Carceri e coprifuoco a mezzanotte: se questa si chiama responsabilità di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2019 Dalla nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenzia “Tutela della quiete notturna negli Istituti penitenziari. Incentivazione a tenere salubri ritmi sonno-veglia. Garanzia di un'inderogabile fascia oraria di rispetto di sette ore per notte": È necessario “incentivare tutti i ristretti a tenere salubri ritmi sonno-veglia” E ancora “è comunque necessario tutelare il diritto alla salute che, naturalmente, contempla anche la necessità di un adeguato riposo notturno, riposo che non può in alcun modo essere impedito o disturbato da parte di individui che pretendono di imporre al prossimo i propri, magari scorretti e insalubri, ritmi sonno/veglia”. Ho deciso di commentare la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che stabilisce che “sia tassativamente garantita una fascia di rispetto di sette ore per notte, durante la quale vengano spenti i televisori, gli apparecchi radio e le luci”, a partire dalla mia vita personale. Fin da bambina non sono MAI riuscita ad addormentarmi prima che fosse notte fonda, non capivo chi mi costringeva ad andare a dormire a orari ritenuti più civili, ho detestato, quando frequentavo l’università, dopo aver studiato fino a tardi, non poter dormire alla mattina perché secondo mia madre “le ore del mattino hanno l’oro in bocca”; la vera libertà di persona adulta per me è stata cominciare a vivere con i miei ritmi, le mie veglie notturne e i miei sonni mattutini, per lo meno quando potevo scegliere di farlo. Dunque, se io fossi in carcere e dovessi fare i conti con questa circolare, credo che comincerei col dire che: - è ridicolo e crudele imporre dei ritmi obbligati di sonno/veglia a persone adulte, e tanto più lo è se queste persone già vivono la sofferenza della privazione della libertà e della lontananza dei propri cari, e magari non riescono a dormire la notte per l’ansia di risposte che non arrivano e l’attesa che qualcosa cambi; - siamo, poi, persone adulte, e se vogliamo dobbiamo poter far male a noi stessi con i nostri ritmi “scorretti e insalubri” sonno/veglia. Se invece parliamo di disturbare gli altri, ci sono un’infinità di modi per porre rimedio, che non sia l’imposizione di orari forzati: incentivare il fatto che si mettano in cella insieme persone con abitudini simili, usare le cuffie nel caso che una persona abbia bisogno di un volume più alto del televisore, cercare di mediare le diverse esigenze, tenendo conto del fatto che il sovraffollamento e la coabitazione in condizioni di particolare disagio non sono responsabilità del detenuto; - sarebbe meglio evitare di parlare di “diritto alla salute” come motivazione per spegnere luce e televisori nelle celle: potrebbe sembrare una feroce presa in giro per chi ogni giorno deve combattere per vedersi riconosciuto il diritto a essere curato in condizioni e con tempi decenti, cosa che in carcere costituisce un enorme problema; - il nuovo Ordinamento penitenziario dice che il trattamento penitenziario “si conforma a modelli che favoriscono l'autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l'integrazione”: un modo curioso di metterlo in pratica, mi pare, è iniziare a togliere anche l’autonomia di spegnersi e accendersi luci e televisore, e non invece chiedere di fare attenzione e di rispettare anche le esigenze degli altri, che significherebbe, questo sì, un vero richiamo alla responsabilità. La circolare in questione porta la firma del Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento, il magistrato Roberto Piscitello. E noi di Ristretti Orizzonti non possiamo fare a finta di niente: perché Roberto Piscitello ha avuto con Ristretti un lungo rapporto di confronto e di ascolto, è venuto spesso a Padova e in redazione, a trattare di temi spinosi come le declassificazioni e i circuiti di Alta Sicurezza. Poi però non ha più risposto alle nostre richieste di chiarimenti, e non ci ha dato nessuna spiegazione di questo silenzio: per me, che mi batto sempre con le persone detenute perché imparino a rispettare le Istituzioni, e a DISTINGUERE fra chi al loro interno ricopre indegnamente il suo ruolo e chi invece lo fa con onestà e responsabilità, è stata una grande delusione, perché non ho potuto in alcun modo capire e far capire PERCHE’, che cosa era successo, per quale motivo quella straordinaria stagione di confronto era finita. Oggi mi piace ricordare che Roberto Piscitello, quando frequentava assiduamente quel laboratorio di sperimentazioni coraggiose che è stata la Casa di reclusione di Padova, aveva emesso una circolare che sosteneva decisamente quei direttori, che osavano portare innovazioni significative nella vita delle persone detenute e delle loro famiglie, con queste parole “Sono sicuro che non saranno mai strumentalizzate a pretesi fini disciplinare le conquiste in materia di collegamento a distanza, di uso della tecnologia e di ogni forma di esaltazione dell’affettività che – come è noto – incide fortemente sul benessere dei detenuti”. La nuova circolare sulle televisioni mi sembra invece un ritorno all’antica, al detenuto che deve imparare a essere “come tu mi vuoi”, come ti vogliono una società sempre più incattivita e delle Istituzioni che troppe volte se ne lasciano condizionare. Per finire, ho visto il viaggio nelle carceri della Corte costituzionale, e ho apprezzato che dei giudici abbiano dialogato su un piano di parità e di confronto vero con le persone detenute, sulla base del fatto che “il condannato non è il suo reato”, come ha sostenuto il giudice Francesco Viganò. Ecco, spero che questo viaggio, questo ascolto e questo dialogo non restino momenti unici, e che le Istituzioni ci siano sempre, e non solo per il tempo di un viaggio. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Quanti detenuti hanno visto il film sul viaggio della Consulta in carcere? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2019 Il Dap vieta la tv dopo la mezzanotte, ma il docu-film domenica era alle 23,30 su Rai1. La circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che prevede per tutti i detenuti l’obbligo di spegnere la televisione e la radio a mezzanotte, ha creato una prima problematica. Il caso ha voluto che domenica scorsa, in seconda serata, è stato trasmesso su Rai1 il film di Fabio Cavalli sul “Viaggio nelle carceri della Corte Costituzionale”, e così, con lo spegnimento della tv, i detenuti non avrebbero potuto vedere il resto del film. Il condizionale è d’obbligo, visto che il professore ordinario di Filosofia e Sociologia del diritto e fondatore de “L’altro diritto” Emilio Santoro, ha inviato sabato scorso un messaggio al capo del Dap Basentini per chiedergli di emanare una disposizione affinché diano la possibilità ai reclusi - compresi quelli al 41bis - di terminare il film, prima di spegnere la televisione. La lettera è stata resa pubblica su Facebook da Rita Bernardini del Partito Radicale con l’intento di creare un tam - tam social, in maniera tale da far arrivare il messaggio a tutti gli addetti ai lavori. “Ho realizzato solo ora - scrive il professor Santoro al capo del Dap - che domani sera (domenica, ndr), in seconda serata, su Rai 1, andrà in onda il film che documenta il viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. Se ho capito bene sarà trasmesso nell’ambito di speciale Tg1 che inizia alle 23.15: durando il filmato quasi un’ora e mezza, causa l’assurda circolare che impone lo spegnimento del televisore, per tutti, alle ore 24 i detenuti si vedranno interrompere il filmato a metà”. Continua sempre Santoro: “In attesa di discutere sulla legittimità della circolare (casomai davanti ad un magistrato di Sorveglianza) puoi dare a tutte le direzioni la disposizione che domani facciano terminare il programma prima di spegnere le televisioni? Sarebbe un incredibile paradosso interrompere la visione e sarebbe uno sgarbo istituzionale senza precedenti verso la Corte”. E conclude: “Se ci avevi già pensato perdonami per questo messaggio se invece non ci avevi pensato, consenti che a vedere il filmato siano anche i detenuti in 41bis”. È stato dato seguito a questa raccomandazione? L’unica cosa certa è che nelle carceri di Milano, tutti i detenuti hanno avuto la possibilità di vedere l’intero film, senza interruzione alcuna. Questo grazie al neo garante locale dei detenuti Francesco Maisto che, come primo atto da garante, si è assicurato ciò. “Spero sia così in tutte le altre carceri - dichiara Maisto - nonostante la recente Circolare del Capo del Dap che limita gli orari serali”. Francesco Maisto è stato nominato garante dei diritti delle persone private della libertà il 4 giugno scorso. Lo ha nominato il sindaco Giuseppe Sala al termine di un percorso di selezione pubblica dedicato a profili di indiscusso prestigio e di chiara fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani e attività sociali. Tutte qualità che appartengono a Maisto, già presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna. Esperto di droga e di criminologia clinica, autore di libri, il suo nome è legato soprattutto alla nascita della legge Gozzini, quella del 25 ottobre 1986, la quale entrando nel nostro ordinamento penitenziario, creò una rivoluzione dal punto di vista culturale. È stato per dieci anni giudice di Sorveglianza a San Vittore negli anni di piombo, negli anni delle rivolte. Ha lavorato anche al Tribunale dei minori di Milano e al Tribunale di Napoli, dove è stato il giudice istruttore nel processo contro i Nap, un’organizzazione terroristica di estrema sinistra italiana. La Consulta ascolta le carceri di Giancarlo De Cataldo La Repubblica, 11 giugno 2019 I giudici sono bianchi, sobri, eleganti. Donne e uomini di studi profondi, vasta cultura, modi compiti, eloquio forbito. Le carcerate e i carcerati hanno tatuaggi etnici, denti guasti, shatush esagerati, in genere poca cultura, e, dentro, l’alternarsi di rabbia e speranza di chi vive l’innaturale condizione della prigionia. Appartengono a mondi diversi. I confini non potrebbero essere più chiari. I giudici, i delinquenti, li mandano in carcere. E quando ci vanno è, di regola, per interrogarli. Poi, un giorno, qualcuno rompe questo schema. La Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale va in carcere. Un’idea in apparenza bizzarra. Stiamo parlando dell’organo deputato al controllo delle leggi. Le spetta l’ultima parola in materia di rispondenza dell’attività legislativa alla Carta fondamentale della Repubblica. La somma giurisdizione. Che rapporto potrebbe mai esserci fra sì alte vette dello Stato e l’umanità dolente che affolla le patrie galere? Un rapporto unico, davvero fuori dall’ordinario. Lo racconta “Viaggio in Italia, la Corte Costituzionale nelle carceri”, il mirabile film-documentario di Fabio Cavalli trasmesso domenica sera dalla Rai e disponibile su RaiPlay. Una lezione di democrazia sul campo. Guidati dal presidente Lattanzi, i giudici costituzionali hanno girato per i penitenziari italiani, hanno incontrato i detenuti, hanno ascoltato le loro storie. E hanno spiegato la Costituzione. Nella piramide normativa del nostro ordinamento, la Costituzione è il vertice. I giudici della Consulta ne sono i custodi. Vederli dialogare con i detenuti è come assistere in diretta alla calata degli dei dell’Olimpo nella Gehenna dei dolenti. Una visione che riconcilia con la parte più nobile delle istituzioni, una boccata d’ossigeno nella negatività che costantemente accompagna ogni narrazione sulla giustizia. La Costituzione è la legge di tutti, spiegano i giudici, e tutela tutti: anche, e verrebbe da dire soprattutto, gli ultimi. E in carcere, nonostante le dicerie sugli alberghi a cinque stelle, di ultimi ce ne sono a bizzeffe. Carcere vuol dire pena. Ma la pena trova, nella Carta, l’unica declinazione possibile in uno Stato democratico: il giusto mezzo fra l’esigenza di reprimere e quella di rieducare. Misura per misura. La donna e l’uomo che hanno violato la legge sono assoggettati al doveroso castigo. Ma questo è il “prima”. Il “dopo” si chiama articolo 27: la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Significa che la pena deve tener conto tanto della repressione che della risocializzazione. Significa che la pena “giusta” non sarà mai né l’impunità né la tanto decantata (e ingiustificabile) “sentenza esemplare”. Significa, soprattutto, che un minuto dopo aver sanzionato, attraverso la condanna, la legittima esclusione dalla società di chi ha commesso un delitto, lo Stato comincia a lavorare per una nuova inclusione. Un compito immane: ma o lo si affronta, o la democrazia ne esce lesa. Davanti ai carcerati i giudici sono bravissimi a illustrare i principi senza abbandonarsi a un tecnicismo che brucerebbe tutte le chances di contatto. È impossibile, d’altronde, sottrarsi al lato umano del carcere, al linguaggio dei corpi, all’energia della disperazione. Solo le macchine, quelle macchine alle quali qualcuno vorrebbe affidare l’arduo compito di giudicare, potrebbero riuscirci. Ma per fortuna, a Rebibbia, a Nisida, a Marassi e dappertutto ci sono andati donne e uomini. E si sono messi in gioco e non hanno eluso la domanda delle domande: perché tante promesse che nella Costituzione affondano radici non sono mantenute? Perché la giustizia è un’alta aspirazione, eppure vive nell’incertezza e nella finitezza dell’umano agire. È una mèta intessuta di lotte, sconfitte, avanzamenti, cadute e trionfi. Un bene di tutti e di ognuno: mai data una volta per tutte, ma sempre da custodire e difendere da chi la vorrebbe sgretolare. Così come la democrazia: imperfetta, forse, ma irrinunciabile, sempre. Facciamolo girare nelle scuole, questo film, e inseriamolo nei programmi di formazione di giuristi e politici. Racconta con una sintassi impeccabile un’esperienza tanto lucida quando calda ed emotivamente coinvolgente. Colloqui tra Garanti e reclusi al 41bis: la protesta dei penalisti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2019 Dura presa di posizione della Camera penale di Roma contro l’ipotesi, sempre più concreta, di una normativa che vieterebbe ai garanti locali e territoriali di effettuare colloqui riservati con i reclusi al 41bis. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, il 6 giugno 2019 in Commissione Antimafia, ha infatti dichiarato: “Rispetto ai Garanti locali i miei uffici hanno formalizzato e portato all’attenzione del ministero una proposta di modifica normativa nel senso di escludere i garanti locali dal potere di visita e di colloquio con i detenuti al quarantuno bis”. La Camera Penale di Roma e la sua commissione carcere, con un comunicato, ha espresso massima preoccupazione per queste affermazioni. “La inquietante presa di posizione - scrivono i penalisti - fa eco alle dichiarazioni già rese in commissione Antimafia dal dottor Calogero Roberto Piscitello, direttore generale della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, in merito alla richiesta, da parte di persone detenute nei regimi di massima sicurezza, di colloqui riservati con i Garanti regionali e comunali: “Ogni volta che si è presentato un caso del genere, ho impugnato quella richiesta: è accaduto però che o il Garante o il detenuto hanno fatto ricorso alla Magistratura di sorveglianza che ha concesso il colloquio. Io mi sono assunto la responsabilità di non dare corso a quel provvedimento”. Piscitello ha chiesto, in Antimafia, una norma che vieti espressamente il colloquio riservato tra il Garante regionale o locale e il detenuto al 41- bis. “In tempi in cui, nel martoriato mondo delle carceri - scrive sempre la Camera penale di Roma - sono in verticale ascesa gli indici di malessere e di sovraffollamento che si traducono nella tragedia incombente dei suicidi tra le mura (anche da parte di agenti di Polizia penitenziaria), a fronte di una perdurante mancanza di risorse umane e materiali, più forte è la necessità della piena trasparenza”. I penalisti sottolineano che la funzione costituzionale della pena è inevitabilmente connessa ad una esigenza di verifica e di controllo, tanto più necessaria in quei luoghi di privazione, quali i regimi detentivi del 41bis in cui, a norma di legge, sono “oltremodo contratti i diritti soggettivi e le libertà individuali”. La Camera penale definisce “inaccettabile che il sospetto di contiguità mafiose ricada su soggetti, i Garanti regionali e comunali, che in raccordo con il Garante Nazionale, esercitano l’altissima funzione di tutela di diritti fondamentali”. Per i penalisti è “allarmante la dichiarazione del dott. Piscitello di avere disatteso pronunce del magistrato di Sorveglianza che aveva autorizzato l’incontro privato di un ristretto con il Garante locale” e concludono: “In nessun caso è ammissibile che il potere amministrativo calpesti la decisione di un giudice a garanzia di diritti individuali e si sottragga alla separazione delle funzioni e dei poteri voluta dal Costituente a protezione da derive totalitarie”. Il Garante regionale e coordinatore dei garanti territoriali Stefano Anastasìa, accoglie con favore la presa di posizione della Camera penale di Roma e confida che “se e quando questa proposta (la normativa contro i colloqui riservati dei garanti con i reclusi al 41bis, ndr) dovesse essere portata in Parlamento, trovi l’opposizione che merita”. Donne della Polizia penitenziaria, tra vita e lavoro fpcgil.it, 11 giugno 2019 In netta minoranza, con pochi posti disponibili nei concorsi, escluse dai percorsi di carriera. Come vive una donna che lavora in un carcere? Con quali condizioni di lavoro ha a che fare ogni giorno? Cosa vuol dire lavorare in un ambiente che negli anni è sempre stato caratterizzato da una presenza prettamente maschile? Esiste la tanto decantata parità di genere nel mondo del lavoro e, in particolare, in quello delle donne in divisa? Questi gli interrogativi dai quali siamo partiti e che ci hanno portato a costruire un’idea di parità, umana e professionale, che abbiamo deciso di condividere, oggi a Milano, nel Carcere di San Vittore, con un’iniziativa targata Fp Cgil dal titolo “Oltre le sbarre, il lavoro delle donne in divisa”. Donne e lavoro - Purtroppo viviamo in un Paese in cui, più che nel resto dell’Europa, si scontano importanti disparità di condizioni tra i generi. Assistiamo sempre più spesso, negli ultimi mesi, a iniziative della politica che, di fatto, minano le libertà e i diritti individuali delle donne, ad un arretramento culturale che rafforza un modello di società patriarcale. Questo modus pensandi si riversa inevitabilmente nel mondo del lavoro, tutto. A partire dalle retribuzioni. Lo scenario italiano infatti è quello di donne mediamente molto più istruite dei colleghi uomini, ma con salari inferiori, a parità di occupazione e di mansioni, nonostante le più elevante competenze. Secondo gli ultimi dati Istat, relativi al 2018, lo scarto di retribuzioni tra uomini e donne sfiora il 30%. La maternità - A maggior ragione la maternità è implicitamente considerata, in Italia, un evento personale e legato alla vita privata - e, diciamocelo, un inconveniente per il datore di lavoro - piuttosto che una risorsa per il Paese, che in fondo non è altro che una macchina che si mette in moto e si alimenta, di generazione in generazione. È di conseguenza considerato un costo quello per i servizi a sostegno delle famiglie, piuttosto che un investimento. Secondo i dati Istat, infatti, sono il 27% le madri che lasciano il lavoro per prendersi cura dei propri figli, contro il solo 0,5% degli uomini nella stessa condizione. Le donne della Polizia Penitenziaria - Non è difficile immaginare quanto possa essere enormemente più complicato per tutte quelle donne che trascorrono gran parte della propria giornata, ogni giorno, in ambienti di lavoro in cui la presenza maschile è predominante. La presenza di donne nel corpo di polizia penitenziaria è una novità introdotta appena 29 anni fa con la Legge 395 del 1990 e rappresenta oggi il 9% del personale tra gli agenti (il 7% tra i sovraintendenti e il 12% tra gli ispettori). Questa è una conseguenza anche della normativa vigente secondo cui “il personale del corpo di polizia penitenziaria da adibire ai servizi in Istituto all’interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti”. E se consideriamo che la popolazione carceraria è costituita da circa 55 mila detenuti uomini e da sole 2.228 detenute donne (dati del 2017), va da sé che la presenza maschile è quasi esclusiva. Ma è davvero quella vigente l’unica modalità possibile? Eppure questo non vale per tutte le legislazioni. Ci sono infatti esperienze europee (come quelle di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Francia e Germania) in cui le donne della Polizia Penitenziaria sono ammesse anche nelle sezioni maschili, salvo che per le operazioni di perquisizione dei detenuti. Queste esperienze ci insegnano che aumentare il numero di donne nel corpo di Polizia Penitenziaria, se fatto con criterio, è possibile. C’è poi da considerare che l’Italia esclude attualmente le donne non solo dai ruoli che operano all’interno delle sezioni detentive, ma anche da ruoli e mansioni che non prevedono il lavoro in sezione: ispettori e sovrintendenti. Gli ultimi concorsi per accedere ai suddetti ruoli, infatti, hanno previsto soli 172 posti femminili per i sovrintendenti, pari al 6% (contro 2.679 posti maschili) e 35 posti femminili per gli ispettori pari al 5% (contro i 608 maschili). Per gli agenti la percentuale aumenta al 22%, con 196 agenti donne e 678 agenti uomini. Le condizioni di lavoro - Quanto detto fino adesso tocca solo questioni numeriche, c’è poi tutta la questione di come si lavora nelle carceri. Un ambiente storicamente maschile ha mantenuto in sé una serie di aspetti organizzativi e pratici, oltre che psicologici e umani, che rendono difficile il clima per le donne poliziotte. Nelle carceri, per esempio, non ci sono spogliatoi, bagni, armadietti e stanze per il pernottamento che siano riservati alle sole donne. Mancano misure di flessibilità di orari e turni per armonizzare quanto più possibile la conciliazione della vita personale con il lavoro. Sono tanti gli aspetti che fino ad oggi non sono stati curati e che meritano invece la giusta attenzione. Per questo la Fp Cgil ha deciso, attraverso questa iniziativa, di sensibilizzare la politica a questo tema e di avanzare delle proposte, contenute nella Piattaforma per le pari opportunità, che permetterebbero a tutto il personale di Polizia Penitenziaria, uomini e donne, di vivere in armonia, nel rispetto e nella realizzazione personale e professionale. Nel corpo di Polizia penitenziaria vi è una discriminazione verso le donne sostanziale rispetto a quanto avviene negli altri corpi di polizia. “Siamo convinti - commenta il sindacato - che una maggiore presenza femminile in ambienti così chiusi e delicati possa dare un contributo importante, rendendoli più sereni e vivibili. Non possiamo fare passi indietro, dobbiamo procedere in avanti, in direzione di una parità di opportunità tra uomini e donne che è da ritenersi civile”. L’Anm si rinnova e si ricompatta contro le proposte di riforma del Csm di Adriana Pollice Il Manifesto, 11 giugno 2019 L’effetto a catena del caso Palamara. Nell’esecutivo non ci sarà Magistratura indipendente. E i quattro togati restano autosospesi. Il Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati tornerà a riunirsi domenica prossima, all’ordine del giorno il rinnovo della giunta esecutiva centrale. Gli effetti dell’inchiesta di Perugia sul pm Luca Palamara hanno innescato un effetto a catena che cambierà gli equilibri all’interno del parlamentino delle toghe. A chiedere la convocazione sono stati i gruppi di Area, Unicost e Autonomia & indipendenza. Tutti sul piede di guerra dopo che Magistratura indipendente ha votato un documento in cui si chiede che i togati autosospesi del Csm tornino a svolgere le proprie funzioni. Si tratta di quattro magistrati, uno di Unicost e tre di Mi, scoperti dalle intercettazioni a discutere delle nomine alla procura di Roma con Palamara (pure lui di Unicost) e i parlamentari Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (togato in aspettativa, leader di Mi). La scorsa settimana il Cdc dell’Anm ne aveva invece chiesto le dimissioni. La frattura domenica ha portato il presidente Pasquale Grasso a lasciare la sua corrente, Mi. L’esito della crisi sarà un nuovo esecutivo supportato da tutti i gruppi tranne Magistratura indipendente. Rientrerà anche Autonomia & indipendenza, capitanata da Piercamillo Davigo, l’unica all’opposizione nell’esecutivo uscente. Lo scopo è ricompattare l’Anm contro le ipotesi di riforma del Csm, che stanno mettendo in allarme i magistrati. Domenica Eugenio Albamonte, esponente di Area, ha spiegato: “Il rischio è che questa sia l’occasione di rivalsa della politica sulla magistratura, ossia normalizzare la magistratura cambiando il sistema normativo. Se passassero riforme come la separazione delle carriere e il sorteggio per il Csm, ci saranno oggettive responsabilità di persone che, con le loro condotte, hanno creato l’humus su cui queste riforme attecchiscono”. Grasso non si presenterà da dimissionario: “Ascolterò gli altri componenti del Cdc”, ha spiegato. Su Mi: “Mi sono dimesso perché contesto la loro decisione di chiedere il rientro dei consiglieri al Csm”. E sugli incontri con Lotti (coinvolto a Roma nell’inchiesta Consip): “Un rappresentante dell’organo di autogoverno in pochi secondi doveva andare via. È uno scandalo senza precedenti. Discutere della nomina alla procura di Roma con un imputato di quella stessa procura è un punto di non ritorno”. Da Mi però si continua a fare muro: “Basta con il gioco al massacro. Auspicare la ripresa dei lavori da parte dei consiglieri autosospesi ha un preciso fondamento nella legge istitutiva del Csm, che non contempla l’autosospensione”. E ancora: “Non c’è stato alcun incidente istituzionale. Invitiamo le componenti associative ad abbassare i toni e a prestarsi a un reale confronto. Molte prese di posizione si basano solo su notizie di stampa”. Per concludere: “Quando sarà reso noto il contenuto della documentazione arrivata al Csm sarà possibile fare valutazioni più approfondite”. A Mi ha replicato il vice presidente dell’Anm Luca Poniz (Area): “Irricevibile ridurre il caso a un regolamento di conti tra correnti. Impensabile che si torni indietro sulla richiesta di dimissioni dei consiglieri. La vicenda disvela il patologico rapporto tra una parte di magistrati e una parte della politica. Guai a pensare che possa essere l’occasione di una riscrittura in chiaro del rapporto tra politica e magistratura”. L’ultimo periodo è una replica a Matteo Renzi, che aveva affermato: “Il metodo non l’ha inventato Lotti, è un’ipocrisia per attaccarci”. Gli autosospesi Corrado Cartoni, Antonio Lepre e Paolo Criscuoli (tutti di Mi) e Gianluigi Morlini, intanto, hanno chiesto di visionare gli atti prima di prendere una decisione sul loro futuro. Morlini ha lasciato Unicost, che aveva preso le distanze dai suoi componenti coinvolti. Rispetto alla possibilità che tornino ai loro ruoli nel Csm, Unicost ieri ha ribadito “il disagio che tale decisione crea nell’istituzione consiliare in termini di credibilità”. Valerio Onida: “Correnti dei giudici con i vizi dei partiti” di Errico Novi IL Dubbio, 11 giugno 2019 “C’è uno scarto ontologico fra l’elezione di un consigliere Csm e quella di un deputato: il primo non deve rispondere a chi l’ha votato”. Parte da tale assunto, il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, e arriva a individuare nel caso Csm le “tipiche degenerazioni dei gruppi di potere più opachi”. “I magistrati possono avere diversi orientamenti culturali, in base ai quali offrono quel contributo comune a cui sono chiamati con l’avvocatura, relativo al funzionamento degli istituti processuali e alla loro eventuale revisione. Ma il capo di una Procura va scelto per le sue capacità, non per il suo orientamento culturale”. È un equivoco. Di fondo. Riguarda l’analogia fra correnti e partiti politici. “Non esiste”, dice con nettezza Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale e fatalmente scosso dallo spettacolo del caso Csm. “C’è uno scarto che si può definire ontologico, fra i principi che governano l’elezione dei componenti del Parlamento e quelli in base a cui si scelgono i componenti di un organo come il Csm: nel primo caso”, spiega Onida, “c’è un legittimo rapporto politico fiduciario con gli elettori e con il partito di appartenenza, nel secondo caso il magistrato eletto nell’organo di governo autonomo non deve assolutamente rispondere a nessuno delle proprie scelte, quanto meno quando si tratta di scelte amministrative relative a singoli, come quando si sceglie il capo di un ufficio fra i candidati che presentano la loro domanda. L’eletto non deve rispondere ai magistrati dai quali è stato indicato. Lo stesso vale anche per i laici, che non devono affatto rispondere ai parlamentari che li hanno eletti e ai partiti da cui provengano”. Ora però siamo agli antipodi di una simile idea di neutralità... È un fatto di malcostume. Non ci sono reati, è vero. Ma il malcostume sì. Le faccio un esempio. Prego.. Se un uomo di governo deve compiere scelte delicate e, per approfondire ogni possibile aspetto, si consulta con dei tecnici, magari colleghi di partito o di gruppo, fa benissimo. Ma se il componente di una commissione di concorso discute delle scelte cui è chiamato con persone estranee, magari addirittura direttamente interessate all’esito di quel concorso, la sua condotta denota un malcostume. È così... L’incarico di dirigere, ad esempio, una Procura viene assegnato appunto con un concorso. Di questo si tratta. La scelta non può essere determinata da elementi personali o di appartenenza di gruppo: si tratta di individuare il magistrato più adatto, con le migliori capacità per ricoprire quel ruolo. Punto. E allora è mai pensabile che il consigliere Csm, in vista della scelta di un procuratore, ne discuta con ex colleghi ora parlamentari o addirittura con persone interessate a quella nomina in quanto chiamate a rispondere di accuse contestate proprio da quella Procura? Inoltre vorrei ricordare una cosa spesso sottovalutata, a proposito delle nomine deliberate al Csm. Cosa? Premesso che la scelta del magistrato più adatto va compiuta in base a criteri anche minuziosamente previsti dalla normativa, esiste, ed è istituzionalizzato, un passaggio in cui l’organo di autogoverno interagisce doverosamente, su ciascuna nomina, con un organo politico: è il concerto del ministro della Giustizia sulla proposta della commissione. Il ministro ha la responsabilità dei “servizi relativi alla giustizia”, come sancisce l’articolo 110 della Costituzione, dunque deve occuparsi dell’efficienza degli uffici giudiziari, e per questo è tenuto a dire la sua sulle indicazioni emerse in commissione. Ora, la Corte costituzionale ha chiarito che deve trattarsi di una interlocuzione vera, di un effettivo contributo motivato alla valutazione del Csm, anche se poi naturalmente quest’ultimo resta libero di scegliere nel caso di mancato concerto ministeriale. Mi chiedo come questo istituto di fatto funzioni. Ma questo rapporto con “la politica” non ha nulla a che fare con altre forme di “interlocuzione” come quelle di cui si è parlato in questi giorni. Lei vede una degenerazione? Mi chiedo cosa c’entri un deputato ex magistrato con la scelta di un procuratore. O cosa c’entri addirittura chi da quell’ufficio è indagato. Non si tratta di reati, ma di malcostume sì. Nella scelta di un capo di ufficio giudiziario, il consigliere del Csm deve essere non solo indipendente ma anche assolutamente imparziale. In quel momento è il giudice di un concorso, appunto. Ma per rimettere ordine bisogna che i magistrati rinuncino alle correnti? Le correnti hanno avuto un ruolo positivo per la formazione e la riflessione culturale sulla magistratura: basti pensare al congresso di Gardone del 1965, in cui si discusse in modo ampio e partecipato dell’atteggiamento del giudice dinanzi alla Costituzione. Il magistrato non è solo un tecnico, ma ha un ruolo, amministrare giustizia, di grande rilievo culturale e sociale. Da questo punto di vista l’esistenza di sedi associative e di riflessione è utile. Ma le cosiddette correnti non devono diventare gruppi di potere e comportarsi come tali. Quindi? Un gruppo associativo deve occuparsi di cultura della giurisdizione, non di negoziare nomine “a pacchetto”. Le scelte di nomina per la guida di una Procura o di un Tribunale non vanno fatte certo in base all’appartenenza e, tanto per essere chiari, neppure con riguardo agli orientamenti culturali del magistrato, ma solo in base alle sue capacità e attitudini direttive e organizzative. È giusto riformare il sistema per eleggere i togati in modo da limitare il più possibile il peso delle correnti? È necessario che l’elezione avvenga in modo che chi diventa consigliere del Csm non risponda delle sue scelte a un gruppo o a coloro che lo hanno votato. Certo, è plausibile e naturale che ogni componente, togato o laico, abbia i suoi orientamenti culturali e li esprima, per esempio, quando il Consiglio formula pareri su proposte di legge. Ma nelle scelte per gli incarichi da assegnare deve fare valutazioni solo sul merito, ispirate alla necessità che l’amministrazione della giustizia funzioni al meglio. Forse si potrebbe pensare perfino di trasferire parte dei compiti istruttori e di proposta a commissioni indipendenti anche con membri estranei al Csm, scelti in base alla loro consolidata esperienza e alla loro comprovata imparzialità. Come avviene per un concorso pubblico. C’è il rischio di una magistratura delegittimata in modo analogo a quanto avvenuto per i partiti? Il pericolo c’è. Ma si tratta di una delegittimazione paragonabile, più che a quella sofferta dai partiti, a certe prassi degenerative della politica. Cioè al lobbismo? Una lobby promuove determinati interessi, in modo esplicito e trasparente. Ma nei fatti emersi in questi giorni emergono modalità opache, interferenze indebite. Alcune correnti evocano lo spettro di una nuova P2... La loggia P2 vedeva dei collegamenti fra persone che esercitavano a vario titolo poteri diversi, e magari perseguivano fini comuni o comunque fini di potere. Qui non vedo alcuna “cupola” esterna: è piuttosto una vicenda interna alla magistratura. Bisogna intendersi sul fatto che il valore del governo autonomo della magistratura non è solo nell’indipendenza ma anche nell’imparzialità del modo di esercizio di queste funzioni di governo. Crede che la magistratura ne possa uscire con le proprie sole forze o che debba cercare di farlo nel confronto con l’avvocatura e con la politica? Se parliamo di modificare i criteri per l’elezione dei consiglieri, ciò richiede evidentemente l’azione del Parlamento, e non può essere certo compito riservato alla magistratura come una sorta di corpo separato. Il punto sta nel modo in cui si intende la designazione elettiva: non è un “mandato” politico. Si pensi al modo di elezione dei giudici della Corte costituzionale: non è che essi debbano rispondere, nelle loro scelte di giurisdizione costituzionale, ad attese o interessi di chi li ha eletti, siano essi il Parlamento o le alte magistrature o il Capo dello Stato. Certo che no... Bene, anche per il Csm deve essere così, non può esserci un “interesse” del loro elettorato a vederli agire in funzione di logiche di gruppo. Anzi, si dovrebbe eleggere consigliere un certo magistrato, ma anche un avvocato o un professore fra i laici, in vista della sua prevedibile capacità di essere imparziale quando concorre alle scelte affidate al Csm. La magistratura non può governarsi in base a logiche di appartenenza, anche se è vero che ciascun magistrato può legittimamente avere una propria visione culturale. L’avvocatura è un’altra cosa, con essa una interlocuzione è possibile e utile quando si discuta ad esempio del funzionamento di istituti processuali e di garanzie dei diritti. Ma la doverosa ricchezza e il pluralismo nella cultura della giurisdizione non deve aver nulla a che fare con logiche che trasfor-mino le correnti della magistratura in “partiti” politici che puntino a conquistare ed esercitare il potere nel governo dei magistrati. La profezia di Falcone: “Così l’Anm sarà solo una macchina elettorale” di Francesco Damato Il Dubbio, 11 giugno 2019 Il giudice antimafia anticipò la crisi delle toghe. Parlando a Milano, il magistrato ucciso da Cosa nostra spiegò che le degenerazioni del correntismo esasperato avrebbero minato la credibilità dell’intera categoria. È fastidioso giudicarsi fra di noi, ma mi chiedo lo stesso perché mai il Corriere della Sera abbia ritenuto di prendere sabato scorso le distanze con la formula epistolare del “Caro direttore”, pur nella onorevole pagina dei commenti, da un articolo di Giuseppe Ayala sulla crisi gravissima esplosa nel Consiglio Superiore della Magistratura. Dove alla fine sono venuti al pettine tutti i nodi avvertiti sulla propria pelle da Giovanni Falcone e da lui stesso denunciati in un discorso pronunciato a Milano il 5 novembre 1988: un anno apertosi il 18 gennaio con la sua bocciatura alla guida dell’Ufficio dei giudici istruttori al tribunale di Palermo. Seguì, fra l’altro, lo smantellamento dello storico pool antimafia costituito da Antonino Caponnetto. Del Consiglio Superiore della Magistratura e di Falcone, che ne fu in qualche modo vittima ben prima di essere assassinato dalla mafia a Capaci con la moglie e la scorta il 23 maggio del 1992, il 74enne Giuseppe Ayala ha scritto e può tornare a scrivere a ragion veduta per essere stato magistrato di lungo corso, interrotto per 14 anni dall’impegno politico di deputato, di senatore e - per 4 anni- anche di sottosegretario alla Giustizia. Di Falcone, e di Paolo Borsellino, trucidato dalla mafia pure lui nel 1992, Ayala fu grandissimo amico, e non solo collega, condividendone le fatiche nel primo maxi- processo alla mafia nel ruolo di pubblico ministero. In pensione da 7 anni e mezzo, egli è ora vice presidente della Fondazione Falcone, non certo a caso. Anche da pensionato, con la passione della toga che gli è rimasta intatta dentro, e forse anche cresciuta dopo le delusioni forse provate da politico, Ayala continua naturalmente a interessarsi delle vicende della Giustizia, e a discuterne in pubblico quando gli capita, come accadde due anni fa in una trasmissione radiofonica con l’allora consigliere superiore della Magistratura Luca Palamara, già presidente del sindacato delle toghe e oggi inquisito a Perugia proprio per la vicenda delle nomine che ha investito il Consiglio in carica nel Palazzo dei Marescialli. Di quel confronto con Palamara, che gli offrì l’occasione di ripetere le critiche anticipate già nel 1988 da Falcone ai colleghi e all’organo di autogoverno della Magistratura, Ayala ha voluto ricordare nell’articolo sul Corriere della Sera l’invito ricevuto a “smetterla di fare il qualunquista”. Ma veniamo a Falcone e ai suoi rapporti col Csm evocati da Ayala. Che ha selezionato, per segnalarne la preveggenza ai lettori, questo passaggio del discorso del 5 novembre 1988 a Milano: “Le correnti dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, anche se per fortuna non tutte in egual misura, si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio Superiore. E quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata nell’organo di autogoverno della Magistratura con pesantezza sconosciuta anche in sede politica”. Rispetto alla situazione stigmatizzata 31 anni fa da Falcone, e 27 anni dopo la morte di quel valoroso magistrato costretto infine a preferire Roma e il Ministero della Giustizia al tribunale della sua Palermo, la situazione si può considerare solo peggiorata. Sul Csm, come già accadde per la Dc con quei severissimi moniti rivolti da Aldo Moro prima di essere ucciso dalle brigate rosse, è in qualche modo caduta come una “maledizione” la spietata analisi di Falcone. Che fu peraltro costretto il 15 dicembre 1991 a subire anche un mezzo processo nel Palazzo dei Marescialli, risparmiatoci nei ricordi di Ayala, per le insinuazioni di Leoluca Orlando contro una sua presunta eccessiva prudenza o copertura, addirittura, dei presunti livelli politici della mafia. È caduto vittima del tempo e dei costumi anche quell’inciso generoso di Falcone su “non tutte le correnti per fortuna in egual misura” responsabili della deriva politicizzata e castale dell’ordine giudiziario. Già deplorevole di suo, e condotto sul doppio binario delle riunioni negli alberghi con politici e ospiti di ogni tipo e di quelle delle commissioni e del plenum del Consiglio Superiore nel Palazzo dei Marescialli, il mercato correntizio delle carriere si aggiunge ad una organizzazione degli uffici giudiziari che lascio descrivere ad una fonte insospettabile come quella del Fatto Quotidiano, non certo prevenuta contro le toghe. Ha appena scritto, domenica sul giornale diretto da Marco Travaglio, il buon Giorgio Meletti: “L’opacità, spacciata per serietà, è l’arma letale di un potere malato. Consente ai pubblici ministeri di parlare solo con i giornalisti amici e, per questa via, di decidere a loro capriccio a quali indagini dare risonanza e quali lasciare sconosciute, quali reputazioni distruggere e quali proteggere”. In questa situazione ha del temerario pretendere fiducia nella magistratura all’annuncio di ogni inchiesta o avviso d garanzia, e dell’eroico accordarla. Toghe senza controlli di Giuseppe Sottile Il Foglio, 11 giugno 2019 Il caso del Csm non è un’isola, ma acqua nell’infinito oceano della malagiustizia italiana. I professori sono fatti così: tu gli chiedi che ne pensa della palude nella quale sprofonda giorno dopo giorno la magistratura e lui, Aristide Carabillò, maestro di giurisprudenza negli anni in cui lo stato di diritto contava qualcosa, parte inevitabilmente dal filosofo Ludwig Wittgenstein. Per spiegarti che l’isoletta dentro la quale i puri e i purissimi dell’onestà vorrebbero circoscrivere lo scandalo di Luca Palamara, l’ex membro del Csm indagato per corruzione, in realtà contiene l’infinito oceano della giustizia e della malagiustizia. Un oceano senza fondo e senza confini. Dove le storture della giustizia penale - quella dei potentissimi procuratori che con un avviso di garanzia sono in grado di paralizzare un governo o di svuotare un parlamento - vengono a galla più facilmente. Sono le storture che di più affliggono la politica e che hanno provocato tali e tanti dibattiti da appannare gli abissi chiari della giustizia civile o dei tribunali amministrativi o del Consiglio di stato o della Corte dei conti. Luoghi geometrici della giurisdizione dove si ritrovano acque ancora più oscure e nebbiose, ancora più opache e insidiose. L’emerito professore Carabillò non ha dubbi: “Altro che Palamara, altro che gli incontri notturni tra i capicorrente della magistratura per decidere nomine e promozioni, altro che riunioni sottobanco con i politici per discutere la separazione dei magistrati tra amici e nemici. Nei bassifondi della giustizia amministrativa la collusione con la politica è la regola, non l’eccezione: andate a vedere quanti di questi magistrati sono negli uffici di gabinetto dei ministeri, negli uffici legislativi e legali. Da quelle parti la terzietà del giudice è una miserabile utopia da strappare e buttare in un cestino”. E chi può dargli torto? C’è in Italia un tribunale amministrativo, meglio conosciuto come Tar del Lazio, che di fatto è diventato, dopo Palazzo Madama e Montecitorio, la terza camera legislativa. Se c’è qualcuno a cui non piace una legge, un decreto o un provvedimento emanato da un qualunque ufficio del potere politico basta un ricorso al Tar del Lazio. Che puntualmente sospende o revoca, accelera o rallenta l’applicazione della norma. In piena autonomia, ci mancherebbe altro; ma senza alcun controllo. Lì - e nel grado superiore, cioè nel Consiglio di stato - si ritrovano i grossi intoppi che bloccano gli appalti; lì si decidono le sorti dei gruppi industriali che si contendono proventi miliardari; lì presenta il ricorso la multinazionale colta in fallo dall’Antitrust; lì si giocano le partite più sostanziose, più lucrose, più danarose. “È la magistratura gialla, bellezza!”, ironizza il professore Carabillò. E per gialla si intende una cosa sola: che quella magistratura sfugge a ogni controllo e a tutti i riflettori. “Avete mai visto sui giornali la foto di un giudice del Tar? Tutte persone per bene, non c’è dubbio”, insiste Carabillò. “Ma se in quegli uffici un processo si trasforma in un’asta dove tra i due contendenti vince chi paga di più, chi è più abile a corrompere, quale altro potere interviene? Chi controlla, chi tira fuori lo scandalo dal venticello caldo che lo avvolge, dal quieto vivere che sconsiglia comunque chiacchiere e clamori?”. Già, chi controlla? Negli abissi chiari della giustizia, quelli che nessun sommozzatore si è mai sognato di scandagliare, ci ritrovi anche un’altra magistratura: quella contabile, meglio conosciuta come Corte dei conti. Alla quale viene demandato il compito di verificare se i bilanci dello stato o delle regioni sono “conformi alle scritture”. Un compito che teoricamente - molto teoricamente - dovrebbe mettere l’amministrazione al riparo da ruberie, da spese clientelari, da sprechi e malversazioni; ma che puntualmente arriva sempre ex post, quando dalla stalla sono scappati sia i buoi che i delinquenti. Qui la vicinanza con il potere politico è, come direbbero i teologi, consustanziale; e la procedura è così evanescente che, per vedere una sanzione o un errore della politica segnato in blu, bisogna aspettare i tempi lunghi, quando le verifiche di bilancio diranno che i fondi stanziati per una cosa sono stati utilizzati per un’altra cosa: solo a quel punto il procuratore della Corte avvierà un procedimento per il recupero delle somme. Si celebrerà un processo di primo grado e poi uno di secondo grado e alla fine della giostra chi vivrà vedrà. Succede però - e arriviamo a un caso sollevato dal professore Carabillò - che se c’è un furto in atto la Corte dei conti non è tenuta ad accorgersene. Nella Sicilia, dove ogni avventuriero trova sempre un complice o un consulente che gli spiana la strada, la regione ha versato 91 milioni, estero su estero e in un paradiso fiscale, a una misteriosa società con sede in Lussemburgo per un censimento di beni immobili che nessuno ha mai visto. Alla testa del clan c’era e c’è un imprenditore piemontese, Enzo Bigotti, appena arrestato per corruzione in atti giudiziari dalla procura di Messina. Bene. Esistono i bonifici, tutti in fila e documentati; esiste la mappa degli incastri societari, ma non esiste il censimento a fronte del quale quella poderosa somma è stata versata. È lo scandalo dell’anno, l’ultimo dei tanti. E tu ti aspetteresti che la Corte dei conti, sensibile allo spreco anche di cento o mille euro, ci metta mano; che chieda conto e ragione di quello scempio, che si chieda perché la Regione paghi 91 milioni in un paradiso fiscale. Invece gli abissi chiari della giustizia gialla inghiottono di colpo dubbi e domande. “Noi seguiamo la nostra procedura”, rispondono i vertici degli uffici inquirenti e dei collegi giudicanti. E chi può obiettare nulla? Il segreto che abitualmente circonda e custodisce l’attività delle magistrature non sempre è un segreto doveroso e necessario; o una riservatezza funzionale al lavoro dell’ufficio. Spesso è la via di fuga per respingere ogni tentativo di trasparenza. Si pensi al segreto istruttorio che, per definizione, è quello che poi deve essere violato: altrimenti non camperebbero i giornali e certi pm non farebbero le folgoranti carriere che invece fanno. È il segreto del potere. Il professore Carabillò, che ne sa sempre una in più del diavolo, arriva a sostenere che il mistero non a caso è lo strumento che Baltasar Gracián, un grande gesuita del Seicento mistico e miscredente, consigliava ai regnanti del suo tempo per avvolgere la propria immagine in un manto di venerazione, quasi in un corpo mistico da incuneare tra il tempo e l’eternità. Sante parole. Provate a chiedere a un procuratore della Repubblica perché tra dieci fascicoli che si sono accumulati sul suo tavolo lui sceglie di istruire il numero sette e non il numero quattro, o viceversa: “Ragioni di giustizia”, vi risponderà. Oppure provate a chiedergli perché si è fatto il giro di tutte le carceri per trovare un pentito che accusasse quel signore e non quell’altro: “Ragioni di giustizia”, continuerà a rispondere con spocchia e sufficienza. Tanto, chi lo controlla? E se poi passate dal penale al civile la musica non cambia. Se vi accorgete, per esempio, che alla “fallimentare” c’è un giudice maneggione che traccheggia con gli immobili dei povericristi costretti a svendere dopo una bancarotta; e se vi accorgete che una di quelle case, magari la più bella, è finita per quattro lire nelle mani del suo più caro amico; voi, ingenui e insolenti, non andate lì a chiedere come mai. Perché la risposta è e sarà sempre una e una sola: “Ragioni di giustizia”. Ragioni imperscrutabili, indicibili, insormontabili. La giustizia ha un cuore di tenebra, c’è poco da fare. E dentro queste tenebre alligna non solo la discrezionalità ma spesso, molto spesso anche l’arbitrio. Prendete ad esempio i tribunali antimafia, ai quali le leggi d’emergenza hanno consegnato il potere straordinario di amministrare il sospetto. Basta niente, un fumus, e all’imprenditore sotto tiro viene sequestrato il patrimonio: beni mobili e immobili, case e aziende, terreni e conti correnti, pacchetti azionari e titoli di credito. Sotto l’occhio vigile e spietato della sezione misure di prevenzione, tutto quel ben di Dio viene automaticamente trasferito nelle mani degli amministratori giudiziari. Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva creato nel Palazzo di giustizia di Palermo una confraternita di consulenti, di commercialisti e avvocaticchi, tutti a lei devoti, che all’improvviso si sono trovati a gestire fortune immense, a incassare consulenze, a liquidare parcelle da capogiro. C’erano tutti nel cerchio magico di Silvana Saguto: amici e parenti di magistrati. E se le chiedevi perché mai avesse assegnato il boccone più ambito al fratello di un sostituto procuratore anziché al figlio del presidente della Corte di appello rispondeva anche lei così: “Ragioni di giustizia”. Certo, Silvana Saguto è finita sotto processo, incastrata da una intercettazione involontaria; e questo potrebbe far dire a qualcuno che in fondo anche i magistrati pagano per le loro malefatte un prezzo di infamia e di mascariamento. Potrebbe anche spingere i puri e i purissimi a sostenere che in fondo esistono solo delle isole: quella intestata a Palamara e quella della Saguto, o di qualche altro disgraziato sparso qua e là nel mare magnum della corruzione e dell’abuso. Ma il cuore di tenebra non risiede solo nella nebbia delle misure di prevenzione. Recentemente, per esempio, i magistrati che, dopo 27 anni, ancora cercano di fare luce sui mandanti della strage di Capaci - quella dove furono massacrati Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta - hanno risvegliato un pentito della prima ora, tale Maurizio Avola, catanese. Il quale, dopo un quarto di secolo, si è ricordato che il tritolo necessario per l’attentatuni fu addirittura inviato dall’America: da John Gotti, il boss dei boss. Nientemeno. E tu, ascoltando questa colossale scempiaggine, ti chiedi: ma non c’era una legge che imponeva ai pentiti di dire tutto quello che sapevano in un arco massimo di centottanta giorni? E perché ci sono magistrati che, dopo 27 anni, inseguono un pataccaro come Maurizio Avola e gli permettono di dire nel 2019 cose che avrebbe dovuto dire da almeno un quarto di secolo? E perché c’è una giustizia che consente a un balordo di spacciare dentro i tribunali quattro scemenze per ottenere in cambio il diritto di vivere ancora a spese dello stato? Domande inutili. Perché dagli oscuri meandri dell’antimafia ti risponderanno che ci sono solide ma inafferrabili “ragioni di giustizia”. Mamma mia, quante voragini. Basterà una riformicchia, come quella che propongono i tecnici del ministro Alfonso Bonafede - e puntualmente affidata al principio della delazione o della telefonata anonima - per ripulire di tutto il marcio che si è accumulato negli anni non questa o quell’isoletta ma l’infinito oceano della giustizia italiana? Basterà una riformicchia, come quella che vorrebbe puntellare un Csm ormai sputtanato, per ridare ai cittadini la certezza che lo stato di diritto è in mano alla legge e non ai capricci dei magistrati? Joseph Conrad nel suo libro più superbo, “Cuore di tenebra” appunto, ricorda che per diradare la nebbia appiccicosa dei mari del sud non bastano i venti; occorre “un fremito vasto di tamburi lontani”. Tamburi di guerra. Non i tamburi di latta presi in prestito da questo governo per ritmare gli slogan dell’onestà-tà-tà. L’ora di “socialità” è un diritto anche per i detenuti al 41bis La Nuova Sardegna, 11 giugno 2019 La Cassazione ha respinto il ricorso del Ministero contro la concessione del Tribunale di sorveglianza. Potranno continuare a beneficiare anche dell’ora di socialità - in aggiunta alle due all’aperto - i cinque detenuti rinchiusi nel carcere di Bancali in regime di 41bis che un anno fa avevano ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari la concessione di un’ora supplementare fuori dalla cella. Contro la decisione avevano fatto ricorso il Ministero e il Dipartimento della Giustizia che avrebbero voluto concedere loro solo due ore d’aria al giorno. La corte di Cassazione ha respinto invece i ricorsi proposti dal Ministero e dal Dipartimento, dando così ragione al tribunale di sorveglianza di Sassari. Tra i boss che potranno continuare a beneficiare dell’ora di socialità grazie al parere favorevole della Cassazione riguardo alla decisione del tribunale di sorveglianza di Sassari c’è anche Giovanni Birra, il capo dei capi della camorra del Miglio d’Oro, il boss pluri-ergastolano di Ercolano arrivato a Bancali nel 2017. Giovanni Birra deve scontare una serie infinita di ergastoli e condanne in quanto ritenuto il mandante di almeno una dozzina di omicidi commessi durante la faida di Ercolano, la mattanza di camorra che ha visto protagonista il suo clan - i Birra-Iacomino - e i nemici degli Ascione-Papale, la cosca con base e interessi anche a Torre del Greco. Gli altri detenuti che hanno ottenuto il parere favorevole della Cassazione sono Pasquale Aprea, Ciro Montella, Gioacchino Cillari e Antonio De Luca Bossa. Secondo la Suprema Corte “la permanenza all’aria aperta risponde a primarie esigenze igienico-sanitarie e la limitazione - si legge nella sentenza - della durata a una sola ora può avvenire non già in via generale, tramite una circolare, ma solo in rapporto a esigenze eccezionali da motivarsi in concreto nei confronti del singolo detenuto. La sovrapposizione tra permanenza all’aria aperta e tempo dedicato alla socialità - si legge ancora nella sentenza della Cassazione - costituisce una operazione non corretta, perché accomuna senza ragione due differenti ipotesi, la cui unica connotazione comune (lo stare al di fuori della camera detentiva) mostra gli aspetti della irrilevanza ai fini che qui interessano”. Configurabilità del reato di abuso d’ufficio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2019 Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti dei pubblici ufficiali contro la Pa - Abuso d’ufficio - Reato commesso da pubblico ufficiale in pensione - Sussistenza. In tema di reati contro la pubblica amministrazione, la tutela penale apprestata dall’ordinamento in relazione alla qualità di pubblico ufficiale (o d’incaricato di pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità) concerne il pubblico interesse, che può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il soggetto investito del pubblico ufficio esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando questi abbia perduto la sua qualifica, sempre che il reato dallo stesso commesso si riconnetta all’ufficio già prestato. Nel caso in esame i giudici hanno ritenuto irrilevante il pensionamento dell’imputato ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio perché ancora sussistente un rapporto funzionale fra la commissione del reato stesso e le funzioni già esercitate. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 maggio 2019 n. 24186. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - Abuso di ufficio - Elemento soggettivo - Dolo intenzionale - Prova - Prova dell’accordo collusivo con la persona da favorire - Necessità - Esclusione - Macroscopica illegittimità dell’atto - Sufficienza - Criteri - Fattispecie. In tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale non presuppone l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell’atto, sempre che tale valutazione non discenda dal mero comportamento “non iure” dell’agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell’intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto. (Fattispecie in cui la Cassazione ha confermato la decisione impugnata che ha desunto l’esistenza del dolo intenzionale dal fatto che l’imputato, nella qualità di dipendente comunale cui era stata demandata la verifica della legittimità di opere edili, manteneva una condotta inerte e dilatoria, nonostante la macroscopica illegittimità dell’opera e le insistenti richieste di procedere a verifica). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 novembre 2018 n. 52882. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - Abuso di ufficio - Violazione di legge o di regolamento - Nozione -Art. 97 della Costituzione- Rilevanza - Limiti. In tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di legge può essere integrato anche dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pa nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione, fermo restando che la stessa deve comunque attenere all’esercizio dei poteri attribuiti al pubblico ufficiale. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 29 ottobre 2018 n. 49549. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti dei pubblici ufficiali - Abuso d’ufficio - Elemento materiale - Ingiustizia della condotta - Ingiustizia del vantaggio patrimoniale - Autonomia - Doppia valutazione - Necessità - Fattispecie. Il delitto di abuso d’ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell’evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimità della condotta. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata che, in relazione alla condotta di un assessore comunale, consistita nell’assegnazione di un immobile di proprietà dell’ente per lo svolgimento di attività di ristorazione con delibera di giunta adottata senza il previo espletamento di procedure a evidenza pubblica, aveva ritenuto integrato il reato omettendo di verificare se il soggetto assegnatario avesse o meno titolo a conseguire la disponibilità dell’immobile per condurre l’attività di ristorazione). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 marzo 2015 n. 10133. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - Abuso di ufficio - Ingiusto vantaggio patrimoniale - Conseguenza diretta della condotta abusiva - Necessità - Fattispecie. Per l’oggettiva configurabilità del reato di abuso di ufficio è necessario che l’ingiusto vantaggio patrimoniale sia conseguenza diretta della condotta abusiva. (Nella specie, la Corte ha escluso la configurabilità del reato a carico di un assessore comunale al bilancio cui era stato contestato di aver occultato il disavanzo di un comune per impedire la declaratoria del dissesto, con conseguente vantaggio patrimoniale consistito nel permanere nella funzione ricoperta, non prevedendo l’art. 248, comma quinto, Tuel alcuna automatica decadenza a seguito del dissesto, ma solo una possibile declaratoria di incompatibilità, conseguente, però, ad eventuale giudizio contabile). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 11 luglio 2012 n. 27604. Permessi di soggiorno per motivi umanitari, alle Sezioni Unite i limiti di applicabilità di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Ordinanza 3 maggio 2019 n. 11750. La corte suprema di Cassazione con l’ ordinanza interlocutoria n. 11750/2019 recentemente depositata, rileva la configurazione di un contrasto di giurisprudenza riguardante gli aspetti temporali di validità della normativa sulla concessione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari. Il caso di specie trae origine dalla richiesta di protezione internazionale da parte di un soggetto di nazionalità di un Paese non appartenente alla Ue e dalla conseguente decisione della corte di Appello, la quale in parziale riforma della decisione del tribunale concedeva un permesso di soggiorno per motivi umanitari al richiedente. I giudici di Appello, osservavano come lo straniero si fosse ad ogni modo inserito nel tessuto sociale italiano tanto da renderne legittima la permanenza nel territorio nazionale. Proponeva ricorso il ministero dell’ Interno rappresentando come i giudici di merito avessero deciso in assenza di prove, emettendo una sentenza del tutto illegittima ed al di fuori dei presupposti previsti dalla normativa, i quali avrebbero resa necessaria un altra soluzione alla questione. Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte degli ermellini. La normativa relativa all’ emissione dei permessi di soggiorno è stata di recente modificata attraverso il Dl 113/2018 successivamente convertito nella legge n. 132 /2018. In sede di giudizio di legittimità emerge anzitutto la necessità di determinare in maniera precisa l’ ambito temprale di applicazione della nuova normativa, ovvero se essa possa ritenersi applicabile anche ai procedimenti attivati a seguito della proposizione di domande presentate antecedentemente all’ entrata in vigore della nuove disposizioni. La questione, come ovvio manifesta una grande importanza data la frequenza statistica delle richieste che riguardano l’ applicazione delle norme inerenti la concessione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari. Problematica ancora più rilevante ove si considerino le evidenti diversità tra le due diverse categorie di norme. La corte suprema di cassazione con la sentenza n. 4890/2019 aveva risolto la questione in maniera diversa a seconda dell’aspetto della procedura di rilascio dei permessi ritenendo in particolare inapplicabile alla regolamentazione degli aspetti inerenti il rilascio dei permessi di soggiorno soluzione antitetica invece per quel che riguarda gli aspetti inerenti la validità temporale dei titoli di soggiorno rilasciati per motivi umanitari. Tale indirizzo tuttavia non perdura nelle decisione dei giudici della corte suprema i quali con la sentenza qui in commento prendono un altra direttrice. Osservano i magistrati nella sentenza n 11750 / 2019 come ove si volesse seguire l’ indirizzo espresso con la sentenza n 4890/2019, si finirebbe per riconoscere un duplice regime di operatività della normativa contenuta nel Dl 113/2018 e la conseguente diversità di regime applicativo comporterebbe la creazione di una norma di diritto intertemporale in realtà mai prevista dal legislatore. Non solo ma osservano ancora gli ermellini ove si volesse accedere alla tesi espressa con la sentenza n. 4890/2019 si finirebbe per accedere a soluzioni inique con un ben diverso trattamento conseguente ai differenti aspetti della procedura di rilascio del permesso di soggiorno dai quali finisce per dipendere la normativa applicabile. La questione pertanto si presenta piuttosto complessa per i suoi evidenti aspetti pratici, derivandone la necessità dell’individuazione di un indirizzo ben preciso e di una soluzione conforme per tutti i casi di richiesta di un permesso di soggiorno. I giudici della Corte suprema infatti pertanto ritengono necessaria una decisione delle Sezioni Unite rinviando pertanto il procedimento al Primo presidente della stessa Corte Suprema al fine di promuovere la procedura per una sentenza delle sezioni unite. Non deve pagare la multa il migrante espulso che non ha il soldi per il biglietto aereo Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2019 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 10 giugno 2019 n. 25598. Non può essere condannato a pagare la multa prevista dalla legge il migrante irregolare che non ha rispettato l’ordine di espulsione e dice di non avere soldi per comprare il biglietto aereo per il proprio Paese: non sta a lui l’onere di provare di non possedere nulla, ma è il giudice che deve motivare se si tratta di un giustificato motivo o meno. Lo precisa la Cassazione, con la sentenza 25598 depositata ieri, che ha annullato con rinvio la condanna al pagamento di una grossa multa ad un trentenne, originario del Marocco, spiegando che il giudice di pace ha applicato erroneamente la norme sull’onere probatorio. La legge prevede in caso di inottemperanza del decreto di espulsione da parte del questore una multa fino a 20mila euro, “salvo che non sussista giustificato motivo”. E in questo caso l’imputato, per il quale era stata disposta l’espulsione senza accompagnamento alla frontiera, aveva giustificato la mancata esecuzione dell’ordine con “lo stato di indigenza”, che gli avrebbe impedito di acquistare il biglietto aereo per ritornare volontariamente in Marocco. La Cassazione aveva già annullato una prima volta la condanna al pagamento di una multa da 15mila euro, da parte del giudice di pace di Avezzano, rinviando a nuovo giudizio. E il giudice ha di nuovo condannato l’imputato perché “non ha fornito alcuna prova comprovante l’esistenza del giustificato motivo che avrebbe impedito di adempiere all’ordine di espulsione”. Una spiegazione che nuovamente non è stata accettata dalla Cassazione. “Non è previsto un onere probatorio a carico dell’imputato” ricordano i supremi giudici, ma vi è solo un “onere di allegazione in virtù del quale l’imputato è tenuto a fornire all’ufficio le indicazione e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio a suo favore”. In questo caso, ha allegato lo stato di indigenza, “sicché illegittimamente l’affermazione di responsabilità è stata sostenuta dal prospettato mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del ricorrente”. Il caso, che va avanti dal 2016, dovrà dunque essere affrontato per la terza volta dal giudice di pace. Gli insulti in condominio diventano minaccia aggravata di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2019 Corte di cassazione - Sentenza 19702/2019. Commette il reato di minaccia aggravata il condòmino che aggredisce verbalmente l’amministratore. La coabitazione nel condominio tra amministrati e amministratore non sempre è idilliaca e occorre delineare i limiti giuridici intercorrenti tra una civile discussione, anche contrastata, e gli estremi di un reato. La Corte di cassazione (sentenza 19702/2019) ha dettato principi interpretativi sul punto ed ha dichiarato inammissibile il ricorso di una condòmina nei confronti di una sentenza che la aveva condannata per il reato di minaccia aggravata, commessa nei confronti di un’altra condòmina e dell’amministratrice del condominio. Le offese - In particolare le due persone offese, mentre si trovavano nella loro abitazione (nel condominio in cui vive anche l’imputata), la sentivano urlare in direzione dell’amministratrice la frase “questa è una ladra, questa la deve pagare, la porto in tribunale, deve avere paura”. In una successiva occasione le persone offese sentivano urlare l’imputata nei confronti dell’amministratrice le seguenti frasi: “la levo davanti, prima che te ne vai ti devo uccidere … questa fa la padrona del condominio, deve smetterla, io ho gli stessi millesimi... metterò una bomba, farò saltare in aria tutte le (...)”. L’imputata, nel suo ricorso, affermava che non sussisteva il reato di minaccia grave, perché le frasi predette non erano idonee a intimidire le persone offese, a causa della loro inverosomiglianza ed eccessività. La Corte di cassazione, invece, afferma che le sue frasi consistono nella prospettazione di un male futuro, il cui avverarsi dipende dalla sua volontà e sono idonee a turbare psicologicamente le persone offese, ovvero a intimidirle. La Corte di appello ha quindi correttamente ravvisato in tali frasi il reato di minaccia aggravata, poiché le stesse promettevano alle persone offese il male futuro di morte, con l’esplicito riferimento all’uso di una bomba. La gravità della minaccia riguarda il turbamento psichico che l’atto intimidatorio può cagionare e, per valutarne la gravità, i criteri sono costituiti dal tenore delle espressioni verbali e dal contesto in cui sono state pronunciate. Il contesto - Il giudice deve porre a fondamento della sua sentenza la valutazione del grado in cui le minacce abbiano ingenerato timore o turbamento alla persona offesa. A tali parametri si è attenuto il giudice che li ha calati nella vicenda trattata, poiché la minaccia è stata la modalità con la quale l’imputata ha manifestato il suo astio verso l’altra condòmina e l’amministratrice del condominio, in cui l’imputata abitava, in un contesto tranquillo che in quel momento non era connotato da alcuna animosità tra le parti e che potesse fare da sfondo ad un confronto acceso. La Corte d’Appello ha osservato che l’imputata non si trovava in una situazione che potesse giustificare il tono estremamente aggressivo delle frasi. Pertanto la condotta illecita dell’imputata era ispirata all’intento di sfogarsi pubblicamente con un atteggiamento di pesante e aggressiva contestazione, quindi del tutto ingiustificabile. L’idoneità delle frasi a integrare la minaccia deve valutarsi al momento della loro pronuncia e tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, poiché il reo non può mai avvantaggiarsi della particolare forza d’animo della persona offesa. Napoli: Poggioreale, l’inferno dei colloqui e i “condannati di fuori’“ di Gennaro Scala Cronache di Napoli, 11 giugno 2019 La giornata in carcere dei familiari dei detenuti: in duecento in un cortile tra fumo, caldo e cattivo odore. “Ci sono anche i bambini, perché non li lasciano passare?”. “Stamattina sveglia alle sette per andare al colloquio da un mio nipote, si è rinunciato perché eravamo più di duecento persone ammassate in un piccolo cortile, si fuma nonostante la presenza di molti bambini. Anche di pochi mesi. Popolazione carceraria inerme compiaciuta e rassegnata, alla faccia della dignità umana”. È il racconto di Pietro Ioia, presidente dell’associazione “Ex detenuti organizzati napoletani”. Il suo commento è solo un esempio di quello che può essere la vita dei “condannati di fuori”, quelli che si recano ai colloqui con i familiari detenuti e che. in un certo senso, vivono a loro volta una vita senza libertà. “Non sene può più specialmente con questo caldo... siamo trattati peggio degli animali” è lo sfogo di una donna che nel “mostro di cemento” ci entra con ogni tempo. Quando piove e fa freddo e si deve attendere all’esterno per ore prima di entrare e quando il caldo prende alla gola, “lo ci vado domani - racconta un’altra - e già so quello che mi aspetta per questo il lunedì non lo faccio mai perché si fa solo colloquio. Perciò lo salto e il martedì faccio tutto”. Parla con la consuetudine concettuale dì chi è abituato a questa vita. “Non vado mai il lunedì - incalza un’altra - solo il mercoledì, e non ti dico come mi sento”. “Sempre la stessa storia e ora, con il caldo, ancora più vergognoso perché non si respira e non c’è una sala d’attesa con condizionatori c’è solo tanta rabbia”. E il peggio è “che non si può far vedere alle persone che non sanno, quali sacrifici facciamo, noi più di tutti. È uno schifo, una massa di persone che si prestano a farsi calpestare e giustamente, ma con chi se la devono prendere? E poi specialmente i bambini. li vedete fanno la richiesta di colloquio fateli entrare subito! Non possono stare in mezzo al fumo, alla puzza, se uno fa un colloquio deve subire tutto questo?”. “Non ci trattate anche noi come bestie - conclude la donna - hanno sbagliato stanno là per pagare, ma per voi è un lavoro, fatelo con un po’ dì umanità”. Il caldo è arrivato e l’inferno si fa più micidiale per chi vive e lavora nelle nostre carceri “che sono luoghi di sofferenza e tortura che ti lasciano cicatrice profonde”. Roma: giovane detenuto suicida in carcere, chiesta la condanna della psichiatra di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 11 giugno 2019 Se i due psichiatri non ne avessero sottovalutato le condizioni, Valerio Guerrieri magari non si sarebbe impiccato in cella. Si sarebbe potuto attivare, in alternativa, al trasferimento in una struttura idonea e magari disporre la sorveglianza a vista. Sono queste le conclusioni che ieri hanno spinto il pm Attilio Pisani a chiedere la condanna e la contestuale richiesta di rinvio a giudizio per altri otto indagati per il caso del ventunenne romano che si è ucciso a Regina Coeli il 24 febbraio del 2017, dove tra l’altro, non doveva essere neanche recluso. Per una psichiatra in servizio in carcere - una dottoressa che ha scelto il rito l’abbreviato - il magistrato ha chiesto una condanna a sei mesi di carcere con l’accusa di omicidio colposo. Stesso reato contestato al collega, che come lei non si sarebbe allertato dopo le visite al detenuto. E che ora rischia di finire a processo. Come i sette agenti di polizia penitenziaria, accusati sempre di omicidio colposo in concorso, che avevano il compito di controllare ogni quarto d’ora il detenuto ed invece non si sono nemmeno accorti che già dal giorno prima aveva annodato un lenzuolo col quale si è lasciato andare nel bagno della cella. Valerio Guerrieri lo aveva detto già davanti al giudice, tre giorni prima del suicidio, che in carcere non ce l’avrebbe fatta: “Regina Coeli è un caos - aveva pianto - Non ce la faccio. Mi sveglio e soffro. Soffro mentalmente... Mandatemi a casa. Mi curo...”. Il giudice, accertata l’incapacità del detenuto, ne aveva disposto la scarcerazione, con l’assegnazione a una Rems, una struttura sanitaria, da dove in passato era scappato più volte. Il trasferimento invece non è stato attivato. E il personale medico e i secondini invece di riservare le massime attenzioni avrebbero sottovalutato la situazione psichiatrica di Guerrieri, riservandogli controlli blandi. Nel mirino delle indagini sono finiti anche il direttore del carcere e i vertici del Dap, il dipartimento della amministrazione giudiziaria. Il gip Claudio Carini, qualche mese fa, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata per i vertici penitenziari dal pm Pisani, ipotizzando il reato di indebita limitazione della libertà personale. Cagliari: detenuto nella Colonia penale di Isili ritrovato morto in stazione di Matteo Vercelli L’Unione Sarda, 11 giugno 2019 Il corpo senza vita di un uomo di 55 anni, originario di Cabras, è stato trovato nella zona dei bagni esterni della stazione ferroviaria di piazza Matteotti a Cagliari: l’intervento del 118 è stato inutile. Dai primi accertamenti medici la morte risalirebbe a parecchie ore prima del ritrovamento, avvenuto nel tardo pomeriggio, all’arrivo delle addette alle pulizie. Nessuno fino a quel momento si è accorto del bagno occupato e della presenza del corpo. Sul posto, oltre al personale della stazione ferroviaria, anche la Polizia Ferroviaria, gli agenti della Squadra volante e la Scientifica. La zona è stata chiusa per consentire tutti gli accertamenti: l’uomo, detenuto nella colonia penale di Isili, arrivato a Cagliari grazie a uno dei permessi di cui godeva spesso, sarebbe morto per un’overdose. Nel bagno sono state ritrovate infatti tracce che confermerebbero l’uso di sostanze stupefacenti. Davanti ai bagni esterni sono presenti delle telecamere che potrebbero aver ripreso l’ingresso dell’uomo nei servizi igienici e quindi anche l’orario della morte. Nel frattempo, il corpo è stato restituito alla famiglia per i funerali. Reggio Calabria: “mio padre è in carcere, lasciatelo venire alle mie nozze” adnkronos.com, 11 giugno 2019 Convolerà a nozze il 4 luglio nella sua città, Reggio Calabria. Ma suo padre non ci sarà. Il suo sogno più grande sarebbe averlo accanto. O meglio sotto braccio mentre attraversa la navata della chiesa verso l’altare. Lei è Francesca, 28 anni, figlia di Tommaso Romeo, ex nome di spicco della ‘ndrangheta della Locride, condannato all’ergastolo, rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Padova. Quando fu arrestato e si aprirono le porte della prigione era il 1993 e lei e sua sorella gemella Rossella avevano solo 15 mesi. “Nella vita quotidiana non ho potuto condividere con mio padre né gioie, né dolori. Vorrei che almeno il giorno del mio matrimonio, un giorno così importante per me, lui ci fosse”, confida all’Adnkronos Francesca Romeo, la cui storia è stata raccontata da Francesco Viviano sul Quotidiano del Sud. Per lei solo qualche fotografia a ricordare momenti vissuti in famiglia. Francesca sogna semplicemente un giorno “normale”, “come qualsiasi altra ragazza che in quel giorno viene accompagnata all’altare dal padre”. “Vorrei - spiega - che gli venisse concesso un permesso. Anche sorvegliato a vista da agenti va bene, purché ci sia”. Francesca sa bene che la legge non permette benefici in caso di “ergastolo ostativo”, il caso di suo padre. “Condivido le parole di Papa Francesco quando definisce l’ergastolo una pena di morte “nascosta”. Mio padre è un sepolto vivo. Ha sbagliato, ha pagato e continua a pagare. Ma nella vita si cambia e dopo 30 anni di carcere lui non è più quello di una volta: ha rinnegato quello che era. Le persone cambiano, il fine della pena è quello di rieducare. E se un condannato durante il suo percorso cambia, allora lo Stato gli dia la possibilità di riscattarsi invece di togliere ogni speranza con un Fine Pena Mai”. Il giorno delle sue nozze (testimone la sorella gemella), Francesca sa di avere poche possibilità perché suo padre le stringa la mano: “lo penserò in ogni momento della giornata. Poi subito dopo salirò da lui a Padova”. Milano: in coda all’Opera San Francesco, dove mangiano (e chi sono) i poveri di oggi di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 11 giugno 2019 Dal 1959 l’Opera San Francesco è il refettorio milanese dei poveri. L’azienda della carità accoglie 25mila persone all’anno da 135 Paesi. C’è un popolo invisibile, a due passi da piazza San Babila, a Milano. Più numeroso degli abitanti di Ventimiglia, poco meno di quelli di Portogruaro o di Ruvo di Puglia. La lingua più diffusa, al suo interno, è attualmente lo spagnolo, con forte accento peruviano. Ma l’italiano segue a ruota e, comunque, l’evoluzione demografica della cittadina, mimetizzata nella grande città, è imprevedibile. Sessant’anni fa erano quasi tutti compatrioti, in arrivo per la maggior parte dal Mezzogiorno, come si chiamava allora l’Italia del sud. Oggi rappresentano 135 nazioni diverse. Ma i loro problemi sono rimasti più o meno gli stessi, la loro speranza non è cambiata: tornare a essere visibili. Nell’attesa, tentano di sopravvivere, più o meno rassegnati alla trasparenza sociale nella quale sono costretti, senza un tetto, senza un lavoro, senza un ruolo, magari senza un affetto. C’è un ristorante da 180 posti sempre aperto per loro, subito dopo l’ingresso di un hotel a cinque stelle, con cui non sembra aver mai avuto problemi di vicinato. Anche perché l’albergo di lusso è arrivato molti anni dopo e, quindi, era avvertito: la lunga coda che si forma due volte al giorno, da lunedì al sabato, all’esterno del cancello di corso Concordia 3, è da sempre parte del paesaggio della vicina piazza Tricolore, a memoria d’abitante. Girato l’angolo, in via Kramer c’è il servizio docce, cinque maschili e una femminile. Mentre il servizio guardaroba cerca di accontentare tutti, dalla taglia zero in su. E, al poliambulatorio, i 230 medici (più otto infermieri) hanno avuto, l’anno passato, 9.148 pazienti, con una lieve prevalenza femminile. Forse neanche fra Cecilio, che sessant’anni fa aveva deciso di trasformare l’orto del convento dei Cappuccini in un punto di ristoro per nullatenenti, si era prefigurato un tale sviluppo della sua “azienda della carità” quando, il 20 dicembre del 1959, tagliò il nastro inaugurale dell’Opera San Francesco con il cardinale Giovanni Battista Montini, più tardi Papa Paolo VI. Nel 2018 l’affluenza è arrivata a livelli storici, con oltre duemila pasti giornalieri forniti, in media, in corso Concordia; e, ai nuovi servizi organizzati a partire dal 1997, si è aggiunta, due anni fa, una seconda mensa, in piazzale Velasquez, con altri 56 posti a sedere e 300 pasti quotidiani, a mezzogiorno, dalla domenica al venerdì. Accanto, anzi, in mezzo ai quasi venticinquemila invisibili che ogni anno frequentano i refettori dell’Opera San Francesco per i Poveri e gli altri punti di assistenza dei frati francescani di Milano, c’è un piccolo mondo antico che non fa nulla per farsi notare. Ridare fiducia Sono i mille volontari che servono i pasti, distribuiscono gli abiti e i farmaci, ascoltano le preoccupazioni, cercano di rimuovere gli ostacoli e di restituire un minimo di fiducia e un massimo di autostima alle ombre della città. Le conoscono e le riconoscono, anche al buio, quando le incontrano infagottate in qualche coperta sotto i portici del centro. A volte le vanno a cercare. Come Massimo Razzi, 77 anni: “l’uomo delle mutande”, si autodefinisce con ironia. Dopo una vita di lavoro, girovagando tra l’Europa dell’ovest e dell’est, talvolta sconfinando fino in Siberia, per occuparsi di logistica industriale, Massimo Razzi è andato in pensione a sessant’anni e si è rimboccato le maniche, trovando molto altro da fare. Non si accontenta del suo turno, ogni lunedì sera, alla mensa di corso Concordia. La notte dopo è in strada a distribuire biancheria intima pulita assieme agli ex scout del gruppo “Apwoyo, che in lingua swahili significa grazie”, precisa. A vederlo spuntare, grande e massiccio, con la lunga barba e i capelli candidi, trascinando un trolley o uno zaino pieno di mutande e calzini, i suoi protetti hanno una specie di “déjà vu”: Babbo Natale!, lo chiamano, festosi. È lui a ringraziare loro: “Dare una mano - dice - è una soddisfazione per me. Vengo qui egoisticamente. Perché poi torno a casa soddisfatto”. Vito Palmiotti, invece, è “l’uomo del mercoledì”. Dal 2006 si occupa delle docce e del guardaroba. Alle sue spalle c’è un’azienda, la 3M di Pioltello. Ma non è sua: è il suo posto di lavoro e di raccolta solidale. In 6-7 anni ha radunato 28 tonnellate di vestiario destinato al magazzino dell’Opera in via Vallazze. Già, il lavoro. “Il momento migliore - racconta - è quando fornisco un completo nuovo a qualcuno che il giorno dopo avrà un colloquio per un’assunzione”. Se tutto andrà bene, sarà un ospite in meno ma un occupato in più: “Avete visto i seggioloni in mensa? Qui vengono anche le famiglie”. Nei migliori dei casi sono difficoltà temporanee, in altri ci sono poche speranze: “Ricordo una signora di 83 anni, aveva una casa, ma senza luce e senza gas, perché la pensione le bastava appena per le spese condominiali”, spiega Ornella Belluschi, che ogni martedì mattina, tra le 11.30 e le 13, occupa lo sportello dell’Accoglienza. Qui, dopo aver ottenuto e rinnovato alla scadenza del primo mese la tessera d’iscrizione ai servizi, i frequentatori espongono i loro problemi, casomai ci fosse una soluzione. Non sanno di aver di fronte un’imprenditrice, con 46 anni d’esperienza, che li ascolta, li sprona a imparare l’italiano, se sono stranieri, e un mestiere, guidandoli tra le difficoltà burocratiche verso la ripartenza. Verso il pianeta dei visibili. “Mangiare, lavarsi, vestirsi, sono bisogni primari da soddisfare, ma ce ne sono altri, non meno importanti, come un appoggio psicologico e una vita di relazioni”, osserva fra Marcello, erede di padre Maurizio, scomparso in aprile, alla guida dell’Opera. “C’è un mondo parallelo che convive con il nostro, ma i cui abitanti sono finiti nella classe degli scarti, come ha detto papa Francesco. A chi dice che quelli che vivono per strada, magari è perché lo vogliono, propongo di venire una volta a fare la fila qui con loro. Troveranno uomini coltissimi, come Valentino”. Chi è? Un invisibile, come il bambino della favola natalizia del regista Giovanni Bedeschi, “Pane dal cielo”: un neonato che non tutti riescono a vedere. Dal suo presepe di diseredati, sorride solo a chi ha cuore. Roma: da Wall Street al braccio della morte, Dale Recinella a Rebibbia di Roberta Barbi vaticannews.va, 11 giugno 2019 Il cappellano laico che ha accompagnato alla morte oltre 18 condannati in un penitenziario della Florida, negli Stati Uniti, ora gira il mondo per raccontare la sua storia che è diventata anche un libro. La sua testimonianza nel carcere di Rebibbia, in un giorno molto particolare. È una mattina già torrida quando i pesanti portoni del carcere di Rebibbia si aprono per accoglierci con il loro consueto clangore. Abbiamo l’onore di accompagnare Dale Recinella, il cappellano laico noto in tutti gli Stati Uniti per la sua singolare parabola di vita: dai vertici della finanza, dopo una malattia grave e l’incontro con Gesù ha cambiato vita, e da 20 anni la sua la spende tra quelli a cui lo Stato la sta per togliere, i condannati nel braccio della morte. Assieme alla moglie, infatti, accompagna verso l’iniezione letale i detenuti nel penitenziario della Florida - dove c’è il braccio della morte più grande degli Usa, circa 350 persone in attesa di esecuzione - e le loro famiglie; inoltre gira il Paese e il mondo per raccontare la sua esperienza e sensibilizzare la gente contro la pena capitale. In questi giorni è arrivato anche qui, per incontrare Papa Francesco… e i detenuti di Rebibbia. “Il contatto detenuti-famiglie, un diritto della vita” - Arriva a Rebibbia in una mattina particolare: quella in cui si sta festeggiando la festa della mamma: “Abbiamo voluto prolungare il mese mariano, perciò la nostra festa la facciamo oggi”, gli spiega l’instancabile direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia, Nadia Cersosimo. In effetti nel giardino un po’ fatiscente che ci ospita, tra gli alberi scorazzano decine di bambini con il volto dipinto dai colori a dito e le mani che impugnano palloncini a forma di fiore, sotto l’occhio vigile non delle guardie carcerarie, per una volta, ma delle loro mamme. “Anche noi lavoriamo tanto con i familiari perché il contatto del detenuto con i suoi cari fa parte dei diritti della vita”, esordisce il cappellano al microfono, e improvvisamente gli si fa intorno un cerchio di una cinquantina di persone, tra detenuti e parenti, curiosi di ascoltare la sua storia. Con loro anche durante l’esecuzione - “Assisto detenuti come voi da 30 anni, ma ora mi occupo soprattutto di quelli più sfortunati, i condannati a morte - dice - li accompagno fino alla fine, anche se nella stanza dell’esecuzione non mi è permesso entrare. Allora mi sposto dietro al vetro, dove stanno i familiari della vittima e dico loro, in quel momento, di fissarmi negli occhi, almeno l’ultima immagine che vedranno sarà di qualcuno che ha voluto loro bene”. A questo punto gli occhi degli ospiti di Rebibbia sono già lucidi; le loro mani non riescono a non stringere quelle delle loro mogli, delle loro mamme e delle loro sorelle, non riescono a lasciare i bambini che tengono in braccio. “Il periodo più duro è quando viene comunicata la data dell’esecuzione - aggiunge Recinella - perché tutti si rendono conto che il tempo che rimane da vivere insieme è poco. Cinque o sei settimane prima, poi, il detenuto viene trasferito in quella che chiamano “casa della morte” e lì resta con me e con i parenti fino alla fine, poi i familiari sono costretti a uscire dal carcere e di solito vanno in chiesa a pregare”. La detenzione: riabilitazione, non vendetta - “Noi lavoriamo anche con chi uscirà”, prosegue Dale, e racconta la storia di Kenny, un ragazzo di 19 anni arrestato per una rapina a un benzinaio finita nel sangue. Con molto lavoro sono riusciti a evitargli la condanna a morte, commutata all’ultimo dalla giuria in ergastolo. Pur se in carcere, nel frattempo Kenny ha capito i suoi errori, si è sposato e ora aiuta Dale e la moglie, che lo hanno accolto come un figlio nella loro vita, nell’assistenza agli altri detenuti. A questo punto uno degli ospiti di Rebibbia gli fa una domanda: cosa ne pensa dell’ergastolo ostativo, e lui risponde che purtroppo negli Usa, con 26 Stati in cui è ancora in vigore la pena di morte, è una questione secondaria. Sulla questione, poi, la pensa come Papa Francesco: che dovrebbe essere abolito perché è una pena che toglie la speranza, mentre la detenzione dovrebbe essere sinonimo di riabilitazione, non di vendetta. Ai detenuti: siate gentili gli uni verso gli altri - Al termine dell’incontro partecipiamo tutti insieme alla benedizione della mamma che è in programma prima di pranzo: il sole ormai è cocente, ma tutti si raccolgono in preghiera prima dei festeggiamenti a tavola. Al congedo ci pensa l’energia della direttrice, che riprendendo le parole di Recinella esorta i detenuti a essere gentili e disponibili gli uni verso gli altri, ad avere attenzioni verso il lor prossimo, perché è questo che Gesù vuole. Lo dice con il tono fermo ma dolce che userebbe una mamma con i propri figli, e in effetti i detenuti sono un po’ tutti figli suoi. Roma: il peso del carcere si supera respirando di Giovanni Gagliardi La Repubblica, 11 giugno 2019 “Lo stress di stare in prigione non è solo dei detenuti, ma del personale penitenziario. Insegnare la meditazione significa prendersi cura anche di loro, a forte rischio burnout”. Il maestro e monaco Zen Dario Doshin Girolami presenta il bilancio dei corsi di mindfulness per il personale penitenziario, in divisa e non, di Lazio, Abruzzo e Molise: oltre 130 persone, che per due mesi, una volta a settimana per quattro ore, in un’aula del Museo criminologico nel cuore di Roma hanno imparato come si medita (“In fondo si tratta di stare seduti fermi e respirare”, scherza Girolami) e come ci si può confrontare con le difficoltà e le sofferenze della vita senza rimanerne schiacciati. Il maestro va subito al cuore del problema, ai 58 agenti in tutta Italia che si sono uccisi dal 2011 ad oggi. “Il problema è non vivere bene il lavoro - spiega Massimo Piacente, ispettore capo del carcere romano di Rebibbia - così a casa rivivi quello che c’è al lavoro, al lavoro quello che c’è a casa, alla fine non sai cosa scatta. Un susseguirsi di emozioni contrastanti e non sei più in grado di staccare la spina”. L’obiettivo è saper gestire lo stress del carcere. “Mi sono resa conto - aggiunge Patrizia De Santis, funzionario giuridico-pedagogico del carcere di Frosinone - che se partiamo da uno stato di rilassamento riusciamo ad avere una mente più aperta e disponibile a dialogo e confronto”. Il maestro Zen non è nuovo all’esperienza in carcere: da dieci anni infatti insegna meditazione ai detenuti di Rebibbia, con risultati “attestati da relazioni mediche”, specifica. Nel 2018 i corsi sono stati estesi al personale. “Abbiamo riscontrato una riduzione di ansia e cattivo umore nei partecipanti, insieme a migliori capacità di consapevolezza e auto-accettazione”, spiega Antonino Raffone, professore di Psicologia alla Sapienza di Roma, che ha studiato i risultati dei corsi. Aumentare la consapevolezza può anche voler dire essere meno soddisfatti della propria vita e capire quanto può esser fatto per migliorarla. “La mindfulness ti chiede di indirizzare le energie verso obiettivi realizzabili - precisa Giovanna Testa, funzionario giuridico-pedagogico al carcere di Campobasso - piuttosto che versarle nel pianto vittimistico e impotente che nulla crea e nulla cambia”. Milano: un’esplosione di sport a San Vittore di Giorgia Magni csi.milano.it, 11 giugno 2019 Ma che giornata a San Vittore! Di preciso quella dello sport, e nel dettaglio la seconda edizione. Quest’anno il successo del 2018 è stato raddoppiato, e oltre al lavoro di Cpia e Csi Milano, si è aggiunto quello importante dell’associazione Quartieri Tranquilli fondata dalla celebre giornalista Lina Sotis e di Decathlon. Un’esplosione di sport che ha coinvolto per la prima volta i detenuti di tutti i reparti, compreso il sesto “protetti”. I detenuti del Quinto Raggio hanno mostrato capacità atletiche e attitudini sportive notevoli, portandosi a casa quasi tutte le prime posizioni in ogni disciplina, dal ping pong alla corsa campestre, dal calcio alla pallavolo, dal calcio balilla agli scacchi, presenti questi ultimi ancora con la preziosissima collaborazione dell’associazione Giocando con i Re. Entusiasmo e sorrisi si sono alternati sul podio durante le premiazioni condotte da Giancarlo Bolognino, cardine del Cpia a San Vittore, e presiedute dalle maggiori autorità milanesi e lombarde e da illustri ospiti. Tra i tanti nomi di richiamo, ricordiamo Fabio Pizzul consigliere regionale, Roberta Guaineri, assessore allo Sport del Comune di Milano, Antonio Cabrini ex calciatore e ora allenatore, e Mario Corso, ex giocatore bandiera dell’Inter. “Come Csi non possiamo che essere soddisfatti per l’ottima riuscita di un evento che ci ha visto fare squadra con altre realtà milanesi, con la scuola interna al carcere, con Decathlon, con la polizia penitenziaria, con gli operatori e la direzione del carcere, ma che soprattutto ci ha visto presenti come Comitato, coinvolgendo arbitri di pallavolo, arbitri di calcio, il gruppo eventi, i volontari e la preziosa logistica - ha spiegato Giorgia Magni responsabile del progetto carcere -. Una menzione speciale vorrei farla ai due consiglieri provinciali Maestri e Meneghini, che hanno presenziato mettendosi a servizio come volontari, e a Laura Spoto referente del gruppo arbitri pallavolo, che ha fatto la stessa cosa per il secondo anno di fila... Quando perseverare è meraviglioso!” Come citato da Giorgia Magni, anche la Sezione Pallavolo ha partecipato alla manifestazione svolta ieri a San vittore, con ben 14 arbitri. Oltre ad occuparsi dell’arbitraggio, sono scesi in campo formando una squadra (sono giunti 3i nel corso del mini torneo) e svolgendo anche attività di volontariato come supporto agli aspetti organizzativi. Ecco i nominativi: Sirica Domenico, Fellini Gianfranco, Nidasio Gilberto, Paccagnella Gianni, Pierdominici Mariano, Cucuzza Fabio, Anfuso Claudia, Spoto Laura, Losito Emanuela, Pirovano Giorgio, Meneghini Gianluca, Piacenza Marianna Savina, Nidasio Luca, Fuso Nerini Simona. Fermo: la musica è libertà, detenuti a lezione col Cantiere Musicale laprovinciadifermo.com, 11 giugno 2019 Un’esperienza tecnica ma anche umana. “È fondamentale portare avanti attività di questo tipo, progettualità possibili soprattutto grazie alle competenze dei professionisti coinvolti” ribadisce la vicepresidente del Cantiere, Stella Alfieri. La musica non si può fermare, non ci sono muri e non cci sono sbarre capaci di fermare le note. E così, fosse anche per un’ora, anche in carcere i novelli musicisti si sentono liberi. Il Cantiere Musicale di Porto San Giorgio ha chiuso il terzo anno di lezioni grazie al sostegno della Fondazione Caritas in Veritatae. Chitarra e pianoforte tra le mani di chi sta scontando la propria colpa. “Partendo da brani a loro noti - spiega l’insegnante Coccia - si è riusciti a stimolare un interesse costante per tutta la durata del corso, che ha permesso loro di apprendere le nozioni base della musica e degli strumenti, riuscendo anche ad eseguire alcuni brani in piccoli gruppi da tre o quattro persone”. Un’esperienza tecnica ma anche umana. “È fondamentale portare avanti attività di questo tipo, progettualità possibili soprattutto grazie alle competenze dei professionisti coinvolti” ribadisce la vicepresidente del Cantiere, Stella Alfieri. Fondamentale la collaborazione della direttrice Eleonora Consoli, del dottor Nicola Arbusti e dell’operatrice Lucia Tarquini. “Chiudiamo questo ciclo di lezioni non senza emozione, consapevoli di essere riusciti a comunicare grazie ad un mezzo potente come la musica, ma soprattutto di aver vissuto un’esperienza di grande impatto umano” conclude la Alfieri. Cinema. “Io sono il futuro”, l’ottimismo dell’avvocata del diavolo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 giugno 2019 Da israeliana ed ebrea, da oltre quarant’anni Lea Tsevel per lavoro difende i palestinesi nei tribunali. Una vita tra passato e presente raccontata nel documentario “Advocate” diretto da Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche. Avvocata del diavolo, traditrice, difensore dei terroristi. È quello che da 40 anni Lea Tsevel si sente ripetere, lei che per lavoro difende i palestinesi nei tribunali israeliani. Da israeliana ed ebrea. Una vita straordinaria che il documentario Advocate di Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche ha raccontato: uscito quest’anno si è aggiudicato il primo premio al film festival israeliano DocAviv, sollevando più di una polemica. La ministra della Cultura Miri Regev, falco dell’amministrazione Netanyahu, non ci ha messo molto a infuriarsi: “Nessun effetto speciale può nascondere che il suo lavoro è contro lo Stato di Israele”. Lei si definisce diversamente: una perdente, ma anche un’ostinata ottimista, convinta che il cambiamento sia possibile. Nata nel 1945 ad Haifa, è stata la prima donna a vedere il Muro del Pianto dopo l’occupazione di Gerusalemme est nel 1967: si era arruolata volontaria nella Guerra dei Sei Giorni. Sionista convinta, fino al fortuito incontro con un presidio all’università di Gerusalemme che ha saputo dare risposte alle domande che gli effetti dell’occupazione militare stavano suscitando. Entra in Matzpen, storico partito della sinistra marxista e antisionista israeliana, e fa innamorare Michel Warschawski, portandolo con sé dentro la joint struggle, la lotta comune. Che per lei ha come campo di battaglia, da quattro decenni, le aule di tribunale: prima accanto alla pioniera Felicia Langer, poi in prima linea. Ha difeso politici, combattenti armati, femministe, leader dell’Olp come Hanan Ashrawi e il segretario del Pflp Ahmad Saadat.Con Lea Tsevel abbiamo parlato in occasione della presentazione di Advocate in Italia, nell’ambito del Biografilm Festival di Bologna. La sua è una vita lontanissima dall’immagine che si ha della società israeliana e dei suoi sentimenti politici e collettivi. Com’è nata l’idea di raccontarla in un film? I due registi hanno discusso per anni l’idea. Non è stato strano avere le telecamere intorno, molti dei casi che seguo sono aperti alla stampa. Ho semplicemente continuato a vivere la mia vita. Il film intreccia passato e presente: la sua adesione come volontaria all’esercito nel 1967, l’incontro con Matzpem, i casi politici più eclatanti dagli anni Settanta in poi. Il tutto sullo sfondo di due casi recenti: il tredicenne Ahmad e la giovane mamma Israa, due palestinesi condannati per tentato omicidio... È stato un caso quello di concentrare l’attenzione su Ahmad e Israa, sono stata la loro avvocata nel periodo delle riprese. I due registi avevano in mano molto più girato, anche casi civili che sono gran parte del mio lavoro: attivisti israeliani, ricongiugimenti familiari di palestinesi, demolizioni di case. Si sono concentrati su Ahmad e Israa, in qualche modo esemplari della giustizia israeliana. Un sistema doppio che dice una cosa: il re è nudo. Questa realtà va svelata, continuamente. Non so dire quando saremo in grado di cambiare questo sistema, ma è necessario tentare. È questo alla fine il mio lavoro, continuare a farlo nonostante le sconfitte. Se gli altri la chiamano l’avvocata del diavolo, lei si definisce “un’ottimista”. E dopo la sentenza, durissima, emessa contro Ahmad si definisce “avvocata perdente”. Alla luce di ciò, ne è valsa la pena? Ne è valsa la pena. E poteva andare peggio. Penso sia importante esserci, essere presente in questo divenire. Il sistema giudiziario è un’altra faccia dell’occupazione che i palestinesi subiscono. E come israeliana non posso evitarla. Ricordo quando scoppiò il caso della Birzeit University, io ero a Londra. E pensai: devo tornare a casa. È importante esserne parte per mostrare anche questo lato dell’occupazione e cercare di cambiarlo, ancora e ancora. Guardandola da una prospettiva storica, sì, sono una perdente. Gli attivisti di sinistra sono perdenti. Chi combatte l’occupazione è un perdente. Finora. Temporaneamente. La situazione non può durare così, dovrà cambiare per forza. Il film inizia con una sua intervista alla tv israeliana. È il 1999 e lei dice: “Io sono il futuro”. Venti anni dopo lo pensa ancora? Lo penso ancora per il semplice fatto che non vedo altra soluzione se vogliamo vivere qui, crescere i nostri figli qui: uguaglianza e diritti per tutti. Non voglio essere parte di un regime di apartheid. Guardate cosa accade ogni giorno a Gaza e i motivi per cui accade: Gaza è un isola di rifugiati, rifugiati dagli stessi luoghi a cui danno fuoco oggi con i palloncini incendiari. Quella è la loro terra, i loro campi. Il riconoscimento di questa realtà è la soluzione. Per questo dico: io sono il futuro. Il suo è un linguaggio profondamente diverso da quello dell’opinione pubblica isreliana, genericamente intesa. Quella che nel film compare sotto forma di avvocati dell’accusa, giudici, giornalisti, contestatori: loro dicono terrorismo, lei dice resistenza all’occupazione. Quanto è importante nel suo lavoro restare coerenti con una narrativa? L’esistenza di due narrative appare anche nelle aule di tribunale. Nel mio lavoro ho a che fare con definizioni come Giudea e Samaria, invece di Territori Occupati, con terrorismo, tradimento, minaccia alla sicurezza. Una pratica quotidiana che si traduce in quotidiana sofferenza e quotidiana oppressione. Nel film non compare ma buona parte del mio lavoro è civile: ricongiungimenti familiari, diritto dei bambini a ottenere la residenza, confisca di terre. Tra i casi che seguo ci sono quelli di cittadini stranieri che sposano palestinesi della Cisgiordania e che non possono lavorare né restare a lungo: Israele cerca di privare i palestinesi di qualsiasi tipo di contatto con l’esterno. Noi siamo quelli che cercano di impedirglielo perché siamo quelli, da israeliani, che hanno la possibilità di farlo. Eppure questo film ha vinto il primo premio al film festival israeliano DocAviv.. Sorprendente. Però circa 100 famiglie di vittime israeliane del terrorismo hanno firmato una petizione al ministero della cultura perché ritirasse il premio. Un altro gruppo di famiglie, sia palestinesi che israeliane, anche queste di vittime di atti terroristici, ha reagito in direzione opposta: questo film va visto. Il documentario ha sollevato un grande dibattito. Si sente parte della società israeliana? Me ne sento parte, per la mia storia, la mia personalità. Quello che dico e faccio lo dico e faccio in quanto israeliana... Un’israeliana impegnata nella joint struggle, la lotta comune di israeliani e palestinesi. Da israeliana, con il suo bagaglio di privilegi e diritti, come vive l’occupazione? Non faccio il mio lavoro per i “poveri” palestinesi, lo faccio per me e per noi, perché mi sia possibile vivere qui in futuro, nel posto che amo. Sembra uno slogan ma è questo che sento. Non sto facendo un favore ai palestinesi, non sto facendo la carità. La mia esistenza dipende da questo. Quanto questa lotta ha avuto effetti sulla sua vita personale e sulla sua famiglia? Moltissimo, ancora oggi. Ma non potrei né saprei vivere diversamente. Penso all’Olocausto, continuamente, e a quello che ha vissuto la mia famiglia in Polonia, a quella parte della mia famiglia che è scomparsa. Di fronte a ciò, è chiaro per me che l’unica cosa da fare è alzarsi in piedi e parlare. A qualsiasi prezzo. Noi come israeliani non paghiamo questo prezzo. È vero, minacce vengono mosse anche verso di me, ma resto sempre un’ebrea con i miei privilegi. Ci sono casi in cui invece è riuscita a vincere? All’interno delle politiche esistenti sì, a volte vinco. Ma nel modificare questo sistema di politiche, no, seppure sia questo il mio obiettivo. È quello che tentiamo di fare con altri avvocati e organizzazioni, un’unica rete con uno scopo comune. Quel centimetro di libertà perso ogni giorno di Luigi Manconi La Repubblica, 11 giugno 2019 Verrebbe da dire: quali tempi sono questi quando citare il Vangelo - e il concetto fondativo del messaggio cristiano: ama il prossimo tuo come te stesso - può determinare la reazione furiosa di ultras del ministro dell’Interno. E, tuttavia, si devono mantenere i nervi saldi, dal momento che in Italia la libertà di culto non è in pericolo (per la confessione di maggioranza, mentre per quelle minoritarie alcuni rischi si manifestano); e la libertà di pensiero e di espressione è mediamente garantita. Detto questo, si deve pur notare che sono sempre più numerose le insidie portate alla piena agibilità politica e alla regolarità della discussione pubblica. Ma, prima ancora, va considerata la catastrofe culturale in corso, della quale già oggi si colgono i primi segnali. Fino a che limite si è gonfiato il sentimento di rivalsa sociale, oscillante tra il registro della stizza quotidiana e quello dell’odio politico, se si arriva a interpretare il messaggio più “innocente” come un’aggressione alla propria identità di partito? Una prima risposta è che quelle parole sono, in realtà, tutt’altro che innocue, proprio perché ribaltano un senso comune che si alimenta di forme di relazione basate sulla nemicità: ovvero una pulsione ostile indirizzata verso il vicino di casa, così come verso l’avversario politico. Della frase evangelica la parola più sovversiva e scandalosa è forse quel “prossimo”. Ciò perché, in questa fase della storia nazionale, una spietata battaglia culturale e politica viene combattuta esattamente sulle categorie di vicino e lontano. In estrema sintesi, il sovranismo riassume l’identità del qui ed ora, del locale, del simile. È l’autogoverno del proprio territorio e della propria gente, tutto ripiegato e concentrato sul presente: non a caso questa ideologia diffida dell’ambientalismo, in quanto proiettato sul futuro (del pianeta e delle generazioni). Il nemico è il lontano: una volta era “Roma ladrona”, oggi lo sono l’Europa, gli organismi sovranazionali e le convenzioni e le organizzazioni internazionali. Nemiche sono tutte le teorie, le dottrine, le religioni che intendono avvicinare l’altro e il distante, fino a farli diventare “prossimo tuo” da amare come te stesso. Sotto questo profilo, per quanto sembri incredibile, i commissari europei possono essere detestati e disprezzati quanto i richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan e i migranti in fuga dalla Libia. Ecco perché quel richiamo al Vangelo può essere interpretato da alcuni (molti?) come un’accusa politica, e per certi versi lo è sul serio: tant’è vero che, dal palco del comizio, Matteo Salvini ha dileggiato come comunista il giovane cattolico. Non dico che questo sia stato il ragionamento lucido di quanti a Cremona e in molte altre città hanno aggredito i contestatori di Salvini e gli espositori di striscioni, ma in tutti probabilmente è scattata l’associazione mentale tra dissenziente (pacifico e isolato) e nemico. È così che si può perdere, giorno dopo giorno, “un lembo di libertà” (come ha scritto questo giornale presentando venerdì scorso la Festa di “Repubblica”). Per difenderli e riconquistarli, quei centimetri di libertà, si può ricorrere al titolo di un libro, pubblicato qualche anno fa da Marino Sinibaldi: “Un millimetro più in là”. È un’indicazione di metodo e di lavoro: procedere con passi pazienti, sul tempo lungo, in particolare nei luoghi della formazione e della cultura di massa, per una resistenza (con la “r” rigorosamente minuscola, mi raccomando) adeguata a questa fase certamente fosca, ma non disperata. L’episodio di Cremona, infatti, può essere letto in modo rovesciato: un giovane ritiene necessario manifestare in qualche modo il suo dissenso. Come già fece quella signora che, in un vagone della circumvesuviana, apostrofò un teppista che vessava uno straniero: “tu non sei razzista, sei stronzo”; e come l’adolescente di Casal Bruciato, Simone, che tenne testa al militante di Casa Pound. E come migliaia di altre persone che fanno altrettanto, senza che le loro azioni diventino pubbliche. Insomma, l’Italia non è un Paese razzista e la sua democrazia è solida: c’è, ed è potente, un’offensiva degli intolleranti e degli illiberali. Ma c’è anche un’Italia smarrita e inquieta e, tuttavia, vitale, attiva e accogliente. Credo che sia, nonostante tutto, maggioranza. Il problema, il grande problema, è come tradurre tutto ciò in politica. Picchiato perché porta una sciarpa con scritto “ama il prossimo tuo” di Brunella Giovara La Repubblica, 11 giugno 2019 “Sono terrorizzato, mi hanno picchiato senza un motivo, non pensavo potessero farmi questo”. Malmenato dai leghisti, e anche preso in giro dal ministro leghista, che in quel momento stava facendo un comizio nei giardini pubblici di piazza Roma, a Cremona. È successo la sera dello scorso 3 giugno, Matteo Salvini era in città per sostenere il candidato del centrodestra al ballottaggio, che peraltro ha perso. Un giovane di 25 anni ha alzato una sciarpa su cui aveva scritto “Ama il prossimo tuo”, frase evangelica che ha però irritato parecchio i fan leghisti, che hanno cominciato a strattonarlo cercando di strappargli la sciarpa e coprendolo di insulti. Poi calci e ceffoni, lui si è rannicchiato su se stesso per difendersi, e a quel punto sono intervenuti tre agenti della polizia municipale - fuori servizio e in borghese - che hanno gridato “Alt, fermi tutti!”, e hanno interrotto l’aggressione. Quindi l’hanno accompagnato al presidio della polizia locale e l’hanno identificato. Non hanno però rintracciato gli aggressori, che nella confusione del momento si sono mescolati tra la gente. Il ministro non ha interrotto il comizio, anzi ha commentato in diretta: “Lasciatelo da solo, poverino, fate un applauso a un comunista che c’è, se non c’è un comunista ai giardinetti noi non ci divertiamo. E mi fanno simpatia quelli che nel 2019 vanno in giro con la bandiera rossa con la falce e il martello”, che secondo lui dovrebbero finire “al museo della Scienza e della tecnica di Milano, come i dinosauri”, frase che gli è particolarmente cara, visto che l’ha ripetuta più volte in campagna elettorale, ogni volta che qualcuno lo contestava. Ieri Pippo Civati di Possibile ha denunciato il fatto e rilanciato un piccolo video in cui si vedono alcuni momenti dell’aggressione, e si sente in sottofondo la voce del ministro: “Salvini infanga le istituzioni e la Costituzione. Si dimetta”. La Tavola della Pace Cremona (che comprende Acli, Anpi, Arci Libera, Pax Christi e moltissime altre associazioni) ha condannato l’aggressione: “Il tempestivo intervento delle forze dell’ordine ha evitato il peggio e fermato il pestaggio. Solo a incidente avvenuto, il leader della Lega Salvini ha sminuito e distorto il senso invitando i suoi sostenitori a lasciar perdere il comunista di turno che gli farebbe tanta compassione. Con i fari del palco puntati sugli occhi, Salvini ha preferito scambiare la scritta evangelica “Ama il prossimo tuo” con la protesta di un comunista immaginario, più funzionale alla sua linea di propaganda”. Gianluca Galimberti, sindaco del centrosinistra, riconfermato: “Bisogna smettere di usare parole che dividono, perché le parole d’odio generano violenza e insicurezza. Il clima è sbagliato, non si può continuare a soffiare sul fuoco, individuando nemici, e alla fine il nemico diventa un ragazzo che al massimo manifestava un pensiero divergente, e comunque pacifico”. L’aggredito era stato subito visitato dal personale di un’ambulanza del 118 presente nei giardini di piazza Roma, e gli erano state riscontrate alcune contusioni. La questura di Cremona ha aperto un’indagine sui fatti, lui ha 90 giorni di tempo per denunciare le lesioni subite. Per quel che se ne sa, non è un appartenente ai centri sociali, che peraltro quella sera erano tenuti molto alla larga dalla piazza Roma, e ogni volta che si presentavano agli ingressi sorvegliati dalle forze dell’ordine venivano prontamente respinti. Aumenta l’odio per ebrei e migranti sul web: la mappa dell’intolleranza di un’Italia incattivita di Chiara Baldi La Stampa, 11 giugno 2019 Presentato Palazzo Marino il rapporto di “Vox” che analizza il linguaggio sul web. Silvia Brena: “Pesante sul linguaggio l’impatto della politica”. Una fotografia del clima che si respira in Italia attraverso l’analisi dei tweet fatti tra marzo e maggio 2019, in piena campagna elettorale per le Europee. E da cui emerge “l’impatto che il linguaggio e le narrative della politica hanno sulla diffusione e la viralizzazione dei discorsi d’odio” e anche “il ruolo dei social media, che sono la corsia preferenziale di incitamento all’intolleranza e al disprezzo nei confronti di gruppi minoritari o socialmente più deboli”, spiega Silvia Brena, cofondatrice di Vox, l’Osservatorio Italiano dei Diritti che questa mattina a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, ha presentato la quarta edizione della “Mappa dell’Intolleranza”, elaborata insieme all’Università Statale di Milano, la Sapienza di Roma, l’Università di Bari e il dipartimento di sociologia dell’Università Cattolica di Milano. E dai dati emerge un paese sempre più incattivito, in cui l’odio contro i migranti è salito del 15,1 per cento, rispetto al 2018, e sul totale dei cinguettii che hanno come oggetto i migranti quelli di odio sono il 66,7 per cento. Sul totale di cinguettii negativi, quelli contro i migranti sono il 32 per cento: vale a dire, spiegano i curatori del rapporto, che “un hater su tre si scatena contro “lo straniero”“. E rispetto al 2018 torna l’odio anche verso gli ebrei, che lo scorso anno era “quasi inesistente”: nel 2019 è cresciuto del 6,4 per cento, per cui su un totale di 19.952 tweet relativi agli ebrei, quasi 15.200 erano negativi. Interessante il dato della geolocalizzazione (cioè da dove il tweet viene inviato), da cui emerge che le città più intolleranti verso le persone di religione ebraica sono soprattutto a Roma e Milano. C’è poi un’altra categoria a cui buona parte dell’odio online viene indirizzato: i musulmani, che hanno visto una impennata di quasi il 7 per cento di tweet intolleranti nei loro confronti. E ovviamente anche le donne rientrano nella classifica tra le categorie più odiate online con un aumento dell’1,7 per cento rispetto allo scorso anno sebbene siano più colpite quando sono in tandem con gli omosessuali. Che invece registrano un dato positivo: i tweet intolleranti verso di loro scendo del 4,2 per cento. In questo caso, la maggior parte dei cinguettii negativi verso gay e lesbiche arrivano da Milano (con 4083 tweet negativi su un totale di 5719) e Roma (con 18.284 cinguettii raccolti in totale di cui negativi sono 12.826). Secondo i curatori della mappa, il motivo del calo di messaggi negativi verso omosessuali dipende anche dalla presenza della Legge Cirinnà che ha reso gli omosessuali non più una minoranza nel paese. Per Amnesty International, che sta analizzando i profili dei personaggi politici, “c’è una correlazione tra l’odio sui social network e i messaggi della politica”. Un’analisi che mette d’accordo anche Marilisa D’Amico, cofondatrice di Vox e professoressa di diritto costituzionale alla Statale di Milano, che spiega: “Questa correlazione non solo crea un clima culturale ostile al “diverso” ma legittima anche la diffusione di discorsi d’odio lesivi dei principi di uguaglianza e solidarietà a cui è ispirata la nostra Costituzione”. E in questo senso è cambiato anche il profilo dell’hater che, per Vittorio Lingiardi, professore di psicologia dinamica alla Sapienza di Roma, “oggi non è più l’anonimo leone da tastiera, ma uno che vuole farsi riconoscere perché si sente legittimato”. Il Papa: l’Europa chiude i porti alla gente sulle navi ma li apre alle armi di Iacopo Scaramuzzi La Stampa, 11 giugno 2019 Critica di Francesco durante l’udienza alla Roaco: “L’ira di Dio si scatenerà con chi parla di pace e vende armi”. L’annuncio: “Voglio andare in Iraq l’anno prossimo”. Papa Francesco intende andare in Iraq “il prossimo anno”: lo ha detto egli stesso, ricevendo i partecipanti alla Riunione delle Opere di Aiuto alle Chiese Orientali (Roaco), ai quali ha ricordato: “Gridano le persone in fuga ammassate sulle navi, in cerca di speranza, non sapendo quali porti potranno accoglierli, nell’Europa che però apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti, capaci di produrre devastazioni che non risparmiano nemmeno i bambini”. Una “ipocrisia” sulla quale si è soffermato anche quando, parlando della guerra in Siria, ha scandito: “Tante volte penso all’ira di Dio che si scatenerà con quelli responsabili dei paesi che parlano di pace e vendono le armi per fare queste guerre: questa è ipocrisia, è un peccato”. “Un pensiero insistente mi accompagna pensando all’Iraq, dove ho la volontà di andare il prossimo anno - ha detto il Papa - perché possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali”. L’idea di un viaggio del Pontefice in Iraq non è nuova, ma è sempre stata rinviata perché sia dal punto di vista politico che della sicurezza non era possibile, come ha detto ancora la Santa Sede a gennaio scorso. Francesco stesso, a febbraio del 2018, aveva detto: “Ci stiamo pensando ma le condizioni attualmente non lo permettono”. Con i partecipanti alla 92esima assemblea plenaria della Roaco, il Papa ha fatto un giro di orizzonte delle questioni che riguardano il Medio Oriente. “In questi giorni, gli interventi dei Rappresentanti Pontifici di alcuni Paesi, come anche dei relatori che sono stati scelti, vi aiuteranno a mettervi in ascolto del grido di molti che in questi anni sono stati derubati della speranza”, ha detto il Pontefice argentino: “Penso con tristezza, ancora una volta, al dramma della Siria e alle dense nubi che sembrano riaddensarsi su di essa in alcune aree ancora instabili e ove il rischio di una ancora maggiore crisi umanitaria rimane alto. Quelli che non hanno cibo, quelli che non hanno cure mediche, che non hanno scuola, gli orfani, i feriti e le vedove levano in alto le loro voci. Se sono insensibili i cuori degli uomini, non lo è quello di Dio, ferito dall’odio e dalla violenza che si può scatenare tra le sue creature, sempre capace di commuoversi e prendersi cura di loro con la tenerezza e la forza di un padre che protegge e che guida. Ma anche - ha aggiunto - tante volte penso all’ira di Dio che si scatenerà con quelli responsabili dei paesi che parlano di pace e vendono le armi per fare queste guerre: questa è ipocrisia, è un peccato”. “Gridano le persone in fuga ammassate sulle navi, in cerca di speranza, non sapendo quali porti potranno accoglierli, nell’Europa che però apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti, capaci di produrre devastazioni che non risparmiano nemmeno i bambini”, ha detto ancora il Papa. “Questa è l’ipocrisia della quale ho parlato. Siamo qui consapevoli che il grido di Abele sale fino a Dio, come ricordavamo proprio a Bari un anno fa, pregando insieme per i nostri fedeli in Medio Oriente”. Nella meditazione introduttiva alla giornata di preghiera e dialogo con i Patriarchi del Medio Oriente, lo scorso 7 luglio a Bari, il Papa aveva detto: “Sia pace: è il grido dei tanti Abele di oggi che sale al trono di Dio. Per loro non possiamo più permetterci, in Medio Oriente come ovunque nel mondo, di dire: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). L’indifferenza uccide, e noi vogliamo essere voce che contrasta l’omicidio dell’indifferenza. Vogliamo dare voce a chi non ha voce, a chi può solo inghiottire lacrime, perché il Medio Oriente oggi piange, oggi soffre e tace, mentre altri lo calpestano in cerca di potere e ricchezze. Per i piccoli, i semplici, i feriti, per loro dalla cui parte sta Dio, noi imploriamo: sia pace!”. Alla Roaco il Papa ha ricordato, stamane, anche l’Ucarina, “perché possa trovare pace la sua popolazione, le cui ferite provocate dal conflitto ho cercato di lenire con l’iniziativa caritativa alla quale molte realtà ecclesiali hanno contribuito”. In Terra Santa, ha detto ancora Francesco, “auspico che il recente annuncio di una seconda fase di studio dei restauri del Santo Sepolcro, che vede fianco a fianco le comunità cristiane dello Status quo, si accompagni agli sforzi sinceri di tutti gli attori locali ed internazionali perché giunga presto una pacifica convivenza nel rispetto di tutti coloro che abitano quella Terra, segno per tutti della benedizione del Signore”. Il Papa non ha mancato di ricordare le “voci di speranza e consolazione” che vi sono in Medio Oriente, in particolare dei giovani: “Quest’anno, i giovani dell’Etiopia e dell’Eritrea - dopo la tanto sospirata pace tra i due Paesi - abbandonando le armi sentono vere le parole del Salmo: “Hai mutato il mio lamento in danza”. Sono certo - ha detto - che i giovani sentono forte il richiamo a quella fraternità sincera e rispettosa di ciascuno, che abbiamo richiamato con il Documento sottoscritto ad Abu Dhabi insieme al Grande Imam di Al-Ahzar. Aiutatemi a farlo conoscere e a diffondere quella alleanza buona per il futuro dell’umanità in esso contenuto. E impegniamoci tutti a preservare quelle realtà che ne vivono il messaggio già da anni, con un particolare pensiero alle istituzioni formative, scuole e università, tanto preziose specie in Libano e in tutto il Medio Oriente, laboratori autentici di convivenza e palestre di umanità a cui tutti possano facilmente accedere”. Russia. La prima pagina per Golunov: la scelta dei tre principali quotidiani La Repubblica, 11 giugno 2019 Le testate Kommersant, Vedomosti e Rbk denunciano il trattamento intimidatorio nei confronti del giornalista di Meduza arrestato con l’accusa di spaccio pubblicando la stessa prima pagina: “Io/noi siamo Ivan Golunov”. I tre principali quotidiani economici russi (Kommersant, Vedomosti e Rbk) si sono opposti all’arresto del giornalista 36enne di Meduza, Ivan Golunov, accusato di tentato traffico di stupefacenti. Le tre importanti testate nazionali hanno pubblicato oggi la stessa prima pagina, con la scritta a caratteri cubitali “Io/noi siamo Ivan Golunov”. A loro parere l’arresto è un atto di intimidazione contro le libertà russe e un’indebita interferenza nelle attività giornalistiche. I quotidiani hanno chiesto un’indagine sugli agenti che hanno proceduto all’arresto. Il più rinomato tossicologo russo, Evgenij Brjun, ha affermato domenica alla televisione di Stato che l’analisi di un campione di urina di Golunov non ha evidenziato tracce di droghe. Ivan Golunov è agli arresti domiciliari e rischia dai 10 ai 20 anni di carcere. Il reporter ha condotto delle inchieste sulla corruzione a Mosca. Le proteste per il suo fermo stanno coinvolgendo oltre ai media anche l’opinione pubblica e alcune personalità dello spettacolo come la scrittrice Ljudmila Ulitskaja, il rapper Oxxxymiron e il regista Andreij Zuyagintsev. Critiche alla gestione del caso sono arrivate anche dal canale televisivo Ntv, solitamente allineato con il Cremlino. Migliaia di persone sono attese il 12 giugno a Mosca, giorno della Festa della Russia, per protestare contro l’arresto del giornalista: la marcia di protesta, che passerà di fronte alla sede della Fsb (Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa) e al Ministero degli affari interni, non è stata autorizzata dal governo. Il Cremlino ha ammesso che ci sono “dubbi” sull’arresto del reporter: “Stiamo monitorando attentamente come si sta sviluppando questo caso”, ha detto il portavoce del presidente russo Vladimir Putin, Dmitrij Peskov. “Questo caso concreto ha scatenato un gran numero di domande. Ci sono questioni da chiarire”. Cina. Perché l’Italia deve sostenere la nobile e disperata protesta di Hong Kong di Gianni Riotta La Stampa, 11 giugno 2019 Trent’anni fa la Cina di Deng Xiaoping represse nel sangue il movimento degli studenti, mobilitato a piazza Tiananmen, “non perché ce ne fosse davvero bisogno, ma per dare l’esempio” e scoraggiare i dissidenti per la democrazia, secondo il giudizio dell’allora ambasciatore Usa Winston Lord. Ora la Cina del presidente Xi Jinping, assurta a superpotenza economica e presto geopolitica, affronta un analogo dilemma con il movimento di piazza di Hong Kong contro la legge sull’estradizione e sembra decisa a ostinarsi nella strategia del pugno di ferro. Tutta Hong Kong, l’ex colonia inglese tornata alla madrepatria nel 1997 mantenendo però un originale sistema giudiziario e qualche margine di autonomia, ha marciato contro la proposta di cancellare ogni garanzia contro i cittadini, di qualunque paese, in caso di estradizione a Pechino. I membri della comunità del business, gli agenti di borsa, i manager che fanno scalo nella storica e frenetica metropoli, rischiano di finire in cella, impigliati nelle dispute tra il presidente americano Donald Trump e Xi. Come la Meng Wanzhou, figlia del fondatore del colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei, e capo finanziario dell’azienda, è stata arrestata in Canada e minacciata di estradizione verso gli Stati Uniti, così Pechino potrebbe ordinare, senza diritto di appello, che cittadini stranieri le vengano consegnati, ottenendo una chance preziosa di immediata rivalsa. I cortei, le assemblee, i comizi, punteggiati da ombrelli gialli in ricordo dell’ondata di proteste, poi rientrata, del 2014, riportano in scena la Hong Kong che non intende rinunciare alla propria identità, decadendo a incolore periferia della sterminata nazione che fu l’Impero di Mezzo cinese. Studenti, dirigenti, ceto medio colto, operatori economici son consci, con a disposizione il web senza le censure che lo accecano nella Cina continentale, che Xi sta organizzando la maggior operazione di repressione sociale della storia umana, dalla campagna di arresti e processi in corso contro la minoranza musulmana degli uiguri, alla schedatura digitale via riconoscimento dei volti per milioni di persone, fino al “voto personale” che tutti i cinesi ricevono in base ai post online, al comportamento privato e pubblico, all’attività nelle cellule di partito. La bocciatura esclude da carriera e scuola e tanti cinesi, ossessivamente, cliccano “Sì” sui test di fedeltà politica, pur di restare nelle grazie del governo. Le prime reazioni ufficiali ai cortei sono preoccupanti. La dichiarazione di condanna del segretario di Stato americano Pompeo è stata subito rintuzzata dalle autorità di Hong Kong e Pechino come una provocazione e le più diplomatiche sortite dell’Unione Europea, timorosa di ritorsioni, respinte con uguale fermezza. Carrie Lam, leader filocinese di Hong Kong, ha comunicato di voler andare avanti, già da domani, con il provvedimento contestato, mentre Geng Shuang, portavoce del ministero degli Esteri cinese, denuncia “ingerenze internazionali negli affari interni” del paese. Il vicepremier Han Zheng, come da copione, fa sapere che la nuova legge rafforzerà Hong Kong. I diritti umani di chi è sceso in piazza per quel che resta di non dittatoriale a Hong Kong sono purtroppo ostaggio del duello Usa-Cina, guerra dei dazi, attrito militare per le rotte commerciali del Pacifico, sfida su tecnologia, dati, intelligenza artificiale, 5G. Per questo, la disperata protesta suona ancor più nobile e da sostenere, per ogni libera coscienza e per le democrazie: l’Italia del governo Conte, assai accondiscendente finora con l’ultimo regime comunista per un pugno di contratti, potrebbe spendere almeno una parola di solidarietà, nello spirito dell’articolo 10 della Costituzione, che tutela giusto i diritti umani internazionali a proposito di estradizioni. Cina. La responsabilità dell’Occidente che sui diritti umani lascia mano libera al Dragone di Federico Rampini La Repubblica, 11 giugno 2019 Con il tipico riflesso dei regimi autoritari, e un copione collaudato dai tempi delle “rivoluzioni arancioni”, il complotto americano è una comoda teoria anche per spiegare la protesta di Hong Kong. I media governativi di Pechino alludono alla mano di Washington dietro la mobilitazione di massa. Sarebbe bello: se soltanto fosse vero. Al contrario, quel che accade a Hong Kong in questi giorni è drammatico anche per il silenzio di Donald Trump e di tutto l’Occidente. Negli ultimi vent’anni lo status di Hong Kong veniva considerato come un test per la Cina. Il rispetto dei “privilegi” (leggi: libertà di espressione, Stato di diritto, tribunali indipendenti, habeas corpus) concordati nel 1997 al momento del passaggio dell’isola dal Regno Unito alla Cina, è sempre stato osservato con vigilanza da Washington, Londra, e dalle altre capitali europee. Dalla capacità di Pechino di mantenere quelle promesse, e di seguire la massima “una nazione, due sistemi” (cioè tollerare un sistema politico e giuridico diverso a Hong Kong, pur essendo quel territorio tornato a far parte della Grande Cina) veniva misurata l’affidabilità dei dirigenti comunisti come interlocutori in un ordine mondiale basato su regole. In effetti Hong Kong è rimasta a lungo - in parte lo è tuttora - una felice eccezione, un’oasi dove i giornali e i cittadini possono criticare il proprio governo locale o quello nazionale senza temere di finire in carcere. Dietro il rispetto dei diritti c’era un calcolo: conveniva alla Cina mantenere lo status speciale di Hong Kong anche per il suo ruolo di piazza finanziaria globale, sede di tante banche straniere, multinazionali. Insomma una piattaforma del business con ricadute positive sulla madrepatria. Con Xi Jinping la musica è cambiata. Già da qualche anno si fanno più frequenti le incursioni della polizia cinese contro i dissidenti di Hong Kong. Alcuni sono stati letteralmente rapiti, scomparsi a lungo, per poi riapparire nelle mani delle autorità cinesi e magari pronunciare “auto-denunce” nello stile staliniano. La riforma della legge sull’estradizione renderebbe il compito ancora più facile per la polizia cinese: non avrebbe più bisogno di organizzare rapimenti, i dissidenti se li farebbe consegnare dalle autorità di Hong Kong. È questo il timore che ha scatenato le proteste di piazza. Trump si prepara a incontrare Xi Jinping al G20 di Osaka in un clima di tensione, ma ha ridotto tutto il rapporto bilaterale alla dimensione economica. Mentre il vero punto debole della Cina, in particolare in quell’area del mondo ancora affollata di liberal-democrazie alleate degli Usa (da Taiwan al Giappone alla Corea del Sud) è proprio la natura del suo regime. Avere cancellato la questione dei diritti umani e delle libertà dalla sfera delle nostre “politiche cinesi” indebolisce l’Occidente intero. Compresa quell’Europa che sembra solo interessata alle Nuove Vie della Seta, sempre misurando i rapporti con la Cina nell’ottica mercantilista. Brasile. “Un piano di giudici e pm”: lo scoop che riabilita Lula di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 11 giugno 2019 Brasile, rivelazioni sul magistrato (ora ministro): “Aiutava l’accusa”. E dietro la vittoria di Jair Bolsonaro sembra spuntare la mano dei giudici. Lula è stato condannato ingiustamente? Dietro la vittoria dell’estrema destra di Jair Bolsonaro c’è la mano dei giudici? Una bomba in stile Wikileaks è caduta ieri sul Brasile con la divulgazione di anni di dialoghi tra magistrati e giudici del pool “Lava Jato”, la grande operazione anticorruzione. Protagonista è ancora una volta il giornalista Usa Glenn Greenwald, lo stesso che nel 2007 divulgò le carte dell’ex uomo della Cia Edward Snowden, oggi protetto dalla Russia. Greenwald, che vive da tempo a Rio de Janeiro, è alla guida del sito investigativo The Intercept, autore dello scoop, il quale sostiene la tesi del complotto: i giudici avrebbero tolto Lula dalla corsa presidenziale dello scorso anno per evitare che tornasse al potere. Quasi tutte le intercettazioni (via voce o app di messaggistica Telegram) riguardano il processo che ha condannato Lula per aver ottenuto in regalo un attico sull’Oceano Atlantico come super mazzetta. Il primo punto imbarazzante mostra la collaborazione tra pm e giudice, cioè tra il capo del pool di Curitiba Daniel Dallagnol e Sergio Moro, il quale ha emesso le condanne per Lula e decine di altri politici e imprenditori, e oggi è ministro della Giustizia nel governo Bolsonaro. Dai dialoghi risulta evidente un lavoro congiunto tra pubblica accusa e giudice, contrario ai princìpi del diritto penale. I due alternano opinioni e si scambiano consigli su come costruire l’atto di accusa contro Lula. Moro mostra di avere seri dubbi su una prova capitale, la proprietà dell’appartamento, e sull’utilizzo a tal fine di un reportage giornalistico. Poi indirizza i pm sulla cronologia dell’operazione. I magistrati di Curitiba, rivela poi Greenwald, si scambiano considerazioni “politiche” sul loro operato e sugli effetti chiaramente nefasti delle loro indagini per Lula e il suo Partito dei lavoratori. Intercept non ha dubbi: tutta l’imparzialità proclamata dai giudici anticorruzione in Brasile è una menzogna. Viene alla luce, per esempio, lo sforzo affinché a Lula, già condannato e in carcere, non venga concesso il permesso a rilasciare una intervista che avrebbe potuto rilanciare le carte del suo candidato, Fernando Haddad, il quale ha poi perso il ballottaggio contro Bolsonaro. E prima ancora le frasi di tripudio dei giudici per il successo delle manifestazioni di piazza che aiutarono a far cadere Dilma Rousseff (estromessa con un dubbio impeachment, da lei definito “golpe”). Mentre Intercept promette altre rivelazioni nelle prossime settimane (la quantità di materiale hackerato potrebbe essere enorme), il Brasile si divide sugli effetti dei leaks. La sinistra, e gli avvocati di Lula, parlano della necessità di annullare il processo di condanna all’ex leader. C’è chi chiede le dimissioni dell’ormai ex giudice Moro dal ministero, nel quale sta preparando un pacchetto di misure anticorruzione. La destra al potere parla di tempesta in un bicchiere d’acqua e accusa ancora una volta la vecchia politica, Lula in testa, di manovrare i media per fermare il rinnovamento. Nonostante l’operazione “Lava Jato” abbia decapitato quasi tutti i partiti e portato in galera i maggiori imprenditori del Brasile, il faro della lotta politica resta acceso sul caso Lula. I numeri delle ultime elezioni con il trionfo dell’estrema destra lasciano dubbi sul fatto che l’ex operaio godesse ancora dei consensi necessari a tornare alla presidenza, ma i suoi non hanno dubbi: Lula è innocente e la sua condanna è stata costruita ad hoc. Da qui l’attacco trasversale a tutta l’operazione, ignorando le evidenze dei miliardi arrivati ai partiti per finanziare le campagne e lo scandaloso arricchimento di ex ministri e governatori di Stato dimostrato dai fatti.