Per gli ergastolani la nostra Carta Costituzionale è carta straccia di Carmelo Musumeci osservatoriorepressione.info, 12 giugno 2019 Sto molto apprezzando l’iniziativa “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle carceri”. Il progetto è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018. Leggo che con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Molto tempo fa lessi nel Corriere della Sera, di giovedì 25 marzo 2010, che l’allora Presidente della Repubblica, Napolitano, riguardo alla nostra Carta Costituzionale, dichiarava: “La Carta si onora rispettando le Istituzioni”. In quegli anni ero ancora sepolto vivo fra sbarre e cemento, con la certezza che di me dal carcere sarebbe uscito solo il mio cadavere, e gli risposi: Signor Presidente, non sono d’accordo. Non credo che la nostra Costituzione si rispetti solo onorando le Istituzioni quando le stesse Istituzioni non la rispettano. La Costituzione Italiana si onora solo quando si applica ai cittadini, a tutti, anche a quelli cattivi che sono in carcere a scontare una pena. Signor Presidente, mi permetta di ricordare che il dettato costituzionale assegna alla pena una funzione rieducativa e non vendicativa. Invece in Italia il carcere trasforma i suoi abitanti in mostri perché fra queste mura non esiste la Costituzione. Signor Presidente, a parte le responsabilità istituzionali esistono quelle morali e intellettuali. La esorto, guardi cosa sta accadendo dentro le carceri italiane. Esiste ormai una rassegnazione d’illegalità diffusa, spesso incolpevole, sia per chi ci lavora, sia per chi ci vive. La legalità prima di pretenderla va offerta. Invece in carcere ci sono uomini accatastati uno accanto all’altro, uno sopra l’altro. Detenuti che si tolgono la vita per non impazzire. Ci sono uomini murati vivi sottoposti al regime del 41bis che non possono vedere neppure la luna e le stelle dalle loro finestre. Ci sono uomini condannati all’ergastolo ostativo, una pena interminabile che può finire solo quando muori o quando trovi un altro da mettere in cella al posto tuo. Signor Presidente, come fa il carcere e rieducare se sei sbattuto come uno straccio da un carcere all’altro? Lontano da casa, chiuso in una gabbia come in un canile, privato degli affetti, da una carezza e di perdono? Signor Presidente, ci dia una mano a educare le Istituzioni e a portare la legalità e la Costituzione in carcere. Non siamo solo carne viva immagazzinata in una cella, siamo anche qualcos’altro. Dietro i nostri reati e le nostre colpe ci sono ancora delle persone. Le ricordo che il rimpianto Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini, che in galera passò lunghi anni, diceva spesso: “Ricordatevi, quando avete a che fare con un detenuto, che molte volte avete davanti una persona migliore di quanto non lo siete voi”. La nostra Carta Costituzionale sarà anche “la più bella del mondo”, come l’ha definita Roberto Benigni, ma per i detenuti e gli ergastolani spesso è solo cartastraccia, soprattutto per chi è condannato alla “Pena di Morte Viva”: così gli uomini ombra chiamano la pena dell’ergastolo ostativo. Io sono l’eccezione che conferma la regola, che è quella che la stragrande maggioranza degli ergastolani usciranno dal carcere solo cadaveri. Eppure la nostra Carta Costituzionale è stata scritta anche da alcuni ex detenuti, prigionieri del regime fascista. Carceri sovraffollate, la Difesa cede alla Giustizia gli immobili non utilizzati Il Messaggero, 12 giugno 2019 I ministri della Difesa Elisabetta Trenta e della Giustizia Alfonso Bonafede firmeranno giovedì a Napoli un protocollo d’intesa per la cessione di immobili dal ministero della Difesa a quello della Giustizia. Il protocollo è stato concertato per individuare aree militari inutilizzate dalla Difesa, ove possano essere realizzati nuovi istituti penitenziari, così da migliorare la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane e consentire l’attuazione del piano di riequilibrio territoriale del sistema penitenziario nazionale. La firma del protocollo avverrà alle ore 15 a Palazzo Salerno. La firma era già stata programmata per il 20 maggio ma fu rinviata per impegni istituzionali urgenti dei ministri. La propaganda armata di Gianluca Di Feo La Repubblica, 12 giugno 2019 C’è da chiedersi quanto nella scelta di premere il grilletto abbia influito “il turbamento psichico” o l’atmosfera creata nel Paese dalla propaganda del ministro dell’Interno. Un colpo al cuore. Diretto e letale. Con una traiettoria che, stando alla prima ricostruzione, sembra indicare un proiettile esploso dall’alto verso il basso, dal balcone verso la strada. Insomma, qualcosa di più simile a un’esecuzione che non alla legittima difesa. Saranno le perizie definitive a determinare come è morto Ion Stavila, il ventiquattrenne moldavo ucciso mentre rubava nel negozio di Franco Iachi Monvin. Il tabaccaio ha sparato sette pallottole per difendere duemila euro: a tanto ammontava il bottino del furto, l’ennesimo subìto nel giro di pochi anni. Lo ha fatto senza essere in pericolo, perché - come ha detto il procuratore di Ivrea - “dalle prime risultanze pare non ci sia stata un’aggressione alla persona ma solo al patrimonio”. E oggi c’è da chiedersi quanto nella scelta di premere il grilletto abbia influito “il turbamento psichico” - la formula introdotta dalla nuova legge salviniana per santificare la difesa sempre legittima - e quanto abbia invece pesato l’atmosfera creata nel Paese dalla propaganda del ministro dell’Interno. Che di fatto invita i cittadini a impugnare le armi e proteggersi da soli, smantellando qualunque proporzione tra il valore della vita umana e quello della proprietà. Le rivelazioni sulla dinamica dei fatti non hanno scosso il leader leghista, tornato ieri a proclamare il suo mantra pistolero: “Ribadisco che sono e sarò sempre a fianco dell’aggredito e mai dell’aggressore; in torto c’è l’aggressore e non l’aggredito”. Anche alla luce di queste parole, c’è da chiedersi quanto Franco Iachi Monvin sia stato vittima del clima diffuso dagli slogan sulla giustizia fai-da-te, dall’illusione creata con la nuova legge che l’uso del revolver sia permesso sempre e comunque. Perché se è il ministro dell’Interno a esaltare l’impiego delle armi, come si può essere sorpresi dalla reazione di un tabaccaio che esce sul balcone e spara alle spalle di un ladro in fuga? Salvini ha fatto della paura il fondamento del suo sistema di consenso, consapevole di rivolgersi alla pancia della nazione e spingerla a liberarsi da ogni rispetto delle regole per seguire l’istinto: “Tu rubi? Io ti ammazzo!”. Cavalca una grande deriva securitaria che viene amplificata con il varo di un provvedimento pomposamente chiamato Decreto Sicurezza, presentato come la soluzione finale a ogni problema. Mentre invece è uno zibaldone di norme, accatastate e disorganiche tanto da essere destinate ad aumentare la confusione più che l’ordine pubblico. Un decreto che mette insieme misure ad personam, come le nuove sanzioni per chi soccorre i migranti in mare, introducendo strumenti di contrasto - le intercettazioni e gli agenti infiltrati - che vengono già impiegati da tempo contro le Ong. E poi unisce l’aumento delle pene contro i violenti degli stadi e delle piazze, ignorando che le sentenze definitive per queste persone sono sempre più rare, all’assunzione di 800 precari che da soli dovrebbero rendere celeri i processi. La realtà è chiara: si tratta di uno spot. Serve a regolare i rapporti di forza nella maggioranza, concedendo al Viminale prerogative sul controllo del mare di altri dicasteri guidati dal M5S. E a trasmettere l’immagine di un ministro dell’Interno impegnato nel suo incarico, laddove invece non viene fatto nulla di concreto per migliorare la protezione dei cittadini. Per rispondere alla sensazione di insicurezza degli italiani sono necessarie vere riforme, che garantiscano la cattura e la punizione dei criminali di ogni nazionalità. Ma questo non interessa a Salvini: lui ha bisogno della paura. Al punto da convincere la gente che sia sempre possibile sparare contro i ladri, armando l’esasperazione di un tabaccaio e trasformando un tranquillo negoziante di provincia in un giustiziere. Che adesso rischia di affrontare un processo e una dura condanna, per avere commesso un omicidio che solo il vicepremier considera legittima difesa. Prima i carabinieri di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 12 giugno 2019 Forse neanche Perry Mason e Giulia Bongiorno riuscirebbero a dimostrare che chi spara a un ladro dal balcone, e lo colpisce alle spalle mentre scappa con la refurtiva, rientra nell’ipotesi di “grave turbamento” prevista dalla nuova disciplina sulla legittima difesa. Ma sospetto che i primi a non essere gravemente turbati dall’esito dell’autopsia sul moldavo ucciso dal tabaccaio di Ivrea siano i cittadini che ieri sera hanno organizzato una fiaccolata di solidarietà per il pistolero. Ai fan del tabaccaio interessa poco sapere se in pericolo c’era la sua vita o soltanto la sua cassa. Per loro la difesa della proprietà privata giustifica comunque una reazione. Non sanno cosa farsene delle statistiche sul calo dei reati e tantomeno del dibattito sulla paura percepita: quando un ladro ti entra in casa, dicono, le statistiche e le percezioni spariscono e rimane il tuo caso: fosse anche l’ultimo sul pianeta, per te è l’unico che conta. Ho qualche difficoltà ad aderire al pensiero politicamente corretto che bolla costoro come biechi reazionari o li tratta da bimbetti spaventati e condizionabili dal Truce del momento. Però una cosa è certa: sono cittadini che non hanno più fiducia nello Stato. Magari con qualche ragione, ma intanto non ne hanno. E, non avendone, in nome del bene effimero della vendetta rinunciano alla sicurezza. Un Paese dove tutti hanno la pistola in tasca è un luogo maledettamente insicuro. Nel mondo che vorrei, le vittime non sparano. Chiamano i carabinieri. “Ha sparato al ladro dal balcone di casa”. Ma il paese scende in piazza per Franco di Niccolò Zancan La Stampa, 12 giugno 2019 Circa 2 mila persone hanno partecipato ieri sera alla fiaccolata di solidarietà a sostegno del tabaccaio. L’autopsia smentisce il tabaccaio: nessuna traccia di colluttazione. La vittima forse colpita alle spalle mentre fuggiva. I negozianti di fronte alla tabaccheria hanno appeso lo stesso cartello sulla saracinesca: “Io sto con Franco”. Alle dieci di sera, passa la fiaccolata dove è stato ucciso un uomo. Sono circa duemila persone, e sono tutte qui in solidarietà con chi ha sparato. “Siamo con Franco”, hanno scritto nello striscione. Applaudono. “Siamo con te!”, gridano. C’è anche Gianluca Gavazza, consigliere regionale della Lega appena eletto in Piemonte: “Ho un ruolo politico, ma partecipo a titolo personale in qualità di commerciante. Penso che esserci sia doveroso. Perché anche io ho subito quattro furti. Ma quando è toccato a me, per fortuna, non ho avuto la possibilità di difendermi, altrimenti chissà cosa avrei fatto. Meno male che non avevo nulla in casa…”. Il tabaccaio Franco Iachi Bonvin, invece, nell’alloggio di famiglia sopra alla tabaccheria, qui sullo stradone al confine con Ivrea, aveva una scacciacani e una pistola Taurus 357 magnum. Quando è scattato l’allarme antifurto alle tre di giovedì notte, ha scelto quella che sparava davvero. “Erano in tre nel mio cortile. Uno stava armeggiando con il piede di porco. Sono sceso sotto, c’è stata una colluttazione. A quel punto ho sparato due colpi”. È stata questa la sua ricostruzione dei fatti, nelle parole scambiate informalmente con i primi poliziotti intervenuti sul posto. Erano lì davanti a un cadavere: sul marciapiede, pochi passi oltre il cancello, c’era il corpo di un ragazzo moldavo di 24 anni. Si chiamava Ion Stavila, era in Italia da pochi giorni. Morto ammazzato, in quanto ladro. Subito tutti avevano chiamato in causa la nuova legge sulla legittima difesa. E il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che quella legge aveva voluto e fatto approvare, si era prontamente schierato: “Il tabaccaio ha tutta la mia solidarietà”. Ma ieri mattina l’autopsia eseguita dal medico legale Roberto Testi ha descritto una scena completamente diversa. Primo: nessuna traccia di colluttazione. Secondo: un solo proiettile ha colpito al cuore Ion Stavila. “C’è un foro sulla spalla sinistra e un altro sul torace laterale destro, è stato colpito da un proiettile perforante”, spiega il procuratore capo di Ivrea Giuseppe Ferrando. La perizia balistica deve stabilire con certezza da dove sia stato esploso quel colpo, ma i primi riscontri fanno pensare che sia partito dall’alto. Dal balcone di casa, cioè. Lì dove il tabaccaio è stato visto anche da alcuni testimoni. E quindi: tre ladri sotto casa, fra la strada e un negozio. E un uomo armato, ancora al riparo, al piano di sopra. Verrebbero così meno tutti i presupposti della legittima difesa. Il primo dei quali è “agire per salvaguardare la propria o altrui incolumità”. Il secondo “agire in preda a uno stato di grave turbamento”. “Dai primi accertamenti pare che non ci sia stata alcuna aggressione alla persona”, si limita a dire il procuratore Ferrando. In più, i ladri avevano forzato il cancello e scardinato la porta di ingresso laterale di un bar accanto alla tabaccheria. Quel locale è di proprietà di Franco Iachi Bonvin, ma dato in gestione. Cosicché quei 2000 euro della macchinetta cambia gettoni, già caricati sul furgone, non erano nemmeno stati rubati a lui. Il tabaccaio è chiuso in casa da cinque giorni. Non dice niente. Sta male. Si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo avvocato, Sara Lore Lazzaro, spiega: “Sta sempre peggio. È molto provato emotivamente. A nome della famiglia, ringraziamo per questa iniziativa del corteo. Condividiamo il fine: chiedere maggiore controllo del territorio”. Ed eccolo, adesso, il corteo. I lumini accesi nella notte. Questo silenzio terribile. Hanno camminato tre chilometri per arrivare davanti alla tabaccheria, fino sotto al balcone: ecco il lungo applauso. Il signor Carlo Cavagnetto: “Sono qui perché è una famiglia che conosco da 45 anni, Franco è un caro amico. Una persona perbene. Mi spiace molto per l’accaduto”. Il sindaco di Ivrea, Stefano Sertoli: “Sono venuto a titolo personale. Conosco personalmente il tabaccaio. Quando ho saputo delle novità dell’inchiesta, sono rimasto sconvolto. Mi è davvero difficile credere che le cose siano andate proprio così”. Dove bruciano le fiaccole accese, su un marciapiede che costeggia una siepe di bosso, c’è ancora una macchia scura di sangue. È il sangue sgorgato dal cuore di Ion Stavila, colpito alle spalle mentre scappava. È riuscito a fare ancora alcuni passi, prima di crollare. Ieri mattina, la sorella è arrivata in pullman dalla Puglia, dove lavora come badante. I poliziotti l’hanno accompagnata alla camera mortuaria dell’istituto di medicina legale di Strambino. Hanno sollevato il lenzuolo. “È mio fratello”, ha detto lei con le lacrime negli occhi. E mentre firmava i documenti del riconoscimento, ha aggiunto: “In Moldavia ha una moglie e una bambina di due anni”. Lattanzi: “Inutili queste leggi. Troppa enfasi politica ma pochi risultati” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 12 giugno 2019 La riflessione del presidente della Consulta: “Reati in costante calo ma si continua a legiferare sul tema sicurezza”. Domenica scorsa quasi 500mila italiani hanno visto in tv il film sul viaggio dei giudici della Corte costituzionale nelle carceri. “Mi hanno detto che in termini di share abbiamo addirittura fatto meglio della partita di calcio Portogallo-Olanda che lo precedeva - scherza il presidente Giorgio Lattanzi. Il film mi è piaciuto perché descrive bene l’incontro tra due mondi diversi, senza criminalizzazioni né buonismi. Rappresenta una realtà che può essere letta in modi diversi. Una realtà complessa e sconosciuta anche ai magistrati e agli avvocati. Ho sempre pensato che ogni giudice dovrebbe passare almeno qualche giorno in carcere per capire il vero significato della pena che infligge”. Qual è la cosa che più l’ha colpita? “Due immagini mi restano impresse. Una detenuta romena che rinuncia a un permesso per incontrarmi e dirmi “Ho capito che voi siete il nostro scudo”. E i detenuti di Rebibbia che cantano l’inno di Mameli con la mano sul cuore”. La Corte negli ultimi anni ha deciso questioni fondamentali in modo innovativo. Qualcuno ha parlato di protagonismo. È così? “Nessun protagonismo. La Corte è sempre stata naturalmente protagonista e con le sue pronunce ha accompagnato l’evoluzione del nostro Paese, anche anticipandola. Il suo compito è inverare la Costituzione, talvolta scoprendone significati nuovi. Nessuno di noi è alla ricerca di una ribalta mediatica”. Com’è il rapporto con Governo e Parlamento? “Il rapporto della Corte è con il legislatore e talvolta è faticoso perché tra una sentenza che denuncia una criticità costituzionale e l’intervento legislativo richiesto per sanarla spesso passa troppo tempo e la ferita resta aperta. Queste criticità oggi sono più frequenti perché il ritmo intenso con cui si legifera incide negativamente sulla qualità delle leggi”. Lei sarebbe favorevole a un controllo costituzionale preventivo sulle leggi? “Il sistema di accesso alla Corte costituisce un problema. A volte le questioni di costituzionalità ci arrivano dopo molti anni dall’entrata in vigore della legge e quando dichiariamo l’incostituzionalità i cittadini restano disorientati perché pensano che il ritardo dipenda dalla Corte e perché per tanto tempo la legge incostituzionale è stata applicata. Un controllo preventivo, però, è anch’esso problematico perché dare “un bollino di costituzionalità” a una legge e poi eventualmente toglierglielo può a sua volta disorientare”. I moniti servono ancora? “Il monito è una forma di rispetto per il Parlamento. La Corte individua una incostituzionalità ma lascia al legislatore il compito di scegliere la soluzione, tra le tante possibili, per sanarla. In questi casi pronuncia un’inammissibilità: si parla di una illegittimità accertata ma non dichiarata. Se poi il Parlamento non agisce, la Corte non può non intervenire”. Perché nel caso Cappato vi siete comportati diversamente? “Se la Corte avesse dichiarato l’inammissibilità, il processo penale sarebbe proseguito con una probabile condanna dell’imputato e forse sarebbero stati aperti altri procedimenti penali. Perciò è stata trovata una soluzione diversa”. Per questo avete escogitato il rinvio di un anno? “Sì, e non è avvenuto nulla di stravolgente. I rinvii fanno naturalmente parte del processo. In questo caso il rinvio di un anno è servito per dar tempo al legislatore di intervenire, evitando che il processo penale proseguisse con l’applicazione di una norma di cui la Corte ha prospettato l’illegittimità costituzionale”. E se il Parlamento non si muovesse? “Decideremo il da farsi nell’udienza già fissata”. Spesso i giudici vengono accusati perché pronunciano sentenze che hanno un rilievo politico senza essere stati eletti. La critica può riguardare anche la Corte? “I Costituenti hanno ritenuto che per garantire l’imparzialità dei giudici, ordinari e costituzionali, fosse necessario sottrarli a meccanismi elettivi, che avrebbero potuto facilmente condizionarli. Il giudice deve avere la fiducia del Paese, che è cosa diversa da un consenso politico”. Come si pone la Corte sulle riforme in materia di sicurezza? “Il tema della sicurezza ci pone davanti all’alternativa autorità/libertà. Ma i diritti fondamentali rimangono dei limiti insuperabili. Suggerirei, però, una riflessione più ampia: ci dicono che i reati sono in costante diminuzione e ciò nonostante ogni anno - se non addirittura più spesso - viene approvato un “pacchetto sicurezza”. Il che mi fa pensare che il problema sicurezza sia spesso enfatizzato dai media, diventando poi un tema politico. E mi fa anche pensare che gli interventi legislativi non servano, visto che si ripetono in continuazione”. Che cosa intende? “È più facile fare una legge che intervenire sui problemi reali. Più utile, ma certo più difficile, sarebbe agire sulle prassi, sui mezzi delle forze di polizia, sui tempi dei processi”. Su sicurezza e immigrazione deciderete a breve. Teme strumentalizzazioni delle vostre sentenze? “Sappiamo che è possibile, ma un giudice non deve preoccuparsi delle polemiche che le proprie decisioni possono suscitare”. Lei si è espresso contro le riforme costituzionali. Perché? “La prima parte, quella sui diritti, non può vivere in sicurezza senza le garanzie della seconda parte, quella sull’ordinamento della Repubblica. Intervenire su questa può mettere in pericolo anche i diritti. La Costituzione è come un orologio delicato: operare su una parte del meccanismo rischia di non farlo funzionare più. Peraltro, le continue proposte di modifiche radicali svalutano di per sé la Costituzione e fanno perdere la fiducia dei cittadini. Fortunatamente, nei referendum del 2006 e del 2016, gli italiani hanno dimostrato di essere più saggi dei loro rappresentanti”. Da magistrato, come vive la crisi della magistratura? “Con dolore. Sono emerse cose che erano immaginabili, anche se non conosciute, e altre che sono oltre l’immaginabile. Ma ciò non consente di descrivere tutta la magistratura come prigioniera di collusioni e ambizioni di potere”. Accoglienza e sicurezza? Idee confuse a sinistra di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 12 giugno 2019 Il Partito democratico non può eludere il tema. Il caso della sinistra danese, che ha vinto imitando la destra. Mentre sta iniziando il processo a Mimmo Lucano. L’afasia sui migranti dovrebbe avere i giorni contati in una sinistra che volesse tornare competitiva. Due eventi, lontani nello spazio ma assai ravvicinati per i tempi della politica, conducono a un bivio il Pd di Nicola Zingaretti e il “campo largo” che il nuovo segretario evoca assai spesso. La recente vittoria della socialdemocratica Mette Frederiksen in Danimarca e il processo all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, iniziato ieri in Calabria, proiettano universi simbolici e opzioni strategiche così forti e contrastanti da essere ineludibili per chiunque coltivi, sia pure non nel breve periodo, un progetto di governo alternativo all’attuale maggioranza che guida l’Italia. Perché sarà anche vero che le migrazioni non sono il principale problema del Paese, delle nostre periferie e dei 15 milioni di cittadini che vivono in condizioni di “perifericità” geografica o sociale. Ma, per farne un argomento efficace in competizione elettorale, toccherà convincerne… la maggioranza degli italiani (a meno di non sostituire “brechtianamente” il popolo riottoso) o prendere atto che il problema c’è e non è affatto solo mediatico. Pochi giorni fa un sondaggio Swg per La7 ha mostrato come ancora, nell’elettorato leghista, 7 su 10 considerino gli immigrati il nodo essenziale. La realtà cambia molto a seconda del punto di osservazione: vederla dalla genovese via Pré (dove è rimasta una sola commerciante italiana in tutta la strada), dalla torinese Barriera di Milano (dove i rari negozi italiani si segnalano col tricolore) o dalle borgate di Roma Est (dove si concentra gran parte dei centri d’accoglienza e campi rom attorno a case popolari al tracollo) è ben altra faccenda che contemplarla da un salotto tv o da un pensatoio sociopolitico. Roma ha circa tre milioni di abitanti e circa 360 mila stranieri (regolari) tra città e grande hinterland. Dunque, diremmo, uno straniero su dieci romani. Ma i romani che vivono in zone di disagio economico sono 950 mila. Dove graviteranno, verosimilmente, i 360 mila stranieri, nel centro storico della “sinistra Ztl” o nelle stesse zone dei 950 mila disagiati? No, l’immigrazione non è la questione più grave. E tuttavia innerva ed enfatizza tutte le altre questioni, che pure le preesistono: dalla crisi abitativa a quella del welfare, dalla lentezza e corruzione delle burocrazie alla paralisi dell’ascensore sociale fino alle nuove manovalanze criminali. Ciò detto, non è certo un problema solo nostrano. Il caso danese lo dimostra ampiamente. In un Paese che aveva una tradizione di accoglienza assai radicata ma anche notevoli difficoltà a tenere insieme integrazione e legalità, la sinistra di Mette Fredericksen è tornata a vincere, abbattendo di due terzi i consensi della destra. La ricetta di Mette tiene insieme forti elementi di socialdemocrazia classica in economia con una robusta svolta securitaria in materia di immigrazione. Forse per noi troppo robusta: un’isola dove confinare gli irregolari, secondo il modello australiano, è impensabile a sinistra ma indigesta, crediamo, anche per vaste aree dell’opinione pubblica cattolica. Il punto però non sta nei singoli, pur controversi provvedimenti: sta nell’approccio. In Italia quello più rigoroso dell’ex ministro Pd Marco Minniti e, più di recente, del sindaco di Milano Giuseppe Sala (si pensi alla proposta di Daspo per i rom irregolari) ha sempre trovato silenzi imbarazzati nella parte politica dei proponenti. Stessa assenza di dibattito seguita alla svolta in Danimarca, da cui pure non sarebbero mancati spunti: la sinistra vince scimmiottando la destra o affrontando con pragmatismo le ragioni che alla destra danno la vittoria? Tifo vociante ma confuso circonda invece Mimmo Lucano, simbolo del gauchismo più radicale che si va trascinando dietro anche parte del Pd attuale (Minniti al Viminale fu il primo ad accendere un faro sulle pratiche del sindaco di Riace che, infatti, non gliel’ha mai perdonata). Un sostegno così caloroso che spesso i media “a supporto” riportano solo una parte delle accuse, la più onorevole per il radicalismo di sinistra, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, omettendo le ipotesi di reato più antiestetiche: truffa, concussione, associazione per delinquere. E tuttavia, per una sinistra che si immagini di governo, il nodo non è affatto giudiziario: anzi, è tutto politico. Poiché la politica migratoria di Lucano e dei suoi laudatori si sostanzia in una formula semplice e dichiarata apertamente: accogliamoli tutti, costi quel che costi, anche in barba alla legalità. Una formula persino nobile, forse, ma di sicuro inadatta a un Paese occidentale complesso, che regala alla gauche ciò che, da sempre, desidera: la certezza matematica di restare, per sempre, all’opposizione. Da questo bivio può darsi che il nuovo Pd zingarettiano provi a uscire assecondando il proprio antico dna: la ricerca di una terza via. Ma difficilmente su quella via potrà evitare di legare alla solidarietà dosi notevoli di sicurezza se vorrà ottenere agibilità politica. Di certo non potrà fingere che il tema non ci sia, rinviando sine die la formulazione di una proposta articolata e seria, che non si limiti a bacchettare il pur criticabile decreto Salvini. La rimozione è un’opzione legittima per qualche intellettuale, non per un leader. A meno di non voler rischiare (politicamente) la fine di don Ferrante: morire di peste dopo averne negato l’esistenza con tanta tenacia. Politica e toghe, bloccate le porte girevoli di Sabino Cassese Corriere della Sera, 12 giugno 2019 Al Consiglio Superiore della magistratura è necessario evitare gli attuali conflitti di interessi: questo almeno va fatto subito. Grande è lo sconcerto per quel che è accaduto e per quel che sta accadendo al Consiglio superiore della magistratura (Csm). Di quel che è avvenuto non colpiscono solo le divisioni interne, gli intrighi, lo stile delle negoziazioni, i rapporti con i politici, ma anche e soprattutto il fatto che più di un magistrato trattasse la scelta delle persone da nominare per influenzare l’azione degli organi, così negando la stessa ragion d’essere del Csm, quella di separare governo delle carriere da attività giudiziaria o requirente. Di quel che sta accadendo colpisce il ricorso a questa stramba invenzione italiana dell’autosospensione, che consisterebbe nell’astenersi dal partecipare all’attività di un organismo di cui si fa parte, violando così i doveri d’ufficio e aggirando il dilemma tra restare o dimettersi. I magistrati stanno sperimentando, al livello più alto, i danni che producono con la divulgazione di notizie non seguite immediatamente da accertamenti e decisioni, per cui l’opinione pubblica rimane perplessa e diminuisce la fiducia nella giustizia. Sarà bene, quindi, che si concludano rapidamente le indagini in corso e che chi giudica dall’esterno maneggi con cautela quel poco che si sa sull’accaduto. Si può, invece, tranquillamente dire che il Csm ha bisogno di un riordino. L’organo è configurato dalla Costituzione come una sorta di direttore generale collegiale: si interessa di assunzioni, assegnazioni agli uffici, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari dei magistrati. Con il tempo, è andato al di là dei sui compiti: è divenuto l’”organo di autogoverno” di giudici e procuratori. Si è quindi parlamentarizzato. Come nei parlamenti vi sono i partiti, nel Consiglio vi sono le correnti. Come i partiti, le correnti hanno svolto inizialmente una utile funzione, perché erano divise da ideali diversi. Poi sono scadute a organizzazioni di interessi. Ora sono frantumate, riflettendo ancora una volta la vicenda dei partiti. Più la macchina del Csm diveniva complessa, meno di essa potevano interessarsi i presidenti della Repubblica, che sono anche presidenti del Csm. Infatti, essi hanno presieduto di fatto un numero decrescente di sedute, con l’eccezione di Segni. Ciò che lega le correnti - o, meglio, quello che resta di esse - è ora la spartizione del potere di nomina. Basta osservare come si sono svolte le ultime elezioni, quelle del 2018. I 16 componenti provenienti dalla magistratura (cosiddetti togati) sono eletti, a seconda delle funzioni svolte, in tre collegi nazionali diversi. I magistrati sono poco meno di 9.500. I votanti sono stati poco più di 8.000. I voti sono stati così concentrati che solo cinque candidati (tre in un collegio, due in un altro, nessuno nell’ultimo) non sono riusciti. Le schede bianche e nulle sono state 500 in due collegi, 1.000 in quello dei pubblici ministeri. Le divisioni tra magistrati, quindi, si annullano ed essi ritrovano una grande compattezza quando si tratta di dividersi i posti nel Csm, nel quale ogni eletto rappresenta il proprio elettorato. Pur con questi vizi, il Csm ha acquisito numerosi meriti: ha salvaguardato la selezione per concorso all’accesso alla magistratura; ha operato come occhiuto guardalinee quando qualche partito voleva intromettersi troppo negli affari di giustizia; è riuscito a portare una persona da tutti stimata (Pignatone) alla Procura di Roma e diversi altri magistrati integerrimi ed esperti a capo di uffici giudiziari. Ha fallito, invece, sia sui tempi della giustizia (che dipendono in larga misura dai capi degli uffici), sia sulla politicizzazione endogena, quella che viene da dentro, alimentando le carriere politiche di alcuni magistrati. Come se ne esce? Non con il sorteggio, perché non necessariamente un bravo magistrato è anche un bravo amministratore. Piuttosto evitando che la scelta dei componenti sia fatta tutta in una volta, ogni quattro anni. Con scadenze diverse si eviterà che le correnti abbiano un peso eccessivo e si assicurerà una maggiore continuità dell’organo. Stabilendo, poi, procedure “aperte” per le nomine, in modo che siano noti i “curricula” dei candidati e che questi vengano ascoltati. Infine, eliminando le porte girevoli tra politica e magistratura, per evitare gli attuali conflitti di interessi. Questo almeno va fatto subito, prima che la crisi dell’organo alimenti nuova sfiducia nelle istituzioni. Quando l’attuale vicenda sarà chiusa (si spera presto) si potranno considerare più profondi cambiamenti. La prescrizione? Prima si accorci la durata dei processi di Bruno Ferraro* Libero, 12 giugno 2019 Il quadro disegnato dal primo presidente della Corte di Cassazione nella relazione di apertura dell’anno giudiziario 2019 indurrebbe a un certo ottimismo. Nel 2018 sono calati rispetto all’anno precedente sia i procedimenti civili (-4,85%) sia quelli penali (-4,1%). Il numero delle pendenze è però ancora elevato ed è salita la durata dei procedimenti penali, passata in primo grado da 369 a 396 giorni: dato compensato dalla riduzione di durata registratasi in grado di appello (da 906 ad 861 giorni), laddove cioè pesantemente incide la prescrizione che comporta una massiccia definizione (pari ad un quarto) dei procedimenti demandati al giudice di secondo grado che si concludono con una sentenza senza entrare nel merito delle vicende giudicate. Fin qui i freddi numeri, sui quali ognuno può esercitarsi a seconda dell’angolazione di partenza. Ho troppa dimestichezza con la materia per cedere anch’io a questa tentazione. I mali della giustizia sono antichi, le ricette sono state tante ma i risultati non sono stati mai pari alle aspettative. Non esistono leggi buone o cattive, ma uomini che le rendono tali. Prendiamo la prescrizione. In ogni Paese civile non è accettabile che un cittadino possa essere giudicato a distanza di moltissimi anni dai fatti, quando ad esempio il minore è diventato adulto e il giovane si è trasformato in un tranquillo padre di famiglia. La prescrizione è un istituto in voga in tutti i Paesi, fatta eccezione per quei delitti gravi (come l’omicidio volontario) dichiarati imprescrittibili. È poi vero anche che gli avvocati, chiamati a fare gli interessi del cliente, tirino per le lunghe, dilatando i tempi del processo di primo grado ma soprattutto allungando quelli di appello e Cassazione con ricorsi privi di reale fondamento. A quale dei due interessi, della giustizia astrattamente intesa e dei cittadini colpevoli o danneggiati, deve darsi la precedenza? Il nostro legislatore ha scelto di recente, con norme non ancora definitive, di stabilire uno stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado e a partire dal 2020. È un bene o un male? Solo il tempo potrà rispondere. La stessa magistratura ha chiesto una riforma strutturale del processo penale, perché sarebbe paradossale che tutto rimanga come prima in termini di durata dei procedimenti. Ne guadagnerebbero solo i magistrati che non verrebbero chiamati a giustificarsi per aver fatto decorrere la prescrizione senza pervenire ad un giudizio di merito. In passato, vigente il codice Rocco, la prescrizione determinava un’iniziativa del ministro per individuarne le cause. In seguito, col codice Vassalli e del processo accusatorio, le prescrizioni sono diventate quasi normali. Eppure è la giustizia che ne esce sconfitta. Occorre quindi che i magistrati si rimbocchino le maniche e che i tempi dei vari atti subiscano un’accelerazione. Il ministero dovrà mettere a disposizione le strutture necessarie, ma dovrà essergli riconosciuto anche un ruolo di controllo sull’andamento della giustizia nei tribunali. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Cnf e Ucpi: le vittime di violenze familiari ora siano monitorate di Errico Novi Il Dubbio, 12 giugno 2019 I rilievi dell’avvocatura sul Ddl “Codice Rosso”. Magari non avrà l’impatto suggestivo di un “nuovo” reato. Ma la modifica strutturale sollecitata dall’avvocatura rispetto al ddl contro le violenze di genere è forse il tassello che manca. “Si deve procedimentalizzare la prevenzione”, hanno spiegato, in audizione a Palazzo Madama, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e la componente della giunta dell’Ucpi Paola Savio. Nella legge sul “Codice Rosso” vanno previste “alcune precise forme di monitoraggio delle vittime ma anche dei presunti responsabili”. Mascherin e Savio hanno chiesto di accantonare l’istituzione di alcune nuove forme di reato e l’innalzamento delle pene: il testo fortemente voluto dai ministri Bonafede e Bongiorno, e votato alla Camera a inizio aprile, va integrato con una vera “metodica della prevenzione”. Ai senatori della commissione Giustizia, il presidente del Cnf ha ricordato come “né le nuove figure di reato né l’aumento delle pene abbiano mai prodotto risultati in termini di prevenzione”. È invece sulla fase precedente lo stesso accertamento del reato che “ci si dovrebbe concentrare”. Se è giusto dunque prevedere, come fa l’articolo 5 della legge sul “codice rosso”, “corsi di formazione specifica per il personale delle forze dell’ordine”, va “sviluppata anche tutta la fase immediatamente successiva alla prima denuncia, a partire da un dato: le vittime di maltrattamenti in famiglia o altri reati di cui ci si occupa con questo ddl”, ha osservato Mascherin, “sono inevitabilmente condizionabili, e spesso recedono dall’iniziale scelta di rivolgersi alla giustizia”. Servono procedure che includano “la collaborazione fra Procure e assistenti sociali” per seguire sia le vittime che i presunti responsabili. In modo da evitare “quegli ultimi appuntamenti spesso fatali”, aggiunge il presidente del Cnf, “e far scattare un monitoraggio anche di fronte al semplice caso di una donna che si rivolge al pronto soccorso con un occhio tumefatto”. Come ricordato dal Cnf, si tratta di previsioni inserite nel codice procedimentalizzato per le violenze sui minori. “Anche la eventuale remissione della querela può essere un segnale di allerta”. Mascherin ha inoltre invitato a riflettere sull’opportunità di limitare “la pubblicità dei casi di violenze domestiche” dal momento che non si possono escludere “meccanismi di emulazione, tanto più probabili quando si arriva alla spettacolarizzazione televisiva”. Dall’avvocatura si sollecita anche uno spazio maggiore per la “giustizia riparativa”, che consente “al reo di prendere consapevolezza della portata dell’accaduto e di entrare in una reale fase di recupero, in modo da limitare la recidiva”. L’avvocata Savio, che per l’Unione Camere penali ha seguito fin dall’inizio l’iter del provvedimento, ha illustrato in audizione i numerosi rilievi al “codice rosso” analizzati con precisione anche in un ampio (e impietoso) documento depositato in commissione Giustizia. Fra le critiche, non mancano quelle su alcuni profili della misura-simbolo, ossia l’obbligo per il pm di ascoltare la vittima entro 72 ore dalla denuncia. “Quando le persone offese sono minori, li si espone al rischio di rendere dichiarazioni che potrebbero soffrire dell’induzione dell’adulto, quantomeno per l’emotività” dovuta “al poco tempo trascorso”. Tra i paradossi più evidenti da correggere, secondo Savio, quello legato alla previsione del nuovo reato di “violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento”. Visto che già esiste il “rimedio per la violazione di misure cautelari” ossia il loro aggravamento”, non c’è ragione di vincolarsi all’ “accertamento di un fatto di reato, notoriamente molto differito rispetto all’accadimento da giudicare”. Con tutte le “conseguenze che ne derivano anche rispetto alla tutela della persona offesa”. Da parte dell’Unione Camere penali sono stati mossi rilievi anche sulla “formazione” degli agenti “inevitabilmente rallentata dalla clausola di invarianza economica” e sul “mancato rispetto dei canoni di determinatezza riscontrata nella previsione del nuovo reato di lesioni permanenti al viso”. Borsellino, due giudici indagati per depistaggio Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2019 La nuova indagine è stata aperta dalla procura di Messina: sotto inchiesta Carmelo Petralia e Anna Maria Palma, oggi aggiunto a Catania e avvocato generale a Palermo. La notizia dell’inchiesta è emersa perché alle persone sottoposte a indagini e alle parti lese la Procura ha notificato l’esecuzione di accertamenti tecnici irripetibili. Riguardano 19 cassette con le registrazioni delle conversazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna e falso pentito che con le sue dichiarazioni depistò la strage. Due pm che indagarono sulla strage di via d’Amelio sono indagati per concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Si tratta di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, attualmente procuratore aggiunto a Catania e avvocato generale a Palermo. All’epoca erano entrambi pm di Caltanissetta. Ventisette anni dopo la strage che uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta ci sono quindi due magistrati accusati del depistaggio dell’inchiesta. La notizia dell’inchiesta è diventata pubblica perché l’ufficio inquirente della città sullo Stretto ha notificato un avviso di accertamento tecnico irripetibili agli indagati e alle parti lese, cioè Gaetano Murana, Giuseppe La Mattina e Cosimo Vernengo, ingiustamente accusati nei primi processi. Oltre a Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Natale Gambino. Le 19 cassette e l’atto non ripetibile - Gli atti tecnici che devono compiere gli investigatori non sono ripetibili perché c’è il rischio che le prove vadano perdute. Riguardano 19 cassette con le registrazioni delle conversazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna e falso pentito che con le sue dichiarazioni depistò la strage. Venne ascoltato mentre era sotto protezione, un periodo in cui, secondo l’accusa, è stato indotto, anche con la violenza, dal pool di poliziotti che indagava sull’attentato, a mentire. Del pool di investigatori, guidati dall’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, poi deceduto, facevano parte i poliziotti oggi finiti a giudizio: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono occusati del depistaggio delle indagini, costato l’ergastolo a sette innocenti. Il reato contestato ai magistrati e ai funzionari di polizia è la calunnia: i pm e i poliziotti avrebbero imbeccato tre falsi pentiti. Ai magistrati si contesta, oltre all’aggravante di avere favorito Cosa nostra, anche l’aggravante che deriva dal fatto che dalla calunnia è seguita una condanna a una pena maggiore di 20 anni. Le cassette sono molto datate e l’ascolto potrebbe deteriorarle: da qui la necessità che all’accertamento, mai eseguito prima, partecipino anche i consulenti degli indagati e delle persone offese. Scarantino, secondo l’accusa, sarebbe stato picchiato e minacciato perché desse la versione di comodo “pensata” dagli investigatori. E costretto a imparare a memoria le fandonie da ripetere durante gli interrogatori. Il falso pentito, protagonista di ritrattazioni clamorose, ha poi svelato le pressioni subite. Attribuendole soltanto ai poliziotti. Il dottor Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Carmelo Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage. Io ho sbagliato una cosa sola: ho fatto vincere i poliziotti, di fare peccare la mia lingua e non ho messo la museruola…”, ha detto l’ex collaboratore solo poche settimane fa. Come nasce l’inchiesta sui magistrati - L’indagine su Palma e Petralia nasce nello scorso novembre, quando la procura di Caltanissetta, che ha istruito il processo per il depistaggio delle indagini sull’attentato, ha trasmesso una tranche dell’inchiesta ai colleghi messinesi perché accertassero se nella vicenda, ci fossero responsabilità di magistrati. Così l’ufficio inquirente della città sullo Stretto ha aperto in un primo tempo un fascicolo di atti relativi, una sorta di attività pre-investigativa. Che adesso è diventata un’inchiesta per calunnia aggravata con alcune persone indagate. I fatti contestati sono stati commessi “in Caltanissetta e altrove, in epoca antecedente e prossima al settembre 1998”. La nuova indagine è condotta dal procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, perché l’ufficio inquirente della città dello Stretto è competente quando sono coinvolti nelle vicende giudiziarie magistrati in servizio a Catania: ed è il caso di Petralia. Le motivazioni del Borsellino Quater - Negli atti che i pm di Caltanissetta hanno inviato ai colleghi messinesi si fa riferimento alla sentenza del processo Borsellino quater. Nelle motivazioni dell’ultimo verdetto della strage i giudici della corte d’assise parlavano di depistaggio delle indagini sull’attentato al magistrato. “Questa Corte ritiene doveroso, in considerazione di quanto è stato accertato sull’attività di determinazione realizzata nei confronti dello Scarantino, del complesso contesto in cui essa viene a collocarsi, e delle ulteriori condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale, di disporre la trasmissione al Pubblico ministero, per le eventuali determinazioni di sua competenza, dei verbali di tutte le udienze dibattimentali, le quali possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità nella quale la Procura presso il Tribunale di Caltanissetta è impegnata”, è il passaggio della sentenza con cui si dispone la trasmissione degli atti. Fiammetta Borsellino: “Non parlo di indagini in corso” - “Preferisco non parlare di indagini ancora in corso”, ha detto Fiammetta Borsellino, figlia minore del giudice Paolo Borsellino. Fiammetta Borsellino ha partecipato a numerose udienze del processo sul depistaggio, dove si è costituita parte civile, e più volte ha lamentato il comportamento dei magistrati che indagarono sull’attentato. “Mio padre è stato lasciato solo, sia da vivo che da morto. C’è stata una responsabilità collettiva da parte di magistrati che nei primi anni dopo la strage - ha sempre ripetuto Fiammetta Borsellino - hanno sbagliato a Caltanissetta con comportamenti contra legem e che ad oggi non sono mai stati perseguiti né da un punto di vista giudiziario né disciplinare”. I trojan, un cortocircuito del diritto di Annalisa Chirico Il Foglio, 12 giugno 2019 Quel Grande Fratello privo di limiti che sacrifica i diritti sull’altare della lotta al crimine. Che lo si chiami intrusore informatico, captatore totale o cimice telematico-ambientale, un fatto è certo: il trojan fa paura. Il Toga party che ha squarciato il velo dell’ipocrisia sulle manovre correntizie è partito dall’inchiesta perugina per corruzione a carico del pm Luca Palamara, rimasto impigliato nella rete del diabolico virus. Esporsi sul tema, allo stato attuale, appare altamente sconsigliato: chi ne mette in discussione i presupposti normativi potrebbe fornire un assist alla difesa dell’inquisito eccellente. Tuttavia, i giuristi interpellati dal Foglio sollevano dubbi e perplessità sulla legittimità costituzionale della normativa che ha esteso l’uso di un mezzo investigativo, inizialmente concepito per criminalità organizzata e terrorismo, ai delitti contro la Pubblica amministrazione; inoltre, come conferma l’orientamento di diversi gip, la normativa particolare che ne disciplina l’impiego non sarebbe ancora vigente nell’ordinamento. Andiamo con ordine. Il “cavallo di Troia” è oggi lo strumento dotato della maggiore invasività investigativa, da qui il suo carattere assolutamente eccezionale. Nello specifico, si tratta di un virus informatico che, attivato da remoto, è capace di trasformare un dispositivo elettronico, sia esso uno smartphone o un computer, in una cimice video-fonica che, come hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione nella sentenza Scurato del 2016, “prescinde dal riferimento al luogo, trattandosi di una intercettazione ambientale per sua natura itinerante”. Ora, il guazzabuglio normativo, all’origine dell’attuale incertezza applicativa, nasce dal fatto che un legislatore incapace di scrivere le leggi ha inserito norme attualmente vigenti in norme non ancora vigenti. Esiste infatti una disciplina particolare sul regime autorizzativo del trojan, contenuta nel decreto legislativo 216 del 2017, voluto dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando, la cui entrata in vigore è stata posticipata al 31 luglio 2019; contestualmente, però, è intervenuta la legge n. 3 del 2019, governo gialloverde, meglio nota come “spazza corrotti”, in vigore dallo scorso 31 gennaio, che ha ampliato l’uso del captatore informatico ai reati di corruzione. Il risultato di questo pasticcio è che i magistrati specializzati nell’anticorruzione procedono a tentoni: gli uffici del gip a volte concedono l’uso del trojan, a volte lo negano. Esiste poi un secondo punto: i colloqui captati di Palamara coinvolgono due parlamentari, Luca Lotti e Cosimo Ferri. Si pone allora il tema dell’utilizzabilità delle suddette intercettazioni, già ampiamente squadernate dalla stampa. Il regime delle immunità parlamentari impone l’obbligo di autorizzazione preventiva per mettere sotto controllo l’utenza telefonica di un eletto. Nel caso di intercettazioni indirette, invece, come sembra essere il caso dei colloqui informali in presenza dei due esponenti dem, l’utilizzo di tali conversazioni è sempre sottoposto a una richiesta di autorizzazione successiva alla Camera di appartenenza. Un argomento, questo, che potrebbe essere sollevato dalla difesa di Palamara. “L’uso del trojan informatico, la misura più invasiva che possa essere applicata nei confronti di un soggetto, pone un evidente problema di trade-off tra efficienza investigativa e rispetto delle garanzie”, commenta conversando col Foglio l’avvocato Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna. “Già le intercettazioni telefoniche pongono problemi vertiginosi di bilanciamento, per l’indagato e per i terzi coinvolti, con libertà costituzionali (espressamente previste dall’art. 15 della Costituzione, a norma del quale libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione sono inviolabili); e sono tutti problemi amplificati oggi dalla moltiplicazione degli strumenti di comunicazione (messaggistica, scritta e vocale, etc.). Ma il trojan agisce come una microspia a tutti gli effetti, un grandangolo acceso a giorno sull’esistenza dell’indagato - anche sugli attimi più intimi e informali - che squaderna interi segmenti di vita appiattendo tutto, e rendendo impossibile ogni distinzione tra intenzione, emozione, allusione, progettazione, realizzazione. Quei fotogrammi convulsi vengono poi vivisezionati per profilare il tipo di autore retrostante. Condivido le gravissime perplessità sollevate circa l’estensione dell’impiego di uno strumento concepito per i reati di mafia e terrorismo, e poi allargato a fenotipi criminosi diversi, come i reati contro la Pubblica amministrazione: con il paradosso che più s’indaga e più emerge il fenomeno, la sua percezione sociale aumenta e con essa l’allarme, che legittima in misura crescente strumenti investigativi via via più poderosi. Da tempo assistiamo a una progressiva normalizzazione di mezzi di indagine oltremodo invasivi che contrastano con i princìpi fondamentali della Costituzione, come la tutela della riservatezza, della vita privata e famigliare. Siamo tutti d’accordo sulla gravità di taluni fenomeni, e sulla necessità di contrastarli con mano ferma: ma si sta progressivamente accettando e affermando una sorta di Grande Fratello privo di limiti, che miniaturizza i diritti sull’altare della lotta al crimine, devastando esperienze personali nell’attimo stesso in cui atti di indagine, che dovrebbero essere coperti dal segreto investigativo, finiscono sui giornali. E sui giornali, come si sa, il metro di giudizio è quello del codice morale, non del codice penale. Di questo passo, il calcolo cinico dell’utilità investigativa è destinato a sacrificare le libertà fondamentali dei cittadini in un rovesciamento del modello liberale del diritto penale che dovrebbe destare allarme, e invece viene accolto con diffusa rassegnazione”. Per il professore di Diritto costituzionale Fulco Lanchester, “l’estensione del trojan dà il senso di un sistema occhiuto, totalitario, una sorta di Grande Fratello che fa strame di alcuni capisaldi costituzionali, quali il diritto alla privacy e alla libertà di espressione”. In che senso? “Se cade la distinzione tra spazio pubblico e privato, se l’autorità giudiziaria è investita del potere di disporre una intercettazione senza delimitare l’identità dei soggetti coinvolti e il loro campo di applicazione, ciascuno di noi può avere paura di esprimersi liberamente al telefono o durante una cena o tra le mura domestiche. Può essere che le mie siano remore garantiste, o forse no. La magistratura deve essere dotata degli strumenti necessari per intervenire efficacemente contro il crimine, ma la sua azione non può essere illimitata: sarebbe un pericolo per il vivere civile”. Per l’avvocato Fabio Pivelli, “il captatore informatico consente un’invasione senza limiti nella vita delle persone. Con il trojan si può registrare tutto della vita di una persona: parole, suoni, immagini, dati biometrici, abitudini, gusti, preferenze; esso pone, quindi, enormi problemi, etici e giuridici, quando se ne fa uso nelle indagini. Perché anche l’intimità e la riservatezza individuali sono diritti primari dei quali si deve tenere conto, se si vuole tutelare il diritto dello stato a reprimere il crimine. Non si può fare a meno, in senso generalizzato, di tali strumenti innovativi. Semplicemente, se si crea una situazione di conflitto tra diritti contrapposti di pari rango, nel senso che la tutela di uno equivale alla lesione di un altro, e viceversa, diventa necessario individuare il punto di equilibrio. E non c’è dubbio che l’equilibrio, in una materia così delicata, deve passare per il riconoscimento della legittimità dell’uso del captatore solo in via derogatoria ed eccezionale, per le situazioni di vera emergenza criminale e investigativa, rispetto alle quali qualsiasi altro strumento risulti inidoneo. Questo punto di equilibrio è stato decisamente smarrito sia dal legislatore che dai giudici. Il legislatore, quando ha esteso l’uso di questi strumenti alle indagini di corruzione, come se l’allarme sociale di essi fosse equiparabile ai fenomeni terroristici e di criminalità organizzata, ha dimostrato la propria tendenza a far diventare regola quello che dovrebbe essere emergenza. I giudici, dal canto loro, hanno “dimenticato” cosa c’è scritto nella legge. Le intercettazioni dovrebbero essere ammesse “solo” quando sussistano gravi indizi di reato ed esse siano assolutamente indispensabili per la “prosecuzione” delle indagini. Le intercettazioni “a strascico”, quelle generalizzate, quelle per ricercare notizie di reato, non sono previste. Il punto vero, dunque, è la delimitazione dei requisiti di ammissibilità delle intercettazioni, ricordandone il carattere eccezionale in uno stato liberaldemocratico; non tanto, e non solo, quello dell’utilizzo del trojan anche per i reati di corruzione”. Sardegna: e-learning per detenuti, un’altra opportunità di studio in carcere di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 12 giugno 2019 L’università on line entra nelle carceri e consentirà ai detenuti degli istituti sardi di Uta (Cagliari) e Massama (Oristano) di seguire quattro corsi di laurea erogati integralmente su piattaforma web. Si tratta di un’importante possibilità per le persone che stanno scontando la pena, così come avviene per gli studenti lavoratori o per quelli che preferiscono seguire i corsi universitari tramite la Rete. Il risultato è frutto della collaborazione tra Polo universitario penitenziario di Cagliari (istituito circa un anno fa), Conferenza dei Rettori e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna. Per promuovere questa nuova opportunità di formazione culturale a disposizione dei detenuti il rettore dell’Università di Cagliari, Maria Del Zompo, ha tenuto una lezione nel carcere di Uta dinanzi a una trentina di detenuti dal titolo “Musica, emozioni e cervello”. Durante il suo intervento Del Zompo ha ribadito l’attenzione e l’impegno delle istituzioni formative del territorio nei confronti dello sforzo di rieducazione a beneficio delle persone che si trovano in stato di detenzione: “Siamo sensibili alla vostra situazione e grazie all’impegno dei nostri docenti e dell’amministrazione penitenziaria siamo riusciti ad organizzare un fitto calendario di seminari: l’inclusione è una delle parole chiave del nostro Piano strategico. Ricordatevi che il cervello stimolato nel modo corretto può darci sempre un aiuto”. Alla lezione inaugurale del programma di seminari hanno partecipato anche Alessandra Pelagatti, Procuratore della Repubblica di Cagliari, il magistrato del tribunale di sorveglianza, Ornella Anedda, il comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria Andrea Lubello e un gruppo di studenti del corso di laurea magistrale in Psicologia dello Sviluppo e dei Processi Socio-lavorativi. Il calendario di iniziative multidisciplinari offerto ai detenuti-studenti delle strutture di Uta e Massama proseguirà con un ciclo di seminari svolti dai docenti dell’ateneo del capoluogo sardo. Sono attualmente 24 gli atenei coinvolti a livello nazionale, con attività didattiche e formative già avviate in circa 50 istituti penitenziari e con 600 detenuti coinvolti nei programmi di apprendimento. Reggio Calabria: il Garante dei detenuti “carceri, una discarica sociale” di Giovanni Verduci lacnews24.it, 12 giugno 2019 Agostino Siviglia presenta la relazione annuale evidenziando le carenze della struttura e il problema del sovraffollamento. Comune e direttore carceri hanno infine firmato un’intesa per l’attivazione dello sportello Punto città nella Casa circondariale. “L’estenuante rassegna di numeri e persone restituisce un quadro complessivo del cosiddetto pianeta carcere, tanto a livello nazionale che locale, desolante e desolato. Come ho avuto modo di ribadire in più occasioni, ancora una volta, dal sociale al penale, il penitenziario continua ad essere sempre più luogo di discarica sociale”. Con queste parole Agostino Siviglia, garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria, ha scattato la fotografia del panorama carcerario reggino. Lo ha fatto durante la consueta presentazione della relazione delle attività svolte nello scorso anno. Lo ha fatto davanti a Giuseppe Falcomatà, primo cittadino di Reggio Calabria, e Calogero Tessitore, Direttore delle case circondariali cittadine. Per l’avvocato Agostino Siviglia, quindi: “Non c’è da sorprenderci se, in gran parte, la popolazione carceraria sia costituita da una pletora di vite di scarto, per usare la tragica ma eloquente definizione di Bauman, che, come abbiamo visto, sovraffolla i penitenziari italiani e reggini. Vedere resta, ancora, il punto essenziale”. Il problema del sovraffollamento - Un sovraffollamento che è la costante in tutte le case di reclusione sparse per la Penisola e rispetto alla situazione nazionale Reggio Calabria, purtroppo, non fa eccezione. Al 31 dicembre 2018, stando ai dati riportati nella relazione del garante, a fronte di una capienza regolamentare di 302 detenuti, nel carcere di “Arghillà”, ne erano presenti 383, di cui 58 stranieri; alla stessa data, al “Panzera”, a fronte di una capienza regolamentare di 186 detenuti, ne erano presenti 216, di cui 11 stranieri e 34 donne. “Rispetto all’anno scorso - ha detto Agostino Siviglia - ancora una volta il quadro del complesso mondo penitenziario restituisce una marginalità grave a seguito anche delle riforme carcerocentriche che creano una dimensione di vita dei detenuti di scarto”. Il caso Saladino - Detenuti come Antonino Saladino, deceduto presso la Casa circondariale di Arghillà il 18 marzo dello scorso anno, dopo 12 giorni di febbre. Un caso che sta molto a cuore all’avvocato Siviglia che, durante la sua relazione, non ha esitato a paragonarlo a quello che ha visto come sfortunato protagonista Stefano Cucchi. “Già nella precedente relazione ho segnalato, denunciato, la morte del giovane detenuto Saladino, di appena 30 anni - ha detto Siviglia - per il quale, allora, erano in corso le indagini preliminari condotte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, al fine di verificare le effettive cause del decesso. Scrissi, che prima di giungere a qualsivoglia affrettata conclusione, bisognava attendere i risultati delle indagini da parte della locale Procura della Repubblica”. Dodici mesi sono passati ma nessuna risposta è arrivata dagli uffici competenti. “Bene - ha sottolineato il Garante - è passato più di un anno da allora, e ancora oggi non si conoscono le cause di quel decesso. Le indagini sono ancora in corso, e la madre e la sorella di Saladino, non sanno ancora di cosa è morto il loro congiunto. Lo scorso mese di febbraio, ho depositato in Procura una memoria sulle informazioni da me assunte nell’immediatezza dei fatti. Ancora nulla! Insisto anche quest’anno, dunque: attendiamo risposte! Non già per inseguire colpevoli a tutti i costi, ma solo ed esclusivamente - e per quel mi compete - al fine di assolvere, in coscienza e responsabilità, le mie funzioni istituzionali, al sevizio della tutela e salvaguardia dei diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti ai detenuti e, ancor prima, al servizio della verità e della giustizia”. La firma della Convenzione - In occasione della presentazione della Relazione annuale del garante è stata sottoscritta anche l’importante protocollo fra il direttore del Carcere ed il sindaco del Comune di Reggio Calabria, unitamente alla dirigente del settore anagrafe Comunale, avente ad oggetto l’attivazione dello sportello “Punto Città” in carcere, per consentire mensilmente ai detenuti di fruire dei servizi comunali relativi a tutte le pratiche amministrative connesse ai relativi servizi anagrafici. “È una convenzione nata per poter svolgere le attività anagrafiche di grande importanza per riscuotere la pensione o altri atti necessari per i detenuti”. Presente all’incontro anche il sindaco Giuseppe Falcomatà e Calogero Tessitore, direttore della Casa Circondariale di Arghillà e la dirigente del Comune Carmela Stracuzza. “Si tratta di un’iniziativa estremamente importante per i nostri ospiti che avranno così la possibilità di riscuotere la pensione - spiega il direttore Calogero Tessitore - Finalmente risolviamo, grazie alla sensibilità del sindaco e del garante, un grande problema. È un grande segno di civiltà”. L’Aquila: da 13 giorni in sciopero della fame contro il “41bis ammorbidito” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 giugno 2019 Da oramai più di 13 giorni sono in sciopero della fame due donne detenute recluse nella sezione AS2 femminile de L’Aquila. Si chiamano Silvia Ruggeri e Anna Beniamino e sono due militanti anarchiche arrestate e condannate a Torino rispettivamente nel 2016 e nel 2019 in seguito alle inchieste “Scripta Manent” e “Scintilla”. La prima ha ricostruito una serie di noti attentati avvenuti in Italia dal 2003 al 2015, tra cui l’invio di pacchi bomba a Romano Prodi (nel 2003, quando era commissario europeo) e agli ex sindaci di Bologna e Torino, Sergio Cofferati (nel 2005) e Sergio Chiamparino (nel 2006). Furono arrestate sette persone tra cui la Beniamino e il suo compagno Alfredo Cospito, attualmente detenuto nel carcere di Ferrara. L’operazione Scintilla ha portato invece a sei arresti e allo sgombero nel febbraio scorso dell’asilo di Torino occupato dal 1995 da un gruppo di anarchici coinvolti in 21 attentati e atti vandalici in diverse città italiane, diretti anche ai centri di accoglienza per migranti per influenzare il comportamento delle imprese impegnate nel settore sociale. Il motivo dello sciopero è la richiesta di soppressione del regime carcerario As2 a cui sono sottoposte da oltre due mesi. Le detenute a L’Aquila paragonano la sezione As2 al regime duro, definendo il trattamento a cui sono sottoposte come un “41bis ammorbidito”. Anna Beniamino, collegata in videoconferenza dal carcere al tribunale di Torino per la prima udienza sull’occupazione dell’asilo, ha motivato così lo sciopero della fame: “Siamo convinte che nessun miglioramento possa e voglia essere richiesto, non solo per questioni oggettive e strutturali della sezione gialla (ex-41bis): l’intero carcere è destinato quasi esclusivamente al regime 41bis, per cui allargare di un poco le maglie del regolamento di sezione ci pare di cattivo gusto e impraticabile, date le ancor più pesanti condizioni subite a pochi passi da qui, non possiamo non pensare a quante e quanti si battono da anni accumulando rapporti e processi penali. A questo si aggiunge il maldestro tentativo del Dap di far quadrare i conti istituendo una sezione mista anarco-islamica, che si è concretizzato in un ulteriore divieto di incontro nella sezione stessa, con un isolamento che perdura. Esistono condizioni di carcerazione, comune o speciale, ancora peggiori di quelle aquilane. Questo non è un buon motivo per non opporci a ciò che impongono qui. Noi di questo pane non ne mangeremo più: il 29 maggio iniziamo uno sciopero della fame chiedendo il trasferimento da questo carcere e la chiusura di questa sezione infame”. Il regime di alta sicurezza, ricordiamo, non è disciplinato né dall’ordinamento né dal regolamento penitenziario, ma dalle circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e c’è un’ampia discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria nella gestione delle sezioni di alta sicurezza. Tale regime si divide in tre sotto-circuiti. Del primo (A. S. 1) fanno parte i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41bis; quelli per taluno dei delitti gravi di cui al comma 1 dell’art. 4 bis della legge penitenziaria; infine coloro i quali sono stati considerati elementi di spicco e punti di riferimento delle organizzazioni criminali di provenienza. Al secondo (A. S. 2) appartengono i detenuti che sono tali per delitti commessi con finalità di terrorismo (anche internazionale) o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza. Nel terzo (A. S. 3) rientrano i detenuti che hanno rivestito posti di vertice nelle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti. Coloro che sono sottoposti al regime di alta sicurezza in molti casi non possono partecipare alle attività sociali e culturali che si svolgono nel carcere e vivono, di fatto, isolati dai detenuti ordinari. Per ottenere una declassificazione a regimi ordinari devono dimostrare di non avere più collegamenti con l’organizzazione criminale alla quale appartenevano. Sassari: “Dentro & Fuori”, percorsi da e per il carcere in Italia uniss.it, 12 giugno 2019 La città di Sassari per due giorni, il 14 e 15 giugno, sarà punto di riferimento nazionale per il mondo del carcere, visto da dentro e da fuori. “Dentro & Fuori”, non a caso, è il titolo del workshop organizzato dal Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari assieme alla Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari Cnupp della Crui, al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Prap, al Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità - Dgmc del Ministero della Giustizia, al Centro Giustizia Minorile Cgm di Cagliari, all’Ufficio Interdistrettuale per l’Esecuzione Penale Esterna Uiepe di Cagliari. Dentro & fuori dal carcere. L’evento si terrà nelle aule Segni, Cossiga e Mossa del Dipartimento di Giurisprudenza (viale Mancini 3) e occuperà interamente la giornata di venerdì, dalle 9.00 alle 20.00, nonché la giornata di sabato 15 giugno dalle 9.00 alle 17.00. Il workshop prevede una prima sessione intitolata “Prima della detenzione, percorsi verso il carcere” (venerdì 14 giugno ore 9.00 -13.30), una seconda sessione intitolata “Durante la detenzione, percorsi nel carcere” (venerdì 14 giugno ore 14.30-20.00), e una terza sessione che si svolgerà sabato 15 giugno dalle 9.00 alle 13.30, dal titolo “Dopo la detenzione: giustizia di comunità, percorsi di inclusione e welfare generativo sul territorio”. Associazioni, ordini professionali, istituzioni. Il menù della due giorni è ricchissimo, grazie al coinvolgimento di associazioni, ordini professionali, istituzioni, case editrici che contribuiranno a dar vita a una manifestazione polifonica “in cui nessuno insegna o impara soltanto, ma nella quale tutti i partecipanti, relatori inclusi, si contaminano a vicenda - afferma il Delegato rettorale del Polo universitario penitenziario, Emmanuele Farris - “con l’intento di creare o rafforzare utili sinergie che facilitino in futuro i processi di reinserimento dei detenuti, attraverso lo studio e la formazione in generale, in un’ottica di resilienza del tessuto sociale e istituzionale”. “L’Università di Sassari porta avanti con decisione una strategia basata su tre pilastri-ribadisce il Rettore Massimo Carpinelli - dove accanto a innovazione e internazionalizzazione diamo un peso notevole all’inclusione; in un territorio che manifesta diversi segnali di sofferenza economico-sociale, è importante strutturare un ateneo inclusivo, che sappia offrire la possibilità di percorsi formativi di alto livello anche a chi si trova ai margini, tessendo una rete di relazioni istituzionali e col terzo settore per rendere più efficace la nostra azione”. Una finestra sull’editoria carceraria. Grazie alla struttura del workshop, pensato con una sessione plenaria e tre parallele durante ogni mezza giornata (quindi in totale 3 plenarie e 9 parallele) la varietà è tale, che c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Le tre sessioni parallele sono orientate una con un taglio più istituzionale, una con un taglio accademico e una terza più eterogenea, dedicata ad aspetti particolari, al terzo settore etc. Il venerdì mattina - dopo la plenaria e contemporaneamente alle due sessioni istituzionali (sui percorsi di devianza e detenzione minorile) e accademica (aspetti pedagogici, sociologici e psicologici della devianza) - tra le sessioni eterogenee è da sottolineare sicuramente l’appuntamento del tutto originale con l’editoria carceraria, previsto per il 14 giugno in aula Mossa dalle 10.30 fino alle 13.30. Questa parte del workshop, accreditata come corso di formazione dall’Ordine dei giornalisti della Sardegna, sarà moderata da Angela Trentini, giornalista RAI e autrice assieme a Maurizio Gronchi del libro “La speranza oltre le sbarre” (Edizioni San Paolo, 2018). Saranno presentati numerosi casi editoriali che, nascendo dalle profondità del carcere, comunicano la speranza di un “dopo” sempre possibile, di un “fuori” dal carcere che arriva come conseguenza e conquista successiva alle fatiche del “dentro”. Tra gli altri: Giovanni Gelsomino (giornalista e operatore carcerario), La luna del pomeriggio; Alessio Attanasio, L’inferno dei regimi differenziati; Paolo Bellotti (educatore del Carcere di Alghero), Visti da dentro; Pietro Buffa (dirigente del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ed ex direttore del carcere di Torino), La galera ha i confini dei vostri cervelli; Federico Caputo, Sensi ristretti; Elton Kalica e Simone Santorso, Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario. Interverranno personalmente gli autori Angela Trentini, Pietro Buffa, Paolo Belotti, nonché gli ex detenuti Elton Kalica e Federico Caputo che offriranno una testimonianza diretta della propria esperienza. “Dalle sbarre alle stelle” e “Le carte liberate”. Nel pomeriggio (aula Segni, ore 14.30) il workshop “Dentro & fuori” prosegue con Fabio Masi, regista Rai e autore con Attilio Frasca del libro “Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle” (edizioni Itaca). Da questo volume è stato tratto lo spettacolo omonimo prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo e messo in scena dai detenuti della Casa circondariale di Pescara, con la partecipazione dell’attore Flavio Insinna e la regia di Ariele Vincenti che sarà presente. Nella stessa sessione, durante l’introduzione plenaria, sarà inoltre presentato dall’autore in anteprima il documentario “Le carte liberate” di Bonifacio Angius. Interverrà l’autore. A seguire, sempre il venerdì pomeriggio - oltre alle due sessioni istituzionali (una riflessione sui percorsi detentivi e i modelli trattamentali in Italia) e accademica sui diritti e doveri in carcere - molto originale la sessione dedicata alla società civile e terzo settore in carcere, coordinata da Amnesty International e Associazione Antigone, che propone numerosi contributi regionali e nazionali, tra cui l’esperienza di Ristretti Orizzonti (Padova). Fuori dal carcere: il reinserimento sociale dei detenuti. La giornata di sabato 15 giugno sarà dedicata principalmente ai percorsi “fuori” dal carcere, con particolare riferimento alle possibilità di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Questa parte è sviluppata grazie all’apporto dell’Ufficio di esecuzione penale esterna della Sardegna (sessione istituzionale), con numerose esperienze sia degli operatori del sistema dell’esecuzione penale esterna sia di ex detenuti. Tra gli strumenti che rendono possibile il reinserimento sociale degli ex detenuti, l’Università Italiana crede profondamente nel valore dell’istruzione, e per questo il Polo Universitario dell’Università di Sassari e la Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari propongono, con il coordinamento del Cesp Centro Studi Scuola Pubblica una sessione interamente dedicata alla teoria e pratica dello studio universitario in carcere che attualmente coinvlge quasi 700 detenuti in oltre 50 istituti penitenziari italiani, afferenti a circa 30 università pubbliche. Dalle 15.00 alle 17.00, è previsto un momento conclusivo di dibattito al quale i giornalisti e tutti gli interessati sono invitati a partecipare. Sono partner dell’iniziativa: Dipartimento di Giurisprudenza - Uniss; Corso di laurea triennale in Scienze dell’Educazione - Uniss; Corso di laurea triennale in Comunicazione Pubblica eProfessioni dell’Informazione - Uniss; Corso di laurea triennale in Servizio Sociale - Uniss; Corso di laurea magistrale in Servizio Sociale e Politiche Sociali - Uniss; Osservatorio Sociale sulla Criminalità in Sardegna Oscrim - Uniss; Centro Interdisciplinare Studi di Genere A.R.G.IN.O. - Uniss; Laboratorio Foist per le politiche sociali e i processi formativi - Uniss; Progetto FdS “Il minore delinquente” - Uniss; Tribunale di Sorveglianza Sassari; Centro Studi per la Scuola Pubblica Cesp; Consiglio dell’Ordine Forense - Sassari; Camera Penale di Sassari “Enzo Tortora”; Consiglio Regionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali - Croas; Ordine dei Giornalisti della Sardegna; Associazione Nazionale Funzionari del Trattamento ANFT; Associazione Antigone Amnesty International. Il workshop “Dentro & fuori” è una delle azioni previste dal Piano di comunicazione del Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari. Poiché l’evento è finanziato con fondi ministeriali Miur-FFO 2017 - D.M. 619/2017 art.10 “Ulteriori interventi” come integrato dal D.M. 1049/2017 art.1 lett, concesso all’Università degli Studi di Sassari per la realizzazione del progetto “Implementazione delle attività del Polo Universitario Penitenziario”, la partecipazione ai lavori è totalmente gratuita, aperta a tutti i cittadini che volessero dedicare qualche ora a conoscere meglio una realtà purtroppo troppo spesso nascosta e ignorata. Non è necessario iscriversi; ai partecipanti sarà chiesto solo di registrarsi all’ingresso. Oristano: diritto alla salute per Mario Trudu, in carcere da 40 anni castedduonline.it, 12 giugno 2019 “Mario Trudu, 69 anni, in carcere da 40 anni, versa in condizioni di salute precarie, che appaiono incompatibili con il regime detentivo. È affetto da una fibrosi polmonare, una complicazione derivante dalla sclerodermia che nelle forme più severe può portare alla mortalità. Se ciò non bastasse, gli è stato diagnosticato anche un tumore prostatico”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, facendosi interprete delle “vive preoccupazioni” dei familiari dell’anziano arzanese detenuto nella Casa di Reclusione di Oristano-Massama. “L’ergastolo ostativo a cui l’uomo è sottoposto - osserva Caligaris - non contempla l’esclusione del diritto alla salute che deve essere garantito a tutte le persone private della libertà in quanto diritto costituzionale oltre che valore umano. Lo aveva recentemente ribadito anche la Cassazione intervenuta sul caso di Totò Riina quando le condizioni di salute del boss, ristretto con il regime del 41bis, avevano richiesto un ricovero ospedaliero”. “Rivolgiamo quindi un appello al Direttore Sanitario dell’Istituto Penitenziario affinché valuti l’urgenza di provvedere a un ricovero in un Ospedale per l’intervento chirurgico e/o in una Residenza Sanitaria affinché l’anziano detenuto possa trovare l’assistenza indispensabile per la cura delle gravi patologie in atto. Mario Trudu è un uomo provato dalla lunga ininterrotta detenzione in diversi Istituti Penitenziari italiani. L’unica grazia concessagli in questi ultimi anni è stato il ritorno in Sardegna nel 2015. Da allora finalmente ha potuto effettuare colloqui con i parenti. A prescindere dalle valutazioni sull’ergastolo ostativo, che l’associazione ritiene una misura anticostituzionale, le condizioni di salute - conclude la presidente di Sdr - richiedono un atto di umanità e una valutazione scevra da qualunque preconcetto”. Palermo: 60 detenuti di Pagliarelli a scuola di pasticceria, con “Sprigioniamo sapori” palermomania.it, 12 giugno 2019 60 uomini e donne detenuti per imparare la millenaria arte della pasticceria siciliana coordinati da Salvatore Cappello. Imparare la millenaria arte della pasticceria siciliana, dando in mano i suoi segreti a 60 uomini e donne detenute, su 120 selezionati, coordinati da Salvatore Cappello, un marchio che richiama a un mondo pieno di dolcezza. Sarà presentato mercoledì 12, alle 10, nel teatro della casa circondariale Pagliarelli - Antonio Lorusso, il progetto “Sprigioniamo sapori”, finanziato nell’ambito dell’ Avviso 10/2016 dal Dipartimento Regionale della Famiglia e delle Politiche Sociali. Un percorso, gestito dall’Associazione “I.D.E.A.” presieduta da Fabrizio Fascella, in partenariato con l’associazione “Orizzonti Onlus” e la pasticceria Cappello. Attraverso varie attività come orientamento, formazione, laboratori e tirocini si punta a favorire il cambiamento nei detenuti per permettere un loro reale reinserimento nella società civile. “Abbiamo fatto la selezione, e siamo nella fase di formazione - spiega Aurelia Granà, direttore di progetto -. In tutto saranno 600 ore di formazione distribuite in vari step. Acquisiranno tutti una formazione spendibile a livello europeo. Alcuni di loro cominceranno il tirocinio con l’impresa simulata in carcere, ovviamente retribuiti. Coloro che usciranno a breve, grazie alle associazioni di categoria del settore pasticceria che stanno partecipando al progetto, potrebbero anche trovare immediata collocazione nel mondo del lavoro”. Napoli: convegno “Affettività e habitat. Un binomio di diritti negato in carcere” csvnapoli.it, 12 giugno 2019 Giovedì 13 giugno, dalle ore 9,30 alle ore 16,30, presso l’Aula magna dell’Università telematica Pegaso, isola F2 del Centro direzionale di Napoli, si terrà il convegno “Affettività e Habitat. Un binomio di diritti negato in carcere”, organizzato dal garante campano dei diritti delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, insieme al presidente dell’associazione onlus “Società della ragione di Firenze”, Grazia Zuffa. “Carcere ed affettività sembrano due parole inconciliabili, perché se c’è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere - ha dichiarato Ciambriello -. In questo luogo senza tempo, anche la riflessione sullo spazio fisico, in termini anche di edilizia, di spazi sensibili e significativi, di carenza di spazio vitale, di vuoti comunicativi e relazionali con la famiglia, di mancanza di igiene e dignità è utile e significativo. Spazi per praticare attività sportive, ricreative e spazi verdi per colloqui più dignitosi e umani. Sono alcuni temi centrali dell’incontro nazionale che si terrà giovedì prossimo a Napoli”. Sul tema si confronteranno i magistrati Francesco Cananzi, Marco Puglia e Filomena Capasso, i garanti regionali dei diritti dei detenuti Stefano Anastasia (Lazio e Umbria), Franco Corleone (Toscana), Liberato Guerriero (Prap Piemonte), i direttori di carcere Carlo Brunetti (Carinola) e Carlotta Giaquinto (Pozzuoli), i docenti universitari Luca Zevi, Marella Santangelo e Mena Minafra, don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale, Luigi Romano dell’Osservatorio regionale delle carceri, Gilda Panico, presidente dell’Ordine regionale degli assistenti sociali, Monica Latini, assistente sociale Uiepe, i politici Rosetta D’Amelio, presidente del Consiglio regionale della Campania, Alfonso Piscitelli, presidente commissione consiliare Affari istituzionali, e l’assessore regionale alle politiche sociali Lucia Fortini. I lavori saranno aperti da Elio Pariota, direttore generale dell’Università telematica Pegaso. L’evento è accreditato dall’Ordine degli assistenti sociali della Campania. Ferrara: in carcere si migliora l’assistenza sanitaria estense.com, 12 giugno 2019 La visita dei vertici Ausl in Arginone: “In arrivo le radiografie interne e un evento mirato alla tutela della salute dei detenuti”. La direzione dell’Azienda Usl di Ferrara ha accolto con piacere l’invito della direzione dell’istituto penitenziario cittadino e ieri (martedì 11 giugno) ha fatto visita alla struttura e incontrato operatori e detenuti di via Arginone. All’incontro, organizzato per confrontarsi su nuovi progetti e sinergie per migliorare l’assistenza sanitaria e portare cambiamenti nei servizi garantiti a chi deve scontare la pena in carcere, hanno partecipato Maria Nicoletta Toscani neo direttrice della Casa circondariale “Costantino Satta”, il Garante dei detenuti Stefania Carnevale, il direttore generale Ausl Claudio Vagnini e la direttrice sanitaria Ausl Nicoletta Natalini, accompagnati da Fabio Ferraresi e Sandro Guerra, direttore del dipartimento cure primarie. Il sopralluogo ha interessato i locali destinati ai nuovi giunti, che funge anche da osservazione breve intensiva (Obi), l’area sanitaria e gli ambulatori dove lavorano gli operatori sanitari Usl che prestano servizio nella struttura, gli studi medici, gli spazi dedicati alla didattica utilizzati anche dagli operatori del Servizio Dipendenze Ausl (Serd) nei loro interventi. La delegazione Ausl ha potuto visitare una sezione dell’istituto e parlare con alcuni detenuti che hanno presentato le loro necessità ed esigenze sanitarie, incontrare il cappellano per poi dedicarsi al confronto con la direzione del carcere. “Un incontro con ricadute pratiche immediate - conferma Vagnini: abbiamo fatto il punto sul progetto di prossima attivazione per la realizzazione di radiografie interne con nuovi strumenti che stiamo acquisendo attraverso il nostro economato. Abbiamo ragionato anche sull’organizzazione di un evento mirato alla sanità nel carcere rivolto ai professionisti e che coinvolgerà anche l’Università degli Studi di Ferrara, da realizzare ad autunno 2019. Infine, ma non ultimo per importanza, abbiamo potuto incontrare i nostri dipendenti che quotidianamente e con passione lavorano in un ambiente sensibile come quello dell’istituto penitenziario”. Una mattinata proficua, dunque, sotto più punto di vista che rappresenta un primo nuovo momento di collaborazione tra istituzioni locali che si occupano di soggetti in condizioni di fragilità. Milano: i turbanti delle detenute per la ricerca contro il cancro La Repubblica, 12 giugno 2019 Turbanti colorati, realizzati dalle detenute di San Vittore. E in vendita a offerta libera, richiedendoli via mail o sulla pagina Facebook di “G05”, per finanziare la ricerca sul cancro. E “La vita sotto il turbante”, iniziativa lanciata ieri a Palazzo Marino, per finanziare il reparto di Ginecologia oncologica dell’Istituto dei Tumori. È nata dalla collaborazione fra l’associazione “G05” e la cooperativa “Alice per Sartoria San Vittore”: “Si tratta di un’alleanza tra donne”, dice Francesca Brunati, una delle volontarie e tra i promotori dell’iniziativa. “Alleanza - aggiunge Monica Gambirasio, presidente della Camera penale di Milano - tra donne che soffrono per motivi diversi”. “I turbanti sono un simbolo”, aggiunge Francesco Raspagliesi, primario di via Venezian. Ovvero, il simbolo di una battaglia di cui a volte le donne si vergognano, visto che ancora oggi molte hanno paura o ritrosia a dire di essere malate. “Per questo - sottolinea il medico - mi ha colpito il contributo di queste donne a rompere il muro del silenzio”. Alla presentazione ha partecipato il sindaco Beppe Sala. Anche lui, alcuni anni fa, colpito da un tumore: “Se vedete persone con il turbante, guardatele in modo diverso, senza pietismo - è allora l’appello di Sala - Il ringraziamento mio e di Milano vi sia di stimolo ad andare avanti”. Roma: “CarcerArt”, storie di detenuti e di inclusione sociale ansa.it, 12 giugno 2019 Un video di tre minuti e mezzo per raccontare storie di carcerati e di inclusione sociale. Le riproduzioni di quadri dipinti da detenuti. Un dibattito tra addetti ai lavori e non sulla possibilità che ha l’arte di recupero sociale, di riflessione su se stessi, di comunicazione e apertura con l’esterno per le persone che sono ristrette in carcere. Se ne è parlato ieri all’hub culturale di Moby Dick alla Garbatella, dove si è tenuta la manifestazione CarcerArt, giornata di incontro e dibattito sulle attività in carcere organizzato dalla cooperativa Pid e da Nessuno tocchi Caino che ha visto protagonisti alcune associazioni tra le quali Antigone Lazio, Forum del Terzo settore, il garante dei detenuti per la Regione Lazio, Stefano Anastasia, gli artisti Paolo Bielli, Marina Haas, Elena Pinzuti e Laura Palmieri che nel 2015 hanno realizzato a Rebibbia il progetto “Il figliol prodigio”, laboratorio di arte con i detenuti. Alle pareti le riproduzioni di alcune di queste opere hanno fatto da teatro al confronto su arte, carcere e creatività. A moderare il dibattito lo scrittore Fulvio Abbate. Con il video “Le storie sono tante”, Ascanio Celestini per tre minuti e mezzo presta voce e faccia per narrare le vite di alcuni carcerati che sono riusciti a riscattarsi. “Ogni persona ha una storia. Ogni persona ha un nome”. “Non ci occupiamo di numeri. Noi ci occupiamo di persone. Noi facciamo i nomi” sono le parole che scorrono prima dell’inizio del video. Conosciamo così la storia di Carla, 8 anni di carcere in Thailandia, ma ora è uscita ed ha una figlia. Poi c’è Paolo che ha preso la terza media a Regina Coeli. E, ancora, Ulian, bulgaro, in cella per droga, che ora gestisce un orto e alleva galline; Hope, nigeriana, che quando è entrata in prigione era incinta di sette mesi, e di Ahmed, rifugiato politico che è in attesa di ricevere la cittadinanza italiana. Insomma storie ordinarie di vita di persone che sono riuscite a ribaltare un destino che li voleva spacciati. I progetti culturali con i detenuti sono molto importanti, ha ricordato Elisabetta Zamparutti, presidente di Nessuno tocchi Caino, “l’arte - ha aggiunto - è una forma di liberazione e di contatto con se stessi. Ben vengano questi progetti in una realtà come quella del carcere che è sempre più chiusa e in una situazione disumana”. Milano: un’esplosione di sport a San Vittore vita.it, 12 giugno 2019 Cpia, Csi Milano, l’associazione Quartieri Tranquilli e Decathlon hanno dato vita alla giornata “Carcere e Sport” nel penitenziario milanese con tornei che andavano dal ping pong alla corsa campestre, dal calcio alla pallavolo, dal calcio balilla agli scacchi. A San Vittore è andata in scena la seconda edizione di Carcere e Sport. Quest’anno il successo del 2018 è stato raddoppiato, e oltre al lavoro di Cpia e Csi Milano, si è aggiunto quello importante dell’associazione Quartieri Tranquilli fondata dalla celebre giornalista Lina Sotis e di Decathlon. Un’esplosione di sport che ha coinvolto per la prima volta i detenuti di tutti i reparti, compreso il sesto “protetti”. I detenuti del Quinto Raggio hanno mostrato capacità atletiche e attitudini sportive notevoli, portandosi a casa quasi tutte le prime posizioni in ogni disciplina, dal ping pong alla corsa campestre, dal calcio alla pallavolo, dal calcio balilla agli scacchi, presenti questi ultimi ancora con la preziosissima collaborazione dell’associazione Giocando con i Re. Entusiasmo e sorrisi si sono alternati sul podio durante le premiazioni condotte da Giancarlo Bolognino, cardine del CPIA a San Vittore, e presiedute dalle maggiori autorità milanesi e lombarde e da illustri ospiti. Tra i tanti nomi di richiamo, ricordiamo Fabio Pizzul consigliere regionale, Roberta Guaineri, assessore allo Sport del Comune di Milano, Antonio Cabrini ex calciatore e ora allenatore, e Mario Corso, ex giocatore bandiera dell’Inter. “Come CSI non possiamo che essere soddisfatti per l’ottima riuscita di un evento che ci ha visto fare squadra con altre realtà milanesi, con la scuola interna al carcere, con Decathlon, con la polizia penitenziaria, con gli operatori e la direzione del carcere, ma che soprattutto ci ha visto presenti come Comitato, coinvolgendo arbitri di pallavolo, arbitri di calcio, il gruppo eventi, i volontari e la preziosa logistica”, ha spiegato Giorgia Magni responsabile del progetto carcere, “Una menzione speciale vorrei farla ai due consiglieri provinciali Maestri e Meneghini, che hanno presenziato mettendosi a servizio come volontari, e a Laura Spoto referente del gruppo arbitri pallavolo, che ha fatto la stessa cosa per il secondo anno di fila... Quando perseverare è meraviglioso!”. Come citato da Giorgia Magni, anche la Sezione Pallavolo ha partecipato alla manifestazione svolta ieri a San vittore, con ben 14 arbitri. Oltre ad occuparsi dell’arbitraggio, sono scesi in campo formando una squadra (sono giunti 3i nel corso del mini torneo) e svolgendo anche attività di volontariato come supporto agli aspetti organizzativi. Ecco i nominativi: Sirica Domenico, Fellini Gianfranco, Nidasio Gilberto, Paccagnella Gianni, Pierdominici Mariano, Cucuzza Fabio, Anfuso Claudia, Spoto Laura, Losito Emanuela, Pirovano Giorgio, Meneghini Gianluca, Piacenza Marianna Savina, Nidasio Luca, Fuso Nerini Simona. Roma: “Il calcio è divertente, insegna a stare insieme e a fare squadra” di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 giugno 2019 Intervista a Carolina Antonucci, centrocampista e difensore centrale della Res Women (campionato di Eccellenza), dottoranda in Studi Politici, ricercatrice per Antigone e, da qualche mese, allenatrice dell’Atletico Diritti, la prima squadra di futsal composta esclusivamente da detenute, che ha partecipato al triangolare con la rappresentativa dell’Università Roma Tre e una selezione di Operatori dell’istituto penitenziario, svoltosi nel carcere di Rebibbia alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico. Una squadra composta da donne provenienti da diversi Paesi e culture, abituate a convivere ma non a stare insieme in una squadra. Quali i principali ostacoli da superare? “Il principale è stato fatto che molte di loro, soprattutto le non italiane, non avevano mai fatto sport. Perciò hanno prima dovuto comprendere cosa sia la pratica sportiva, capire che è impegno e anche sacrificio. In un secondo momento hanno dovuto superare la vergogna di non essere in grado di effettuare il gesto tecnico che nello sport è importante. Ma non si sono arrese: non ci sono stati abbandoni, sono venute a tutti gli allenamenti, anche negli ultimi giorni con una temperatura che sfiorava i 40 gradi. Difficoltà di comunicazione linguistica invece non ce ne sono state perché le donne straniere conoscono un italiano sufficiente a comprendere le regole di questo sport”. Lei è la prima allenatrice della prima squadra di calcio femminile composta da detenute. Cosa l’ha spinta ad accettare questo incarico? “La proposta è venuta da Stefania Marietti di Antigone, l’associazione che ha creato con Progetto Diritti e con il patrocinio dell’Università di Roma Tre l’Atletico Diritti, la polisportiva con la quale collaboro da tempo. La nostra è una sfida a voler proporre a donne uno sport considerato appannaggio maschile per dimostrare anzitutto che è divertente, che insegna a stare insieme, a fare squadra. Siamo contente perché c’è stata risposta e, come ho già detto, partecipazione costante”. È pensabile in prospettiva un torneo all’esterno? “Non all’esterno, perché non tutte le condannate in via definitiva possono avere permessi mentre altre sono ancora in attesa di definire la propria posizione giuridica, ma un torneo con squadre esterne che vengano a giocare a Rebibbia è senz’altro un nostro obiettivo. Anche così possono conoscere la competizione e migliorare”. In questi giorni i mondiali femminili hanno acceso i riflettori sul calcio femminile. La nazionale USA femminile ha denunciato l’Usa Soccer per discriminazioni rispetto agli atleti uomini mentre dalla Svizzera viene il progetto di un osservatorio Onu per garantire l’uguaglianza nello sport. Da professionista in Italia riscontra che ci siano iniziative analoghe? “Le rispondo semplicemente che in Italia nessuna donna può praticare lo sport da professionista per legge. Nel senso che una legge dell’81 attribuisce alle federazioni sportive quali atleti sono professionisti. Gli sport sono cinque, e tutti maschili. Finché non si cambierà la legge, non cambierà nulla”. Quindi “Siamo tutte calciatrici” anche in questo senso… “Certo. Dobbiamo tutte cercare di affermare un diritto allo sport in senso pieno, sempre e non solo quando si accende l’attenzione mediatica come in questi giorni e quando le calciatrici trovano spazio anche sui rotocalchi”. Volterra (Pi): Corleone “agire subito per il teatro o il finanziamento andrà perso” gonews.it, 12 giugno 2019 “Chi deve decidere, decida. Preferisco un rifiuto all’incertezza continua. Certo è che sul tavolo ci sono due progetti, entrambi fattibili, entrambi a basso impatto architettonico anzi, di recupero edilizio e valorizzazione, che rappresentano un’opportunità culturale enorme. Deve essere colta”. Il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, è chiaro: la costruzione del teatro stabile nel carcere di Volterra deve avere un epilogo, soprattutto perché a rischio c’è, anche, il finanziamento da 1milione stanziato a livello nazionale che deve essere impegnato entro l’anno. Una parte delle risorse, quelle di affidamento del progetto, andranno infatti perse se non si interviene “in tempi stretti”. E ieri nella sala Calamandrei del Consiglio regionale, Corleone ha incontrato la stampa per presentare i progetti o, meglio, quelli che lui stesso ha definito i “pre-progetti” di costruzione del teatro all’interno della Fortezza medicea che da secoli ospita un carcere. Due ipotesi, una peraltro già nota che interessa i cortili di passeggio dell’istituto e che, ha rilevato l’architetto del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Pasquale Ametrano, prevede “scavi contenuti e una teca di vetro che non compromette la vista dell’edificio storico”. Su questa ipotesi però la sovrintendenza ha opposto un diniego, anche se “non in maniera formale”, ha spiegato Corleone. Ecco allora che si è pensato ad un altro progetto, illustrato alla stampa anche attraverso la proiezione di slide e una simulazione appoggiata sulla “tavola, storica” della Fortezza che risale al 1400 e che nei secoli ha subito “notevoli interventi” alcuni dei quali definiti dal garante “vere e proprie brutture”, come le celle aperte, in gergo ‘cubicoli’, costruite intorno alla prima metà del 1800 lungo le mura difensive della Rocca Vecchia, detta anche Cassero. Ed è proprio qui, sul bastione del Cassero che prende corpo il nuovo progetto del teatro stabile di Volterra presentato oggi. In una zona peraltro già risanata ad inizio anni Duemila e prevista di rinforzi. Il progetto prevede il recupero del camminatoio centrale, adiacente al muro e ai cubicoli, per realizzare un piano di posa sulla pavimentazione attuale, quindi “senza grande impatto”, e un palco sospeso. L’unico intervento che prevede di toccare la struttura, riguarda la costruzione delle tribune per circa 200-250 persone, che nel progetto sono pensate come “sagomate nelle mura storiche” ad un’altezza di circa 3,4 metri da terra e inclinate verso il piano di posa. Adesso che sul tavolo ci sono questi due progetti, Corleone vuole risposte: “Il teatro arricchisce la bellezza del luogo, interviene sulla cultura e sugli spazi pubblici. Non ci sono motivi per continuare a non decidere”. Il prossimo passo, il “terzo atto” come lo ha definito il garante, sarà “incontrare la sovrintendenza, capire ogni perplessità e sciogliere definitivamente il nodo tra quale delle due ipotesi è la migliore”. “Siamo comunque in una Fortezza, lo spazio a disposizione non si può inventare” ha detto ancora Corleone seguito anche da Armando Punzo, direttore artistico Compagnia della Fortezza/Carte Blanche: “Il carcere di Volterra è cambiato grazie al teatro. Prima era tra i peggiori istituti di pena d’Italia. È diventato un luogo di sperimentazione e di opportunità importanti anche grazie all’appoggio che la Regione ha sempre dimostrato”. A supportare l’iniziativa, su cui è stata lanciata anche una petizione sulla piattaforma gratuita di campagne sociali Change (costruiamo il teatro stabile di Volterra), anche Andrea Aleardi e Corrado Marcetti della Fondazione Michelucci, presenti alla conferenza stampa, che hanno ricordato l’importanza di “aprire il carcere alla città e la città al carcere”. Ma Volterra e il suo teatro non sono le uniche iniziative su cui Corleone è impegnato. Per risolvere le “tante questioni ancora aperte in Toscana” tra cui la decisione, ancora non definita, di trasformare l’Istituto Gozzini, noto anche come Solliccianino, in casa delle donne, il garante ha annunciato un digiuno a partire dal 18 giugno prossimo: “Le risposte devono arrivare anche sulla questione della seconda cucina a Sollicciano, o su quella in sicurezza a Livorno”. “Volterra è ferma sulla paura di danneggiare strutture storiche. Vorrei ricordare che se si volesse creare una sezione 41bis in un qualunque carcere, non ci sarebbe sovrintendenza che tenga. Le scelte che si andranno a fare sul teatro stabile dovranno quindi essere motivate e convincenti” ha concluso. Radio Radicale, non c’è più tempo. Cuori puntati sul Decreto Crescita di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 giugno 2019 Oggi una delegazione consegnerà a Palazzo Chigi le 167mila firme raccolte per salvarla. L’iter del decreto Crescita prosegue al rallentatore, nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, come se il provvedimento non dovesse ancora passare il vaglio delle due Aule parlamentari e non dovesse scadere a fine luglio (tanto c’è la fiducia). E della riforma complessiva del settore della comunicazione istituzionale, promessa dalla maggioranza di governo con una mozione al Senato, nell’ambito della quale si colloca il rinnovo della convenzione con il Mise per la trasmissione delle sedute parlamentari, non si sente neppure l’odore. Ma per Radio Radicale il tempo stringe e non c’è spazio per i giochi di palazzo. “Le prossime ore sono determinanti per la vita del servizio di trasmissione delle sedute del Parlamento svolto da 43 anni da Radio Radicale”. Il grido d’allarme è stato lanciato dal cdr dell’emittente politica più importante d’Italia che rivolge un appello al governo affinché si faccia “carico della situazione di gravissima incertezza in cui si ritrovano gli oltre 100 lavoratori, interni ed esterni, della radio”. E si appresta oggi a consegnare a Palazzo Chigi le oltre 167 mila firme raccolte a sottoscrizione della petizione lanciata dal Partito Radicale sulla piattaforma Change.org. Ad accompagnare una rappresentanza della storica radio ci sarà Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della Stampa, e alcuni parlamentari del Pd, Leu, Lega, FI e FdI. Ai giornalisti e alle maestranze di Rr, spiega la nota del cdr, “nelle attuali condizioni l’azienda non può dare nessuna garanzia, nemmeno per l’immediato”. Cuori puntati dunque sul Dl Crescita che è ormai l’unica “occasione per governo e maggioranza di dimostrare concretamente la volontà di raccogliere le sollecitazioni venute dall’Agcom e ascoltare gli appelli” venuti dalla società civile e dalle organizzazioni di tutta Italia, e da ogni parte politica e istituzionale. Anche la Fnsi chiede che “gli emendamenti relativi al salvataggio dell’emittente e alla moratoria ai tagli del fondo per l’editoria (che uccidono il manifesto, l’Avvenire e centinaia di cooperative editoriali, ndr) siano inseriti nel dl Crescita, così che finalmente tutti gli attestati di solidarietà, arrivati anche da non pochi esponenti della maggioranza, possano trasformarsi in atti concreti e voti, impedendo un ulteriore colpo alle voci della diversità e delle differenze e dando ascolto alle parole del presidente Mattarella, che più volte ha richiamato il valore dell’articolo 21 della Costituzione come presidio di democrazia”. Ascia Nera e l’inferno italiano, di Leonardo Palmisano La Repubblica, 12 giugno 2019 “Ascia Nera” (edito da Fandango) è l’esito di un’inchiesta durata tre anni, che ha coinvolto oltre duecento testimoni privilegiati, tra nigeriani residenti in Africa e in Italia. Il libro parte da questa ipotesi: l’esclusione sociale ha favorito e favorisce la crescita ed il radicamento mafioso nigeriano. Nei diversi capitoli del libro, gli incontri e le testimonianze raccolte disvelano l’esistenza di un sistema dotato di relativa autonomia territoriale in un quadro di grande miseria e brutalità. Soprattutto le ragazze hanno descritto la loro condizione come perfino peggiore di quella di provenienza. Un inferno italiano successivo ad altri due inferni almeno: quello nigeriano e quello libico. Il sistema si organizza per cosche che hanno testa in Africa e tentacoli in Europa, grande capacità di adattamento e straordinario intuito per gli affari. Ascia Nera (Black Axe) è sorta nell’università di Benin City nel 1977, ma viene registrata in Nigeria sotto il nome di Neo Black Movement. Questo doppio livello di denominazione serve per distrarre gli investigatori europei o per indurli a sottovalutare la portata intercontinentale dell’organizzazione. I picciotti, African Youth Empowerment (Aye), sono le braccia violente di una mafia nella quale il legame di sangue non ha senso perché il gruppo di appartenenza non è la famiglia, ma un lignaggio ‘spiritualè fondato su alcuni riti (differenziati per genere) e sulla mobilità sociale interna alle cosche. Come hanno raccontato i piccoli e medi Aye incontrati, l’affiliazione in Italia avviene con un’iniziazione sanguinaria che va sotto il nome di Play Hit: il ferimento a coltello (in Africa la prova è spesso un assassinio) di un Injew, di un affiliato ad un sistema avversario. Injew sono i Tingo (o Bird) della confraternita degli Eiye e i Baggers di quella dei Sealords (o Buccaneers). Normalmente le affiliazioni sono precedute dall’assunzione di bombe stupefacenti o di intrugli chiamati Kokoma. Il grande capo di Ascia Nera in Nigeria è un ingegnere, quel Felix Kupa eletto dalle commissioni dei Lord (gli affiliati che contano). I Lord bilanciano il potere del portavoce Kupa con almeno tre commissioni di governo e grazie al controllo dell’articolazione territoriale degli Aye. Fuori della Nigeria, il Neo Black Movement si diffonde per Zone che hanno la funzione di strutturarsi intorno alle forme criminali dell’economia locale: sfruttamento della prostituzione, narcotraffico e spaccio, furto e ricettazione, sequestro, usura e omicidio. I business organizzati e gestiti dagli Aye raccontano le diversità tra Ascia Nera in Africa ed Ascia Nera nel mondo bianco. In Africa l’organizzazione gode di coperture di alto livello, grazie alla corruzione e all’uso della minaccia. Il sistema contrabbanda petrolio con gli indipendentisti del Mend (il movimento armato per la liberazione del delta del fiume Niger dalle multinazionali dell’oro nero), ricicla denaro sporco in attività imprenditoriali sostenute dal governo, rapisce o compera ragazze da immettere nei bordelli delle più grandi città, importa cocaina dai narcos messicani (alcuni dei quali insediati da tempo in Nigeria) e fa arrivare nei porti sudafricani eroina gialla sintetizzata in Pakistan. In Italia si occupa per lo più di tratta, sfruttamento del sesso di strada e spaccio. La diffusione dell’organizzazione nella Penisola è vastissima: dalle piazze romane del sesso alle baraccopoli foggiane, dal quartiere Ballarò di Palermo a vaste aree di smercio di droga in Emilia Romagna e Lombardia, dai palazzi occupati a Torino ai Cara e ai Cas più degradati del Sud. La notevole disponibilità di giovani, una pressione demografica fuori dal comune, fanno della Nigeria il terreno ideale per una mafia che si inserisce nel mercato criminale europeo, egemonizzandone i bassifondi a danno di altre organizzazioni come quelle romene e bulgare. Black Axe riesce a infiltrarsi e a radicarsi, grazie a consorterie create ad arte con alcune cosche italiane: quelle di Camorra nel territorio di Castel Volturno, quelle del Gargano nel foggiano, quelle di Cosa Nostra a Palermo e a Catania. Nei dialoghi di cui si compone il libro, gli appartenenti alludono a un rapporto privilegiato con gli italiani che contano. Lo dicono le schiave del sesso, che temono la reazione violenta dei mafiosi bianchi in caso di sgarro. Lo dicono gli Aye, quando raccontano a chi si rivolgono per comprare marijuana e cocaina all’ingrosso. Soprattutto appare nitida l’incapacità dell’Italia di produrre argini alla proliferazione delle mafie sul territorio. I nigeriani si aggiungono ai sistemi stranieri già presenti, approfittando dell’aumento evidente della domanda di sesso e droga a più basso costo. Lavorano sui grandi numeri, non sulla qualità, e ci tengono a ribadirlo. Infine, quando penetrano nei luoghi dell’accoglienza (reclutando mendicanti o recuperando prostitute), i mafiosi nigeriani sono la risposta criminale a una domanda di assistenza, tutela e identità negata dal welfare italiano. Sono quel tentacolo mafioso in più che si insinua prepotentemente nelle fratture sociali, approfittando della fragilità per ricattare i propri simili. Come fanno sempre tutte le mafie. La società della trasparenza non è sinonimo di libertà di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 12 giugno 2019 WikiLeaks ha avuto grandi e indubbi meriti nello svelare i segreti dei potenti. L’ingenuità, però, sta nell’ignorare i rapporti di forza insiti nelle società. La consegna di Julian Assange da parte dell’ambasciata ecuadoriana alle autorità di polizia britanniche segna una svolta nella vicenda del fondatore di WikiLeaks, che potrebbe essere estradato negli Stati Uniti e finire dietro le sbarre di una prigione con i suoi carcerieri che gettano via, teoricamente, le chiavi della sua cella. Assange ha sulla testa accuse pesanti, dallo spionaggio all’attentato alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In realtà ha fatto ciò che ogni giornalista dovrebbe fare, diffondere notizie rilevanti per l’opinione pubblica, sia che si tratti del comportamento di uno Stato che di una impresa, di un singolo o di un gruppo organizzato. WikiLeaks, nel corso del tempo, ha diffuso notizie su corruzione, violazione delle leggi e comportamenti illeciti di militari impegnati in azioni di guerra. Ha cioè dato spazio sul proprio sito Internet - ma non solo, dato che ha operato anche con media cartacei - a materiali ufficiali ma segretati di istituzioni o imprese, avvalendosi della collaborazione di uomini e donne che vengono chiamati whistleblowers. Per questa attività informativa Assange e WikiLeaks dovrebbero essere ringraziati, ma non sempre le autorità statunitensi, inglesi, australiane, ma sicuramente anche di altri paesi, compresa l’Italia, hanno letto l’ormai classico Storia e critica dell’opinione pubblica di Jürgen Habermas, dove il filosofo tedesco sosteneva che compito dei media era di informare un pubblico secondo alcune regole - la pertinenza e la verifica delle informazioni diffuse - ma anche di sottoporre a controllo dell’opinione pubblica l’operato del sovrano di turno. Questo ha fatto Julian Assange e WikiLeaks. E per questo andrebbe liberato. Detto questo, l’esito parziale di questa vicenda richiede una analisi disincantata, spregiudicata dei pregi e dei limiti dell’operato di WikiLeaks. Il pregio dell’attività di WikiLeaks è di aver resi pubblici fatti, decisioni sottoposti al segreto industriale o al segreto di Stato, anche quando questi fatti riguardavano l’uccisione di civili da parte di militari (il caso di Chelsea Manning), corruzione di funzionari pubblici da parte di imprese o la documentazione di una attività sistematica di controllo delle comunicazioni private come emerge dai materiali forniti da Edward Snowden. Forte la convinzione, di matrice liberale e illuministica, da parte di Assange che la massima trasparenza sia sinonimo di una opinione pubblica informatica e che può quindi discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. La società della trasparenza, tuttavia, non è sinonimo di libertà. Le tecnologie del controllo possono essere infatti più efficaci proprio in un regime di massima trasparenza, dove ogni informazione diviene eguale ad un’altra, alimentando un rumore di fondo che impedisce di stabilire tanto la qualità che la rilevanza delle informazioni. L’ingenuità di Assange sta nel fatto che ignora un fattore rilevante nella produzione dell’opinione pubblica: i rapporti di forza nelle società, le asimmetrie di potere esistenti. La trasparenza può cioè essere funzionale a un regime di illibertà. Negli anni Sessanta, in quella che sarà poi la culla della rivoluzione del silicio, la California, intellettuali e movimenti sociali invitavano a diffidare della “tolleranza repressiva”, la caratteristica emergente allora, dominante oggi del rapporto tra singolo e potere costituito. Assange ha invece inseguito il sogno di una realtà dove il ristabilimento dell’equilibrio nell’accesso alle informazioni consentisse, appunto, di bypassare i rapporti di potere vigenti. Sia ben chiaro, il punto di vista di WikiLeaks ero lo stesso di mediattivisti ben più politicizzati di Julian Assange. Tutti hanno creduto che la condivisione delle informazione e la loro libera circolazione aprisse le porta del regno della libertà. Uno sguardo più disincantato sul modo di produzione dell’opinione pubblica avrebbe evitato non pochi fraintendimenti. E brucianti sconfitte nel conflitto su “chi decide e cosa” dentro e fuori la Rete. Il fatto rilevante e dirompente è che la costruzione dell’opinione pubblica è diventato un settore produttivo al pari dell’automobile, del cinema, della musica. E che quel settore economico è sempre più inscritto nella cornice della Rete come “media universale”. Si accede all’informazione sempre più attraverso dispositivi tecnologici differenziati, ubiqui e interscambiabili, dal computer al telefono alla televisione. E che i social media ignorano le classiche intermediazioni giornalistiche della modernità. E che ogni attività comunicativa è diventata la materia prima di quel capitalismo delle piattaforme (e della sorveglianza). La società della trasparenza ha cioè precisi protagonisti, che mostrano i brand di Facebook, Google, Amazon e di quel manipolo di data broker che ha il suo leader l’anarco-capitalista Peter Thiel maggiore azionista della Palantir Technologies, che con il fatturato di 20 miliardi di dollari è una della maggiori imprese di Big Data. Sono questi gli elementi che hanno portato al declino del mediattivismo à la WikiLeaks. Dunque cosa fare? Continuare certo a incentivare la moltiplicazione delle attività di whistleblowing. La contestazione del segreto industriale e del segreto di stato è sempre cosa buona e giusta. Allo stesso tempo ogni processo di alfabetizzazione informatica, di diffusione di pratiche di autodifesa digitale - compreso l’anonimato: d’altronde il cypherpunk è stato molto amato da Assange - è benvenuto. Quello che serve è la saldatura tra presa di parola di chi lavora nell’industria dei Big Data, nelle piattaforme digitali, un lavoro vivo spesso precario che deve farsi espropriare delle proprie capacità intellettuali, e gli utenti della Rete, ridotti a oggetti passivi di un data mining che produce profitti con l’esperienza umana. È questo l’orizzonte di un rinnovato mediattivismo. Con Julian Assange libero, con Edward Snowden che può circolare liberamente per il mondo. E con Chelsea Manning che può affermare la sua libertà di vivere una vita all’insegna del desiderio e di una identità liberamente scelta. Tso e contenzione. Prima la persona e la dignità di Emilio Santoro Il Manifesto, 12 giugno 2019 Tra 10 giorni sarà trascorso un anno dall’udienza in cui la V sezione della Corte di Cassazione ha deciso sul caso Mastrogiovanni, concluso con l’importante pronuncia 50497/2018. La Cassazione, riprendendo e chiarendo la propria giurisprudenza, fissa il principio che la contenzione fisica non solo non è un “atto medico” che risponde a finalità di tutela della salute e dell’incolumità del paziente, ma non è neppure un atto funzionale alla cura del paziente e quindi coperto dalla “scriminante costituzionale” derivante dall’art. 32 della Costituzione, che consente i trattamenti sanitari obbligatori nei casi previsti dalla legge. La pronuncia della Cassazione ha in sostanza escluso la liceità dell’uso della contenzione meccanica. La Corte arriva a questa conclusione chiarendo che l’operato dei sanitari è protetto dalla Costituzione “non perché frutto della decisione di un medico, ma in quanto caratterizzato da una finalità terapeutica”. Sono quindi atti medici, oltre che quelli strettamente terapeutici, esclusivamente quelli aventi natura diagnostica e quelli miranti ad alleviare le sofferenze dei malati terminali. La previsione dell’art. 32 ha la propria giustificazione nel bene tutelato: la salute. La contenzione meccanica, sottolinea la Corte, non può essere considerata in alcun modo un atto medico. Essa non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. Al contrario, essa può provocare lesioni anche gravi all’organismo se non adoperata con le opportune cautele. Da questa pronuncia consegue che la contenzione meccanica non si può considerare autorizzata dalla procedura prevista dall’art. 2 della legge 180/1978 (“legge Basaglia”), infatti come dice la sua rubrica, questa disposizione regola esclusivamente gli “Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale”. La Cassazione chiarisce una volta per tutte che la contenzione meccanica non rientra tra questi trattamenti non avendo “la dignità di una pratica terapeutica o diagnostica”. Essa costituisce “un mero presidio cautelare il cui utilizzo è lecito solo al ricorrere delle condizioni di urgenza”. In sostanza la Corte di Cassazione chiarisce che l’uso della contenzione meccanica configura un sequestro di persona, reato per cui vengono condannati i sanitari nel caso Mastrogiovanni, che può essere scriminato solo quando ricorrono gli estremi dello stato di necessità. Dalla pubblicazione di questa sentenza, deve quindi essere chiaro a tutti gli operatori sanitari che si trovano a trattare persone con problemi psico-sociali che, anche in caso in cui sia stato autorizzato il Tso, non possono procedere alla contenzione meccanica, senza commettere un reato, se non in caso di necessità. Il che, la Corte lo sottolinea, vuol dire che non si può procedere alla contenzione in via precauzionale, “sulla base della astratta possibilità o anche mera probabilità di un danno grave alla persona”, ma solo quando siano in presenza del “pericolo di un danno attuale e imminente”. Non è sufficiente che i sanitari si prefigurino “un pericolo eventuale, futuro, meramente probabile o temuto. Si deve trattare di un pericolo non altrimenti evitabile sulla base dei fatti oggettivamente riscontrati e non accertati solo in via presuntiva”. Questo accertamento deve risultare dalla cartella clinica. La mancata menzione dell’uso della contenzione meccanica è di per sé stato considerato indicatore del dolo dei sanitari, della loro consapevolezza di stare agendo in modo criminale. Speriamo ora di seppellire una volta per tutte Lombroso e smettere di trattare come un soggetto pericoloso chi soffre di problemi psico-sociali. Migranti. Sul mare comanda Salvini di Francesco Cerisano Italia Oggi, 12 giugno 2019 Deciderà sui respingimenti. Di concerto con Difesa e Mit. Più poteri al Viminale sui respingimenti delle imbarcazioni che trasportano migranti. Ma il provvedimento di divieto di ingresso, sosta o transito nel mare territoriale italiano dovrà essere concertato con il ministero della difesa e con quello dei trasporti. E, come chiarito dallo stesso premier Giuseppe Conte, “dovrà esserne informato il presidente del consiglio”. Con questo compromesso il governo ha sbloccato l’approvazione del decreto sicurezza bis, fortemente voluto dal ministro dell’interno Matteo Salvini, e rimasto quasi un mese in naftalina, per superare i rilievi del Quirinale. Decisivo il vertice notturno tra Conte e i due vicepremier Salvini e Di Maio. Rispetto alle prime versioni del provvedimento, che prevedevano multe fi no a 5 mila euro per ogni migrante salvato in mare a carico delle navi che non rispettassero gli obblighi previsti dalle Convenzioni internazionali, il testo varato ieri dal consiglio dei ministri cambia decisamente registro. Le multe andranno da 10 mila a 50 mila euro e saranno a carico del comandante e dell’armatore della nave che potrà essere confiscata in caso di reiterazione della condotta. Il decreto corregge il tiro anche sulla norma che puniva col carcere la semplice opposizione (senza commettere resistenza) a pubblico ufficiale nel corso di manifestazioni in luogo pubblico. Di questa disposizione non c’è più traccia nel testo finale del decreto, ma resta l’inasprimento delle pene per chi prenda parte a manifestazioni in luogo pubblico facendo uso di caschi protettivi o con il volto in tutto o in parte coperto. L’arresto, fi no ad ora previsto da uno a sei mesi, sale da un minimo di due a un massimo di tre anni. Rischierà invece fi no a quattro anni di reclusione chi, durante una manifestazione, lanci o utilizzi illegittimamente razzi, bengala, fuochi di artificio, petardi, gas urticanti, bastoni, mazze o altri oggetti contundenti. Sempre allo scopo di rafforzare le tutele nei confronti delle forze dell’ordine, inasprendo le sanzioni per le condotte commesse durante le manifestazioni in luogo pubblico, si prevede una modifica in più punti del codice penale. Per il reato di danneggiamento, ad esempio, viene prevista una forma aggravata (con reclusione da uno a cinque anni, invece che da sei mesi a tre anni) se i fatti sono compiuti nel corso di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico. Contrasto alla violenza in occasione di gare sportive Il decreto imbarca una sezione ad hoc voluta dal sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega allo sport Giancarlo Giorgetti, dedicata al rafforzamento del Daspo in occasione delle manifestazioni sportive. Il divieto di accesso agli stadi avrà effetto anche per le gare che si svolgono all’estero, sarà estensibile fi no a 10 anni e sarà revocabile solo previo risarcimento o collaborazione con le forze di polizia. Il questore potrà disporre il Daspo anche a carico di chi commette reati ai danni degli arbitri. Alle squadre sarà proibito dare sovvenzioni, contributi e facilitazioni (anche solo con biglietti, abbonamenti e titoli di viaggio) a soggetti raggiunti da misure di prevenzione antimafia, o colpiti da Daspo o ancora condannati, anche con sentenza non definitiva, per reati commessi in occasione di manifestazioni sportive. Alle società, infine, verrà fatto divieto di stipulare con i soggetti colpiti da Daspo, o da misure di prevenzione antimafia, contratti di cessione e sfruttamento del marchio. E sarà vietato anche corrispondere contributi e sovvenzioni ad associazioni di tifosi, ad eccezione di quelle aventi tra le finalità statutarie la promozione e la divulgazione dei valori e dei principi della cultura sportiva e della non violenza. Infine, viene resa stabile la possibilità di arresto in flagranza differita e cioè dopo l’individuazione del colpevole grazie all’ausilio delle telecamere di sorveglianza degli impianti sportivi. Migranti. Stretta sulle navi delle Ong. Il governo approva il decreto sicurezza bis di Francesco Grignetti La Stampa, 12 giugno 2019 Salvini esulta: previste pene più severe per chi aggredisce le forze dell’ordine nelle manifestazioni di piazza. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera: con grande soddisfazione di Matteo Salvini, è operante il decreto Sicurezza bis. Arrivano cioè i nuovi poteri per il Viminale, “di concerto con ministero della Difesa e delle Infrastrutture”, che potrà vietare l’ingresso nelle acque territoriali alle navi per “motivi di ordine e sicurezza pubblica” oppure quando, secondo il ministero dell’Interno, non avranno rispettato le leggi di immigrazione vigenti. Un modo diverso, più elegante rispetto alle versioni iniziali, di stoppare le navi umanitarie delle Ong. Per chi non rispettasse il divieto, comandante, armatore e proprietario della nave, ci sarà una multa da 10 a 50mila euro. E se la stessa nave lo farà più volte, scatterà il sequestro per arrivate fino alla confisca. Un giro di vite durissimo. Salvini si dice sicuro “che sia rispettoso di qualunque norma vigente in Italia e all’estero”. Ma con lo spettro delle multe e della confisca, per le Ong sarà impossibile contare sull’Italia. Che procede intanto, guerra o non guerra, a rafforzare la Guardia costiera libica: nei prossimi giorni gli saranno consegnati altri 10 mezzi. Di Maio contro i negozi etnici - Gli alleati di governo hanno acconsentito, anche se Luigi Di Maio non risparmia un piccolo colpo sotto la cintura: “Ok, ma occorre fare di più sui rimpatri. Sono troppi 500mila irregolari in Italia”. Prova anche lui ad alzare la voce contro gli stranieri, annunciando controlli a tappeto sugli esercizi gestiti da cinesi e pakistani: “La questione degli irregolari è un problema che coinvolge anche il mondo imprenditoriale e del lavoro. Molti lavorano in modo illegittimo in piccole attività poco trasparenti, che evadono il fisco, non emettono scontrini e vendono prodotti non registrati, nocivi per la salute, facendo concorrenza sleale anche alle Pmi italiane e danneggiando la nostra economia”. Cosa prevede il provvedimento - C’è poi tanto altro nei 18 articoli del decreto: pene più severe (fino a 4 anni) per chi aggredisce le forze di polizia nelle manifestazioni di piazza se “muniti di mazze, bastoni, caschi, razzi o fuochi artificiali”; trasferimento di competenze dalle procure ordinarie (tipo Agrigento) a quelle distrettuali (in Sicilia sono Palermo e Catania) per tutti i procedimenti in materia di immigrazione clandestina; 800 nuovi assunti per supportare gli uffici giudiziari e risolvere lo scandalo delle condanne definitive ma non eseguite (dice Salvini: “Solo a Napoli ci sono 12mila delinquenti con condanna definitiva a spasso. Più personale significa più lavoro e più sicurezza per i cittadini”); uso più flessibile del Daspo nei confronti dei tifosi violenti, anche quando le violenze avvengano all’estero e non soltanto dentro uno stadio. Quanto alle norme che colpiranno i manifestanti violenti, e i dubbi su una eccessiva stretta alle libertà costituzionali, Conte precisa: “L’originaria versione poteva essere meno nitida. Ora è precisato che riguarda chi crea “un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose”. Aggiunge Salvini: “Così come è scritto adesso, è chiaro che non riguarda lo studente o l’operaio che manifesta pacificamente le sue idee. Diverso chi aggredisce agenti o carabinieri munito di mazze, caschi, razzi. Non penso che la libertà di pensiero passi per strumenti di questo tipo”. Stati Uniti. In Alabama castrazione chimica per chi molesta i bambini La Stampa, 12 giugno 2019 La legge prevede che il trattamento si applichi ai condannati per violenze sessuali che chiedono la libertà condizionale. La procedura è applicata già in sei Stati. L’Alabama approva la castrazione chimica, diventando il settimo stato americano che la consente. La pratica però è reversibile, e destinata solo ai condannati per molestie sessuali contro i minori di 13 anni, come condizione per uscire dal carcere. La legge era stata proposta dal deputato repubblicano Steve Hurst, votata il 30 maggio scorso, e firmata ieri dalla governatrice Kay Ivey. Chi viene condannato per reati sessuali contro i minori di 13 anni può scegliere la castrazione, se vuole la libertà condizionale. Deve fare la domanda e cominciare il trattamento 30 giorni prima del rilascio, prendendo il medroxy progesterone, o altre sostanze simili che limitano o bloccano la produzione del testosterone e di altri ormoni, riducendo il desiderio sessuale. Lo scopo non sarebbe punitivo, perché il condannato ha già scontato la sua pena, ma preventivo, cioè evitare che torni a commettere gli stessi crimini. Il trattamento, sotto forma di pillole o iniezioni, verrà somministrato dall’Alabama Department of Public Health, fino a quando il giudice incaricato di gestire la pratica lo riterrà necessario. Se il soggetto interessato lo interromperà di sua iniziativa, violerà la legge e verrà riportato in prigione. Gli effetti del trattamento però sono reversibili, e quindi se i magistrati non lo riterranno più necessario, potrà essere sospeso senza lasciare danni permanenti. Hurst ha commentato così: “Avrei preferito l’intervento chirurgico definitivo, perché non c’è nulla di più disumano che abusare dei bambini, e se lo fai devi morire”. Con la firma della governatrice Ivey, l’Alabama è diventata il settimo stato americano ad adottare una forma di castrazione chimica, insieme a California, Florida, Louisiana, Montana, Texas e Wisconsin. Quindi la pratica è adottata soprattutto negli stati conservatori, ma anche in quelli liberal e indipendenti. In genere si tratta di una misura usata per evitare la ripetizione dei reati, anche se non c’è una conferma statistica e medica definitiva, ma il promotore in Alabama ha chiarito che la intende anche come una punizione, e uno strumento preventivo con cui impaurire le persone e scoraggiarle a compiere gli abusi. Gli oppositori ritengono che violi l’Ottavo emendamento della Costituzione, che vieta le punizioni crudeli e inusuali, e quindi stanno valutando se fare causa per bloccare la legge. Russia. Il giornalista Golunov è libero, ora nei guai ci sono i poliziotti di Yurii Colombo Il Manifesto, 12 giugno 2019 Il reporter anti corruzione era stato arrestato con accuse rivelatesi false. Una vittoria per il movimento popolare nato in sua difesa. Crolla come un castello di carte la montatura che era stata organizzata dalla polizia di Mosca per incastrare Ivan Golunov: la procura di Mosca nel pomeriggio di ieri ha fatto cadere tutte le accuse a suo carico e lo ha rimesso in libertà. Ivan Golunov giovane reporter del portale d’opposizione Medusa e famoso per le sue inchieste contro il malaffare delle grandi holding della capitale, era stato arrestato il 7 giugno con l’accusa di far uso di stupefacenti e di esser parte di una organizzazione criminale dedita all’organizzazione dello spaccio a Mosca. Le dosi di stupefacenti che la polizia aveva denunciato fossero in possesso del giornalista al momento dell’arresto erano state proditoriamente infilate nelle sue tasche dagli agenti stessi. Il giornalista aveva anche accusato le forze dell’ordine di averlo selvaggiamente picchiato. il tam tam della mobilitazione contro quella che era apparsa subito una macchinazione orchestrata dagli organi di sicurezza, era iniziato subito. A centinaia nella capitale si erano dati il cambio per protestare contro l’arresto di Golunov davanti al tribunale di Mosca, malgrado il divieto a manifestare. Manifestazioni che coinvolgevano a partire dal giorno successivo non solo le grandi città europee ma anche i più remoti centri asiatici. Una mobilitazione che era diventata assedio quando avevano preso posizione in difesa di Golunov i principali giornali e perfino i giornalisti televisivi più in vista. Kommersant di ieri riportava che “sui motori di ricerca russi da due giorni la parola più ricercata è Golunov”. Veniva anche lanciata sul web l’idea di una manifestazione non autorizzata (occorrono 15 giorni per avere l’autorizzazione a un corteo per la legislazione corrente) per il suo immediato rilascio a Mosca per mercoledì, che in poche ore raggiungeva i 200mila Like. A questo punto però sono stati proprio i vertici del Cremlino ad assumere misure nette prima che la marea montante diventasse un caso politico ingestibile. A costo di gettare un’ombra pesante su tutto l’operato del ministero degli interni è stato deciso, per calmare le acque, di prosciogliere Golunov e non solo. Giungeva così la notizia che il ministero degli interni ha assunto la decisione di “sospendere a tempo indeterminato gli agenti coinvolti nel caso in attesa di verifiche di quanto accaduto”. Ma Putin non ha lasciato al loro destino solo la “manovalanza” del complotto ma anche i vertici della polizia. “Ho ricevuto dal ministro dell’interno Kolokoltsev la richiesta di licenziamento del generale Andrey Puchkov e del capo della direzione della lotta al traffico di droga del dipartimento degli affari interni generale Yuri Devyatkin, proposta che ho accettato” dichiarava il presidente russo in serata. Si tratta della seconda vittoria in poche settimane di un movimento popolare: solo qualche settimane fa il movimento giovanile di Ekaterinburg aveva ottenuto il ritiro del progetto della costruzione di una cattedrale ortodossa nel centro cittadino. “Il potere è sempre più debole e incerto nei confronti delle pressioni che vengono dalla società civile e ciò produce una moltiplicazione delle mobilitazioni” commenta il sociologo marxista Boris Kagarlitsky. Prime fra tutte quelle delle lotte contro gli inceneritori in corso in varie città della provincia russa che ormai hanno assunto in qualche caso le sembianze dell’insorgenza popolare. “Il potere gattopardescamente vorrebbe cambiare tutto per non cambiare nulla, ma sono troppi i nodi che stanno venendo al pettine” conclude convinto Kagarlitsky. Brasile. Complotto anti-Lula, il caso torna davanti alla Corte suprema di Angela Nocioni Il Dubbio, 12 giugno 2019 Non era imparziale il giudice che ha spalancato prima delle elezioni dell’ottobre del 2008 le porte del carcere all’ex presidente brasiliano Lula da Silva, candidato favorito secondo tutti i sondaggi (di tutti gli istituti di indagine, anche quelli considerati ostili al partito di Lula, il partito dei lavoratori al governo dal 2003 al 2011). Liberando così la strada per il Planalto all’allora candidato di estrema destra e attuale presidente Jair Bolsonaro. Questa è l’accusa che vien fuori dallo scoop clamoroso del sito Intercept Brasil, diretto dal giornalista statunitense Glenn Greenwald, quello del caso Snowden. L’accusato di parzialità è Sergio Moro, l’ex giudice sceriffo diventato ministro della giustizia, il nemico mediatico dell’ex presidente Lula. Il sito d’inchiesta ha pubblicato il contenuto di parte dei messaggi audio scambiati tra l’attuale ministro ai tempi in cui era ancora giudice di prima istanza a Curitiba, chiamato a giudicare le prove portate dalla pubblica accusa nel processo contro Lula da Silva, e il coordinatore della pubblica accusa Deltan Dallagnol. La legge vieta ovviamente al giudice di interferire nella acquisizione delle prove che poi sarà chiamato a giudicare. I due, si deduce con evidenza dal contenuto dei messaggi, si scambiano invece infinite informazioni. Moro spiega ai pm cosa devono raccogliere e cosa no. Si dice insoddisfatto dell’evidenza di una prova. Suggerisce mosse, indica errori, detta i passi dell’indagine. Gioisce per il successo mediatico e per le ricadute politica dell’inchiesta. Si complimenta via chat con se stesso e con il pm per il repulisti provocato. “Complimenti a tutti noi” scrive. Tutto ciò, in base se non altro all’articolo 254 del codice del processo penale brasiliano, consente alla difesa dei condannati in quei processi di considerare il giudice “sospetto di non essere imparziale”. E di chiedere quindi l’annullamento del giudizio. Le chat, essendo state acquisite illegalmente, non sono utilizzabili contro i protagonisti delle conversazioni. Ma sono materiale prezioso per la difesa di Lula che è ricorsa davanti a tutti i tribunali possibili per denunciare, inascoltata finora, la violazione del diritto dell’imputato ad essere condannato da un giudice imparziale. Ciò inizia a risolvere i guai giudiziari Lula? No. La Corte suprema ha fatto sapere che riesaminerà il dossier e forse Lula uscirà di galera per continuare a scontare la pena ai domiciliari. Ma l’aspetta tra poche settimane la sentenza di primo grado per un secondo processo (ne ha cinque in piedi) per corruzione. Le accuse, sempre passate al vaglio dell’allora giudice Moro, di questo secondo processo sono molto simili a quelle per cui l’hanno condannato per corruzione passiva e riciclaggio di denaro. Si tratta sempre di una casa vicino a San Paolo messagli a disposizione, secondo l’accusa, da una grande azienda in cambio di contratti di favore con imprese di Stato. Stavolta non un appartamento sulla costa, ma una casa di campagna. La denuncia della pubblica accusa accolta a suo tempo da Moro parla di una ristrutturazione del valore di 280 mila dollari pagata interamente dalle imprese di costruzione Odebrecht, Oas e Schahin, in cambio di contratti con l’impresa petrolifera statale Petrobras. La villa è stata frequentata dalla famiglia di Lula, ma non è di sua proprietà. Lo sarebbe “di fatto” secondo i pm. Secondo la difesa le accuse “si riferiscono a contratti firmati da Petrobras che lo stesso giudice ha riconosciuto, in un’altra sentenza, non aver portato nessun beneficio a Lula”. Fatto sta che la sentenza è imminente e la partita giudiziaria per Lula potrebbe ricominciare dall’inizio. Moro non ha negato la autenticità dei messaggi divulgati. Ha detto che è del tutto normale che giudici e pm si parlino durante le inchieste. La presidenza della repubblica è sembrata imbarazzatissima. Bolsonaro che di solito twitta più di Donald Trump ha taciuto per due giorni, poi un laconico messaggio della segreteria di comunicazione ha ribadito la fiducia in Moro. Che non dà segni, per ora, di prendere in considerazione le dimissioni. Il sito annuncia di avere da parte messaggini audio privati di Moro ancor più clamorosi. Dovesse saltar fuori che c’è stato un accordo per far condannare Lula in secondo grado, e renderlo così incandidabile come è avvenuto, rendere inoffensivo lo scoop diventerebbe impossibile.