni di venire a conoscenza dei propri diritti e doveri rispetto alle procedure amministrative relative alla propria condizione giuridica di migrante in Italia. Il permesso di soggiorno, ricordiamo, è un documento che viene rilasciato, a seguito di un procedimento amministrativo, dalla Questura competente per territorio che valuta la sussistenza dei requisiti che consentono allo straniero la sua regolare permanenza sul suolo italiano. La durata della validità è variabile e dipende dalle ragioni per le quali è concesso (turismo, lavoro, studio etc) che, a loro volta, riprendono quelle indicate nel visto d’ingresso. I permessi di soggiorno hanno per lo più una durata predeterminata dalla legge che va dai tre mesi per motivi di turismo, ai due anni concessi per ragioni di lavoro. In alcuni casi, tuttavia, non è previsto un termine di durata massima, poiché questa dipende dalla permanenza delle peculiari circostanze in costanza delle quali il permesso stesso è stato concesso, si pensi per esempio alla durata delle cure sanitarie o alla eventuale cessazione delle condizioni per le quali è stato concesso l’asilo umanitario. Una volta concesso, il permesso è rinnovabile inoltrando la domanda alla Questura, entro i termini previsti dalla legge. Ma cosa succede quando l’immigrato si ritrova in carcere? Se non gli è concesso il rinnovo durante la detenzione, questo, entrato in carcere regolare, ne uscirà da irregolare con il conseguente rischio di passare dalla detenzione penale (il carcere) a quella amministrativa (il centro di permanenza per il rimpatrio). Ma se riesce a non farsi scovare, rimane comunque un clandestino e si trova a non poter beneficiare di tutta una serie di possibilità che gli consenta il recupero: basti pensare che alcune strutture, quali comunità di recupero per tossicodipendenti, case d’accoglienza o addirittura Sert, non accettano detenuti extracomunitari privi del permesso di soggiorno. In passato il rinnovo dentro il carcere era più facile, perché avveniva attraverso l’opera degli educatori e degli agenti dell’ufficio matricola del carcere: successivamente questa pratica è stata di fatto inibita, rendendo quindi tutto più difficile. Il detenuto deve affrontare tutto ciò da solo, soprattutto con il numero ridotto di mediatori culturali e altre figure importanti per garantire i diritti dei soggetti più vulnerabili. Teatro in carcere: firmato il nuovo protocollo di Teresa Valiani Redattore Sociale, 13 giugno 2019 In continua ascesa il numero degli eventi, degli istituti di pena e delle regioni italiane che ogni anno partecipano alla Giornata nazionale. Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale: “Un lavoro importante che va salvaguardato”. È stato firmato nei giorni scorsi, nella sede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il nuovo protocollo d’intesa sulle attività teatrali in carcere tra ministero della Giustizia - Dap, Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Coordinamento nazionale teatro in carcere e Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo. Dal monitoraggio effettuato nel corso del 2018 dalla Direzione generale detenuti e trattamento, sono stati registrati nelle carceri italiane 146 laboratori teatrali, mentre presso 70 istituti l’esperienza dei palcoscenici rinchiusi è stata affiancata da altre attività di supporto da parte degli operatori del trattamento. In 132 casi gli operatori hanno segnalato che l’esperienza del laboratorio teatrale ha inciso positivamente sul “clima” generale dell’Istituto. Mentre resta il segno positivo nel bilancio delle attività messe in scena in occasione della sesta Giornata nazionale del teatro in carcere che quest’anno ha visto nella casa circondariale di Villa Fastiggi, a Pesaro, lo svolgimento della cerimonia inaugurale della 57ma Giornata mondiale del Teatro promossa dall’Iti-Unesco. Sono 103 gli eventi registrati dalla Giornata nazionale, che hanno coinvolto 64 istituti penitenziari (lo scorso anno erano 58) e 16 Regioni italiane, con la partecipazione di altre 66 istituzioni tra università, scuole, Uffici di esecuzione penale esterna, teatri, enti locali. “Dai dati raccolti - spiega il presidente del Coordinamento nazionale, Vito Minoia - appare evidente che il Teatro in carcere rappresenta una pratica educativo/formativa non tradizionale che aiuta la riscoperta delle capacità e delle sensibilità personali ma anche una modalità di espressione positiva di emozioni negative, aspetto quest’ultimo particolarmente importante nelle situazioni di detenzione, dove i processi emotivi e relazionali risultano fortemente influenzati dalle caratteristiche del contesto”. Le iniziative che si sono svolte dal 2015 (data della firma del primo protocollo) ad oggi sono state sostenute anche dal Ministero dei Beni e Attività Culturali (Mibac - Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo), nell’ambito del Progetto Nazionale di Teatro in Carcere “Destini Incrociati”. “Il Coordinamento nazionale teatro in carcere - si legge nel protocollo - ha manifestato il proprio interesse a collaborare, senza alcun onere a carico del Dap e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, all’attività di studio e ricerca e ha promosso azioni di supporto alle attività teatrali in carcere, negli Istituti per i Minorenni e nell’ambito dei progetti rivolti ai minori e ai giovani adulti dell’area penale esterna, con l’obiettivo di promuovere, sensibilizzare e realizzare interventi di socializzazione di tipo culturale, arricchendo i processi di conoscenza delle persone detenute e di quelle sottoposte ai provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile nell’ambito della socialità, della formazione, dell’educazione e della cultura”. “Nella continuità del rapporto istituito dal 2013 con il Dap e avviato dal 2014 con l’Università RomaTre e dal 2017 con il Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - conclude Vito Minoia -rilanciamo per i prossimi tre anni un’intesa forte e consapevole: quella degli operatori del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e dei rappresentanti istituzionali che fortemente credono nella forza emancipativa della cultura per la realizzazione della persona. Sono sempre più convinto che il teatro, e in particolare il teatro in carcere, costituisca un valore per la democrazia e la libertà delle coscienze degli uomini, a qualsiasi comunità appartengano. Stiamo sviluppando un lavoro importante e necessario che va salvaguardato nei suoi esiti positivi (in Italia sono ormai una ventina le esperienze-guida attive da oltre due decenni con poetiche ed esiti scenici differenziati) e promosso ulteriormente a livello nazionale e internazionale”. Comunicato stampa (teatroaenigma.it) Ancora uno storico accordo è stato siglato tra il Ministero della Giustizia, rappresentato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento per la giustizia Minorile e di Comunità, il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e l’Università Roma Tre. Una cerimonia breve e ricca di significato quella che si è tenuta a Roma il 5 giugno 2019 presso la sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in Largo Luigi Daga 2. A sottoscrivere lo storico accordo Francesco Basentini - Presidente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Gemma Tuccillo - Presidente del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Vito Minoia - Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, Roberto Morozzo Della Rocca - Direttore del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre. Sulla base dell’intesa già strutturata con un primo accordo sottoscritto nel 2013, poi rinnovato per un secondo triennio nel 2016 e con l’adesione del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità nel 2017, il nuovo documento impegna le istituzioni firmatarie a continuare a promuovere le diverse attività avviate nel tempo (Giornata Nazionale del Teatro in Carcere in concomitanza con la Giornata Mondiale del Teatro, Progetto e Rassegna/Festival Nazionale di teatro in carcere “Destini Incrociati” sostenuto anche dal Ministero dei Beni e Attività Culturali, iniziative di studio, ricerca e formazione, anche a favore del personale penitenziario) e ad approfondire il lavoro di promozione e sviluppo del teatro in carcere a livello nazionale. Come cita in premessa il Protocollo: “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità intendono sostenere e valorizzare le già numerose esperienze teatrali presenti negli istituti penitenziari e proposte ai minori e giovani adulti in carico ai Servizi Minorili, a conferma dello specifico valore - in ambito trattamentale - delle iniziative di natura artistico/espressiva e della pratica teatrale in particolare, che rappresentano un valido e significativo strumento per incentivare la possibilità di conoscere e sperimentare modelli comportamentali alternativi fondati sulla dimensione fisico - emozionale, in grado di valorizzare l’unicità dell’ individuo, di promuovere una rimodulazione dei ruoli e una diversa consapevolezza di se stessi e delle proprie emozioni, anche in relazione al gruppo e nei confronti della Comunità esterna, a sostegno di un processo di integrazione sociale e di inserimento lavorativo”. E ancora: “Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere ha manifestato il proprio interesse a collaborare, senza alcun onere a carico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, all’attività di studio e ricerca” - anche in stretta relazione con l’Università degli studi Roma Tre - “ed ha promosso azioni di supporto alle attività teatrali in carcere, presso gli Istituti Penali per i Minorenni e nell’ambito delle progettualità rivolte ai minori e ai giovani adulti dell’area penale esterna, con l’obiettivo di promuovere, sensibilizzare e realizzare interventi di socializzazione di tipo culturale, arricchendo i processi di conoscenza delle persone detenute e di quelle sottoposte ai provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile nell’ambito della socialità, della formazione, dell’educazione e della cultura”. Il Protocollo si sviluppa in una serie di 6 articoli. I primi 4 prevedono in successione gli impegni che ciascuna parte firmataria fa propri in un ottica di lavoro collegiale. Nell’articolo 5 si ripropongono alcune azioni comuni significative al fine di avviare la massima diffusione dei contenuti del Protocollo unitamente a possibili sperimentazioni da individuare, di favorire e incentivare collaborazioni territoriali, di promuovere percorsi di sensibilizzazione congiunta che coinvolgano anche altre istituzioni, di avviare uno studio/ricerca per la realizzazione di un progetto relativo ad una Scuola di Formazione Professionale di Arti e Mestieri connessi all’ambiente teatrale, considerando le esigenze specifiche dell’utenza adulta e minorile in esecuzione penale esterna. Il sesto articolo del Protocollo, infine, indica le modalità di gestione e coordinamento dell’Intesa, prevedendo la costituzione di un Comitato paritetico, composto da referenti di tutte le parti firmatarie, che curerà la programmazione di azioni a carattere nazionale e il coordinamento e il monitoraggio di quelle a carattere territoriale previste. Significative le parole di apprezzamento del Presidente Basentini per l’efficacia delle iniziative intraprese (un monitoraggio effettuato nel corso del 2018 da parte della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del DAP ha segnalato come nella quasi totalità dei 146 laboratori attivati, l’esperienza abbia inciso positivamente sul “clima” generale degli istituti penitenziari coinvolti), sia dal Presidente Tuccillo che ha sottolineato come sia ancora più importante l’investimento culturale e formativo sui minorenni. Il Prof. Morozzo Della Rocca ha confermato l’impegno assunto dalla propria università che si sta altamente specializzando nel seguire le varie iniziative promosse. Il Presidente Minoia, ha sottolineato gli aspetti che hanno consentito negli ultimi anni di ricevere apprezzamenti ed il riconoscimento di “buona pratica” in ambito internazionale per il lavoro del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere (il 26 marzo scorso le più alte cariche dell’Istituto Internazionale del Teatro dell’UNESCO hanno voluto celebrare in Italia, nella Casa Circondariale di Pesaro, la Giornata Mondiale del Teatro anziché farlo nel proprio quartier generale di Parigi come di consueto). Minoia ha poi annunciato la nascita a novembre 2019 del Network Internazionale di Teatro in Carcere nel corso del XX Convegno internazionale promosso dalle Riviste “CATARSI, Teatri delle diversità” e “CERCARE, carcere anagramma di”. Ha poi introdotto una delegazione del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere che ha fornito informazioni sintetiche sulle significative iniziative più recenti e su quelle in cantiere nei prossimi mesi, aggiornando gli alti funzionari presenti, i quali hanno apprezzato ulteriormente il lavoro in essere. In particolare sono intervenuti: Claudio Collovà - Regista, autore di esperienze di riferimento nell’area penale minorile (con la sua regia è andato in scena il 16 e 17 maggio 2019 al Teatro Biondo di Palermo Il Piccolo Amleto con i ragazzi seguiti dall’USSM e dal Centro di Giustizia Minorile del capoluogo siciliano); Valeria Ottolenghi - Critico teatrale e membro della Direzione artistica della Rassegna nazionale itinerante di teatro in carcere “Destini Incrociati” giunta a dicembre 2018 a Firenze e Lastra a Signa alla sua quinta edizione; Michalis Traitsis - Regista, Direttore artistico del progetto “Passi sospesi” nella Casa di Reclusione femminile della Giudecca a Venezia, che ha rappresentato ad Hainan in Cina a novembre scorso il CNTiC in un convegno di studi per celebrare i 70 anni dell’ITI Unesco; Grazia Isoardi - Regista, Direttrice artistica della Compagnia Voci Erranti nella Casa di Reclusione di Saluzzo/Cuneo, dove si terrà dal 12 al 14 dicembre 2019 la Sesta edizione della Rassegna Nazionale “Destini Incrociati”; Valentina Venturini - docente di Storia del teatro e dello spettacolo all’Università RomaTre, dove sarà ospitata nell’autunno 2020 la Settima edizione di “Destini incrociati” a conclusione di un progetto triennale sostenuto dal Ministero dei Beni e Attività Culturali. Per il DAP hanno partecipato all’incontro anche la Dott.ssa Immacolata Cecconi -Direttore dell’Ufficio II Trattamento e lavoro penitenziario - Direzione Generale Detenuti e Trattamento e la Dott.ssa Marzia Fratini - Funzionario della Direzione Generale Detenuti e Trattamento. La legittima difesa va bene, l’illegittima offesa no di Filippo Facci Libero, 13 giugno 2019 Avete presente “Rashomon”, il celebre film di Akira Kurosawa? No? Fa niente, è un film dove ogni protagonista racconta lo stesso omicidio in maniera diversa. Ma a Pavone Canavese, vicino a Ivrea, i protagonisti sono solo due: il tabaccaio Iachi Bonvin e il moldavo Ion Stavila che lo stava rapinando, ma che poi è morto perché Bonvin gli ha sparato. Come in “Rashomon”, gli scenari sono contrastanti, ma delimitano la differenza tra un legittimo esercizio della legittima difesa (come da nuova legge) e un eccesso di legittima difesa (che è un vecchio reato). Bonvin l’ha messa in un certo modo, le prime risultanze della polizia scientifica (autopsia del moldavo, perizia del medico) la stanno mettendo in un altro. Scenario 1. In via Torino c’è il bar tabacchi “Wmner Point” che è incastonato in una villetta che appartiene a Bonvin e familiari, che da anni gestiscono l’esercizio. Lui abita al piano di sopra, e la villetta ha un cancello che introduce nel cortile della proprietà e dove c’è l’ingresso dal retro della tabaccheria. C’è una telecamera (c’erano già stati sette complessivi furti o tentativi di furto) ma nel caso non funzionerà. I tre ladri arrivano con un furgone bianco, forzano i vari ingressi e cercano di caricare un cambiamonete con dentro 2.000 euro: questo con un palanchino, che è un grosso piede di porco che può essere un’arma, ma, ovviamente, solo a distanza ravvicinata. Bonvin sente i rumori degli scassi, si sveglia e con lui i familiari (moglie e due figli) e poi, dopo aver visto la scena dal terrazzo, prende la sua 357 Magnum a tamburo e scende nel cortile dove ci sono i tre ladri incappucciati. Qui, tra urla e minacce, c’è una colluttazione (rissa, zuffa) e Bonvin a un certo punto spara, più volte, forse cinque: e colpisce al petto uno dei tre, che dopo qualche metro crolla a terra. Gli altri due scappano. Tutto questo avviene all’interno della sua proprietà. Il moldavo non stava scappando, tanto che è stato preso al petto, era di fronte. Più tardi, in commissariato e poi in procura, Bonvin decide di avvalersi della facoltà di non rispondere. Il procuratore Capo lo definisce “una persona pacata che vive in una famiglia normale”. La polizia scientifica trova in casa altre armi, ma sono tutte regolarmente denunciate come quella usata. Scenario 2. Tutta là prima parte del racconto combacia con la precedente: almeno sin quando Bonvin, dal terrazzo, si accorge dei ladri in cortile. A partire da qui, l’autopsia fatta martedì ipotizza una dinamica che non combacia con il racconto del tabaccaio. Il medico legale dice che il moldavo è stato ucciso da un proiettile che gli ha trapassato il cuore, ma sostiene che possa esser stato sparato dall’alto, dal balcone della casa: non nel cortile come aveva detto Bonvin. Ci sarebbero anche delle conferme da parte dei vicini di casa, ma è solo un’indiscrezione. In questo caso, comunque, sarebbe diverso. Perché significherebbe che non ci sarebbe stata nessuna colluttazione, ma solo un tirassegno dall’alto contro soggetti privi di armi da fuoco. Per averne maggior certezza servirà una perizia balistica sul proiettile che ha colpito il moldavo, col dettaglio che sinora non è stato trovato. Il cuore è stato raggiunto nel lato destro e c’è un foro di entrata e uno di uscita, ma stabilire quale sia uno e quale sia l’altro non è per niente facile. Sarà importante anche capire se il moldavo sia stato colpito laddove è stato fisicamente ritrovato (fuori dalla proprietà, sul marciapiede) o se abbia fatto qualche passo prima di crollare. Scenario 3: Il terzo scenario siamo noi, propensi come siamo - tutti - a giudicare un po’ troppo frettolosamente. Dapprima, complici alcuni commenti dei magistrati, sembrava una storia relativamente semplice che si specchiava nella riforma della legittima difesa, secondo la quale non può essere colpevole (di eccesso di legittima difesa) chi si sia difeso da un’aggressione nella sua proprietà; la riforma inoltre introduce, come esimente, un grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo. Una proporzionalità fra il danno subito e quello procurato, però, deve ancora esserci: e sparare a un ladro in fuga non ne fa parte. Insomma, schierarsi con il Bonvin del primo scenario appare plausibile, difendere a oltranza il Bonvin del secondo scenario pare improponibile: anche se, nonostante le indagini appaiano piuttosto complesse, e possano fare la differenza, molti sembrano aver già deciso. Che la famiglia si schieri con lui, lo diamo per scontato. E, così pure, pare comprensibile la difesa calorosa degli operai della fabbrica di fronte alla tabaccheria, assieme alle sfilate di sindaci e solidali vari. Poi, però, martedì, quando i primi rilievi già suggerivano prudenza, la fiaccolata in paese con i cartelli “Siamo tutti Iachi” cominciava a stonare. Erano in mille, che da quelle parti sono molti, e c’era anche il sindaco di Ivrea. Serpeggiava una certa confusione: come se la legittima difesa servisse a difendere la proprietà privata e non - come è vero - la propria vita. Quell’Italia “feudale” che emerge dalle inchieste di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 13 giugno 2019 I casi di corruzione che da settimane occupano le prime pagine dei giornali ci dicono qualcosa di importante sul Paese, sulla sua identità e la sua storia. Le inchieste per corruzione che da settimane occupano le prime pagine dei giornali ci dicono qualcosa di importante sul nostro Paese, sulla sua identità e la sua storia. Qualcosa che avvicina fatti pur diversi come lo scandalo che ha colpito i vertici Pd della Regione Umbria, l’inchiesta milanese che ha coinvolto l’imprenditore D’Alfonso e il vice coordinatore regionale di FI, quella della Dda di Palermo che ha appena portato all’arresto di Paolo Arata, la stessa indagine che riguarda l’ex presidente dell’Anm Palamara. Al di là della specificità di ogni caso giudiziario, per il quale le responsabilità andranno accertate dalla magistratura, nelle vicende citate emerge la presenza determinante di reti clientelari e rapporti di fedeltà personale che vengono prima dei propri compiti istituzionali. Non a caso, nella recente inchiesta milanese, la procura si è esplicitamente riferita a un “sistema feudale” per definire degli illeciti che si collocano dentro una struttura di relazioni organizzata in sostanza secondo il principio del vassallaggio. Appunto, come nella società feudale. Un tale riferimento va forse considerato come qualcosa di più che una semplice metafora. Tralasciando gli eventuali aspetti penali, gli incontri tra Palamara, alcuni membri del Csm e due politici del Pd, finalizzati secondo l’accusa a pilotare le nomine ai vertici di alcune procure, sembrano indicare la presenza di una rete fatta di relazioni personali e d’interesse che prescindono dal ruolo istituzionale (e dai relativi obblighi) di ciascuno. Come, se le accuse si dimostreranno fondate, ne prescindevano i funzionari regionali siciliani accusati di rispondere a Nicastri e Arata, favorendoli nelle autorizzazioni per l’eolico e il bio-metano. Caratteri ancora più esplicitamente feudali presenta lo scandalo che ha coinvolto la sanità umbra, dove emergono chiare relazioni di vassallaggio. Relazioni che si manifestano con palmare evidenza in quei passaggi di foglietti con le domande da porre a un concorso o i nomi delle persone da assumere per obbedire al volere del proprio “signore”, che abbiamo visto ripresi nei video degli investigatori. In sostanza, certe inchieste giudiziarie mostrano indirettamente l’immagine di un’Italia in cui - al di là delle regole, delle leggi, delle funzioni istituzionalmente stabilite - parti importanti della presenza pubblica sono regolate da relazioni personali-clientelari. Relazioni che in altri Paesi non è che siano assenti ma hanno generalmente un peso inferiore, non altrettanto capillare. Oltre vent’anni fa, un disincantato osservatore come il filosofo Lucio Colletti scriveva su questo giornale che “l’Italia da tempo non è più uno Stato effettivo o reale, ma solo un’entità statuale apparente”. In effetti, nel nostro Paese, alla presenza di reti di fedeltà e obbedienza di tipo feudale corrisponde uno Stato spesso debole o evanescente, almeno in due ambiti che furono decisivi nella costituzione dei moderni Stati europei. Il primo riguarda il monopolio dell’uso legittimo della forza, a cui in Italia si sottraggono non soltanto - come sempre si ricorda - aree importanti del Mezzogiorno controllate dalla criminalità organizzata. Non meno rilevante è che quel monopolio della forza, inteso come repressione dei comportamenti illegali, non riesca a esercitarsi pienamente neppure in luoghi che non soffrono di una altrettanto massiccia presenza di organizzazioni criminali. Pensiamo alle decine di migliaia di abitazioni occupate abusivamente (e generalmente con la violenza) in alcune grandi città. Oppure alla zona attorno alla centralissima stazione Termini di Roma, regolarmente pattugliata dalle forze dell’ordine che denunciano affittacamere abusivi, comminano il Daspo urbano o il foglio di via, infliggono multe salatissime. Ma il giorno dopo si ritrovano spesso di fronte alle stesse persone che di quei Daspo, di quelle denunce, di quelle multe semplicemente se ne infischiano. La debolezza dello Stato si manifesta anche in un secondo ambito, non meno decisivo nella formazione in età moderna delle grandi compagini statuali europee: il fisco. Anche qui gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, con i livelli altissimi dell’evasione sia delle imposte sui redditi sia di quelle locali (in alcune zone del Paese l’evasione della Tari - riferiva Fubini sul Corriere del 6 maggio - sfiora il 60%). A tutto questo, cioè alla debolezza dello Stato e alla corrispondente resistenza di un “sistema feudale”, i partiti sembrano per nulla interessati. Se ne comprende la ragione. Tramontate da tempo le ideologie novecentesche, rivelatesi confusissime se non pericolose quelle nuove - tipo la democrazia diretta attraverso la piattaforma Rousseau-Casaleggio - a tenerli in piedi sono rimaste soprattutto le reti di fedeltà, vassallaggio e ubbidienza personale. Non necessariamente con profili penali, ma certamente con caratteri che anche in questo caso non è improprio definire feudali. Le verità (scomode) sul Sud di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 13 giugno 2019 L’Italia deve decidere una volta per tutte che cosa vuole fare del Meridione, perché forse non ha davvero capito che cosa significa abbandonarlo a se stesso. È doveroso ma anche troppo facile scandalizzarsi di quanto in uno studio televisivo Rai è uscito dalla bocca di due giovani “neomelodici”, alias cantanti meridionali di vastissimo successo specializzati in moderne canzoni di malavita. I quali, come si sa, in perfetta coerenza con i testi delle loro canzoni, in cui si esaltano uomini e gesta della delinquenza spesso sconfinando nella vera e propria apologia di reato, se ne sono usciti con espressioni di sostanziale dileggio nei confronti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. “Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita sanno le conseguenze - ha sentenziato uno dei due teppisti canori - come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro”. Una volta conosciute, simili parole - a quel che pare debolmente redarguite dal conduttore della trasmissione - hanno suscitato l’abituale indignazione stentorea dell’Italia ufficiale. Con l’inevitabile corredo di rampogne alla Rai, scuse, promesse di essere più “attenti” in futuro, annuncio di eventuali sanzioni e così via seguitando con l’aria fritta di sempre. Nessuno però si è fatto la domanda più ovvia: come mai “Scarface” e “Tritolo” (questi i leggiadri soprannomi dei due “neomelodici”) hanno in tutto il Mezzogiorno il successo strepitoso che hanno? E dunque che razza di società è quella dove accade una cosa simile, dove si festeggiano nozze, battesimi e santi patroni inneggiando alle rivoltellate, agli uomini d’onore e ai morti ammazzati? La risposta la conosciamo: è la società del Sud attuale. La società della disgregazione e dell’abbandono, dove lo sperpero e la malversazione aggravano l’ormai congenita inadeguatezza delle risorse. È la società delle opere pubbliche lasciate a metà, della frequenza scolastica massicciamente elusa, dell’industrializzazione troppo spesso fallita, delle amministrazioni locali in mano all’incapacità o al malaffare, dell’umiliante anabasi sanitaria al nord, dei centri urbani sconvolti e delle periferie invivibili, del voto di scambio, del trasformismo politico come prassi. È la società dove sotto un’apparente normalità dai toni magari spensierati, com’è nel suo carattere antico, serpeggia una sconsolatezza triste, una frustrazione mortificata, un pervadente sentimento di continua inadeguatezza, fatte apposta per spegnere iniziative, per logorare energie e speranze. Sembriamo sapere così bene che cosa è il Mezzogiorno che da tempo, paradossalmente, non vogliamo però saperne più nulla. Sono anni e anni che il resto del Paese ha cessato di occuparsene. Il Sud è scomparso dall’agenda politica di qualsiasi partito così come dall’informazione. Nessuno più ha voglia di interessarsi ai suoi problemi. La sua condizione drammatica non fa più notizia se non per qualche clamoroso fatto sangue. Sicché se un vero rimprovero va mosso alla Rai non è quello di aver dato casualmente voce alle volgarità di due sciagurati giovinastri, bensì è quello di essersi uniformata da anni all’andazzo generale lasciando che di un intero pezzo d’Italia si occupassero solo le scialbe cronache della sue sedi regionali, rivolte, come in tutta la Penisola, unicamente a illustrare virtù e benemerenze dei cacicchi locali. “Scarface” e “Tritolo” fanno notizia proprio perché rivelano ciò che non sappiamo ma che avremmo dovuto sapere: indoviniamo che attraverso le loro parole impudiche è l’intero degrado in cui nella nostra indifferenza è sprofondato un terzo del Paese che parla e c’interpella. Perché comunque e a dispetto di tutto, il Sud esiste e sta lì. E l’Italia deve decidere una volta per tutte che cosa vuole farci, perché forse non ha davvero capito che cosa significa abbandonarlo a se stesso. Il Sud sta lì con la mole della sua arretratezza ma anche con le sue sparse oasi di sviluppo talora di altissima qualità tecnologica. Con il suo mercato di consumatori non proprio indifferente per tanta industria del Nord, e con i suoi milioni di cittadini elettori che possono decidere da chi e come deve essere governato il Paese. Sta lì infine - e principalmente - con il rilievo della sua posizione geografica immersa nel Mediterraneo. Esso dunque ricorda che per l’Italia decidere che cosa fare del Mezzogiorno significa decidere per ciò stesso che cosa fare del Mediterraneo. Cioè della sua proiezione naturale in quel mare e verso i soli teatri - i Balcani, l’Africa e il Levante - prospicienti su quelle acque e dove essa può contare qualcosa. O questo ormai non vuol dire nulla dal momento che abbiamo deciso (non so chi né quando) che il nostro futuro si gioca solamente tra Berlino e Bruxelles, al massimo con un occhio a Pechino? Un’Italia senza il Sud va ineluttabilmente incontro a una drammatica perdita di rango destinata a riflettersi pesantemente anche a nord del Garigliano: come diceva Gaetano Salvemini, essa diviene solo “un Belgio più grande” (sia detto con tutto il rispetto per il Belgio). Non si tratta solo di questo però. C’è di peggio. Infatti, il resto dell’Italia può benissimo disinteressarsi del Mezzogiorno, fare come se non ci fosse: il fatto è che in ogni caso è comunque il Mezzogiorno che dimostra di non avere intenzione di disinteressarsi del resto d’Italia. Lo sta facendo da anni trapiantando nel cuore dell’Emilia-Romagna, della Lombardia, del Veneto, nel cuore dell’opulento Nord, le succursali delle sue potenti organizzazioni criminali. Allargandone sempre più il dominio, erodendo il tessuto civile e amministrativo di quelle regioni, dei suoi governi locali, in certo senso letteralmente mangiandosele. A suo modo è una sorta di vendetta per il troppo lungo oblio. Alla quale non c’è che una risposta: ricominciare a occuparsi di quella parte decisiva del nostro Paese. Con intelligenza e con passione; non con indulgenza ma con generosità: perché alla fine è di noi tutti che si tratta. Sentenze spesso incomprensibili: interviene l’Accademia della Crusca Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2019 Il Consiglio di Stato e l’Accademia della Crusca insieme per un uso più appropriato della lingua italiana nelle sentenze. “Le decisioni del giudice devono essere comprensibili a tutti, grazie a una motivazione chiara e un linguaggio appropriato. Il giudice non deve persuadere, ma dare conto della propria decisione, per questo profili processuali e forme di linguaggio devono stare insieme nella redazione della sentenza, che è la ragion d’essere del giudice”, lo hanno sottolineato il Presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, e il Presidente dell’Accademia della Crusca,Claudio Marazzini, sottoscrivendo l’accordo di collaborazione. Una avvisaglia del nuovo corso linguistico che il presidente Patroni Griffi intendeva imprimere alle pronunce del Consiglio di Stato si era già avuta nei giorni scorsi, nel corso del primo Congresso della Giustizia amministrativa, dove i richiami ad un uso corretto della lingua erano stati numerosi. Con l’accordo stipulato oggi tra l’Accademia della Crusca e l’Ufficio Studi della Giustizia Amministrativa, rappresentato dal Presidente Marco Lipari, per la durata di quattro anni, e senza oneri economici, si tenderà dunque al miglioramento delle tecniche di redazione dei provvedimenti giurisdizionali e dei pareri consultivi. La sinergia fra le due istituzioni, prosegue la nota congiunta, mira a sostenere la lingua italiana, nel suo valore storico di fondamento dell’identità nazionale, e ad assicurare la massima efficacia, precisione e trasparenza dell’attività dei Tar e del Consiglio di Stato. La Convenzione si svilupperà attraverso percorsi di formazione e di sensibilizzazione in materia linguistica dei magistrati, del personale amministrativo, dei tirocinanti e degli operatori del diritto attraverso studi, ricerche, corsi di specializzazione, formazione e aggiornamento sulla lingua del diritto e attraverso l’organizzazione di convegni, seminari e laboratori. La magistratura lottizzata di Mauro Mellini Italia Oggi, 13 giugno 2019 Le correnti sono come i partiti della Prima repubblica. Le varie nomine non sono fatte in base al merito (come si dovrebbe) ma alle appartenenze. La crisi profonda che scuote la Magistratura e tutto l’apparato giudiziario italiano (e, se non lo scuote abbastanza, è perché la crisi è ancor più profonda e intrinseca di quanto non appaia) ha fatto emergere il nodo che avrebbe dovuto essere il centro di ogni discussione: il problema e il ruolo dell’Associazione nazionale magistrati e, soprattutto, delle “correnti” in cui essa è divisa e lottizzata. Dico e sottolineo “avrebbe”. Non pare che ci sia più chi abbia a cuore la giustizia come pilastro delle istituzioni e che dia segno di come affrontare la realtà e di farsene carico. Quando all’inizio del secolo scorso l’Anm fu fondata da un numero in verità modesto di magistrati, il Guardasigilli, che non era un Bonafede qualsiasi ma si chiamava Vittorio Emanuele Orlando (tempo fa in un mucchio di carte ho trovato la notifica della mia ammissione alla pratica forense firmata, appunto V.E. Orlando che finì la sua vita tornando a far la professione di avvocato ed il presidente dell’Ordine di Roma). Orlando, dunque, si dichiarò subito contrarissimo al sopravvenire di quella associazione, rilevando una quantità di gravi inconvenienti che la sua stessa esistenza avrebbe creato. C’è da dire subito che quell’associazione presupponeva non già l’indipendenza e l’autonomia dell’Ordine giudiziario, ma si giustificava ponendosi come sindacato di “dipendenti”, di impiegati dello Stato. Sciolta dal fascismo e rinata dopo la Liberazione, l’Anm ebbe subito a misurarsi con problemi di divisioni e frazioni. Per un certo tempo si trovò in posizione concorrenziale con l’Umi (Unione magistrati italiani), che raccolse molti magistrati dei massimi livelli di tendenza decisamente conservatrice. Questa, poi, si sciolse e confluì in massima parte nella corrente di “Magistratura Indipendente”. Il massimo della frammentazione in correnti si ebbe, però, quando venne alla ribalta Magistratura Democratica, di Sinistra addirittura extraparlamentare, come allora si diceva. Ideologicizzata al massimo, essa si considerava, più che una corrente dei magistrati, una corrente politica extraparlamentare proiettata in seno alla Magistratura. Le prese di posizione politico-ideologiche, gli ordini del giorno, le deliberazioni congressuali di Md, tutti chilometrici e ideologici, erano improntati ad una finalità: “L’uso alternativo della giustizia” quale strumento di rivoluzione e di partecipazione al movimento marxista. Da allora, grazie anche alla nuova forma di composizione e di elezione del Consiglio superiore della magistratura, la finalità di tutte le “correnti” dell’Anm fu quella di realizzare una lottizzazione del governo della magistratura. Alla “partitocrazia” che caratterizzò la Primo Repubblica, si affiancò una altrettanto ferrea “correntocrazia” nel governo della magistratura. Ho fatto scandalizzare avversari e amici, più volte, affermando che tutto il sistema politico istituzionale della Prima repubblica non era, come con petulante monotonia si andava ripetendo, “nato dalla Resistenza” ma piuttosto “nato da Yalta”. Oggi siamo tutti un po’ orfani di Yalta e della Guerra fredda. Man mano che andò prendendo corpo la struttura della Magistratura conforme alla nuova legislazione e dipendente dal nuovo assetto anche elettorale del Csm, la lottizzazione di ogni carica direttiva e semi-direttiva (presidenti di sezione ecc.) prese corpo e diventò abituale e rigidamente osservata. “Tu mi dai un procuratore della repubblica di Vattelappesca di Magistratura Democratica e io ti do un presidente del Tribunale di Chissadove di Magistratura Indipendente”. E così via. La “lottizzazione” è fondata sul “do ut des” di chi dovrebbe esercitare potere a scelte esclusivamente sulla base dei meriti e delle attitudini. Che il sistema lottizzatorio non sia molto diverso, anche dal punto di vista del diritto penale, da un colossale mercato di corruzione è cosa che non sfuggirebbe ad un esame razionale e scientifico della questione. Oggi le “correnti”, già “collaterali” ai partiti politici presenti in parlamento ora scomparsi, hanno perso, nel dissolversi delle ideologie (e degli imperativi di Yalta) il loro carattere originario e quel tanto della loro giustificazione che ne faceva sistema comunemente accettato. È accaduto in esse quello che è accaduto nella politica parlamentare. Finiti i partiti ideologici (per i quali il finanziamento con tangenti in luogo di “decime” era pressoché naturale), è rimasto l’interesse privato o particolare senza coperture e camuffamenti. Il denaro per il denaro senza camuffamenti. Qualcosa di simile è avvenuto nel sistema “correntocratico” della Magistratura. Se le correnti non servono più per fare la rivoluzione o per opporvisi, è naturale che quelli che erano gli “strumenti” del potere ne siano divenuti le finalità. Senza voler dare giudizi e prognosi di colpevolezza, direi che il Palamara di venticinque anni fa non è diverso da quello che pare sia divenuto oggi. È cambiato il sistema attorno a lui. Il mercato delle cariche è mercato, quale che ne sia la moneta o lo scambio della merce. Ma questo ci impone di riconsiderare tutta la storia della Magistratura repubblicana. E di ricordare con attenzione e senza la supponenza della modernità anche le opinioni di Vittorio Emanuele Orlando. Non dovendo litigare (così si dice) con Luigi Di Maio, Salvini ha messo da parte il suo ruolo di buttafuori dei migranti. Un po’ perché al di là del Mediterraneo avranno scoperto che per negare loro lo sbarco ci vorrà un concerto di ministri (che di concerto non conoscono che quello della rissa), gli imbarchi sono aumentati e, con essi, gli sbarchi. Un po’ perché finalmente pare sia arrivata la bella stagione e il mare un po’ più calmo, sono ripresi gli sbarchi che l’effetto Salvini aveva drasticamente ridotto. Il governo va avanti. Almeno così sembra. Avrà altro tempo per altre cazzate e per procurarsi altri guai. Tutti contenti? Col cavolo. Ma non c’è chi sostituisca questi buffoni. A proposito di sostituzioni: quella della Magistratura ai poteri politici nel loro complesso e di governo è, con gli scandali di Palazzo dei Marescialli, un’eventualità svanita, un progetto che è diffi cile che qualcuno voglia cavalcare. E questa è una buona notizia. Bisogna accontentarsi del male minore? Csm in crisi, l’ira di Mattarella: “mai interventi sulle nomine” di Liana Milella La Repubblica, 13 giugno 2019 Dopo Spina, lascia Morlini: “Commessa una leggerezza, vado via per senso di responsabilità” Oggi nuovo plenum del Consiglio, che rischia di decadere se dovesse scendere sotto il tetto dei dieci componenti togati. A Palazzo Marescialli si dimette un secondo consigliere. Via all’azione disciplinare per i quattro autosospesi. L’incubo dello scioglimento anticipato. La nota della presidenza: “Con Lotti ultimo incontro ad agosto”. Il Csm decisamente vacilla. Potrebbe essere costretto all’auto scioglimento. Il mercato delle nomine per le più grandi procure italiane, Roma in testa, e i numerosi consiglieri coinvolti - cinque ufficiali, altri nelle carte di Perugia, su 24 (16 togati e 8 laici) - sconvolgono il palazzo. Mattarella, di fronte alle indiscrezioni che lo vorrebbero parte attiva nella scelta dei capi degli uffici, mette un punto fermo, “mai intervenuto per suggerire un nome, solo criteri generali”. Ma il fulmine della giornata sono le 4 azioni disciplinari dalla Procura generale della Cassazione che raggiungono altrettanti consiglieri autosospesi da una settimana, di cui uno solo - Gianluigi Morlini di Unicost, la corrente centrista delle toghe - opta per lasciare il Consiglio. Mentre gli altri tre, tutti di Magistratura indipendente, il gruppo più di destra delle toghe, resistono. Oggi un plenum straordinario sancirà, per uno di loro, almeno l’esclusione dalla sezione disciplinare, che dovrà occuparsi proprio di lui. Una contraddizione clamorosa. Un caos. Allo scoperto dopo giorni Partiamo da qui, dalle fonti ufficiali del Colle. Dopo giorni di voluto silenzio, in cui Sergio Mattarella ha taciuto pur nella duplice veste di capo dello Stato e del Csm, affidando la gestione del drammatico caso al vice presidente di Palazzo dei Marescialli David Ermini, adesso il presidente parla. Non solo per dire che non s’è mai occupato di nomine, che non ha mai ricevuto il deputato pd Luca Lotti per parlare della sua inchiesta, ma soprattutto che il Quirinale non gestisce alcun tipo d’informazioni giudiziarie da diffondere. Secondo il Colle la misura è colma, perché troppe indiscrezioni lasciano intendere che Mattarella avrebbe dato suggerimenti per promuovere una toga piuttosto che un’altra. Le fonti precisano che Mattarella non ha mai parlato con nessuno di specifiche nomine di magistrati, a partire dalla procura di Roma. È vero invece che il presidente, in via generale, ha richiamato più volte i consiglieri del Csm al rispetto rigoroso dei criteri obiettivi e delle regole. In particolare, convocando al Colle i consiglieri, ha raccomandato di seguire l’ordine temporale. È del tutto falso che si sia mai occupato della procura di Gela. Netta la smentita di un suo incontro recente con il dem renziano Lotti. Poiché l’agenda del presidente è pubblica, da essa risulta che l’ultimo incontro risale al 6 agosto 2018. E certo non si parlò del caso Consip. Le regole violate Hanno violato le lettere “d” e “u” dell’ordinamento giudiziario del 2006, nella parte in cui stabilisce le colpe disciplinari. Morlini, Cartoni, Lepre e Criscuoli hanno tenuto “comportamenti non corretti” quando in un dopocena hanno incontrato Lotti con Luca Palamara, il pm di Roma all’origine dell’inchiesta di Perugia toghe sporche. E hanno “divulgato atti coperti dal segreto istruttorio e sono venuti meno al dovere di riservatezza”. I quattro ieri mattina erano al Csm, hanno mostrato la contestazione disciplinare firmata dal Pg della Cassazione, Riccardo Fuzio. Morlini, che il giorno prima aveva lasciato Unicost, si dimette. Ammette di “aver compiuto un errore”, lo derubrica a “leggerezza”, ma per “senso di responsabilità istituzionale” decide di lasciare. Gli altri tre resistono spalleggiati dai vertici di Magistratura indipendente, in primis il segretario Antonello Racanelli, anche lui un ex Csm, oggi procuratore aggiunto di Roma. Le incognite sul futuro Sono ore drammatiche a Palazzo dei Marescialli. Si fanno i conti per verificare se questo Csm può sopravvivere a se stesso. Soprattutto se dovessero giungere i nomi di nuovi incolpati da Perugia. Per assurdo proprio Magistratura indipendente, la corrente più colpita, fa la voce grossa e tiene in scacco il Consiglio. Lo stesso Racanelli lo ha teorizzato in un’intervista, i suoi togati non si possono dimettere o Mi non sarebbe più la prima corrente con 5 esponenti, ma si ridurrebbe a 2, visto che i tre che subentrano appartengono in due al gruppo di Piercamillo Davigo, uno alla sinistra di Area. Ecco spuntare la proposta, di cui si discuteva ieri, di costringere i tre subentranti alla rinuncia (peraltro il davighiano Marra oggi è fuori ruolo in via Arenula) per elezioni in blocco per 5, o forse 7 nuovi esponenti. Ma di fatto sarebbe la fine dell’attuale Csm, che sotto i 10 togati su 16 non può scendere. Intercettazioni, slitta la riforma. Nell’archivio tutte le comunicazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2019 Più tempo per la riforma delle intercettazioni. Con il decreto sicurezza bis, approvato dal Consiglio dei ministri di martedì, si affidano altri 6 mesi al ministero della Giustizia per mettere a punto la nuova disciplina che modificherà quanto previsto dalla riforma Orlando. Sarebbe peraltro più corretto sostenere che l’azzererà, tenendone in piedi solo qualche aspetto. Perché, come noto, la proposta Orlando che sarebbe dovuta andare in vigore a luglio dell’anno scorso, indirizzata a conciliare diritto alla privacy e salvaguardia delle necessità investigative, non ha mai convinto il ministro della Giustizia del Governo gialloverde Alfonso Bonafede. Che ne dispose subito il congelamento, di fatto prorogato l’altra sera sino alla fine di quest’anno. Al ministero si sta però già mettendo a punto un modello che in buona parte ricalcherà la situazione preesistente, conservando però l’ormai realizzato, presso quasi tutte le procure, archivio riservato, nel quale dovranno confluire tutte le intercettazioni effettuate, lasciandovi collocate anche quelle ritenute irrilevanti dopo la valutazione di stralcio. Resterà fermo il diritto alla copia da parte dell’avvocato, che era stato invece eliminato dalla riforma Orlando. Quest’ultima vietava la trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti per le indagini e di quelle su dati personali sensibili, imponendo che nel verbale fossero indicate solo la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è stata effettuata. Il pubblico ministero, a cui spettava di verificare l’irrilevanza delle comunicazioni intercettate o di chiederne la trascrizione aveva poi il compito di dettare le istruzioni e le direttive necessarie agli ufficiali di polizia giudiziaria per rendere concreto l’obbligo di informare il pm sui contenuti delle conversazioni di dubbia rilevanza. Per Bonafede una legge bavaglio, che sotto la maschera di volere tutelare la riservatezza di chi poteva finire coinvolto in intercettazioni del tutto insignificanti sul piano investigativo, nascondeva invece la volontà di tutelare soprattutto gli esponenti politici. Divisi poi i pubblici ministeri. Dove alcune Procure avevano anticipato la riforma mettendo a punto, come a Roma, sotto la direzione Pignatone, un proprio modello di protezione della privacy. A ruota seguirono poi altri uffici come quello di Torino e Napoli. Ma sulla stessa riforma Orlando a pronunciarsi in maniera critica era stata la stesa Anm sostenendo che a venire compromessi sarebbero stati sia il diritto di difesa sia soprattutto il lavoro d’indagine. Le intercettazioni, sosteneva l’Associazione nazionale magistrati, continuano a rappresentare uno strumento indispensabile di investigazione, fondamentale nel contrasto a reati gravi come, per esempio, la corruzione. E su questo punto va invece sottolineato come la legge “spazza-corrotti”, questa sì fortemente voluta da Bonafede, criticata sotto alcuni profili (anche di costituzionalità), ha almeno reso possibile l’utilizzo dei virus informatici anche per la corruzione, con immediati risultati come testimoniato dalla recente indagine dei Pm di Perugia sui fatti di presunta corruzione che sono arrivati a coinvolgere esponenti attuali e passati del Csm. Via d’Amelio: quei pm che dimenticarono di depositare i verbali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 giugno 2019 Per ora sarebbero due i magistrati finiti nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Parliamo del nuovo colpo di scena relativa alla vecchia indagine sulla strage di Via D’Amelio, definita dal Borsellino Quater il “il più grande depistaggio della Storia”. Ma è un depistaggio che ha visto anche come protagonista l’irritualità dello svolgimento del processo, tant’è vero che lo scorso novembre la Procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo del Borsellino Quater, aveva trasmesso una tranche dell’inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati. Così la Procura di Messina ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre- investigativa sfociata adesso in una inchiesta per calunnia aggravata. Ora dovranno conoscere i contenuti delle registrazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino quando era nel programma protezione, dove aveva a disposizione un telefono fisso e poteva solo ricevere le chiamate. Parliamo di un accertamento tecnico non ripetibile, avente ad oggetto il riversamento di 19 supporti magnetici contenenti registrazioni prodotte con strumentazione della Radio Trevisian, denominata RT2000, trasmessi alla procura di Messina, in originale, dalla procura di Caltanissetta. Ma rimane ancora inevaso un interrogativo, proprio sulla conduzione dell’iter processuale che è costata la condanna di otto innocenti, sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Lo spartiacque, o meglio quello che avrebbe dovuto essere, è da ritrovare nella data del 13 gennaio del 1995, quando c’è stato il confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. Ed è proprio in quel confronto che emerse la totale mancanza di attendibilità di Scarantino. Ma è accaduto che il verbale del confronto è rimasto nel cassetto per diverso tempo. Alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino 1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti. Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo e criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto quindi incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannando all’ergastolo. Il verbale uscì fuori grazie alla tenacia dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che all’epoca difese alcuni imputati poi condannati ingiustamente per la strage. Lo racconta in audizione dinnanzi la commissione antimafia della Sicilia presieduta da Claudio Fava. “Siamo all’udienza preliminare del bis, quindi siamo se non ricordo male nel 1996 - ha spiegato Di Gregorio - facciamo le copie degli atti, tra le copie degli atti spunta fuori una missiva strana, una lettera di trasmissione dal Procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, al procuratore aggiunto Guido Lo Forte di Palermo dove gli dice: “Ti mando, per quanto di interesse, i confronti fra Scarantino- Cancemi, Scarantino- Santino Di Matteo, Scarantino - Gioacchino La Barbera”. Cerchiamo questi confronti ma non ci sono, cioè non sono stati depositati, quindi noi chiediamo al giudice dell’udienza preliminare di fare depositare i confronti. La risposta a verbale è “Non esistono”. Gli abbiamo detto: “Non è possibile che non esistono, se li avete trasmessi a Palermo, evidentemente esistono quindi non ci dite non esistono, dite non ve li vogliamo depositare”, “Non esistono e se esistono non riguardano gli imputati di questo processo, quindi voi non li potete avere”. A quel punto l’avvocato ha fatto un’istanza al dott. Guido Lo Forte come indagine difensiva ed è andata a parlargli. “Mi ha detto - racconta sempre la Di Gregorio: “Lei è pazza - graziosamente, cordialmente - se pensa che io le do una cosa che Caltanissetta non le vuole dare”. Io ho detto “No, no, ma io lo voglio messo per iscritto: non te la posso dare, fattela dare da Caltanissetta”. E così abbiamo fatto. Il dott. Lo Forte scrive nella mia istanza “Non te la do, te la fai dare da Caltanissetta”, quindi io prendo la risposta e la porto a Caltanissetta a Paolo Giordano dicendo: “Siccome esistono e me li devi dare tu, ti dispiace che me li dai?” “Non se ne parla assolutamente, non ti interessano, non ti riguardano, non riguardano gli imputati, non riguardano questo processo”. Alla fine, nel febbraio del 97 (e cioè dopo più di un anno dalla richiesta rigettata in udienza preliminare), l’avvocato Di Gregorio chiese e ottenne il deposito del confronto tra i collaboratori di giustizia e Scarantino nel processo “Borsellino ter”. La commissione antimafia della Sicilia, nella sua relazione, ha evidenziato che il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha “sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dell’inesistente affidabilità di Scarantino”. Un iter processuale, quindi, che già nel 1995 avrebbe avuto un esito diverso, se solo si fosse portato a conoscenza di quel verbale, il perno principale che avrebbe fatto decadere tutte le accuse senza arrivare fino al Borsellino Quater. “Farò di tutto perché Cesare Battisti non muoia in carcere” di Manuela D’Alessandro agi.it, 13 giugno 2019 Intervista a Davide Steccanella, avvocato dell’ex terrorista dei Pac, in cella di isolamento dopo la sua cattura in Bolivia e l’estradizione in Italia dal Brasile (ha ammesso di avere avuto un ruolo materiale o come mandante in quattro omicidi). “Lui deve scontare il dovuto ma non vedo perché debba essere sottoposto a un trattamento diverso rispetto agli altri detenuti”. “Il mio impegno è far sì che Cesare Battisti non muoia in carcere. Tu non puoi rimproverare di avere violato la legge se non sei il primo a rispettarla e uno Stato che non rispetta la legge perde autorevolezza anche nei confronti di chi la viola”. Davide Steccanella è l’avvocato del militante dei Pac (Proletari armati comunisti) catturato in Bolivia dopo una latitanza durata 37 anni. Ma è anche uno degli storici più preparati sugli anni del terrorismo italiano e non solo, autore di diversi testi di riferimento. Per la prima volta, da quando il suo assistito è in carcere per scontare due ergastoli relativi a quattro omicidi, Steccanella si fa intervistare a tutto campo sul rientro in Italia di Battisti e indica la strategia che seguirà per garantirgli una pena che ritiene coerente nell’entità e nei modi con la Costituzione e il diritto internazionale. Cosa significa per lei, che ha studiato anche da storico quel periodo pur non avendolo vissuto, difendere Cesare Battisti? “Avrei preferito continuare a occuparmene da storico, sicuramente non avrei mai pensato da avvocato di scrivere un’istanza su fatti commessi nel 1979. All’inizio è stato difficile, però nel momento in cui una persona in stato di detenzione mi nomina come avvocato non posso che fare solo l’avvocato e dimenticare di essere anche uno storico. Da quell’istante, considero il mio cliente una persona che ha necessità di una difesa tecnica e quello è il mio approccio, anche se è senz’altro singolare fare diventare cronaca giudiziaria quella che è invece è storia. La situazione di Battisti è molto particolare perché qui non soltanto si parla di fatti commessi 40 anni fa, ma anche di una persona che è andata via dall’Italia 40 anni fa, nel 1979 quando, dopo due anni di galera, è stato fatto evadere da altri, è andato all’estero e non ha più fatto rientro nel nostro Paese. Ora, chiunque abbia potuto vivere in Italia negli ultimi 40 anni sa che questo è un Paese completamente diverso. C’è questo duplice problema: sono vecchi i fatti ed è vecchissimo questo rapporto con lo Stato che in questo momento sta eseguendo nei suoi confronti una pena. C’è anche una difficoltà di comunicazione: Battisti è una persona abituata a parlare da anni altre lingue. Insomma, è tutto molto singolare rispetto alle precedenti mie esperienze professionali”. Prima di tornare in Italia, Battisti a un certo punto dice di essere andato dalla Francia al Brasile grazie ai servizi segreti francesi. Poi non ha mai più smentito questa storia. È davvero andata così? “Io parlo delle cose che so e questo non lo so, il mio cliente non mi ha mai riferito modalità di questo tipo. In quegli anni sono state molte le persone che si sono sottratte alle sanzioni riparando all’estero. Non era così inusuale che un soggetto riuscisse ad andare all’estero senza bisogno dei servizi segreti. Parliamo di una persona che è da 40 anni all’estero e che di dichiarazioni ne ha fatte tante, ogni volta determinate dalla situazioni in cui si trovava. Per questo, preferisco adeguarmi a quello che mi ha detto di persona e su questo aspetto non ho avuto nessuna conferma. Da quello che ho capito io, mi pare assolutamente compatibile la sua versione. Ai tempi anche prendere gli aerei non era così complicato come oggi, è pieno di casi, non sarebbe né il primo né l’ultimo ad averlo fatto in quegli anni, non è necessario che ci sia dietro chissà quale protezione francese. Tra l’altro con la Francia lui ha un rapporto particolare perché è stato per tanti anni al riparo della cosiddetta ‘dottrina Mitterand’ che poi è saltata praticamente per lui perché sono pochissimi i casi contrari. Non credo francamente che abbia avuto protezioni al di là di quello che ha dichiarato”. Battisti ha ammesso di avere avuto un ruolo materiale o come mandante in quattro omicidi: quelli del maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, del gioielliere Pierluigi Torreggiani, del commerciante Lino Sabbadin e del poliziotto Andrea Campagna. Ammettere gli addebiti dopo averli negati per anni è una decisione che ha preso lui oppure gliel’ha suggerita lei? “Mai nella vita ho preso una decisione per conto dei miei clienti, soprattutto se è di questa delicatezza e di questa importanza. È evidente che è una scelta che ha fatto lui e io gli ho creato i mezzi tecnici per portarla avanti. In quel momento ho ritenuto di scegliere l’interlocutore che mi sembrava più adatto e istituzionale, cioè il procuratore dell’antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, che, tra l’altro, è un magistrato che stimo tantissimo e di cui mi fido ciecamente. La decisione è stata sicuramente sua ma tenete conto che sono state scritte un po’ di inesattezze su questo fatto, nel senso che Battisti non ha mai negato di fare parte dei Pac che erano una delle tantissime formazioni armate di quegli anni. Lui non ha mai detto ‘Io non ho fatto la lotta armatà. Se il discorso è relativo ai singoli episodi, il negarli ha un senso di fronte alle autorità che deve riceverli. Battisti non ha mai partecipato ai processi in Italia, era in contumacia e la prima volta che ha trovato un magistrato, cioè dopo il rientro nel nostro Paese, ha fatto quella dichiarazione. Eventuali dichiarazioni fatte ai media all’estero in precedenza vanno prese con le molle. Non è corretto dire che abbia cambiato idea, ha sostanzialmente sempre ammesso la sua situazione storica e politica sulla quale ha anche scritto dei libri. A Nobili ha detto che le sentenze corrispondono al vero perché insieme a tanti altri è stato un militante dei Pac. Teniamo presente che i Pac non erano le Br, ma un gruppo ristretto. Se fai parte dei Pac, le azioni che hanno fatto sono quelle e pensare che fai parte dei Pac senza partecipare a quelle azioni poteva sembrare contraddittorio”. Nell’interrogatorio davanti a Nobili, Battisti ammette di avere ucciso, sparandogli, il poliziotto Andrea Campagna “su indicazione data dal collettivo di Zona Sud in quanto Campagna era stato ritenuto uno dei principali responsabili di una retata ai danni dei compagni del collettivo Barona che erano poi stati torturati in caserma”. Come si lega quell’episodio alla vicenda di Battisti che, comunque, non lo usa per discolparsi? “Quello è un fatto provato, ormai storico, anche se chi denunciò venne accusato di diffamazione, e riguarda tutti i militanti del collettivo Barona (quartiere di Milano, ndr) che furono sottoposti a tortura in caserma. Si sanno anche i nomi. C’entra fino a un certo punto con Battisti. Certamente fu un episodio orrendo, che però in realtà aveva riguardato una serie di persone che non c’entravano nulla coi Pac anche se li conoscevano coi militanti ed erano vicini come zona. Ho trovato onesto da parte di Battisti non strumentalizzare per se stesso quell’episodio che effettivamente non aveva nessuna attinenza. Questa è una brutta pagina di quella storia che ho anche riportato in un libro, facendo parlare i protagonisti. Il problema di quella storia è che non si è trattato di una serie di episodi giuridicamente delittuosi ma si è inserita in un gigantesco conflitto sociale che ha coinvolto il nostro Paese per più di 15 anni. Per durare più di 15 anni in uno Stato capitalista, che non sono le montagne della Sierra Nevada, evidentemente era una situazione storica molto particolare al cui interno si colloca la micro-esperienza di Battisti e di migliaia di altre persone. Che lo Stato in qualche modo abbia reagito andando oltre i mezzi consentiti è abbastanza normale, cioè tu dichiari guerra e l’attaccato risponde. Battisti è stato un combattente di quel periodo e trovo anche che sia abbastanza coerente che non faccia il “piangina” rimproverando lo Stato. Aveva messo in conto che lo Stato reagisse in quel modo. Cioè lui non è un democratico, non puoi chiedere a Battisti di utilizzare lo sdegno democratico perché sarebbe anche contraddittorio. Battisti è l’ultimo a sorprendersi che la polizia torturasse i militanti arrestati. Non toccava a lui parlarne, ma allo Stato ammettere”. Lo Stato italiano continua a cercare i latitanti all’estero. Alcuni protagonisti di quegli anni e diversi intellettuali ritengono che lo Stato dovrebbe non limitarsi a ridurre quelli commessi all’epoca come dei fatti criminali ma anche espressione di un conflitto sociale. È possibile che prima o poi accada? “C’è stato un conflitto di classe che si è inserito perfettamente in quel ventennio molto particolare di un secolo molto particolare, con guerriglie sparse in tutto il mondo. Questo lo Stato non lo vuole ammettere ma ai tempi del sequestro Moro sarebbe stata sufficiente una dichiarazione che c’era un conflitto sociale in corso per salvare la vita del politico. Lo Stato decise di non farlo allora ed è ovvio che non lo fa 40 anni dopo, ma così si continuerà a raccontare una storia monca che non fa capire né com’è nata né com’è finita, con ciò lasciandola sospesa. Tu puoi raccontare la storia solo se la definisci, se no resta lì e queste sono delle protuberanze che assomigliano a una forma di vendetta tardiva. Io sono contrario anche a recuperare i criminali nazisti, c’è poco di giuridico e tanto di vendetta, oltre al discorso della propaganda politica. Sapere che un ministro, Matteo Salvini, dice che un detenuto deve marcire in galera mi fa orrore e in questo do atto alla Corte d’assise d’appello di Milano, che si è occupata del caso, di avere ristabilito i giusti termini giuridici. La storia di un Paese non doveva essere delegata alla magistratura che non ha il compito di risolvere un conflitto sociale. Battisti non ha inventato la lotta armata ma faceva parte di altri 6 mila cittadini condannati per lotta armata. Ho trovato ripristinato il principio secondo cui nessuno deve marcire in galera proprio nell’ordinanza che ha respinto la mia istanza di commutare in 30 anni la pena dell’ergastolo (nel provvedimento, i giudici hanno stabilito che Battisti “potrà godere dei benefici penitenziari, in virtù di un trattamento che è diretta attuazione del canone costituzionale della funzione rieducativa della pena”, ndr). In quell’ordinanza, il percorso penitenziario arrivato dalle leggi approvate negli anni 70 ha trovato un senso anche perché se lo Stato si limita a essere una retina che raccoglie tutti i ruderi di una guerra finita ci fa brutta figura lui. Uno Stato forte chiude i conti col passato. C’è stato bisogno di una mia istanza per ottenere il riconoscimento del ‘presofferto’, cioè i quasi 8 anni di carcere che Battisti aveva già scontato. I media hanno fatto passare il concetto che abbiamo chiesto uno sconto di pena, ma non è così. Io mi sono limitato a osservare che una parte di galera l’aveva già fatta”. Come ha trovato Battisti dal punto di vista umano? “L’ho visto per la prima volta nel carcere di massima sicurezza, è una persona di 65 anni che ha tutta una storia particolare, completamente diversa dalla mia, per cui all’inizio è stato un po’ difficile. Quello che posso dire è che mi pare una persona sincera. Il mito che era stato costruito non mi sembra corrispondere per niente alla persona fisica e reale che in questi mesi sto conoscendo,. Sicuramente la mia impressione è migliore di quella che la stampa aveva trasmesso”. Lei sostiene che Battisti non sia stato espulso ma estradato e, per questo, gli vada applicata la pena massima dei 30 anni di carcere perché in Brasile non è previsto l’ergastolo, a differenza che in Bolivia. Perché ne è convinto? “In tutti gli atti pubblici della Digos non si parla mai di una procedura di espulsione, Battisti viene sempre definito come estradato e, come tale, va trattato secondo quanto stabilito dall’accordo tra Brasile e Italia del 2017 (la tesi non è stata accolta dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano e Steccanella ha presentato ricorso alla Cassazione, ndr). A mio parere l’Italia non può fare questa figuraccia di non rispettare l’accordo col Brasile nel quale si era impegnata a fargli scontare una pena di 30 anni. Non capisco le levate di scudi alla mia richiesta di commutare la pena dal carcere a vita a 30 anni su un uomo di 65 anni. Chiunque dotato di un minimo di buon senso capisce che trasformare in 30 anni la pena su una persona di questa età è di assoluta irrilevanza. Allora mi chiedo: perché tutto questo accanimento su cose che non hanno un rilievo effettivo? Significa che lo Stato va oltre, che in qualche modo vuole fargliela pagare un po’ di più e questo è sbagliato. Prendo però atto che, in questi sei mesi, gli unici soggetti coi quali ho potuto interloquire rimanendo nell’ambito del diritto sono stati i magistrati e la poliziotta Cristina Villa (tra le principali artefici della cattura in Bolivia, ndr). Meno male che loro mi hanno consentito di fare il mio mestiere. Battisti ha fatto parte di una storia dolorosa, anche in questo Palazzo di Giustizia (di Milano, ndr) vediamo tutta una serie di targhe che ci ricordano le persone che sono morte in quegli anni, ma ricordiamoci che sono morte tantissime persone anche dall’altra parte e non vengono mai ricordate. Lo dicono i numeri che è stata una guerra”. A luglio scadono i sei mesi di isolamento. Cosa succederà dopo? “Battisti è stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove non ci sono altri detenuti qualificati come lui, cioè As2 (Alta sicurezza livello 2, ndr). Questo significa che quando scadrà la pena dell’isolamento lui continuerà a scontare in maniera illegittima l’isolamento se non verrà trasferito in una carcere dove potrà stare con altri. Che uno Stato pretenda di eseguire una pena è legittimo ma questa non deve trasformarsi in una tortura. L’isolamento è una pena ulteriore che non può andare un giorno oltre la pena comminata. Se non lo spostano da lì è invece destinato a prolungare una pena a quel punto illegale. Lui deve scontare il dovuto ma non vedo perché debba essere sottoposto a un trattamento diverso rispetto agli altri detenuti. Proverò a rivolgermi al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per farlo trasferire in un altro carcere ed evitargli l’isolamento oltre la pena. Bisogna trovare un carcere dove ci sono altri As2. Battisti sta scontando una pena per una storia alla quale hanno partecipato tantissimi in questo Paese, non ha inventato niente, è figlio di un’epoca. Il mio obbiettivo è che non muoia in carcere perché quando ho scelto di fare l’avvocato l’ho fatto per un Paese dove ero convinto e lo sono tuttora che i detenuti non debbano marcire in galera. In Italia manteniamo in vigore la pena dell’ergastolo che quasi tutti gli altri Stati a cui l’Italia si sente superiore per civiltà, ritengono superata. Nell’accordo su Battisti, l’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando scriveva in tre pagine, quasi scusandosi col Brasile, di avere ancora l’ergastolo e sembrava di percepire il suo imbarazzo per questo. Due anni dopo sentire l’attuale Ministro che la rivendica e si augura che un detenuto marcisca in galera lo trovo inquietante non per me bensì per tutto il sistema, in primis per gli stessi operatori del diritto, avvocati e magistrati: perché allora che ci stiamo a fare? Per marcire in galera non c’è bisogno di noi”. Anche il pregiudicato può entrare in Italia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2019 Anche lo straniero pregiudicato può avere diritto al permesso di soggiorno per accudire il figlio minore in Italia. A queste conclusioni arrivano le Sezioni unite civili della Cassazione, con la sentenza n. 15750 depositata ieri. Il principio di diritto messo a punto dalla pronuncia stabilisce che, per quanto riguarda l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di un minore straniero già presente sul territorio nazionale, una decisione negativa non può essere diretta conseguenza di una precedente condanna. Neppure se questa è stata inflitta per uno dei reati che il Testo unico dell’immigrazione considera impedimento all’ingresso o soggiorno dello straniero. Semmai, la condanna “è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto dell’istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore”. La sentenza invita il giudice che sarà chiamato a decidere sulla domanda di ingresso per un periodo determinato ad accertare in prima battuta l’esistenza di gravi motivi collegati con lo sviluppo psicofisico del minore. Esaurito questo accertamento in maniera positiva, davanti al fatto che il familiare che ha presentato la richiesta emerge anche come colpevole di attività incompatibili con la presenza in Italia, l’autorità giudiziaria potrà negare l’autorizzazione solo dopo una valutazione complessiva svolta in concreto e non in astratto sul bilanciamento tra i i diversi interessi. Quello del minore a potere godere dell’assistenza del familiare e quello dello Stato alla protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza. In questo senso vanno, oltre che le sentenze della Corte costituzionale, anche i riferimenti internazionali. E, in particolare, l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella sua applicazione da parte della Corte di Strasburgo. Infatti, la giurisprudenza è concorde nel ritenere da una parte che lo straniero non ha un diritto assoluto a entrare o risiedere in un determinato Paese, ammettendo quindi che lo Stato possa espellerlo se condannato per reati puniti con la pena detentiva, e, tuttavia, dall’altra, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i componenti della sua famiglia occorre bilanciare il diritto alla vita familiare con quello dello Stato. Per questo esame, possono pesare la distanza di tempo dalla commissione del reato, la gravità dello stesso, la condotta di chi ha fatto domanda e la sua condizione familiare. Santa Maria Capua Vetere (Ce): tragedia in carcere, 38enne trovato senza vita edizionecaserta.com, 13 giugno 2019 A dare l’allarme sono stati i compagni di cella. Non rispondeva alle sollecitazioni e coloro che condividevano con lui la stanza hanno immediatamente capito che qualcosa di grave era accaduto. Se ne è andato via probabilmente per un malore Angelo S., il 38enne originario della zona di Caivano, trovato morto ieri mattina all’interno della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. L’uomo era detenuto in quanto accusato di reati predatori (rapine nello specifico) commesse sul territorio di Caserta. Questa mattina alle 8 la tragica scoperta: immediati sono scattati i soccorsi dopo l’allarme dei compagni di cella, ma nè il personale della struttura carceraria nè il servizio d’emergenza sono riusciti a salvargli la vita. Nelle prossime ore la salma del 38enne dovrebbe essere restituita ai familiari per l’addio nella sua città natale. Santa Maria Capua Vetere (Ce): un’altra estate senza acqua per i 1.000 detenuti La Repubblica, 13 giugno 2019 Si apprestano a vivere l’ennesima estate senza acqua gli oltre mille detenuti reclusi a Santa Maria Capua Vetere (Caserta), istituto penitenziario che sconta questa carenza da decenni. Da una recente visita dell’associazione Antigone nel carcere risulta, infatti, che nonostante i fondi messi a disposizione per i lavori di allaccio alla rete idrica cittadina, dentro e fuori le mura, “non si prevedono - rivela l’associazione - tempi brevi” per la fine dei lavori. La Regione Campania ha trasferito al comune di Santa Maria Capua Vetere 2 milioni di euro di fondi europei. Il progetto esecutivo è stato presentato ma bisogna ancora indire la gara d’appalto europea. Nei mesi estivi “la situazione è intollerabile”, sostiene Antigone anche se la direzione del carcere ha spiegato che lo scorso anno “non si sono riscontrati problemi seri”. Anche quest’anno, intanto, per il mancato allaccio sarà necessario servirsi di un pozzo semiartesiano con impianto di potabilizzazione, auspicando che l’estate non sia troppo torrida. L’istituto, infatti, dista solo 600 metri dal vicino stir e “soprattutto d’estate - denuncia Antigone - fa sì che si debba sopportare un olezzo nauseabondo dovuto allo stoccaggio ed al trattamento dei rifiuti”. È dello scorso novembre l’ultimo devastante incendio a uno dei capannoni dello stabilimento di tritovagliatura e imballaggio di rifiuti di Santa Maria che, per il forte impatto ambientale, portò il governo a dichiarare guerra ai roghi in terra dei fuochi e molte istituzioni locali, cittadini e comitati, dopo le fiamme, denunciarono un avvenuto “disastro ambientale” Rieti: rissa e protesta in carcere, disposto il trasferimento di 19 detenuti Il Messaggero, 13 giugno 2019 Rissa tra detenuti italiani e nigeriani all’interno del carcere di Vazia. “La situazione è stata davvero pericolosa”, denuncia il segretario nazionale del Lazio del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe Maurizio Somma. “Nel pomeriggio si sono fronteggiati due fazioni di detenuti italiani contro nigeriani all’interno della Sezione detentiva G3. Un detenuto italiano è ricoverato in ospedale a seguito delle botte che ha preso. Il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari ha fatto sì di riportare tutto alla calma. Diversi genti sono stati richiamati a casa e si sono precipitati in servizio dimostrando buonsenso e spirito di corpo. Forse, il pretesto del furioso pestaggio tra i detenuti a Rieti è tra i più futili, ossia l’incapacità di convivere - seppur tra le sbarre - con persone diverse. O forse le ragioni sono da ricercare in screzi di vita penitenziaria o in sgarbi avvenuti fuori dal carcere. Fatto sta che si è scatenata una pericolosa rissa che ha coinvolto ancora una volta i poliziotti penitenziari, a cui il Sappe rivolge espressioni di vicinanza e solidarietà”. Nell’istituto penitenziario di Rieti la protesta è ampiamente rientrata. Sono stati già attivati gli interventi necessari e tutti i detenuti sono rientrati dai passeggi. All’origine della protesta, gli strascichi di una colluttazione verificatasi ieri fra detenuti italiani e africani. Il Provveditorato regionale del Lazio-Abruzzo-Molise ha comunque già disposto, ai sensi della circolare del Capo del Dap sul trasferimento di detenuti per motivi di sicurezza, 19 trasferimenti ad altri istituti del distretto: 7 nigeriani sono stati già trasferiti nel pomeriggio di oggi e 12 italiani saranno trasferiti domani. Crotone: in Consiglio comunale la prima relazione del Garante dei detenuti cn24tv.it, 13 giugno 2019 Ha parlato del consolidamento della comunicazione e della collaborazione traenti e amministrazione penitenziaria, Federico Ferraro, il garante dei detenuti di Crotone, nella sua relazione fatta in occasione del consiglio comunale. E il garante ha espresso viva soddisfazione l’arrivo in carcere dell’app Skype. Da aprile è infatti arrivato il sistema che permette alle famiglie di poter colloquiare con i cari detenuti in carcere. Rapporto collaborativo che Ferraro afferma di avere anche con Forze dell’ordine e l’Autorità giudiziaria. Nel corso del suo discorso ha inoltre illustrato le situazioni di criticità nella struttura. È partito dal numero di detenuti nel carcere cortonese: “130 persone, di cui il 60% sono stranieri; le Sezioni sono 3, tutte di Media Sicurezza”. Poi ha illustrato le criticità, come le “difficoltà di comunicazione per i detenuti stranieri per carenze di mediatori linguistici”; è stata lamentata dai detenuti “una carenza saltuaria del servizio di riscaldamento, rispetto all’orario previsto”. A più riprese è stato richiesto “un collegamento permanente tra la casa circondariale e la città di Crotone”. Altra urgenza è il “reinserimento lavorativo, a tal proposito risultato positivo è la conclusione della fase burocratica della Convenzione per lo svolgimento dei lavori socialmente utili, e del lavoro gratuito previsto dall’ordinamento penitenziario. Sono certo che l’Amministrazione comunale e il Consiglio, che si sono attivati con solerzia per l’istituzione del Garante dei detenuti e per l’avvio della sua operatività, vi daranno al più presto piena attuazione “. Per quanto riguarda le celle di ricovero per motivi sanitari al San Giovanni di Dio, come Garante Ferraro ha fatto “sopralluoghi ispettivi, già in presenza dell’Autorità nazionale in visita a Crotone lo scorso settembre, accolta insieme al Presidente del Consiglio Serafino Mauro”, e ha raccomandato “la dotazione di biancheria per garantire una decorosa degenza, possibilmente un punto per l’appoggio di effetti personali del detenuto, ed il potenziamento una postazione lavorativa congrua anche per il personale di Polizia penitenziaria.” Durante la Conferenza dei Garanti territoriali dello scorso 19 ottobre, Ferraro ha esplicitato al Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria “le problematiche non trascurabili su scala nazionale quali: la carenza delle camere di sicurezza, la più generale, grave situazione del sovraffollamento carcerario, causa questa di numerosi ed intollerabili suicidi in diverse aree geografiche del nostro Paese. Come pure le carenze di organico nell’ambito della DAP e della Polizia, a tal proposito è stato assunto l’impegno una richiesta di assunzioni straordinarie per un totale di 1300 unità che ricoprano tali carenze di unità lavorative”. Potenza: inclusione sociale e lavorativa per i detenuti, incontro con il Prefetto potenzanews.net, 13 giugno 2019 Ieri mattina il Prefetto di Potenza, Annunziato Vardè, ha ricevuto in Prefettura il Direttore della Casa Circondarle di Potenza, Maria Rosaria Petraccone, accompagnata dal Commissario Coordinatore, Arianna Bosso, e dal Funzionario, Giuseppe Palo. Il Direttore Petraccone ha voluto porgere gli auguri di un buon lavoro a nome dell’Amministrazione Penitenziaria, nello spirito di collaborazione in continuità con l’importante azione di coordinamento messa in campo in questi anni tra Prefettura e Casa Circondariale. Durante l’incontro, al Prefetto sono state presentate tutte la iniziative portate avanti dall’Amministrazione Penitenziaria Regionale con il Provveditore Carmelo Cantone e, in particolare, le azioni promosse dalla Direzione della Casa Circondariale di Potenza in progetti di inclusione sociale e lavorativa per i detenuti e di percorsi formativi a favore del benessere del personale. Il Prefetto si è compiaciuto per la ricchezza di iniziative portate avanti dall’Istituto Penitenziario del capoluogo e ha assicurato tutta la collaborazione possibile. Un particolare ringraziamento è stato rivolto agli uomini e alle donne della Polizia Penitenziaria e del comparto ministeri, per il contributo che, con il loro intenso e difficile lavoro, assicurano all’affermazione della giustizia e della sicurezza sociale. Verona: cinque detenuti si diplomano “tecnici di scuderia” L’Arena, 13 giugno 2019 Il carcere di Montorio diploma cinque nuovi tecnici di scuderia. Nella casa circondariale scaligera, diretta dalla dottoressa Maria Grazia Bregoli, i detenuti seguono appunto un corso, promosso dall’associazione Horse Valley, per ottenere il diploma di “Tecnico di scuderia”: circa nove mesi di lezioni che culminano con una prova teorico-pratica tenuta da due esaminatori nazionali dell Aics (associazione italiana cultura e sport). Proprio l’altro giorno, cinque detenuti hanno sostenuto l’esame finale con successo: per molti di loro il diploma è un segno di riscatto e di impegno, che può aprire la strada ad alcuni benefici e offrire una offerta futura di lavoro. Alcuni poi, prima di entrare in carcere vivevano in famiglie che possedevano dei cavalli: per loro questa attività rappresenta dunque un elemento di continuità con la vita prima dell’ingresso in carcere. Il tecnico di scuderia, infatti, si occupa non solo della pulizia dei box e dei cavalli ma impara a monitorarne le attività quotidiane, a individuare segni di stress o di problematiche fisiche, e a consigliare agli appassionati di equitazione l’approccio migliore, legato a una conoscenza specifica dell’assetto emotivo di ogni cavallo. L’attività. Alcuni di loro si occupano quotidianamente di 3 cavalli (ma anche di pecore e galline) che vivono all’interno della casa circondariale, mentre un altro gruppo si ritrova settimanalmente nella zona maneggio del carcere per apprendere in un corso certificato dalla Aics l’arte del tecnico di scuderia, figura professionalmente ben definita che va al di là di quella che una volta era l’attività meno qualificata dello stalliere. Non solo cavalli. Il corso è integrato da una attività di Yoga Kundalini guidata da insegnanti certificati del centro “Yoga Benessere Adi Shakti” di Verona. Grazie a esercizi di respirazione e di rilassamento, si favorisce così una interazione tra uomo e cavallo segnata da calma e tranquillità reciproche. L’associazione. Da anni Corte Molon, con l’associazione “Horse Valley” diretta da Linda Fabrello, lavora nel campo del sociale utilizzando il cavallo in interventi assistiti per affrontare la disabilità e i problemi emozionali degli adolescenti. Ma anche per dare una maggiore qualità alla vita in carcere, preparando gruppi di detenuti della casa circondariale di Montorio a relazionarsi con il mondo animale. Macerata: presentato il libro “La luna è dietro le sbarre, il mare ha il colore del sole” viveremacerata.it, 13 giugno 2019 Venerdì 31 maggio all’Auditorium Ite “Alberico Gentili”, in via Cioci, 6 a Macerata, è stato presentato il libro “La luna è dietro le sbarre, il mare ha il colore del sole” che ha preso forma dall’esperienza della scuola di istruzione per adulti nel carcere di Marino del Tronto. Sono intervenuti gli autori, Glauco Giostra Ordinario di procedura penale, Facoltà di Giurisprudenza Università degli Studi di Roma La Sapienza e Francesco Petrelli dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Ha moderato i lavori Riccardo Minnucci Videomaker di Popsophia. Il progetto “La Scuola in Carcere” - ricorda la Dirigente scolastica del Centro Provinciale Istruzioni Adulti di Macerata Sabrina Fondato - si è svolto per la maggior parte nella casa circondariale di Marino del Tronto. Sono state raccolte brevi testimonianze riportate da parte di alcuni detenuti e di alcuni giovani migranti, riguardanti ricordi ed esperienze che ricostruiscono le loro storie di vita. Il progetto rappresenta un tentativo di sviluppare un percorso di integrazione socio-culturale attraverso forme di scrittura partecipata, che ripercorra, attraverso la memoria, i momenti più importanti della vita delle persone che hanno accettato di coinvolgervisi. Le storie di vita sono state raccolte tramite incontri, interviste e laboratori di scrittura con i detenuti ed i migranti, che privilegiassero l’ascolto e l’empatia come atteggiamento da parte degli insegnanti promotori del progetto. La pubblicazione che ne è derivata è stata fortemente voluta dalla dirigente prof.ssa Sabrina Fondato e dal prof. Nazzareno Cioni, docente di lettere nella casa circondariale, che hanno creduto nel valore educativo e di integrazione del progetto stesso, che mira a far riflettere gli autori delle storie sui loro percorsi di vita personali. Per la parte grafica la prof.ssa Isabella Crucianelli ha generosamente messo a disposizione le immagini delle proprie opere che meglio potevano essere associate al significato profondo dei racconti. L’attuale fase di disseminazione si pone l’obiettivo di accrescere la conoscenza della comunità scolastica intorno alle circostanze di vita che possono favorire episodi di devianza e di rimuovere qualche pregiudizio nei confronti dell’alterità, del diverso, che possono manifestarsi in tante forme nella società di oggi. Andria (Bat): gli studenti del “Carlo Troya” alla scoperta del progetto “Senza Sbarre” andriaviva.it, 13 giugno 2019 Incontro con don Riccardo Agresti e il prof. avv. Giuseppe Losappio ed i tutors, avv. Lucio de Benedictis ed il prof. avv. Tiberio Di Bari. Nella mattinata di martedì 11 giugno 2019, i ragazzi del liceo “Carlo Troya” di Andria, coordinati dal tutor esperto avv. Lucio de Benedictis e dal prof. avv. Tiberio Di Bari, quasi a conclusione del Pon - Alternanza scuola lavoro, sono stati ospiti presso la Masseria San Vittore che porta avanti il progetto diocesano “Senza Sbarre”. Gli studenti hanno visto la partecipazione del Prof. Avv. Giuseppe Losappio: magistrale ed applauditissima la sua lezione sulla pena e sulla sua funzione rieducativa, mentre la convincente oratoria di don Riccardo Agresti, accompagnata dalla voce di uno dei suoi ospiti, lascia sempre un groppo in gola. “San Vittore è una splendida location per un qualcosa che non ha uguali: è un luogo ameno - scrive sui social l’avv. Lucio De Benedictis in merito al progetto- dove si svolge un lungimirante progetto di inclusione di detenuti fonte di speranza per chi, riconoscendo i suoi errori, sta cercando di redimersi e di rendersi utile sia per la società che per se stesso. Lo Stato qui collabora con la Diocesi (qui rappresentata dal tenace don Riccardo Agresti e da don Vincenzo Giannelli) nel ricostruire l’uomo distrutto dalla dura esperienza carceraria, non con parole, ma facendolo lavorare (i detenuti coltivano terra, producono pasta, ecc.). Alcuni di loro la sera tornano in carcere sapendo però che la mattina dopo non vedranno i tre metri quadrati di una triste cella, ma campi coltivati ed andranno a lavorare, si sentiranno utili”. San Gimignano (Si): premio speciale per tre studenti-detenuti di Ranza ilcittadinoonline.it, 13 giugno 2019 “Premio speciale della giuria” per tre studenti della sede carceraria di Ranza dell’Istituto enogastronomico di Colle Val d’Elsa - indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale “Bettino Ricasoli” di Siena - al concorso di scrittura creativa in lingua francese “Ça twitte! 140 manières de le dire” organizzato nei giorni scorsi dall’Università per Stranieri di Siena. Gli studenti detenuti sono stati premiati per tre testi brevi dedicati ai migranti e all’esperienza del carcere e hanno ricevuto i libri messi a disposizione per tutti i vincitori del concorso dalla Librairie française di Firenze, sostenitrice dell’iniziativa. I premi e l’attestato di partecipazione degli studenti di Ranza sono stati ricevuti dal dirigente scolastico dell’Istituto “Bettino Ricasoli”, Tiziano Neri, e dalla referente dell’Istituto per la sede carceraria di Ranza, Gilda Penna, che hanno sottolineato l’impegno e la crescente partecipazione degli studenti detenuti verso iniziative di crescita personale e di confronto con il mondo esterno attraverso la scuola e la didattica messa a disposizione dall’Istituto “Bettino Ricasoli”. Il concorso “Ça twitte! 140 manières de le dire” era aperto a tutti i residenti e gli iscritti in istituti della regione Toscana e ha diviso i partecipanti in quattro categorie - due dedicate alla “Prosa” e due alla “Poesia” - aperte a studenti e studentesse delle scuole secondarie di secondo grado e a studenti e studentesse universitari e adulti, chiamandoli a scrivere testi poetici oppure in prosa a tema libero pari alla lunghezza di un tweet, 140 caratteri. Padova: Pentecoste in carcere, 150 persone all’iniziativa de “La Difesa s’incontra” di Irene Argentiero La Difesa del Popolo, 13 giugno 2019 “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo” (At 2,1). Inizia così il passo degli Atti degli Apostoli con cui si apre la liturgia della Parola nella domenica di Pentecoste. E si sono ritrovate “tutte insieme nello stesso luogo” le 120 persone che hanno deciso di trascorrere la Pentecoste nel “cenacolo” del “Due Palazzi”. Con loro anche una trentina tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria e volontari del carcere di Padova. “Tutti insieme nello stesso luogo”, persone di nazionalità, cultura e storie diverse, dalle 8 alle 15, senza contatti con il mondo esterno, senza cellulari, pc o tablet. “A pranzo in carcere”, il titolo dell’iniziativa nata dalla collaborazione tra la direzione e la parrocchia del carcere “Due Palazzi”, l’associazione “La Difesa s’incontra” e la cooperativa Work Crossing. “La nostra Pentecoste con voi”, annunciava nei giorni scorsi dalla sua pagina Facebook l’associazione (emanazione del settimanale diocesano “La difesa del popolo”), rilanciando un post de “Sulla strada di Emmaus”. “È un’iniziativa semplice - racconta don Marco Pozza, parroco del “Due Palazzi” - nata per far conoscere la realtà del carcere e per dare la possibilità, a chi vuole, di verificare se quello che si conosce o si sa del carcere corrisponde veramente alla realtà”. Un’iniziativa semplice, che ha riscosso fin da subito grande consenso. “Per ragioni organizzative si è trattato di una proposta a numero chiuso - spiega don Marco -. Il termine per le adesioni era stato fissato per i primi di maggio. Più di 60 le persone che sono rimaste in lista d’attesa”. Tre i momenti che hanno scandito la Pentecoste nel “cenacolo” del “Due Palazzi”. La giornata è iniziata coi racconti e le testimonianze sul e dal carcere. Due ore di dialogo con chi oggi si trova nel “Due Palazzi” per scontare una pena. Ma non solo. Due ore per confrontarsi anche con quei pregiudizi che - prima di scoccare come frecce appuntite dall’arco delle nostre certezze - non tengono quasi mai conto delle storie di vita (tutt’altro che semplici) di chi oggi si trova in carcere. Il dialogo, fatto di parole, si è poi aperto e confrontato con la Parola, durante la celebrazione della messa nella cappella del carcere. Dalla mensa eucaristica si è passati, quindi, alla mensa del “Due Palazzi”, per continuare - uno accanto all’altro - il dialogo e la condivisione. Per ascoltarsi e comprendersi, com’è capitato alla gente che - così raccontano gli Atti degli Apostoli - giunta al Cenacolo, sente i discepoli colmi di Spirito Santo parlare nella propria lingua. “Lo Spirito Santo ci ricorda che Cristo è all’opera anche là dove non si pensa”, commenta don Marco Pozza. Una Pentecoste, quella nel “cenacolo” del “Due Palazzi” di Padova, vissuta da “reclusi” dietro le sbarre, ma nella libertà di chi osa andare oltre le barriere della paura e del pregiudizio. Cagliari: “Narrazioni Scatenate”, il romanzo collettivo dei detenuti di Uta di Francesco Abate L’Unione Sarda, 13 giugno 2019 E se la Lapponia diventasse la Sardegna e l’ispettore della polizia segreta Jalmari Jyllänketo si chiamasse invece Gianchetto Lodé? Ecco che il romanzo “La fattoria dei malfattori” di Arto Paasilinna (Iperborea) diventa l’ispirazione perfetta per un gruppo di detenuti reclusi nella Casa circondariale di Uta Ettore Scalas, impegnati nella scrittura di un romanzo collettivo. Dopo aver partecipato al laboratorio di lettura e scrittura creativa portato avanti dalle associazioni Tusitala e Terra Atra, venerdì mattina presenteranno il lavoro finale al resto della popolazione carceraria, agli educatori e psicologi, all’area educativa e al personale del carcere. Il testo verrà poi presentato e distribuito attraverso il Sistema bibliotecario cagliaritano e nel circuito dei Festival letterari sardi. Dallo scorso febbraio sono stati coinvolti più di quaranta detenuti, di età, nazionalità e culture diverse grazie al lavoro dei volontari Carlo Birocchi, Maddalena Brunetti, Raffaele Cattedra, Rosi Giua, Francesca Mulas e Margherita Riva. A fine giugno partirà il secondo laboratorio del progetto “Narrazioni Scatenate”, a cui le associazioni affiancheranno l’attività di cineforum e l’organizzazione di incontri: sono attesi Uliano Lucas, Cristiano Cavina e Gianni Stocchino. Olbia (Ss): l’arte come ponte tra i detenuti e il territorio La Nuova Sardegna, 13 giugno 2019 Questo è l’obiettivo della mostra che si terrà nello spazio Faber dal 17 al 22 giugno. Protagonisti i detenuti di Nuchis, autori di dipinti, sculture e opere di artigianato ispirate agli scatti di alcuni fotografi che attraverso le loro immagini hanno portato il mondo esterno all’interno del carcere. “Il varco nel muro” è il titolo della mostra nella quale saranno esposti sia i lavori dei carcerati che le foto dei fotografi. “L’arte come ponte fra il dentro e il fuori - spiega Edy Baldino, garante dei diritti dei detenuti nel comune di Tempio che ha organizzato l’evento in collaborazione con l’area educativa del carcere di Nuchis e l’autorizzazione e supervisione della direzione penitenziaria. Il progetto nasce dall’idea di utilizzare l’arte per creare un collegamento fra le persone detenute e il territorio circostante. I detenuti hanno potuto vedere fuori dalle sbarre attraverso gli occhi di fotografi locali, riproducendo, poi, ognuno secondo la propria sensibilità artistica, le immagini più significative del nostro territorio, tanto sotto l’aspetto paesaggistico quanto sotto quello antropologico. Come recita il titolo della mostra, l’arte diventa così un varco nel muro”. Direttore artistico è il fotografo di Tempio Massimo Masu. Hanno collaborato i fotografi Franco Pampiro, Antonello Naitana, Giuseppe Goddi. L’evento è patrocinano dal Comune, dai Lions di Tempio, e dalla coop “Il piccolo principe” di Tempio. Radio Radicale, 48 ore decisive: “Non moriremo in silenzio” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2019 La vita di Radio Radicale si deciderà nelle prossime 48 ore. Tutto dipende da quello che accadrà nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, da cui uscirà il testo del decreto crescita che giungerà lunedì in aula per essere sottoposto alla fiducia richiesta dal Governo. Ieri pomeriggio i lavori nelle commissioni sono stati sospesi perché, come ha spiegato il presidente della Bilancio Claudio Borghi, la sospensione “servirà per vedere di risolvere la questione”. La strada più percorribile potrebbe essere quella di un emendamento presentato dal relatore del decreto crescita, il leghista Centemero. Proprio il leader del Carroccio, Matteo Salvini, qualche ora prima aveva dichiarato: “Su Radio Radicale non cambio idea rispetto a quanto ho detto prima delle elezioni: non si cancella l’esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna. Il mandato a nome della Lega in Commissione è di lavorare affinché questa voce ci sia”. Intanto ieri pomeriggio Radio Radicale, Fnsi e Partito Radicale hanno tenuto alla Camera una conferenza stampa: una delegazione dell’emittente radiofonica e del partito di Pannella hanno consegnato alla cancelleria della Presidenza del Consiglio le oltre 170.000 firme raccolta a favore di Radio Radicale su change.org. Diversi i parlamentari presenti alla conferenza stampa: Laura Boldrini, Renato Brunetta, Graziano del Rio, Luca Paolini, Stefano Fassina, Fabio Rampelli, Federico Mollicone, e Roberto Giachetti, in sciopero della fame da 27 giorni che ha precisato: “se si tagliano i fondi a Radio Radicale si stabilisce a priori che non la si vuol fare partecipare alla gara del servizio”. Tutti gli esponenti politici, insieme a Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi, si sono trovati d’accordo nel dire che quella per Radio Radicale è una battaglia costituzionale per la libertà di informazione, sui cui deve essere il Parlamento ad esprimersi. Ha chiuso l’incontro Giovanna Reanda, del cdr di Radio Radicale: “Qualsiasi cosa accadrà in questi giorni, noi non la finiamo qui, noi non abbiamo intenzione di morire in silenzio”. Radio Radicale, Lega e M5S trattano in commissione di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 giugno 2019 Vito Crimi si impunta. Salvini: “Su Radio Radicale non cambio idea rispetto a quanto ho detto prima delle elezioni: non si cancella l’esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna”. Nulla come la battaglia per tenere viva Radio Radicale riesce ad unire l’Italia politica. Neppure il 25 aprile o la Festa della Repubblica, si potrebbe dire con una bestemmia. E così, dopo che una delegazione “multipartisan” di parlamentari ha consegnato alla Cancelleria di Palazzo Chigi le oltre 167 mila firme raccolte in calce alla petizione lanciata su Change.org dal Partito Radicale, è andata in scena la migliore convergenza politica degli ultimi tempi. “Ci appelliamo alla Lega, che quando vuole si impegna sulle sue battaglie”, ha detto Laura Boldrini (Leu) ai colleghi del Carroccio durante la conferenza stampa tenutasi nel pomeriggio. Ed è tutto dire. Ma ha fatto bene, l’ex presidente della Camera. Perché mentre nella sala stampa di Montecitorio si susseguivano gli interventi di tutto l’arco parlamentare tranne il M5S (tra gli altri, Luca Paolini della Lega; Stefano Fassina e Federico Fornaro di Leu; Mauro Del Barba, Graziano Delrio, Roberto Giachetti (in sciopero della fame), Filippo Sensi, Stefano Ceccanti, Ivan Scalfarotto e Giuditta Pini del Pd; Fabio Rampelli e Federico Mollicone di FdI; Renato Brunetta di FI e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei giornalisti e dell’Fnsi), nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera le impuntature del Movimento 5 Stelle riuscivano a bloccare perfino i lavori sul Dl Crescita. È in quella sede, infatti, che si attende il provvedimento che potrà prolungare la vita dell’emittente fino a nuova gara, come previsto dalla stessa maggioranza di governo. Ed è l’ultima chance, perché in Aula sul provvedimento è già prevista la fiducia. E di tempo, Radio Radicale non ne ha molto, a tre settimane dalla scadenza della convenzione con il Mise. Ma ad un Matteo Salvini che ancora ieri ribadiva: “Su Radio Radicale non cambio idea rispetto a quanto ho detto prima delle elezioni: non si cancella l’esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna”, spiegando di aver dato mandato in Commissione “di lavorare affinché questa voce ci sia”, ha risposto un astioso Vito Crimi. “Ricordo, per mero dovere di cronaca, che nell’anno 2019 Radio Radicale ha maturato il diritto a percepire 9 milioni di euro, sottolineo 9 milioni di euro”, sono i conti del sottosegretario con delega all’Editoria. Un’erogazione che, secondo l’esponente grillino, “dovrebbe rassicurare anche la Lillo Spa che fattura 2,3 miliardi di euro, socio al 25% della Spa che controlla la radio di partito”. Naturalmente Crimi sa bene che questi numeri non vogliono dire molto, di per sé. E soprattutto sa che “per l’anno 2019, ad oggi, Radio Radicale non ha ancora incassato nulla”, come ricorda in una nota l’emittente (tecnicamente una Spa al 64% della Lista Marco Pannella, al 6% del Centro di produzione, al 25% della catena di discount della Lillo e al 5% della commercialista Cecilia Angioletti, partecipazioni queste ultime di carattere filantropico, ottenute nel 2000 a seguito di uno dei tanti appelli fatti nel corso degli anni da Pannella per salvare Radio Radicale). “Nei prossimi giorni - si legge ancora nel comunicato della radio - dovremmo incassare il corrispettivo per il primo semestre 2019 della convenzione con il Mise pari ad euro 4.098.000. La differenza di euro 902.000 viene versata direttamente dal Mise all’Agenzia delle entrate in base alla normativa sullo Split Payment. L’importo che incasseremo è stato anticipato dalle banche per consentirci di svolgere l’attività nel primo semestre di quest’anno. Il contributo per l’editoria di 4 milioni di euro per l’anno 2019 verrà incassato a dicembre 2020 in base al regolamento in vigore su tali contributi”. E, come sempre in questi casi, l’emittente potrà ricevere un anticipo della somma “di circa 1,6 milioni dal settembre 2019” solo “se le banche saranno disponibili”. Ma è proprio sulla somma che potrebbe essere stanziata nell’emendamento “salva archivio”, previsto come contributo per l’Editoria, che si discute in commissione. I lavori riprenderanno dopo che l’Aula avrà affrontato lo “sblocca-cantieri”. L’ultima chance per “un unicum, come il Colosseo” (copyright di Paolini, Lega) è la libertà di voto dei deputati a 5 Stelle. Libertà dai diktat ideologici. “Comunque vada, noi andremo avanti - promette Giovanna Reanda, del cdr di Rr - nessuno si illuda che il nostro stile significhi debolezza”. Scuola. Sul razzismo e su come combatterlo di Giuseppe Caliceti Il Manifesto, 13 giugno 2019 I bambini ci parlano. “Il razzista vuole una persona lontana da lui perché quella persona non gli piace anche se lei, quella persona, non gli ha fatto ancora niente di male e forse non gli fa male neppure dopo”. “Magari quella persona che non gli piace non era per niente cattiva ma era gentile, ha il carattere bello e gentile”. “Il razzista è antipatico, per me”. Dopo aver letto questi testi che parlano del razzismo e di come si può fare per combatterlo, mi dite con parole vostre cosa avete capito e cosa ne pensate? “Per me il razzismo è quando una persona mostra schifezza contro un’altra persona non uguale a lui. Cioè, non gli piace e…. Insomma, gli fa schifo”. “Per me uno che è razzista si sente superiore a un altro. E anche più bello. Perché lui, allora, non dice va che un altro gli fa schifo!” “Ma lui lo dice perché è razzista, altrimenti non lo diceva, se non era razzista”. “Anche per me il razzista si sente una persona superiore a un’altra, più intelligente”. “Oppure più furbo”. “Il razzista vuole una persona lontana da lui perché quella persona non gli piace anche se lei, quella persona, dico, quella persona, poi, per me non gli ha fatto ancora niente di male e forse non gli fa male neppure dopo”. “Magari quella persona che non gli piace non era per niente cattiva ma era gentile, ha il carattere bello e gentile”. “Il razzista è antipatico, per me”. “Il razzista non porta rispetto a una persona che non gli ha fatto niente e mostra un sentimento cattivo”. “Esatto. Per esempio è entrato nella tua classe qualcuno di pelle diversa, tu lo prendi in giro e dopo lui si ferisce”. “Questo per me non si deve fare e non devi sempre avere paura di una persona. Anche se non la conosci. Perché come fai a sapere se è una persona cattiva, se tu non la conosci ancora? Se non sai il suo nome? Se non hai ancora parlato con lui? Almeno aspetta un po’ e cerca di saperlo”. “Se invece tu dici che lui è cattivo anche se non lo sai, se è cattivo, questo è un pregiudizio”. “Per me basta anche un sorriso senza neanche parlargli e lui, per me, è felice. Lui, per me, si sente già meglio”. “Anche per me. Non si deve avere sempre paura di una persona!” Cosa vuol dire la frase che tutti siamo stranieri? “Vuol dire come c’è scritto sulla lettura del libro…. Vuol dire che se tu vedi una cartina geografica nella nostra scuola, l’Italia è al centro della cartina perché noi siamo in Italia, in una scuola italiana. Ma se noi eravamo dei bambini americani, al centro della cartina geografica c’era l’America. Oppure eravamo cinesi, c’era la Cina, al centro della cartina geografica. Oppure un altro paese e c’era quel paese, al centro della nostra cartina geografica. Ma nessuno è al centro. Tutti siamo al centro. Tutti siamo uguali. Dipende solo da che scuola frequentiamo e dove siamo nati. Dipende da dove andiamo a scuola”. “Dipende anche dalla cartina”. “Dipende, perché se tu non ce lo hai nella testa, non diventi mai razzista”. “Perché i figli si fidano dei loro genitori, ma non è colpa loro se sono un po’ razzisti o anche molto razzisti”. “Basta che tu vedi un disabile, per esempio, una persona disabile, che noi abbiamo dei bambini disabili che si vedono anche a scuola, delle volte… E lì hai già finito!” “Perché?” “Ma perché siamo tutti uguali, per me. Ma abbiamo delle caratteristiche diverse. Tipo la pelle. Tipo il carattere. Tipo l’aspetto fisico. Gli occhi. Oppure il colore degli occhi. O la forma. Oppure il corpo più disabile o meno disabile e insomma, si capisce!” “E allora?” “Poi tu non sai come sono loro che sono diversi da te, perché i razzisti non si interessano mai a loro, non gli parlano, non li conoscono bene, li prendono solo in giro”. “Magari non sanno neanche come sono loro nel loro paese. Perché magari loro non hanno l’acqua nel loro paese e sono venuti qui da noi perché da noi c’è ancora l’acqua e noi possiamo anche dargli un po’ d’acqua da bere, secondo me”. “Per me a questo mondo c’è molto razzismo perché tutti vogliono tutto e nessuno si accontenta. Nessuno non vuole niente”. “Perché tutti vogliono sempre di più Anche se non hanno sete”. “Questa cosa nel mondo c’è, però ci sono alcuni razzisti che hanno detto che non lo fanno più perché secondo me lo hanno capito, che così sono molto antipatici e certe cose non si fanno neppure tra bambini perché si deve giocare tutti insieme senza fare differenze. Almeno nella nostra scuola”. “Anche secondo me per risolvere il razzismo bisogna mangiare tutti insieme senza darsi delle arie e senza voler vincere”. Sea Watch salva 53 migranti. Salvini: “È una nave pirata” di Carlo Lania Il Manifesto, 13 giugno 2019 Nuove accuse del ministro a magistratura e alla ong: Che replica: “Non può calunniarci”. Appena il tempo di essere varato dal consiglio dei ministri e il nuovo decreto sicurezza, pensato per colpire le navi delle ong, viene utilizzato come un’arma da Matteo Salvini. Il ministro degli Interni approfitta del salvataggio di 53 migranti compiuto ieri mattina al largo della Libia dalla Sea Watch 3, che accusa di essere una “nave pirata”, per tornare ad attaccare la ong tedesca e i magistrati: “È evidente il collegamento tra scafisti e alcune ong - dice. Probabilmente solo qualche procuratore non se ne accorge, ma i resto del mondo sì”. Infine la minaccia di applicare le norme appena varate e che oltre a una multa tra i 10 mila e i 50 mila euro per il comandante prevedono anche il sequestro della nave nel caso dovesse fare rotta verso l’Italia: “Non vediamo l’ora di usare i nuovi strumenti del decreto sicurezza bis per impedire l’accesso alle nostre acque territoriali”. Alle parole del leghista ha risposto la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi: “Salvini non ha alcun diritto di calunniarci - dice. Lo fa per via della sua posizione ma dovrebbe assolutamente astenersi da questi commenti”. Ieri sera la Sea Watch 3 navigava ancora in acque internazionali in attesa dell’indicazione di un porto sicuro che difficilmente arriverà in tempi brevi. L’ultimo caso destinato ad aprire uno nuovo scontro tra governo gialloverde e la ong comincia dodici ore prima, verso le 9,53 del mattino, quando l’aereo Colibrì che collabora con la ong tedesca nella pattugliamento del Mediterraneo centrale avvista un gommone carico di migranti e informa le autorità italiane, maltesi, libiche e dell’Olanda, paese di bandiera della Sea Watch 3. Alle 15,30 la nave arriva i prossimità del gommone che si trova a circa 47 miglia al largo di Zawiya, uno dei principali punti di partenza libici del barconi. In piene acque internazionali quindi e non, come affermerà più tardi, “in zona Sar libica”. Nel frattempo la Guardia costiera libica aveva comunicato di aver assunto il coordinamento delle operazioni. “Giunti sulla scena, priva di alcun assetto di soccorso - scrive ancora l’ong - abbiamo proceduto al salvataggio, come il diritto internazionale impone”. Sea Watch aggiunge che una volta completato il soccorso, e con i 53 migranti già a bordo della nave, è arrivata una motovedetta libica che si è limitata ad osservare quanto stava accadendo. Tra le persone tratte in salvo, la maggior parte delle quali provenienti dall’Africa subsahariana, anche nove donne e quattro minori, due dei quali non accompagnati. Appreso del salvataggio, Salvini parte all’attacco: “Non rispettando le indicazioni della Guardia costiera libica è l’ennesima atto di pirateria di un’organizzazione fuorilegge”, dice il ministro dimenticando che la ong tedesca opera in legalità e che la nave è stata dissequestrata il 1 giugno scorso dalla procura di Agrigento. Una possibilità che adesso, stando a quanto previsto dal nuovo decreto sicurezza bis, potrebbe non ripetersi visto che eventuali sanzioni contro la ong, nel caso entrasse in acque territoriali italiane senza il permesso del Viminale, verrebbero decise direttamente dal prefetto. Resta da vedere quindi cosa deciderà adesso la ong, se forzare la mano e dirigere verso un porto italiano, con le conseguenze che questa scelta comporterebbe, o restare in attesa in alto mare. Intanto si è riacceso lo scontro politico: “Mentre dal Veneto alla Sicilia si allungano ogni giorno di più le ombre sulla Lega e sui suoi rapporti opachi - accusa Nicola Fratoianni, di Sinistra italiana - il ministro dell’Interno non torva di meglio che scatenare anche oggi la sua dose di accuse strampalate e di parole velenose verso quelle organizzazioni che nel Mediterraneo salvano i migranti”. Ieri, infine, Medici senza frontiere e Sos Mediterranée hanno comunicato il numero dei migranti morti da quando, un anno fa, il governo gialloverde ha annunciato la chiusura dei porti: “Almeno 1.151 persone, uomini, donne e bambini vulnerabili, mentre oltre 10 mila sono state riportati forzatamente in Libia, esposte a ulteriori e inutili sofferenze”, hanno denunciato le due ong. Democrazia e web. Senza gerarchie culturali siamo tutti troppo uguali di Luca Ricolfi La Stampa, 13 giugno 2019 La preoccupazione per il destino della democrazia liberale presente in molti degli interventi del dibattito aperto dal Messaggero nei giorni scorsi e sicuramente giustificata. Sì, effettivamente social media e nuove tecnologie stanno sconvolgendo il funzionamento della politica. La mancanza di mediazioni rende più incerto che in passato il confine fra vero e falso. Immense praterie si aprono a quanti intendono sfruttare la credulità popolare per i propri fini. Tutto questo è reale, ma è davvero una novità del presente? La mia impressione è che le radici di quel che oggi inquieta tanti di noi siano antiche, e poco abbiano a che fare con l’irruzione dei social media nella vita politica. Prendiamo, ad esempio, l’evoluzione della leadership, ovvero la tendenza dei capi a saltare la mediazione degli apparati. La vera rottura è avvenuta fin dal 1994, con la discesa in campo di Berlusconi, ma è difficile non vedere che quella rottura avveniva su un terreno, quello della comunicazione diretta fra il leader e le masse, che era stato ampiamente arato da Sandro Pertini e Karol Wojtyla, assurti insieme l’uno al vertice della Repubblica l’altro a quello della Chiesa fin da11978, ossia 16 anni prima dell’ingresso in politica di Berlusconi. Noi oggi siamo impressionati da Salvini che posta su internet una foto mentre addenta pane e Nutella. Ma forse dovremmo chiederci perché mai, se il Papa twitta, conversa con i giornalisti in aereo, e telefona a Uno Mattina, i politici dovrebbero osservare un contegno più sobrio. Un discorso analogo si potrebbe fare per la presunta democrazia diretta della piattaforma Rousseau, che affida a poche decine di migliaia di iscritti decisioni politiche cruciali. Sembra un modello nuovo, ma in realtà è la riedizione della democrazia assembleare di mezzo secolo fa, quando un manipolo di studenti politicizzati (circa un giovane su 10, secondo le ricostruzioni statistiche) pretendeva di parlare a nome di tutti, perché solo le avanguardie contano, e perché “gli assenti hanno sempre torto”. Mi si potrebbe obiettare che il vero problema, oggi, è che il desiderio di contare, di essere qualcuno o “qualcunismo”, si è trasformato nella credenza di essere alla pari con esperti, studiosi, tecnici e competenti in genere. L’utente della rete non riconosce alcuna gerarchia di conoscenza, pensa di poter esprimere opinioni su qualsiasi materia, senza complessi di inferiorità verso chicchessia. È vero, ma la mia domanda è: ve ne accorgete solo ora? E credete davvero che la colpa sia della Rete? Anche qui a me pare che i processi che ci hanno portato dove ora siamo, ovvero al rigetto sistematico e generalizzato di qualsiasi autorità e gerarchia culturale, siano ben precedenti alla nascita di internet e alla sua invasione della sfera politica. È dalla fine degli anni 60, in piena prima Repubblica, che le grandi istituzioni che mediavano fra il cittadino e la collettività nazionale hanno progressivamente abdicato ad ogni ruolo di guida, e proclamato quella sorta di egualitarismo culturale di cui ora la Rete si limita a raccogliere i frutti finali. La giusta esigenza di “ascolto” di chi si trova in qualche senso al di sotto, o al di fuori, o ai margini, si è trasformata progressivamente in una sorta di sdoganamento dell’ignoranza, della volgarità, della presunzione e della prepotenza dei singoli. Vale per la radio, in cui le opinioni più infondate o volgari sono assurte progressivamente a protagoniste legittime, alla pari di tutte le altre; vale per la televisione, quasi completamente trasformata in macchina di intrattenimento; vale per la scuola e l’università, mestamente acconciate ad abbassare drammaticamente gli standard; vale per la famiglia, con la rottura dell’alleanza con la scuola e la trasformazione dei genitori in sindacalisti dei figli. Poteva non accadere lo stesso in politica? Oggi è facile vedere il disastro, perché l’ideologia secondo cui siamo tutti alla pari, e le competenze non contano, è proclamata ai quattro venti. Ma vogliamo vedere anche come ci siamo arrivati? Fra la dottrina della rottamazione della classe dirigente, che per diversi anni ha imperato nel dibattito pubblico, e l’attuale credenza che chiunque possa fare il ministro, fra l’imbarbarimento dei media e l’irresponsabilità comunicativa dei politici, c’è un filo di continuità che faremmo bene a non nasconderci. Il guaio dei social media e delle nuove tecnologie è di rendere ancora più facile, quasi più naturale, proseguire sulla strada che da mezzo secolo stiamo percorrendo. Ma è un guaio che, forse, ha il suo lato positivo: oggi i danni e i pericoli dell’egualitarismo culturale, proprio perché sono messi quotidianamente in scena da una politica del tutto priva di freni inibitori, sono più evidenti che mai. Sta a noi decidere se ci va bene così, o se è il caso di cambiare rotta. Sapendo una cosa, però: che siamo arrivati a questo punto, non è colpa di Internet, ma della lunga stagione di irresponsabilità che ne ha preceduto e preparato il trionfo. I giovani in corteo dimostrano che il cinismo non ha vinto di Gianni Riotta La Stampa, 13 giugno 2019 L’amore per la libertà, il diritto, la giustizia, la libertà di parola, l’uguaglianza della gente semplice davanti al potere assoluto non sono dunque scomparsi in questo XXI secolo di Moloch politici, nichilismo, indifferenza. Le proteste di queste ore a Hong Kong contro una legge capestro che permetterebbe la deportazione in Cina di ogni cittadino, qualunque passaporto abbia in tasca, e i cortei in Russia a favore del giornalista Ivan Golunov, arrestato dalla polizia per i suoi articoli sulla corruzione del regime del presidente Vladimir Vladimirovic Putin, confermano che il cinismo alla moda non ha vinto per sempre. Nel 2019 studenti, lavoratori, intellettuali, adolescenti, sindacati, giornalisti - colleghi cui va la nostra più affettuosa solidarietà -, dirigenti politici onesti, imprenditori, manager, operai, gente di ogni età, cultura, ceto sociale, come i loro avi nell’Ottocento e Novecento, testimoniano che benessere e quieto vivere poco valgono senza giustizia e libertà. Che lezione per noi, stanchi, rassegnati, delusi, vedere gli studenti di Hong Kong, con i leader della comunità d’affari dell’ex colonia inglese, affrontare le pallottole di gomma (arma che in passato ha ucciso), i gas della polizia del commissario Lo Wai-Chung, le cariche, le botte. Carrie Lam, capo esecutivo filocinese di Hong Kong, ha pianto in diretta tv “Non venderò Hong Kong”, ma non ritira la legge iniqua, sa che il presidente Xi Jinping vuole pugno di ferro contro i barlumi di democrazia, 30 anni dopo le stragi di piazza Tienanmen. Hong Kong aveva negoziato uno statuto di autonomia, tornando sotto la madrepatria, ma da allora i margini di tolleranza si sono erosi e, con la legge sull’estradizione, la Cina preoccupa perfino - ha raccontato in un reportage Radio Radicale - i sindacati ufficiali della metropoli asiatica. Mentre i teenager di Hong Kong - i dimostranti han meno di trent’anni - vivevano il loro battesimo nella battaglia senza fine per i diritti umani e civili, a Mosca la polizia caricava i dimostranti solidali con il giornalista Ivan Golunov della testata dissidente Meduza (seguitela via twitter @meduza_en). Golunov, da tempo, racconta il viluppo tra malaffare e politica della Russia di oggi, ed è stato fatto bersaglio di minacce e malversazioni, come tutti i reporter non allineati alla propaganda del Cremlino. Alla fine, la polizia ha deciso di arrestarlo, accusandolo di tenere in casa un laboratorio per fabbricare droghe. Davvero ci vuole la rozzezza da chekisti, gli sbirri stalinisti della vecchia Lubyanka, quartier generale di spie e provocatori, per immaginare un cronista dissidente, che si sa controllato giorno e notte e teme per la vita come la Politovskaia, Nemtsov e i tanti oppositori caduti, che si mette a fabbricare stupefacenti in cucina! Dopo le prime proteste, Putin, la più astuta volpe d’Europa, ha capito che stavolta s’era ecceduto e ha fatto rilasciare Golunov, pur picchiato e lasciato senza cibo per ore. Il medico Alexander Myasnikov, sodale del presidente e candidato nelle sue liste, ha rifiutato però a Golunov il ricovero in ospedale, malgrado le ferite al petto e al volto “Non ho simpatia per lui” ha tagliato corto. Ma la vecchia Mosca anticonformista, stavolta, non ha guardato dall’altra parte. Giornalisti russi e stranieri, studenti, oppositori guidati da Alexey Navalny, gente qualunque, hanno sfidato Putin e miliziani e, per la prima volta dal 2018 quando fu cambiata la legge sulle pensioni, il regime s’è visto contestare da Chistye Prudym, Nordest della capitale, fino al comando della polizia in via Petrovka tra arresti e cannonate d’acqua gelida mentre i giornali economici indipendenti stampavano in prima pagina un identico appello. Preoccupato, Putin ha incaricato il fido consigliere Anton Kobyakov di provare a risolvere il caso, magari cercando un capro espiatorio tra i poliziotti. I coraggiosi dimostranti di Hong Kong e Mosca non avranno la meglio presto sui colossi che sfidano. Ma, in sole 48 ore, con la nobiltà della loro condotta, han smentito la fola corriva, popolarizzata dai saggi forbiti dello studioso Daniel A. Bell che “un sistema centralizzato possa funzionare meglio delle democrazie”, togliendo a noi occidentali pigri l’alibi del “non vale la pena, non c’è nulla da fare, viviamo il tempo polarizzato del nazionalismo”. Con le spalle al muro, con niente in pugno se non la fondamentale dignità umana, Hong Kong e Mosca si stanno battendo anche per noi, ricordandoci quello per cui vale la pena di battersi, sempre. Non lasciamole sole. Russia. Arresti alla marcia per il giornalista Golunov, ma Putin non fa più paura di Giuseppe Agliastro La Stampa, 13 giugno 2019 Scene di ordinaria repressione politica hanno sconvolto ieri la Russia, dove le difficoltà economiche stanno contribuendo a riaccendere le proteste e ad affossare lentamente la popolarità di Putin. A Mosca, la polizia ha soffocato con centinaia di fermi un corteo pacifico a sostegno del reporter anticorruzione Ivan Golunov, arrestato per spaccio di droga e poi liberato perché l’accusa si era di fatto rivelata una trappola per incastrarlo. Tra i dimostranti portati in commissariato c’è anche Aleksey Navalny, il più carismatico tra i leader dell’opposizione. Il numero esatto dei fermati non è chiaro. Il ministero dell’Interno riferisce di oltre 200 persone trascinate nelle camionette della polizia. Ma secondo l’ong Ovd-Info sarebbero più di 400. In picchiata Sotto un cielo grigio e nonostante la leggera pioggia, almeno 3.000 persone si sono date appuntamento ieri in Piazza Turgenev. Il corteo attraversa le vie del centro di Mosca mentre gli altoparlanti della polizia avvertono di continuo che la manifestazione non è autorizzata. Ma le proteste vietate spaventano sempre meno i russi. L’aumento dell’età in cui andare in pensione, il Pil che non decolla, l’inflazione alta e la riduzione dei salari reali alimentano il crescente malcontento. Il calo dei prezzi del greggio potrebbe peggiorare ulteriormente la situazione. Putin resta un leader popolare, ma lo è sempre meno. Nel 2015, l’86% dei russi approvava il suo operato. Ora, il 65%. Da alcuni mesi anche la Russia profonda ha riscoperto le manifestazioni di massa. Ma Mosca resta la principale città del Paese anche in questo. “Liberate i prigionieri politici”, urlava ieri un gruppo di giovani. Qualcuno indossava una maglietta con lo slogan simbolo di questi giorni: “Io, noi siamo Ivan Golunov”. Inizialmente il corteo era stato organizzato per chiedere il rilascio del giornalista noto per le sue inchieste sulla corruzione nelle alte sfere delle istituzioni russe. Ma Golunov è stato strategicamente scagionato proprio la sera prima della manifestazione. “Per mancanza di prove”, ha spiegato il ministro dell’Interno Kolokoltsev. Per mettere fine a uno scandalo ormai di portata mondiale ed evitare altre proteste massicce, pensano diversi osservatori. Le false accuse La gente però è scesa in piazza lo stesso. Stavolta chiedendo alle autorità di mantenere quanto promesso: portare davanti a un giudice coloro che hanno cercato di rovinare Ivan Golunov. Il ministro dell’Interno ha sospeso gli agenti che avevano arrestato il giornalista e minaccia di cacciare due generali. I poliziotti dicevano di aver trovato 3 grammi di droga sintetica nello zaino del reporter e poi 5 grammi di cocaina e vari strumenti da pusher nel suo appartamento. Ma tutto fa pensare a uno schema architettato per far finire dietro le sbarre un personaggio scomodo come Golunov. La droga probabilmente l’avevano piazzata nello zaino e nell’appartamento gli stessi poliziotti, che hanno inoltre picchiato ferocemente Golunov fino a procurargli una sospetta commozione cerebrale. “Dobbiamo farci sentire ora, altrimenti continueranno a calpestare la Costituzione”, dice il giovane Kirill. Poco dopo, interi plotoni di agenti in assetto antisommossa si lanciano contro chi manifesta. Afferrano e trascinano via con la forza chiunque gli capiti a tiro. Anche alcuni cronisti. “Vergogna!” urla la folla. “Grazie per la sicurezza!” grida sarcasticamente una vecchietta. Chi è stato fermato rischia fino a 20 giorni dietro le sbarre. L’oppositore Navalny, che da anni esce ed entra dal carcere, ne rischia 30 perché è stato (erroneamente) identificato come uno degli organizzatori della protesta. La Russia di Putin ha dimostrato ancora una volta di non avere alcun rispetto per le libertà fondamentali. Dura la condanna di Amnesty International: “Questi arresti arbitrari e spesso brutali - denuncia - sono un perfetto esempio della repressione crudele che ha giustamente spinto i manifestanti a scendere in strada”. Russia. Difensore civico: “uso forza contro detenuti è mancanza professionalità polizia” agenzianova.com, 13 giugno 2019 Il Difensore civico per i diritti umani della Federazione Russa, Tatjana Moskalkova, ritiene che l’uso della forza contro i detenuti sia indicativo della mancanza di professionalità della polizia. “In qualsiasi caso non si può usare la forza. Quando ciò accade emerge una mancanza di professionalità”, ha dichiarato Moskalkova ai giornalisti. Oggi, nel centro di Mosca, si sono tenute delle manifestazioni non autorizzate dalle autorità a sostegno di Ivan Golunov, il giornalista del portale “Meduza” arrestato nei giorni scorsi per possesso di stupefacenti e scagionato ieri direttamente su mandato del ministero dell’Interno. Secondo il dicastero, 1.200 persone hanno partecipato al corteo e 200 sarebbero state arrestate. Catalogna. Chiuso il processo ai leader indipendentisti, chieste condanne fino a 25 anni di Alessandro Oppes La Repubblica, 13 giugno 2019 L’ultima difesa dei politici imputati: “Nessuna violenza, il nostro è un movimento pacifico”. Ma il pm insiste sulla tesi della “ribellione” con la quale avrebbe cercato di provocare la rottura dell’unità della Spagna. La sentenza in autunno. Quattro mesi, 52 udienze e più di cinquecento testimoni: con la formula di rito “visto para sentencia” (pronto per la sentenza) pronunciata dal controverso presidente Manuel Marchena, si è concluso davanti al Tribunale Supremo spagnolo il processo a dodici leader indipendentisti catalani, 9 dei quali in carcere, alcuni da oltre un anno e mezzo. Il verdetto verrà pronunciato solo in autunno, probabilmente in ottobre, ma nell’ultima sessione della fase dibattimentale i pubblici ministeri hanno confermato le pesantissime accuse che prevedono pene fino ai 25 anni di reclusione. La più grave è quella di “ribellione”, che secondo il codice dovrebbe essere una sollevazione violenta per sovvertire l’ordine costituzionale. A giudizio della procura, l’organizzazione del referendum secessionista del 1° ottobre 2017 (dichiarato illegale dalla Corte costituzionale) e, il giorno 27 dello stesso mese, la dichiarazione unilaterale d’indipendenza approvata dal Parlamento catalano, sarebbero state un tentativo di colpo di Stato, un attentato contro l’unità nazionale della Spagna. Molti giuristi ritengono assolutamente sproporzionata l’accusa di ribellione, anche perché nel corso del processo non sono state portate prove del fatto che ci sia stata violenza (se non quella esercitata dalla polizia contro elettori inermi nella giornata referendaria del 1° ottobre, per la quale sono in corso in altri tribunali procedimenti contro diversi agenti e ufficiali di polizia). Alcuni degli imputati sono stati nel frattempo eletti deputati alle legislative del 26 aprile scorso. Ma dopo aver preso possesso del loro seggio alle Cortes sono stati successivamente sospesi. Ora si ripropone lo stesso problema in vista della seduta inaugurale del Parlamento europeo, in programma il 2 luglio a Strasburgo. Oriol Junqueras, il leader di Esquerra republicana per il quale il pm chiede la pena più alta - 25 anni di carcere - è stato eletto eurodeputato ma non sa ancora se potrà effettivamente occupare il seggio: è possibile che venga autorizzato a ritirare le credenziali, ma poi nuovamente sospeso, in attesa che in autunno arrivi la sentenza. È stato proprio Junqueras il primo degli imputati a rivolgersi al tribunale per le considerazioni finali, ricordando che un conflitto politico come quello in corso da anni in Catalogna non sarebbe mai dovuto arrivare davanti alla giustizia: “La cosa migliore per tutti sarebbe restituire la questione alla politica, al dialogo e all’accordo”. Raül Romeva, ex “ministro” degli Esteri del governo catalano, ha assicurato che, “qualunque cosa succeda, continueremo a tendere la mano”, mentre Jordi Sànchez, all’epoca presidente dell’Assemblea Nacional Catalana, la più importante organizzazione civica dell’indipendentismo, ha difeso il carattere pacifico della giornata referendaria: “Fu un atto di protesta e di disobbedienza, non fu una giornata di violenza”. In serata centinaia di manifestanti sono scesi in piazza a Barcellona per chiedere l’assoluzione dei politici imputati. Sudan. Nel Paese almeno 19 bambini uccisi e 49 feriti dal 3 giugno scorso La Repubblica, 13 giugno 2019 Il rapporto di Unicef. Notizie di bambini detenuti, reclutati per combattere e vittime di abusi sessuali. Scuole, ospedali e ambulatori utilizzati come obiettivi, saccheggiati e distrutti. Dal 3 giugno scorso in Sudan, almeno 19 bambini sarebbero stati uccisi e altri 49 feriti. A segnalare il forte impatto sui bambini e i giovani per le continue violenze e disordini nel Paese, è l’Unicef soprattutto per l’uso eccessivo della forza che sembra sia avvenuto contro manifestanti pacifici. “Abbiamo ricevuto notizie di bambini detenuti - dice Henrietta Fore, direttore generale del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, con il mandato di tutelare i diritti di bambine, bambini e adolescenti - reclutati per partecipare ai combattimenti e vittime di abusi sessuali. Le scuole, gli ospedali e i centri sanitari sono stati utilizzati come obiettivi, saccheggiati e distrutti. Gli operatori sanitari sono stati attaccati solo perché facevano il proprio lavoro”. Uno stato di cose che induce molti genitori a non far uscire di casa i propri figli, impauriti dalle violenze, dalle possibili molestie e dall’illegalità diffusa e impunita. A questo si aggiunge la carenza di acqua, di cibo e di medicine un po’ in tutto il paese, condizione che mette a rischio la salute e il benessere dei più piccoli. I bambini in Sudan stanno già portando il peso di decenni di conflitti, sottosviluppo cronico e scarsa capacità di governo. Nonostante tutto - sottolinea una nota dell’Unicef - “di fronte a questa generale instabilità, il nostro lavoro per i bambini in Sudan continua. Stiamo fornendo a milioni di bambini, compresi quelli sfollati o rifugiati, vaccini, acqua sicura, cure per la malnutrizione acuta grave e supporto psicosociale”. “La violenza però deve terminare”. L’organizzazione umanitaria chiede a tutti coloro coinvolti di proteggere i bambini sempre e tenerli lontani dai pericoli. Ogni attacco contro di loro, contro scuole o ospedali è una gravissima violazione dei diritti umani fondamentali. L’Unicef, dunque, invita le autorità a consentire alle organizzazioni umanitarie di dare assistenza a coloro che ne hanno bisogno, anche attraverso l’accesso agli ospedali che sono off-limits o chiusi. “Mi unisco al Segretario generale delle Nazioni Unite - conclude Henrietta Fore - nell’esortare le parti a proseguire un dialogo pacifico e a riprendere i negoziati sul trasferimento del potere a un’autorità di transizione a guida civile. I bambini del Sudan vogliono la pace. La comunità internazionale deve assumere una posizione ferma a sostegno delle loro aspirazioni”. Nicaragua. Rilasciati oltre 100 detenuti politici dopo legge su amnistia agensir.it, 13 giugno 2019 Cinquanta detenuti politici liberati lunedì, altri 56 ieri, tra cui il direttore e la giornalista di “100% Noticias”, Miguel Mora e Lucía Pineda, in carcere dal dicembre scorso con l’accusa di terrorismo e incitazione all’odio. Sono gli effetti della legge sull’amnistia approvata in Nicaragua dal Parlamento sabato scorso, con i soli voti della maggioranza sandinista e la contrarietà dell’opposizione riunita nel cartello dell’Alianza Cívica. Secondo le opposizioni sono ancora 89 gli oppositori che si trovano in carcere. La legge è stata contestata perché viene presentata come un provvedimento di clemenza, peraltro previsto dai precedenti accordi raggiunti al tavolo del dialogo nazionale nei mesi scorsi, senza garantire le libertà e i diritti dei cittadini. La liberazione dei detenuti è stata comunque accolta in modo festoso ed è stata anzi l’occasione perché a Managua si formassero gruppi di manifestanti che chiedevano il ritorno a una piena libertà nel Paese. L’arcidiocesi di Managua, sui propri profili social, ha rilanciato una frase pronunciata domenica scorsa, in un colloquio con alcuni giornalisti, dall’arcivescovo, il card. Leopoldo Brenes: “Che escano dal carcere tutti i detenuti darà gioia a tutte le famiglie, speriamo che questa legge non le danneggi e che tutti coloro che sono stati privati della loro libertà possano vivere liberamente nel loro Paese”.