Caso Palamara, crisi nell’Anm. E Grasso lascia la sua corrente di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 giugno 2019 Scontro sulle toghe del Csm che non si dimettono. Magistratura indipendente nel caos. Le mancate dimissioni dei quattro componenti autosospesi dal Consiglio superiore della magistratura - con tanto di appello a tornare al proprio posto sottoscritto da Magistratura indipendente, la corrente moderata a cui appartengono tre dei quattro - se per ora non paralizza l’attività del Csm, provoca una crisi profonda al vertice dell’Associazione nazionale magistrati. Culminata ieri sera con le dimissioni del presidente Pasquale Grasso dalla sua corrente, proprio Mi, irremovibile nella difesa a oltranza dei suoi consiglieri. Il “sindacato delle toghe» aveva chiesto mercoledì scorso che i consiglieri coinvolti negli incontri notturni per pianificare il futuro assetto della Procura di Roma con due deputati del Pd (Cosimo Ferri, leader ombra di Mi, e l’ex sottosegretario e ministro renziano Luca Lotti) abbandonassero “l’incarico istituzionale del quale, evidentemente, non appaiono degni». Un verdetto dal quale Mi s’è dissociata ufficialmente, determinando le altre tre correnti ad estrometterla dalla Giunta che guida l’Anm. Secondo la sinistra giudiziaria di Area, i centristi di Unità per la costituzione e Autonomia e indipendenza (il gruppo di Piercamillo Davigo nato da una scissione da Mi) l’invito rivolto ai propri consiglieri a riprendere pienamente le loro funzioni “crea un incidente istituzionale senza precedenti e potrebbe condurre all’adozione di riforme dell’organo di autogoverno dal carattere “emergenziale”, con il rischio di alterarne il delicato assetto voluto dalla Costituzione a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, senza risolvere i problemi posti dalle gravi recenti vicende». In pratica i tre gruppi accusano il quarto di offrire il destro alla politica di modificare il Csm secondo le volontà contingenti dei partiti, a danno delle toghe e della loro indipendenza. Per eleggere un nuovo governo dell’Anm, è stata chiesta la convocazione urgente di un comitato direttivo che il presidente Grasso aveva già in mente di riunire al più presto. Finché ieri sera, di fronte al precipitare della crisi, ha deciso di abbandonare il suo gruppo: “Ci sono momenti in cui la casa natale ci sta stretta - spiega - e si inizia a vedere le cose in modo diverso. È nella natura delle cose umane». In attesa di capire il destino del “sindacato», da oggi si riapre il problema nel Csm. Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Antonio Lepre, che si sono astenuti da ogni attività dopo la scoperta della loro partecipazione alle riunioni con Luca Palamara (oggi indagato per corruzione), Ferri e Lotti, dovrebbero tornare al lavoro forti del “mandato» ricevuto dalla corrente. Situazione un po’ diversa per il quarto autosospeso, Gianluigi Morlini di Unicost, rimasto senza l’appoggio del gruppo. In assenza delle dimissioni, nell’organo di autogoverno rimane una situazione di imbarazzo che il vice-presidente Ermini, d’accordo con il Quirinale, ha tentato fino di rimuovere con l’appello al “senso di responsabilità istituzionale» rivolto ai quattro. Caduto per ora nel vuoto. Ieri Area ha nuovamente sollecitato il passo indietro “per consentire una ripresa dell’attività del Csm a pieno regime, evitandone lo scioglimento». E l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, candidato alla guida di Area, insiste: “Dobbiamo tutelare la fiducia nel Csm, e l’unico modo è quantomeno che restino le auto sospensioni. Non mantenere neanche questo vuol dire portare al caos istituzionale». Se non ci saranno ripensamenti, solo qualche iniziativa giudiziaria (da parte dei pm di Perugia titolari dell’inchiesta su Palamara) o disciplinare (del procuratore generale della Cassazione o ministro della Giustizia) nei confronti dei quattro potrebbe determinare ulteriori sviluppi. Gli altri componenti del Csm hanno le mani legate dal vincolo di segretezza imposto dai pm sulle trascrizioni delle intercettazioni degli incontri con magistrati e politici registrati con il telefonino di Palamara. Sul fronte politico l’ex segretario del pd Matteo Renzi denuncia un presunto “festival dell’ipocrisia», sostenendo che le nomine dei procuratori sono sempre frutto di accordi tra magistratura e politica: “Sono state decise con quel metodo lì, che non è stato inventato da Luca Lotti». Senza però fare cenno al particolare che il suo ex sottosegretario, impegnato nelle discussioni sui nuovi vertici della Procura di Roma, è imputato proprio di quell’ufficio. Grasso: “Siamo andati a finire contro un iceberg, adesso lascio tutto” di Liana Milella La Repubblica, 10 giugno 2019 “Sono giorni che cerco di convincere il mio gruppo a non suicidarsi e a seguire una condotta realista. Mi pare di vedere dei ballerini che ballano sul ponte mentre il Titanic va verso l’iceberg. Il mio cruccio è di non essere riuscito a far passare un principio che dovrebbe essere condiviso da tutti. Evidentemente sono un illuso». Sono le cinque e Pasquale Grasso, toga di Mi, già non è più di fatto il presidente dell’Anm. Lo era appena da due mesi. Non vorrebbe parlare, chiede riservatezza, ma poi il suo sfogo è dirompente. La sua giunta cade per colpa del suo stesso gruppo... “Guardi, prima che fosse diffuso il documento che sfiducia la mia presidenza, stavo convocando il Comitato direttivo perché il disagio di tutti i colleghi è troppo forte». Non è assurdo che sacrifichi lei per salvare i tre del Csm? “Non mi sta sacrificando nessuno. So cosa pensa il mio gruppo, ma io, Pasquale Grasso, giudice civile, padre di quattro figli piccoli, voglio seguire il mio rigore logico, la mia moralità intellettuale. Voglio attestarmi su una posizione equilibrata. Certo, Magistratura indipendente sta sbagliando nella difesa fideistica dei suoi consiglieri». Lei si è astenuto. Perché non ha votato contro il documento di Mi che chiedeva il reintegro dei colleghi? “Mi dicono che generalmente al Csm l’interfaccia con i politici non è una novità, ma il punto qui è che Lotti non è solo un politico, ma un politico inquisito. Non so se si sia trattato di distrazione odi altro. So però che tanti colleghi in Italia sono arrabbiati. Ma in questo momento un processo non si può fare». Un attimo, lei critica i colleghi del Csm, ma non è per le loro dimissioni come vorrebbero Area, davighiani e Unicost? “La mia corrente ha torto perché soggetti che hanno interloquito con un imputato per trattare il destino della procura di Roma devono dimettersi». E allora lei perché si è astenuto? “La stampa è un cardine della democrazia, ma sarebbe sbagliato dimettersi sulla base di notizie date solo dalla stampa. Voglio fissare un principio di equilibrio, di buon senso, di giustizia, non emettere delle sentenze». Vuole difendere il suo collega Ferri? “L’ho incontrato solo poche volte...». Prende le distanze dal suo metodo? “Non lo definisco io così, perché il suo è un metodo comune a tanti. Il rapporto con ì politici è fisiologico, ma qui il punto di stacco è Lotti, cioè un politico noto, che ha una nota imputazione, in una nota procura. I magistrati sono arrabbiati per questo». Lei non arriva alle dimissioni anche se potrebbe arrivare un’azione disciplinare? “I tempi sono troppo lunghi, ma bisogna sacrificarsi per tutelare l’ordinamento democratico». E quindi i suoi colleghi restano al loro posto? “Devono decidere in base alla loro coscienza, perché loro sanno bene che cosa hanno fatto. Non si può dire loro: dimettiti». Però così ci va di mezzo lei e la sua giunta cade… “Chiedere il rinnovo della giunta adesso vuol dire approfittare di un momento di debolezza di Mi». La crisi c’è perché Mi difende i colleghi che hanno visto Lotti… “Io la penso diversamente. Chi ha tenuto condotte non corrette deve dimettersi. Ma io faccio il giudice e voglio vedere le prove. L’impasse è terribile, con un vulnus enorme per l’istituzione. Il rigore vorrebbe che restassero fino all’accertamento disciplinare, ma ciò crea ugualmente un vulnus nell’immagine, quindi eroicamente, da uomini delle istituzioni, bisogna decidere di fare un passo indietro seppure si fosse immacolati». Intanto sarà lei a fare il passo indietro… “Intanto lascio la mia corrente, Mi. Al resto ci penserò, devo far capire che cosa ho fatto per il bene dei magistrati, perché la lite tra di noi non giova al Paese, e non giova alla magistratura perché porta a reazioni scomposte. In questo incarico ci ho creduto, ma non si può rimanere a urlare nel deserto». Così le correnti del Csm si contendono il potere di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 10 giugno 2019 Nate negli Anni 60 con ideologie forti, sono state per mezzo secolo un sistema di governo della categoria, con scontri epici. Le riforme hanno cambiato le carriere e la caccia ai consensi per entrare nel Csm. Le storie esemplari di Palamara e Ferri. A chi non è capitato di sbagliare a inviare una e-mail? Nel novembre 2012 Francesco Vigorito, componente del Consiglio superiore della magistratura, spedì a migliaia di magistrati una lettera scritta per pochi sodali (“Miei cari... ») della sua corrente, Magistratura Democratica. Nella e-mail esprimeva “il dubbio» di aver commesso “un’ingiustizia troppo grossa» nominando per “qualche pressione interna» e in ossequio a logiche di “opportunità politica» la persona meno adatta alla presidenza di un tribunale. Qualcuno si scandalizzò, qualcuno finse. Poi si continuò a fare come prima. Nel 2013 Ignazio Marino, candidato a sorpresa del Pd a sindaco di Roma, fu invitato a un incontro elettorale in un elegante palazzo dalle parti di piazza Colonna. A stringergli la mano una cinquantina di magistrati di ogni ordine e grado: Corte dei conti, Tar, Consiglio di Stato, tribunali civili e penali. Tra loro Luca Palamara. A fare gli onori di casa Fabrizio Centofanti, lobbista arrestato nel 2018 per corruzione e ora indagato con l’accusa di aver elargito a Palamara soldi, viaggi, regali. Palamara ha negato regali e reati, ammettendo l’amicizia con Centofanti, peraltro condivisa “con importanti figure di vertice della magistratura ordinaria e amministrativa». Nomi che tornano nello scandalo delle nomine del Csm che deflagra dentro e fuori il palazzo. Il vicepresidente David Ermini ha parlato di “evidenti tracce di degenerazioni correntizie, giochi di potere e traffici venali: o sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti». Taluni magistrati rimpiangono un passato glorioso in cui le correnti erano forti e impegnate; altri sospirano che “così fan tutti, da sempre». Le prime correnti nacquero nel 1964. Magistratura indipendente, conservatrice, propugnava un’organizzazione gerarchica e un ruolo del giudice limitato all’applicazione letterale della volontà politica. Magistratura democratica, progressista, si batteva per una distribuzione orizzontale del potere giudiziario e un’interpretazione del diritto “costituzionalmente orientata». Unicost è il correntone centrista, “balena bianca» con un’anima conservatrice e una progressista. Nel 1988 Falcone e altri se ne dissociarono denunciandone la lottizzazione. Nacque così la corrente Movimenti per la Giustizia, che dieci anni fa ha costituito con Magistratura Democratica un cartello elettorale di centrosinistra chiamato Area. Nei decenni le correnti hanno animato dibattiti e scontri furibondi, con un profondo affiato culturale. Ma sono anche state un sistema di potere. Il mosaico che emerge dalle carte di Perugia segna una mutazione genetica. Come la Prima Repubblica fondata sui partiti, è finita quella giudiziaria incardinata sulle correnti tradizionali. Quelle di oggi sono “liquide». Nella corsa all’ambito posto di capo della Procura di Roma, Palamara e alcuni (quanti?) esponenti di Unicost non brigavano per aiutare Giuseppe Creazzo, candidato della loro corrente, ma il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, benché di Magistratura Indipendente. Ciò in nome della “discontinuità» con il procuratore uscente, Giuseppe Pignatone, anch’egli di Unicost come i “cospiratori». Anche la parallela caccia a un procuratore di Perugia pare prescindere dal criterio dell’appartenenza correntizia. Più che alla casacca, si bada alla disponibilità ad aprire fascicoli su colleghi “nemici». Per non dire della stessa Magistratura Indipendente: a Roma, dovendo scegliere tra due associati, rinuncia alla certa vittoria di Franco Lo Voi (più anziano e titolato, votato anche da Area) per percorrere la strada più accidentata. Altri tempi, quelli delle correnti monolitiche e onnipotenti. Quando per boicottare una nomina bastava ordinare a qualcuno nel Csm “di andare a fare la pipì al momento del voto» (così Edmondo Bruti Liberati, secondo il racconto di Alfredo Robledo). Quando le correnti raggruppavano le nomine in “pacchetti» per garantire nella contestualità gli accordi di spartizione. In assenza dei quali posti importanti rimanevano vacanti per anni pregiudicando “il prestigio dell’istituzione», come denunciò nel 2013 il presidente Giorgio Napolitano. Nel 2002 Berlusconi cambiò il sistema elettorale dei membri togati del Csm, sostituendo il proporzionale per liste con uno strano maggioritario uninominale a collegio unico nazionale. Chiunque può candidarsi (dentro e fuori le correnti) e concorre individualmente. L’obiettivo era depotenziare le correnti. Risultato boomerang: candidature indipendenti ammazzate in culla (impossibile fare campagna nazionale senza un’organizzazione), accordi preventivi, liste corte per evitare dispersioni di voti. E correnti diventate contenitori fluidi e scalabili, dalle forme mutevoli. Proprio mentre la riforma Castelli-Mastella (2006) riportava elementi gerarchici nelle carriere e stabiliva criteri nuovi (e anch’essi liquidi) per accedere ai posti più prestigiosi. Valorizzando anche attività, istituzionali e non, più utili alla costruzione di consensi personali che all’attività giurisdizionale. Deleghe gestionali, convegnistica, incarichi interni alla Scuola di magistratura, dove passano centinaia di magistrati, può diventare trampolino di lancio per un giro al Csm. Come l’organizzazione delle partite di calcio della nazionale magistrati può servire a tessere relazioni politiche (così Lotti ha detto di aver conosciuto Palamara). Alle ultime elezioni del Csm sono accadute cose strane. Le quattro correnti in lizza, a dispetto dei proclami bellicosi, per i 4 posti in quota pubblici ministeri hanno presentato solo 4 candidati. Più che eletti, nominati. Tra i giudici di merito, 13 candidati per 10 posti. In Cassazione, dove si giocava la vera battaglia, Unicost ha perso lo storico primato: un’emorragia di quasi 900 voti rispetto ai giudici di merito che ha consegnato il seggio a Magistratura Indipendente. “C’è stato uno spostamento deliberato di pacchetti di voti tra correnti», riferiscono due diversi testimoni di quella campagna elettorale, sotto vincolo di riservatezza. Al netto dei rilievi penali (respinti dagli indagati), i protagonisti delle intercettazioni dell’inchiesta perugina sono i capi di questa stagione di correntismo 2.0. Post ideologica, come dimostra la parabola di Palamara. Figlio di magistrato, studia per il concorso all’istituto Jemolo (che da qualche giorno ha rimosso la sua pagina nella sezione dedicata agli ex allievi illustri), comincia come toga rossa in Calabria, cresce nella Unicost che guarda a sinistra, diventa il più giovane presidente dell’Anm, il sindacato cui aderisce i190% delle toghe, va al Csm e crea l’asse con Magistratura Indipendente. Che, pur essendo la corrente più conservatrice e dialogante col governo gialloverde, risulta governata di fatto da Cosimo Ferri, altro protagonista (benché non indagato) delle trattative sulle nomine. Anch’egli figlio di magistrato: il padre Enrico, prima di diventare famoso come ministro dei 110 km/h in autostrada, era stato leader di Magistratura Indipendente. Ai suoi tempi riuniva settimanalmente i membri del Csm per catechizzarli. E convocava luculliani convegni giuridici nella natia Pontremoli. Cosimo ha proseguito la tradizione, aggiornandola ai tempi. Brillante, disponibile, trasversale. Eletto a 35 anni nel Csm. Nel 2010, finito il mandato, diventa leader di Magistratura Indipendente. Contesta l’antiberlusconismo (anche di Palamara) e fa proselitismo parlando di ferie, stipendi, carichi di lavoro. Nel 2012 trionfa alle elezioni dell’Anm con 1199 preferenze, un record. Ma i colleghi lo lasciano all’opposizione. Al governo ci va da un’altra porta: l’esecutivo Letta, di cui diventa sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia. Sopravvive alla rottura del patto del Nazareno (chez Verdini) e resta al governo fino alla fine della legislatura, quando Renzi gli garantisce un seggio parlamentare blindato. Fuoriclasse della politica giudiziaria, nel 2014, incurante del ruolo politico e istituzionale, invia ai magistrati un sms elettorale chiedendo voti per due (non per tutti) candidati della sua corrente. Puntualmente eletti. Quando Davigo guida la scissione contro di lui fondando Autonomia e Indipendenza, Ferri pare destinato al declino. Ma alle elezioni 2018 del Csm aumenta voti e seggi, stringendo con Palamara il patto che porta Ermini alla vicepresidenza. Poi il duo comincia a occuparsi delle nomine. Sostiene Viola per Roma. Come, per altra via, fa Davigo. Che in commissione incarichi il 23 maggio vota con la corrente da cui si era allontanato polemicamente. Ferri era sottosegretario del governo Renzi che, abbassando l’età pensionabile da 75 a 70 anni, decapitò in un colpo i vertici della magistratura, con un ricambio senza precedenti. Davigo ha calcolato che tra il 2014 e il 2018 il Csm ha varato 1049 nomine, di cui il 30% bocciate (anche ripetutamente) dal Consiglio di Stato: motivazioni deboli, arbitraria selezione dei curricula, “criteri incongrui e spuri» di valutazione dei candidati. Anche questo ha indebolito il Csm. Fino a che il correntismo 2.0 ha precipitato il terzo potere dello Stato in una crisi senza precedenti. Il Csm e il punto di non ritorno di Riccardo Arena ilpost.it, 10 giugno 2019 È evidente che questo Csm è giunto a un punto di non ritorno. Come è evidente che è imminente il suo scioglimento. E il motivo è semplice. Un imbarazzante conflitto di interessi e un altrettanto imbarazzante crollo della credibilità. Una vicenda complessa quella che ha travolto il Csm, che però trova la sua sintesi in due parole: ipocrisia e degenerazione. L’ipocrisia. In queste settimane si è fatto un gran parlare di “toghe sporche”, di “guerra tra correnti” e di “mercato delle toghe”. Parole ipocrite perché dimenticano il passato anche recente del Csm. Parole che dimenticano, volendo dimenticare, come ha funzionato fino a oggi l’organo di autogoverno della magistratura e su quali logiche correntizie si basavano (e si basano) le proprie decisioni. Si dimentica la vergognosa condotta del Csm contro Giovanni Falcone, si dimenticano le lettere del “Corvo” e si dimentica il recente duello senza senso tra Greco e Melillo per la nomina a capo della Procura di Milano. Morale: in modo ipocrita, oggi si urla allo scandalo quando è noto che da anni il Csm non sempre opera per il bene comune, selezionando il migliore tra i magistrati, ma spesso opera per assecondare misteriosi accordi tra correnti. Non prendiamoci in giro. Nulla di nuovo sotto il sole. La degenerazione. A ben vedere il fatto veramente nuovo di questa triste vicenda, non è da ricercare in una questione morale o nell’esistenza di un’ipotetica associazione segreta tra politici e magistrati. E questo perché nel Csm la concertazione tra politici e magistrati, segreta o no, morale o immorale, c’è sempre stata. Il fatto nuovo è la degenerazione delle condotte. Il fatto nuovo è che un magistrato indagato e un politico imputato, Palamara e Lotti, inseguono un interesse personale cercando di screditare i Pm che li stanno accusando. Giuseppe Pignatone e soprattutto Paolo Ielo. Un discredito architettato a fini personali, e non per favorire le correnti, che viene attuato attraverso la presentazione di un esposto firmato da un altro magistrato: il pm di Roma Stefano Fava. Dunque, non l’accordo tra correnti per la nomina del nuovo capo della procura di Roma, ma l’accordo tra due indagati per mandare via Paolo Ielo dalla Procura capitolina. Una degenerazione delle condotte che ha travolto inevitabilmente il Csm e che ha messo in luce tutta la patologia della logica correntizia. Csm che ora di fatto si trova a un punto di non ritorno e su cui incombe l’imminente scioglimento. Restano due domande: che senso ha sciogliere il Csm se non si cambia radicalmente anche la legge che determina l’elezione dei suoi membri? In che modo si potrà mai arginare il patologico ruolo delle correnti, se non con un sorteggio che segua criteri di buon senso? Sempre più donne indossano la toga. Ma sono pagate meno di Luisa Adani Corriere della Sera, 10 giugno 2019 Il ritratto della professione secondo il Censis: note dolenti sul reddito (uguale a 20 anni fa), anche per i giovani. Le nuove norme. Avvocati, il vecchio fascino (ormai discreto) di una professione che si contrae nei numeri, si ridimensiona nettamente nei guadagni, cambia pelle e prospettive; una professione in cui le donne sono sempre di più (se il trend prosegue sorpasseranno presto i colleghi), ma guadagnano il 6o% in meno; e dove i giovani faticano a raggiungere una serenità economica. È l’identikit che emerge dal rapporto 2018 commissionato dalla Cassa forense al Censis. Gli iscritti all’Ordine nel 2017 erano 242.796, con un decremento rispetto all’anno precedente dello 0,45%, ma il trend è continuo da vent’anni. Nel 47,8% dei casi si tratta di avvocate. In pratica abbiamo 4 avvocati ogni mille abitanti ma con un’ampia forbice: si va da 1,4 in Val d’Aosta a 6,8 in Calabria. Note dolenti sui redditi. Negli anni i guadagni si sono progressivamente ridotti, tanto che il reddito medio degli iscritti alla Cassa Forense del 2015 è praticamente uguale a quello di vent’anni fa: il potere d’acquisto in vent’anni è quindi diminuito del 29%. La situazione risulta solo un po’ meno drammatica se si considera la totalità degli iscritti all’Albo. In questo caso la perdita stimata del potere di acquisto scende al 15%. Secondo i dati della Cassa nazionale, il reddito a inizio carriera è intorno ai diecimila euro all’anno, il dato medio indipendentemente dall’età è di 38.437 euro, il più alto è in Lombardia (67.382 euro in media) il più basso in Calabria (17.587 euro). La carriera economica non è rapida e infatti il reddito superiore alla media si raggiunge a 40 anni, 55 se si è una donna. Il punto di svolta arriva, indipendentemente dal sesso, a 45 anni, momento in cui si passa dai 29 mila euro all’anno ai 40 mila euro. Cause penali contro i medici: prosciolti nel 95% dei casi di Margherita De Bac Corriere della Sera, 10 giugno 2019 Oltre 35.600 nuove azioni legali all’anno vengono intentate contro medici e strutture sanitarie. Circa 300 mila sono ferme nei tribunali di tutta Italia. Il 95 per cento di quelle che si concludono nel penale e il 70 per cento del civile finiscono col proscioglimento. Oltre 35.600 nuove azioni legali all’anno vengono intentate contro medici e strutture sanitarie. Circa 300 mila sono ferme nei tribunali di tutta Italia. Il 95 per cento di quelle che si concludono nel penale e il 70 per cento del civile finiscono col proscioglimento. I più tartassati dai contenziosi sono i chirurghi col 45 per cento dei sinistri. La denuncia viene rilanciata a Matera dove si apre oggi il congresso nazionale dell’Acoi, l’associazione dei chirurghi ospedalieri, sotto la presidenza di Piero Marini. Un fenomeno alimentato dalle tante forme di pubblicità di studi legali che cercano di attrarre cittadini scontenti della sanità per presunti errori subiti. Quasi sempre le cause si chiudono però riconoscendo al medico una condotta diligente e il problema è che nel frattempo la vicenda giudiziaria condiziona l’attività del professionista che attua la strategia della medicina difensiva. Vale a dire, una richiesta maggiore di accertamenti preventivi e a volte il rifiuto di operare se l’intervento comporta rischi ritenuti eccessivi. Acoi alza la voce: “Chiediamo al governo di intervenire per tutelare le professioni sanitarie. Va regolamentata la disciplina che ha creato la fabbrica del contenzioso. No alle pubblicità ingannevoli che gettano un’ombra sul nostro lavoro inducendo i pazienti a diffidare del nostro operato. Il rapporto di guerriglia tra cittadini e chirurghi ci impedisce di entrare in sala operatoria con serenità». La medicina difensiva costa al sistema sanitario italiano un miliardo di euro al mese. Il Ministero perde il ricorso contro il boss al carcere duro casertanews.it, 10 giugno 2019 Domenico Belforte può usufruire di due ore d’aria al giorno e di un’ora di socialità con gli altri detenuti. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione respingendo il ricorso presentato dal Ministero della Giustizia contro il boss del clan di Marcianise detenuto al carcere duro. Il Ministero aveva presentato ricorso contro il provvedimento del tribunale di Sorveglianza di Sassari che aveva “aumentato” il periodo di uscita dalla cella del capoclan, in particolare relativamente all’ora di socialità. “La permanenza del detenuto all’aria aperta - si legge nelle motivazioni della Cassazione rese note pochi giorni fa - risponde ad esigenze igienico-sanitarie, mentre lo svolgimento delle attività in comune in ambito detentivo è valorizzata nell’ottica di una tendenziale funzione rieducativa della pena, che non può essere del tutto pretermessa neppure di fronte ai detenuti connotati da allarmante pericolosità sociale, come appunto quelli sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41bis”. Reiterazione reato, il requisito dell’attualità presuppone l’esistenza della prossima occasione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2019 Cassazione – Sezione III penale - Sentenza 12 aprile 2019 n. 16056. In tema di esigenze cautelari è previsto che il pericolo che l’imputato commetta altri delitti deve essere non solo concreto, ma anche attuale; ne deriva che non è più sufficiente ritenere - in termini di certezza o di alta probabilità - che l’imputato torni a delinquere qualora se ne presenti l’occasione, ma è anche necessario, anzitutto, prevedere - negli stessi termini di certezza o di alta probabilità - che all’imputato si presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 16056/2019. Il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, dunque, presuppone la riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, che può però essere apprezzata anche sulla base delle modalità della condotta concretamente tenuta, della personalità dell’indagato, del contesto entro il quale i fatti si sono svolti, nonché su altri elementi obiettivi che consentano la formulazione del giudizio prognostico richiesto, che resta necessariamente tale. Si tratta di affermazione ampiamente convincente in tema di ricostruzione del pericolo di recidiva, alla luce del novum normativo di cui alla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove si richiede che il pericolo che l’imputato commetta altri delitti deve essere non solo concreto, ma anche attuale. In effetti, secondo la lettura più corretta, “l’attualità” dell’esigenza cautelare non costituisce un predicato della sua “concretezza”. Si tratta, infatti, di concetti distinti, legati l’uno (la concretezza) alla capacità a delinquere del reo, l’altro (l’attualità) alla presenza di occasioni prossime al reato, la cui sussistenza, anche se desumibile dai medesimi indici rivelatori (specifiche modalità e circostanze del fatto e personalità dell’indagato o imputato), deve essere autonomamente e separatamente valutata, non risolvendosi il giudizio di concretezza in quella di attualità e viceversa (efficacemente, sezione III, 18 dicembre 2015, Gattuso; nonché, autorevolmente, sezioni Unite, 28 aprile 2016, Lovisi). Detto altrimenti, deve riconoscersi un significato innovativo nelle modifiche introdotte dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, attribuendosi un diverso significato ai parametri della “concretezza” e della “attualità” delle esigenze di cautela. Con la conseguenza che, per ritenere “attuale” il pericolo “concreto” di reiterazione del reato, non è più sufficiente ipotizzare che la persona sottoposta alle indagini/imputata, presentandosene l’occasione, sicuramente (o con elevato grado di probabilità) continuerà a delinquere e/o a commettere gravi reati (in ciò consistendo la “concretezza” del rischio di recidiva), ma è necessario ipotizzare anche la certezza o comunque l’elevata probabilità che l’occasione del delitto si verificherà. Pertanto, il giudizio prognostico non può più fondarsi sul seguente schema logico: “se si presenta l’occasione sicuramente o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini/imputata reitererà il delitto», ma dovrà seguire la seguente, diversa impostazione: “siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere» (cfr. sezione III, 19 maggio 2015, Sancimino). In altri termini, se la concretezza significa esistenza di elementi “concreti” (cioè non meramente congetturali) sulla cui base possa argomentarsi il rischio cautelare, il requisito dell’attualità impone un ulteriore sforzo motivazionale, risultando necessario che il rischio cautelare si basi su riconosciute “occasioni prossime favorevoli», accreditanti, per quanto interessa, il rischio della reiterazione del reato. Qui la Corte opportunamente precisa che l’apprezzamento - nei termini suesposti - del parametro della “attualità” del rischio di recidiva può essere effettuato (e non potrebbe essere altrimenti) anche sulla base delle modalità della condotta concretamente tenuta, della personalità dell’indagato, del contesto entro il quale i fatti si sono svolti, nonché su altri elementi obiettivi che consentano la formulazione del giudizio prognostico richiesto, che resta necessariamente tale (cfr. in termini sezione IV, 23 maggio 2018, Storlazzi, nonché sezione IV, 5 giugno 2018, Fall Baye, dove si è precisato consegue che il giudizio sull’“attualità” non richiede la previsione di una specifica occasione per delinquere - che esula dalle facoltà del giudice - ma una valutazione prognostica fondata su elementi concreti, desunti sia dall’analisi della personalità dell’indagato - valutabile anche attraverso le modalità del fatto per cui si procede-, sia dall’esame delle concrete condizioni di vita di quest’ultimo, tale da indurre a ritenere “probabile” una ricaduta nel delitto “prossima”, anche se non specificamente individuata). Danni da eco-reati, prove anche senza indagini tecniche di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2019 Sono passati quattro anni dall’entrata in vigore degli “eco-reati”, introdotti nel Codice penale dalla legge 68/2015. La Cassazione, in questo periodo, ne ha specificato alcuni punti essenziali, la cui conoscenza è di aiuto per gli operatori del settore. Il primo è la nozione di “ambiente”: era uno snodo interpretativo indispensabile, perché la legge non aveva previsto una definizione. La Corte ha attribuito all’ambiente un rango primario - qualificandolo come “un bene della vita» - e una dimensione anche culturale: beneficiano perciò del presidio penale sia i beni naturali in senso stretto (acqua, aria, suolo e sottosuolo), sia quelli che, grazie all’intervento dell’uomo, hanno acquisito valore sotto il profilo paesaggistico, storico, artistico, architettonico o archeologico. Ciò significa, ad esempio, che anche l’abusivismo edilizio può ferire l’ambiente, se determina una radicale trasformazione dell’originario assetto del territorio e provoca rischi per l’incolumità a causa della sottovalutazione del pericolo di crollo derivante dal rischio idrogeologico presente sull’area. Inquinamento e disastro - Inquinamento e disastro sono due eventi che ledono l’ambiente in modo progressivo in base all’intensificarsi del danno: il disastro scatta se la compromissione dell’ambiente, da significativa, ma reversibile, diventa irreversibile, oppure rimediabile solo a condizione di interventi, e costi, eccezionali. Non è un discrimine da poco, perché le pene si alzano sensibilmente: nel caso di inquinamento la reclusione va da 2 a 6 anni, mentre per il disastro sale da 5 a 15 anni. Le sanzioni possono diminuire fino a due terzi solo se la condotta è colposa, cioè involontaria. In quest’ottica, va considerato che la Cassazione ha stabilito che la prova del danno ambientale non deve necessariamente fondarsi su indagini tecniche e che la nozione di contaminazione prevista dal Codice dell’ambiente (decreto legislativo 152/2006) non equivale all’evento del delitto di inquinamento, che si può dire integrato per il solo fatto di un deterioramento significativo e misurabile della matrice ambientale. Approccio severo - Si tratta di un approccio severo, che va limitato alla fase cautelare in presenza di fenomeni di eccezionale gravità, come può essere la scoperta in flagranza di un sito agricolo, ove scorrono acque usate anche a fini domestici, ove vengono occultati rifiuti pericolosi: tuttavia, nel processo non si può prescindere da prove tecniche per risalire alle cause della presenza delle sostanze inquinanti, ai loro effetti sull’ambiente, alle responsabilità individuali e al grado della colpevolezza di ciascuno degli imputati (ciò vale soprattutto in presenza di fattori inquinanti concorrenti, nel tempo e nello spazio, come potrebbe essere l’avvicendarsi di attività industriali sopra e nelle adiacenze di un sito inquinato). Entrambi i reati tutelano l’ambiente in modo esaustivo, perché ne puniscono sia l’effettiva lesione, sia la messa in pericolo: sono indifferenti le modalità della condotta, che può consistere anche nella violazione di norme extra-penali che non riguardano direttamente l’ambiente. Così, ad esempio, è stato stabilito che la pesca di “cetrioli di mare”, di per sé attività lecita, se effettuata in modo massiccio con mezzi vietati, può determinare una compromissione dell’ambiente marino, dimostrata dalla scomparsa dei pesci che se ne nutrivano. In un contesto legislativo estremamente severo - che va a incidere anche sulle persone giuridiche nel cui interesse o vantaggio gli eco-reati vengono commessi, grazie al decreto legislativo 231/2001, con salate sanzioni pecuniarie e afflittive misure interdittive - il legislatore ha valorizzato le attività di ripristino (il “ravvedimento operoso”), che consentono una diminuzione della pena fino a due terzi. Attenzione però: perché scatti l’attenuante speciale, l’incolpato deve sanare il danno in modo esattamente conforme agli obblighi impostigli. Per eseguirli, potrà ottenere una sospensione del processo fino a tre anni, in cui il decorso della prescrizione del reato rimarrà congelato. Cagliari: diritto allo studio anche in carcere, il Rettore visita Uta unicaradio.it, 10 giugno 2019 Inizia con una lezione del Rettore Maria Del Zompo una serie di seminari organizzati all’interno della casa circondariale di Uta dal Polo Universitario Penitenziario di Cagliari dedicati al diritto allo studio nelle carceri. È stata una lezione di Maria Del Zompo, Rettore dell’Università di Cagliari, ad aprire il ciclo di seminari organizzati nell’ambito del Polo Universitario Penitenziario di Cagliari, che vede l’Ateneo del capoluogo sardo impegnato nella promozione di attività di formazione universitaria in carcere per garantire il diritto allo studio di condannati e condannate in regime di privazione della libertà. Nella lezione svolta all’interno del carcere di Uta davanti a una trentina di detenuti, la prof.ssa Del Zompo ha affrontato il tema “Musica, emozioni e cervello”: presenti il Procuratore della Repubblica di Cagliari Maria Pelagatti, il Provveditore regionale delle carceri della Sardegna Maurizio Veneziano, il magistrato di Sorveglianza Ornella Anedda, il direttore della Casa Circondariale Marco Porcu, il comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria Andrea Lubello, alcuni docenti dell’Ateneo (che terranno i successivi seminari) e un gruppo di studentesse e studenti e del corso di laurea magistrale in Psicologia dello Sviluppo e dei Processi Socio-lavorativi. L’iniziativa - che proseguirà nelle prossime settimane con altri seminari che vedranno alternarsi docenti e personale dell’Ateneo cagliaritano - rientra nelle attività dei Poli Universitari Penitenziari (Pup), istituiti dalla Crui nel 2018 e coordinati dalla Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp). Sono attualmente 24 gli Atenei coinvolti e livello nazionale, con attività didattiche e formative in poco meno di 50 Istituti penitenziari e sono circa 600 gli studenti e studentesse iscritti in tutta Italia. “Realizzare questa iniziativa è per noi un valore importante - ha detto Maria Del Zompo rivolta ai detenuti - Siamo sensibili alla vostra situazione e grazie all’impegno dei nostri docenti e dell’amministrazione penitenziaria siamo riusciti ad organizzare un fitto calendario di seminari: l’inclusione è una delle parole chiave del nostro Piano strategico. Ricordatevi che il cervello stimolato nel modo corretto può darci sempre un aiuto”. Quindi la lezione, tra dopamina, sinapsi e neurotrasmettitori, al termine della quale è cominciato un lungo dialogo con i detenuti che hanno rivolto alla professoressa numerose domande: i meccanismi della mente, con i sogni e i ricordi prima di tutto, sono stati i temi più gettonati nella conversazione. Il Rettore ha insistito in particolare sul ruolo svolto dalla musica nella gestione delle emozioni: “La musica ci aiuta anche a interagire con maggiore successo e migliora l’integrazione e la coesione tra le persone - ha aggiunto - potete utilizzarla qui e quando, spero presto, uscirete da qui”. Ad un anno dalla sua istituzione, il Polo di Cagliari, in stretta collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, ha al suo attivo 15 persone iscritte nei corsi di laurea: da ieri si svolgerà all’interno del carcere di Uta e Massama una serie di seminari interdisciplinari. “È un progetto pilota che parte da Cagliari per essere proposto in tutta Italia - commenta Maurizio Veneziano, Provveditore regionale delle carceri della Sardegna - Questa iniziativa ci permette di avvicinare il mondo esterno ai detenuti per realizzare la finalità dell’inclusione sociale: per ottenere ciò, infatti, occorre che quello della pena non sia un tempo sospeso, ma un periodo utile per offrire alla persona le stesse possibilità che avrebbe fuori. Attività come questa possono ridurre anche il rischio di recidiva”. “Garantiamo il diritto allo studio anche delle persone private della libertà - dice Cristina Cabras, la docente delegata del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario, che coordina il progetto - È un compito preciso che ci siamo dati: stimolare la vostra capacità di apprendere, aumentare l’interesse verso la conoscenza, favorire un uso proficuo della pena. Per seguire i nostri corsi conta essere curiosi, esercitare il proprio diritto di cittadinanza e promuovere relazioni positive”. Per favorire la partecipazione e l’interesse allo studio negli istituti penitenziari di Uta e Massama il PUP ha quindi organizzato un ciclo di seminari universitari grazie all’impegno di docenti e funzionari dell’organizzazione. I temi proposti durante l’anno riguarderanno l’ambiente, le scoperte scientifiche, il sistema globale, la cittadinanza attiva, storie di vita, la salute. Il progetto PUP-UniCa si propone inoltre di sperimentare per la prima volta in Italia l’erogazione dei corsi e-learning, già erogati dall’Ateneo, negli istituti di Uta e Massama, opportunità che ieri è stata illustrata ai detenuti da Gianni Fenu, docente di Informatica e direttore del Centro e-learning dell’Ateneo. Ragusa: i detenuti potranno conseguire diploma di istruzione secondaria superiore orizzontescuola.it, 10 giugno 2019 Dal nuovo anno scolastico 2019/20 i detenuti della Casa Circondariale di Ragusa potranno accedere al Percorso di 2° livello, indirizzo enogastronomico (Ipen), per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria di 2° grado. È quanto è riuscito a realizzare l’Ufficio Scolastico Provinciale dell’Ambito Territoriale della Provincia di Ragusa attraverso un preciso investimento delle dotazioni organiche destinate al territorio ibleo. “È il frutto di un lavoro sinergico, al quale lavoriamo da quasi due anni, afferma la Dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Ragusa, Dott.ssa Melina Bianco, d’intesa con l’Assessorato Regionale di Istruzione e Formazione Professionale, l’USR Sicilia, il Ministero della Giustizia nella persona della Direttrice della Casa Circondariale di Ragusa, Dott.ssa Giovanna Maltese, e le due Dirigenti scolastiche del Cpia e dell’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore G. Ferraris di Ragusa, Dott.sse Anna Caratozzolo e Giovanna Piccitto”. Dopo la riforma dei Centri Territoriali Permanenti (Ctp), il percorso di 2° livello, cosi come previsto dal nuovo assetto ordinamentale in materia di istruzione degli adulti, e delineato nel Dpr 29 ottobre 2012, n. 263, si articola nei seguenti tre periodi didattici, fino al conseguimento del diploma di istruzione professionale: a) primo periodo didattico, finalizzato all’acquisizione della certificazione necessaria per l’ammissione al secondo biennio; b) secondo periodo didattico, finalizzato all’acquisizione della certificazione necessaria per l’ammissione all’ultimo anno del percorso di studi; c) terzo periodo didattico per il conseguimento del diploma di istruzione professionale. “È un risultato che ci riempie di orgoglio, continua la Dott.ssa Bianco, perché se è vero che l’istruzione è un diritto fondamentale e costituzionalmente garantito, ancor di più lo diventa presso gli Istituti di prevenzione e di pena. In questi luoghi diventa diritto alla rieducazione, al reinserimento sociale, culturale e lavorativo. Diventa prezioso antidoto contro il rischio di recidiva e dunque importante investimento per la sicurezza di tutta la collettività”. Le attività didattiche prenderanno il via dal nuovo anno scolastico 2019/20 secondo Piani di Studio Personalizzati, articolati in modelli didattici innovativi, modulari e laboratoriali, finalizzati all’acquisizione del diploma e di specifiche competenze e certificazioni, spendibili al termine del periodo detentivo. Roma: apre l’Osteria degli Uccelli in gabbia, il ristorante del carcere di Rebibbia di Livia Montagnoli gamberorosso.it, 10 giugno 2019 Con esperimenti ben avviati a Milano e Torino, la ristorazione in carcere arriva anche a Roma, tra le mura di Rebibbia, dove da tempo operano diverse realtà di produzione gastronomica. Si chiama Osteria degli Uccelli in gabbia, apre solo il venerdì sera e in cucina lavorano i detenuti di Men at Work. Tra gli esperimenti più celebri e duraturi, InGalera è il progetto che in Italia ha dato una forma concreta alla ristorazione in carcere. E dal 2015, tra le mura dell’Istituto penitenziario di Bollate, l’attività va avanti grazie all’impegno della Cooperativa sociale ABC, che opera all’intorno del carcere per favorire la riabilitazione professionale e sociale dei detenuti. Previa prenotazione, il ristorante accoglie gli ospiti a pranzo e cena: uno chef e un maître professionisti seguono i detenuti impegnati in sala e cucina, con l’obiettivo di fornire un’esperienza gastronomica soddisfacente in un contesto decisamente speciale. Analogamente, alle Vallette di Torino, dal 2016 è operativo il ristorante Liberamensa, che serve cibo agli ospiti in arrivo dall’esterno in collaborazione con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo: ingredienti del territorio, pane e pasta prodotti nei laboratori del carcere, menu a prezzo fisso a 30 euro, apertura solo serale, il venerdì e sabato. Ma del circuito che impiega i detenuti fanno parte anche la Caffetteria del Tribunale in attività dall’inizio del 2019, il bar del Museo Egizio e la tavola calda di corso Giulio Cesare 208. Due progetti ben avviati, nonostante le difficoltà di fare impresa in carcere per le limitazioni e gli obblighi cui sono sottoposti i detenuti-lavoratori, e la necessità di far tornare i conti a fronte di attività che ancora stentano a confrontarsi col mercato reale (si legga a questo proposito l’intervista al provveditore della Lombardia Luigi Pagano pubblicata da Valori.it). A Roma, però, c’è un altro carcere illuminato che sulla formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti, specie nel mondo della produzione di cibo, investe da anni. Siamo a Rebibbia, dove dal 2015 opera il caseificio di Cibo Agricolo Libero, coordinato da Vincenzo Mancino. Ma tra le mura del carcere romano si produce anche caffè (nella torrefazione del Caffè Galeotto) e si coltiva l’orto. Un ristorante è quel che mancava per stabilire un contatto più evidente col mondo esterno. Ma da qualche giorno, nell’Area Verde del carcere prende forma, ogni venerdì sera, l’Osteria degli Uccelli in gabbia. Il nome - come spesso accade per le produzioni e le attività di economia carceraria, che certo non difettano di autoironia - è un omaggio al nome storico attribuito dalla guida Osterie Romane (1937) alle osterie che sorgevano nelle vicinanze del carcere di Regina Coeli (nel centro della Capitale), dove chi andava in visita acquistava anche il pasto da portare ai detenuti. Il progetto nasce grazie all’impegno di Men at Work, cooperativa con più di 15 anni di esperienza nel settore dell’inclusione sociale dei detenuti. All’Osteria si potrà cenare ogni venerdì, previa prenotazione da effettuare online (o telefonicamente) entro il martedì precedente alla cena. Al momento della prenotazione si dovrà comunicare nome, cognome, luogo e data di nascita, numero di telefono e pagare la quota di partecipazione di 42 euro (che finanzierà le attività della cooperativa). Si cena all’aperto, nel cortile interno del complesso, e per questo l’esperimento si protrarrà per i mesi di giugno e luglio, con la speranza che l’esperienza possa diventare permanente in futuro. In cucina e al servizio opereranno i detenuti dipendenti di Men at Work: menu fisso, piatti di ispirazione romana ma non solo, prodotti in arrivo dal circuito penitenziario. Dal menu in programma per il 14 giugno, citiamo: ovo fritto, spinaci e primosale di pecora; il tortino di panzanella con bufala, salsa di basilico e granella di taggiasche; la lasagnetta di gricia al forno; “er pollo de Rebibbia” con peperoni, il tiramisù alle fragole con meringa. Caffè Galeotto e pane (del panificio di Lariano della Terza Casa). Ingresso da via Raffaele Majetti 70: appuntamento alle 19.30 per sbrigare le formalità di rito (non sono ammessi cellulari e macchine fotografiche, da depositare all’entrata), inizio della cena alle 20 (e fino alle 22.30). Milano: nel ristorante “InGalera” di Bollate il menù parla di speranza e inclusione a cura di Maria Corbi La Stampa, 10 giugno 2019 Maria buongiorno, sono la responsabile della Cooperativa sociale “Abc» la Sapienza in tavola e da 15 anni gestisco con detenuti in esecuzione di pena nel carcere di Bollate un catering per la società esterna e dal 2015 il Ristorante “InGalera», primo in Italia dentro una Casa di Reclusione aperto al pubblico. Ieri sera tra gli ospiti una coppia che ci ha scelto per festeggiare il suo 25° anno di matrimonio; fin qui nulla di eccezionale se non fosse che “Lui», ha lavorato con noi per 5 anni durante l’esecuzione di pena. Difficile sintetizzare in poche righe i percorsi della famiglia che è “fuori» e di chi è “dentro»; per rispetto all’anonimato chiamerò lui Valentino e lei Valentina. Valentino ha passato molti anni in diverse carceri, recidivando più volte e Valentina stanca di questa vita nell’illegalità decise di prendere le distanze da lui. Due figlie cresciute con fatica e con estrema dignità e coraggio, peraltro sempre molto amate da Valentino con cui comunque hanno mantenuto il rapporto attraverso i colloqui. Arrivato al Carcere di Bollate, dopo anni di botte date e prese, Valentino decide che questa potrebbe essere l’occasione per farla finita con la cocaina e le rapine, aiutato dalla sua forza di volontà, dagli operatori e specialisti e dalla possibilità di lavoro vero con la coop “Abc». Impara a cucinare per grossi numeri, impara a preparare la pasticceria e, nel momento in cui il Magistrato di Sorveglianza lo autorizza al lavoro esterno, esce con la cooperativa per allestire catering, grossi numeri da ristorare ad alto profilo in sale convegno, ville castelli ed ogni mese, mandare a casa lo stipendio. La voglia di dimostrare che questa volta sarà per sempre, la fatica di acquisire la cultura del lavoro (“…Signora Silvia, con lei è come fare il 41bis…»). Questo il prezzo ma il premio del grande impegno è tornare alla vita, fuori dalla prigione, accolto dalla famiglia.. E io condivido con ognuno di loro la sfida, la speranza, la trepidazione perché la società punisce “per sempre» chi è stato in carcere. Ecco allora la funzione di “InGalera», l’impegno in serate “Ristorante cultura». Il 20 giugno, organizziamo la presentazione del libro “Mariti», 27 storie di donne scritte da 27 donne, per raccontare il carcere, per parlare di inclusione sociale. Per dimostrare alla Società che si può fare, che noi ci proviamo. Condivido con te ancora la dolcezza della cena da noi di Valentino e Valentina: abbiamo voluto premiarli con un bouquet di fiori. Valentina, donna della resistenza nell’amore,madre coraggio. Valentino, forte nelle promesse, esempio per i compagni. Mi piace ricordare, quale stimolo a continuare, che a Bollate la recidiva scende sotto il 17% quando in Italia è il 70%. Noi ci proviamo. Silvia Cara Silvia quei numeri che metti alla fine della tua lettera sono la dimostrazione di come la vera strada per combattere la delinquenza passi per l’inclusione, la formazione, il lavoro, non certo per un paese far west dove la gente si fa giustizia da sola o dove si ama ripetere “chiuderli in gabbia e buttare la chiave». Se il carcere di Bollate ha solo il 17 per cento di recidive contro il 70 per cento nazionale significa che qui viene applicato il dettato costituzionale che perla di una pena rieducativa e non solo punitiva. Il 20 giugno nel carcere di Bollate al ristorante “InGalera», il “tuo», si confronteranno ancora una volta due mondi, quello “dentro» e il fuori, una serata con cena e presentazione di un libro per aiutare il tuo progetto, ma anche per aiutare tutti noi a capire, a trovare la strada se non del perdono, se non della comprensione, almeno della razionalità e dell’umanità. Io ci sarò e spero saremo in tanti. Chi volesse prenotare lo può fare mandando una mail a ristoranteingalerabollate@gmail.com. Vedere con i propri occhi, ascoltare le storie virtuose che nascono dal “male» può aiutare tutti noi a cambiare atteggiamento verso un tema così importante. Mettere un uomo in cattività per punirlo e umiliarlo senza dargli possibilità di rinascita equivale a distruggerlo ma soprattutto a peggiorarlo. La storia dei tuoi Valentino e Valentina e del loro amore ci insegna invece che lasciare aperte le sbarre e la speranza può fare il miracolo. Regole, responsabilizzazione, educazione, dignità. È questa la ricetta che può aiutare chi ha sbagliato a non farlo di nuovo. Padova: per celebrare la Pentecoste il Due Palazzi apre le porte 150 ospiti con i detenuti di don Maro Pozza Il Mattino di Padova, 10 giugno 2019 Sono arrivati da tante parti d’Italia raccogliendo una proposta lanciata dalla parrocchia del carcere e dalla Difesa del Popolo. Il ferro è rigido: “Santo Spirito, piega ciò che è rigido». Il cemento è gelato: “Scalda ciò che è gelido». Le storie, dietro quelle mura, son state deformate dal male: “Drizza ciò che è sviato». Il carcere, nell’urbanistica di una città, staziona ai margini, chi sbaglia è mandato a soffrire fuori dalle mura: somiglia più ad un parcheggio incustodito che ad un paese cordiale, il male ha un’altezzosità tale da spaventare i passanti. A sentire la massa parlante, tutti dicono di conoscere così bene quel posto da giurare che quelli meritano di marcire là: certi cervelli sono così pigri da prendere in affitto pensieri già pensati, aggrappandosi come ostriche al primo affittavolo di turno. Altri accettano la sfida: la vita è un incontro di scherma, è importante sentire la lama. Se non s’allena, il cervello s’atrofizza. Quasi centocinquanta persone ieri, giusto nel giorno della Pentecoste, han varcato le sbarre del carcere “Due Palazzi” di Padova. L’occasione era ghiotta: siccome son tutti d’accordo a giurare, in teoria, che “Dio-è-amore”, entriamo per vederlo all’opera, guerreggiando con la Grazia di Dio, che a guardarla da fuori non è sempre comprensibile. Sono arrivati da tante parti dell’Italia, raccogliendo una proposta ideata dalla parrocchia del carcere, alla Direzione e al giornale La Difesa del Popolo: un’intera domenica - quella dello Spirito Santo - da passare fianco a fianco con persone detenute. I racconti in viva voce, il Pane spezzato, il pasto condiviso: “Passo da vent’anni qui davanti - dice un ospite all’ingresso: mi ha sempre fatto venire il vomito. Oggi mi sono detto: vado a vedere chi c’è là dentro». Eh già: la teoria verrà abbandonata se produce più oscurità che luce. I pass, le sbarre, i cancelli. Gli agenti di polizia, il direttore, i volontari. Il ferro rumoroso, il cemento grigio, il garrito dei gabbiani. Entrano a passi lenti: più che entrare, scendono nel sottoscala buio della società, per visitare gli inferi. Poi, d’improvviso, li han davanti, faccia a faccia: “Ero una bestia, facevo sanguinare anche la mia ombra. Sono rimasto intrappolato nella mia libertà»: è una delle persone detenute a parlare. Gli sguardi, nell’auditorium, sono tutti fissati su quei volti-da-galera: “Mi impressiona la dignità con cui questi dicono la verità dei loro sbagli - ammette uno mentre gusta la bontà genuina del pranzo cucinato dalla cooperativa Work Crossing - spiegano i fatti senza vergogna. Gliel’ho detto: “Il mio rispetto per te oggi è cresciuto». A parlare è tutta gente che ha scaricato inferni di piombo. Poi, dentro, l’agguato esile di un incontro: con l’uomo, con il bene, con se stessi: “In carcere ho incontrato me stesso. Ho scoperto di valere assai». Prima il suo unico linguaggio era la provocazione. Ora non più, o molto poco: d’altronde prima che ti capiti, non puoi mai sapere come reagirai. A messa s’invoca lo Spirito: “Vieni, scendi». Piega, scalda, drizza (Amen). Poi, “buon appetito! “: seduti tutti assieme a tavola, a dilungarsi nei racconti. Si è innescata una trasfusione di storie, la realtà ha battuto il sospetto dieci a zero. Finito tutto, i più escono, gli altri restano: i peccati van saldati fino all’ultimo. Sul portone uno s’avvicina: “Sono sottosopra: ho capito di vivere molto più vicino al carcere di quello che immaginavo». È poco? Ognuno, poi, è rincasato. Fare-pentecoste, ieri, è stato accettare di fare un trasloco in carcere per poi mettere a fuoco meglio la vita fuori. E imbarazzarsi nel noleggiare pensieri già pensati. Dentro o fuori poco cambia: non uccide il peccato, ma la disperazione. Verona: gli studenti dell’Itc “Marconi” in visita al carcere di Bollate veronasettegiorni.it, 10 giugno 2019 Un progetto che rientra nel percorso di “Cittadinanza e costituzione” ha consentito loro di scoprire la realtà del penitenziario ed entrare in contatto con i sentimenti dei detenuti. Porte che si aprono invece di chiudersi. Sembra una banalità ma in un luogo come il carcere non è un gesto così scontato. Ecco perché il progetto dell’Istituto Tecnico Industriale “Guglielmo Marconi” di Verona ha una valenza così alta: perché ha permesso da un lato agli studenti di prendere contatto con una realtà quasi impenetrabile e troppo poco conosciuta da chi si trova al di fuori, dall’altra ha consentito ai carcerati di far sentire la loro voce e sentire che vi è speranza dopo la pena. La visita, voluta dal prof. Gaetano Scognamiglio e che rientra nel progetto “Io nel mondo”, è avvenuta lo scorso giovedì, 6 giugno, ed ha visto come protagonisti gli studenti di una classe quinta dell’istituto veronese. I giovani, che precedentemente avevano fatto un percorso con la dott.ssa Lucia Marchesini, sono stati accompagnati all’interno del carcere da due detenuti che li hanno guidati all’interno dei vari “bracci” del penitenziario, dove i detenuti sono divisi per tipologia di reati ma anche per provenienza etnica e fede religiosa, facendo capire quanto sia complessa la convivenza e l’integrazione in un luogo come quello. I detenuti hanno spiegato come funziona la vita del carcere e quanto sia lungo e difficoltoso il percorso del reinserimento nella vita di tutti i giorni; proprio per questo esistono alcuni progetti, che vedono coinvolte anche delle cooperative, che mirano a fornire delle competenze nel mondo lavorativo a queste persone. La seconda parte della visita è stata quella più emozionante, perché i detenuti si sono messi a disposizione degli studenti per soddisfare la loro curiosità, raccontare il loro passato ed esternare le proprie emozioni. Così è emerso che è la paura il sentimento più diffuso, perché dopo un percorso riabilitativo che ha fatto cambiare loro ideali e valori e gli ha fatto ripensare a tutti gli errori commessi, ora li attende la scarcerazione e il ritorno alla libertà. Questo vuol dire cercare un mestiere e ottenere la fiducia delle persone, e quindi abbattere il muro del pregiudizio e della diffidenza. Gli studenti hanno terminato l’intensa giornata con il pranzo nel ristorante “inGalera” che, seppur ubicato tra le mura del carcere, in realtà è aperto a tutti e dove all’interno lavorano alcuni detenuti. Questa bella esperienza, che rientra a pieno titolo nel percorso di “Cittadinanza e costituzione”, è stata poi descritta da ognuno degli studenti in una relazione inviata ai responsabili del carcere. Foggia: teatro, poesia e musica, tante emozioni dietro le sbarre statoquotidiano.it, 10 giugno 2019 Detenuti protagonisti con spettacolo teatrale, declamazione di poesie ed esibizioni musicali. In Via delle Casermette, momento toccante con le famiglie. Una giornata all’insegna degli affetti e del talento. Giovedì scorso il Cpia1, il Centro di Istruzione Provinciale per Adulti di Foggia, ha concluso le attività scolastiche nelle Case Circondariali di Foggia e Lucera con due importanti appuntamenti, che hanno visto la collaborazione dell’Area Comunicazione del Csv Foggia. In Via delle Casermette, alla presenza della responsabile dell’Area Educativa Giovanna Valentini, la dirigente del Cpia1 Antonia Cavallone ha ringraziato “i docenti che quotidianamente si impegnano oltre le sbarre in progetti didattici e non solo, tracciando percorsi che contribuiscono a valorizzare l’aspetto emotivo dei ristretti”. Per l’occasione, gli alunni del primo e del secondo ciclo didattico hanno potuto abbracciare i propri cari, cui hanno dedicato storie e poesie e alcuni brani musicali, diretti dal maestro di musica, Sergio Picucci. Hanno poi condiviso con i presenti un banchetto da loro allestito, ricreando un momento di intimità familiare. “Speriamo che tali iniziative che valorizzano l’affettività, con la collaborazione preziosa della Direzione, dell’Area Educativa e della polizia penitenziaria - sottolinea il docente e volontario Luigi Talienti - possano anche aumentare la sensibilità della cittadinanza a determinate tematiche. Per noi volontari, che ci mettiamo il cuore, è importante che possa realizzarsi appieno il principio riabilitativo della pena. È stato emozionante vedere le famiglie riunite in una mattinata in cui le sbarre sembravano meno vicine: l’atmosfera intima e la serenità hanno riscaldato i cuori dei presenti. L’istruzione in carcere non può nutrirsi solo di libri e interrogazioni: questi momenti sono fondamentali”. Grandi emozioni ha regalato anche l’iniziativa organizzata nel carcere di Lucera, dove gli alunni ristretti hanno portato in scena lo spettacolo di “teatro delle ombre”, rielaborazione scenica del testo “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach sotto la guida del docente Alfonso Rainone. Tra gli applausi dei presenti, altri detenuti si sono poi esibiti in canti con Sergio Picucci. Al termine della manifestazione hanno ringraziato il direttore Valentina Meo Evoli, il funzionario pedagogico Cinzia Conte, il Comandante Daniela Raffaella Occhionero e tutta la polizia penitenziaria, la Dirigente Cavallone e i docenti del Cpia1, donando alcuni manufatti da loro realizzati. Trani (Bat): partita di calcio tra dipendenti della Asl Bt e i detenuti andriaviva.it, 10 giugno 2019 Una partita di calcio tra dipendenti della Asl Bt e i detenuti del carcere di Trani: nel pomeriggio di oggi lunedì 10 giugno a scendere in campo saranno la solidarietà e la promozione di corretti stili di vita. In campo ci sarà la squadra capeggiata da Maurizio De Nuccio (Direttore Area Economico finanziaria) con Giuseppe Solito, Gabriele Maiello, Michele Sarri, Vincenzo Dibenedetto, Federico Ruta, Giandomenico Di Renzo, Cesare Troia, Nicola De Astis, Raffaele Corvasce e Saverio Quacquarelli. La squadra delle Asl Bt ha già partecipato a iniziative di simili: lo scorso 8 maggio i calciatori della azienda sanitaria Bt hanno incontrato in campo gli utenti del Dipartimento di salute mentale, gli utenti inseriti in comunità alloggio della cooperativa Questa Città e gli ospiti della Crap di Minervino Murge. “L’iniziativa era finalizzata alla lotta allo stigma con l’obiettivo di inserire in contesti di “normalità” e divertimento gli ospiti del Dipartimento di salute mentale”, sottolinea Alessandro Delle Donne, Direttore Generale Asl Bt. L’iniziativa in programma oggi è stata da subito accolta favorevolmente dalla direzione della casa circondariale di Trani. “La promozione di corretti stili di vita, il sostegno alle attività di gruppo e di squadra, la valorizzazione di iniziative di solidarietà e divertimento non possono conoscere i confini dei nostri uffici - continua Delle Donne - la collaborazione con il Carcere di Trani, presso cui sosteniamo tutte le attività di assistenza sanitaria, continua anche con iniziative questo genere che possono creare momenti di svago e divertimento”. “A furor di popolo”, di Ennio Amodio. Il “populismo penale” dei gialloverdi recensione di Carmelo Caruso Il Giornale, 10 giugno 2019 Si tratta di un libro che potrebbe diventare presto neologismo d’epoca, l’autobiografia di questo esperimento di governo. È infatti il primo tentativo scientifico, compiuto da un giurista, di dare un nome al programma giudiziario del M5s e della Lega. Ennio Amodio quel nome lo ha trovato ed è “populismo penale». L’autore è un professore emerito di procedura penale all’università di Milano e ha scritto sempre di materie giuridiche, dunque se ha avvertito il bisogno di occuparsi di attualità è solo perché ne ha afferrato la novità o forse la gravità. A pubblicarlo è la casa editrice Donzelli. Il titolo del libro è A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde e arriverà in libreria il 20 giugno. Per Amodio lo scenario penale che si presenta oggi è un vero inedito italiano, “una regressione a modelli di penalità premoderni», perché “si concepisce la sanzione penale come uno strumento di collera e di ritorsione». La giustizia, insomma, come vendetta. L’idea che anima questo governo secondo il professore non è altro che quella del carcere come “medicina sociale» e della difesa legittima ma, attenzione, da intendere come gogna pubblica e furore. È così che si sta rendendo possibile l’impossibile ovvero far sposare un partito che è a favore della difesa privata (la Lega) e che quindi diffida del potere di difesa da parte dello Stato, con un altro (il M5s) che è invece il più tenace sostenitore della repressione di Stato. Da qui, la legge rinominata “spazza-corrotti» che l’autore definisce il trionfo dell’estremismo punitivo, il falò di tutte le conquiste illuministe. È la stessa galera che subito dopo il crollo del ponte di Genova, il premier Giuseppe Conte, un professore di diritto (ma quale?), invocò per i vertici di Autostrade. Non chiese un processo regolare ma un plotone. Come spiega Amodio, con le nuove norme emanate da questo governo, la galera è stata estesa anche per reati contro la pubblica amministrazione, reati dove è possibile applicare regimi alternativi. La ragione, e torna la vendetta, è quasi sadica: infliggere “un assaggio di carcere». Per comporre questa analisi, Amodio è andato a riprendersi il contratto di governo e soprattutto il paragrafo dove si discute di “certezza della pena» prima di giungere alla conclusione che per M5s e Lega l’unica certezza “è quella di colpevolezza». Per il governo gialloverde anche reati come atti osceni in luogo pubblico e ingiuria andrebbero puniti con pene inflessibili: carcere! Una vera e propria passione per i penitenziari, anzi, una vera e propria “ossessione della penalità». Tra le ossessioni c’è naturalmente la prescrizione fatta passare come una scappatoia per i delinquenti. Riformata e allungata, ma senza accorciare la durata dei processi, l’autore dimostra anche la scarsa conoscenza dei fenomeni giudiziari. La prescrizione, modificata dal governo, scatta infatti dopo la sentenza di primo grado ma è nella fase dibattimentale, che la precede, che molti reati si prescrivono. Come dire: inasprire sì, ma ciecamente. In questo nuovo e speciale codice penale, per Amodio, c’è una “litania del dolore» e l’orizzonte promesso non è altro che “una carcerazione di massa». Nel libro manca invece una riflessione che sembra opportuno riportare. È quella sulla Giustizia del ministro Alfonso Bonafede. In un convegno, Bonafede spiegò quale fosse la sua idea di giustizia: “Il percorso della giustizia inizia con le indagini, prosegue nel processo e si conclude con la condanna. Fine». A volte, e speriamo che in questo paese possa accadere ancora, si può concludere anche con l’assoluzione. Russia. Prima vittoria dei sit-in a Mosca per il reporter anti corruzione di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 10 giugno 2019 Scarcerato Ivan Golunov, ora andrà ai domiciliari. È stato accusato di possesso di stupefacenti ma lui si dichiara innocente. Per una volta la mobilitazione di personaggi di spicco del mondo culturale e di centinaia di persone radunate davanti alla sede del tribunale ha funzionato. Il magistrato non ha accolto la richiesta di spedire in carcere il giornalista investigativo Ivan Golunov, che si era fatto molti nemici, e lo ha invece messo agli arresti domiciliari. La questione è naturalmente ancora aperta, ma per i difensori dei diritti umani in Russia si tratta già di una grande vittoria, visto che abitualmente le corti accettano sempre le indicazioni della Procura o del Comitato investigativo e quasi mai danno ragione alla difesa. Il caso di Golunov è subito sembrato assai strano, visto il personaggio e la natura delle accuse. Il trentaseienne corrispondente del giornale online Meduza.io (che, per prudenza, ha sede in Lettonia) era stato fermato mentre si recava a un incontro con una fonte. In passato ha condotto numerose inchieste su fatti di corruzione che coinvolgevano pubblici funzionari. L’ultima serie di articoli riguarda il business dei funerali. Ebbene, Golunov è stato trovato in possesso di quattro grammi di una sostanza stupefacente, il mefedrone (simile alla cocaina). Subito è scattata l’accusa di spaccio. Lui sostiene che la droga gli è stata messa nello zaino dai poliziotti. Il ministero dell’Interno ha diffuso in un primo momento una decina di foto a sostegno delle accuse. Si tratta di immagini nelle quali si vedono varie sostanze stupefacenti oltre a oggetti legati al traffico di droga. Foto, è stato detto, scattate nell’abitazione del giornalista. Poi, però, è uscito fuori che le istantanee riguardavano invece il caso di una banda di trafficanti e non avevano nulla a che fare con l’accusato. Dopo un primo momento di imbarazzo, lo stesso ministero ha ammesso che si trattava di quelle che in gergo vengono definite “immagini di repertorio». Poco dopo il fermo, Golunov ha chiesto, tramite il suo avvocato, che le sue mani venissero sottoposte a un test specifico per vedere se erano entrate in contatto recentemente con la sostanza. Ma il test è stato effettuato solo molte ore dopo. Per ore il giornalista è stato tenuto in stato di fermo e a lungo ammanettato. L’avvocato sostiene che non è stato consentito a nessuno di dargli da bere o da mangiare (lui rifiutava il cibo della polizia per paura che potesse contenere stupefacenti) e che è stato selvaggiamente picchiato. Dopo averlo sottoposto a un esame medico, gli inquirenti hanno scritto in un rapporto che Golunov appariva confuso come se si trovasse in uno stato “provocato da alcol o da altre sostanze». Ma in fondo al rapporto, a mano, il medico che era stato interpellato dagli investigatori ha scritto che lui non aveva riscontrato alcuno stato confusionale. Insomma, una storia abbastanza sospetta, che ha immediatamente scatenato le proteste dell’intero mondo giornalistico indipendente russo. A favore di Golunov, reporter molto stimato, è stato presentato un documento-testimonianza sottoscritto da molte delle firme più note del Paese, a cominciare dai direttori di Eco di Mosca e di Novaya Gazeta, il periodico per il quale lavorava Anna Politkovskaya, la giornalista assassinata nel 2006. Per una volta, il tribunale non ha seguito la strada indicata ufficialmente. Niente permanenza in carcere in attesa di ulteriori indagini e di un processo vero e proprio, ma solo arresti domiciliari. Per due mesi Golunov non potrà usare Internet e non potrà parlare al telefono se non con il suo avvocato e con gli inquirenti. Poi in aula si vedrà se le accuse presentate e le prove trovate reggeranno a un esame pubblico. In Russia, come è noto, il mestiere del giornalista investigativo è assai rischioso. Al di là degli assassinii, ci sono stati negli ultimi tempi diversi casi di accuse basate sull’articolo 228 del codice penale nei confronti di reporter o difensori dei diritti umani (possesso o produzione di narcotici), con condanne da tre a dieci anni di carcere, come ha scritto lo stesso Meduza. Repressione a Khartoum. Quel sogno rubato ai sudanesi di Tahar Ben Jelloun* La Stampa, 10 giugno 2019 Il Sudan è un Paese vasto e sommariamente unificato. Dal dicembre scorso è teatro di proteste popolari che l’11 aprile hanno portato alle dimissioni del presidente Omar al-Bashir, al potere dal 1989. È un dittatore che non ha fatto nulla per la sua nazione, vicino alla Fratellanza Musulmana e al Qatar. Il 16 aprile è stato imprigionato con l’accusa di aver fatto uccidere dei manifestanti. Quella che è stata definita la rivoluzione del popolo sudanese è partita da Atbara, una città nel Nord, il 19 dicembre 2018. C’erano molte speranze. I manifestanti erano ben organizzati e composti. Il 13 aprile, una giunta militare ha preso il potere dopo aver negoziato una transizione pacifica di tre anni con i manifestanti. Negoziati confusi. Promesse da parte dei generali e niente di concreto. Ma i rappresentanti dei partiti, dei sindacati e delle altre associazioni restano pronti e e vigili. Il 25 aprile, oltre un milione di persone era sceso in piazza a Khartoum. Soffiava un’aria da “primavera araba» su questo risveglio di un popolo che da decenni vive l’oppressione della dittatura e delle continue guerre tribali. All’inizio, sia l’esercito sia la polizia davano l’impressione di comprendere la rabbia popolare e in qualche modo di assecondare questo tentativo di rivoluzione. Ma ben presto, probabilmente sotto la pressione dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e degli Emirati, (che hanno inviato all’esercito dei carri armati) hanno usato le armi per disperdere i sempre più numerosi manifestanti. Le donne erano le più battagliere. Questa rabbia si è rapidamente diffusa tra le diverse componenti della società multietnica del Sudan. I cristiani del Sud hanno partecipato a questa “primavera» sapendo di condividerla con gli islamisti che difendono l’applicazione della sharia (duro dogma musulmano). Va ricordato che in Sudan dal 1983 al 2005 c’è stata la guerra civile. Nel 2003, in Darfur, nell’Ovest del Paese, una guerra spietata ha contrapposto le tribù Janjaweed (arabe) a quelle africane non arabofone. All’origine di questi scontri feroci la siccità e la carestia. Le Nazioni Unite hanno contato 300 mila morti e hanno accusato il governo di Khartoum di genocidio. Per questo, Omar al-Bashir è stato condannato dal Tribunale penale internazionale per “crimini contro l’umanità». Dal 2011, il Sud, principalmente cristiano e dove si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi, è stato dichiarato indipendente. La costituzione garantisce la libertà religiosa, ma in realtà l’Islam è religione di Stato e vige la sharia. I cristiani rappresentano il 5% di una popolazione totale di 40 milioni. La contestazione è nata in questo panorama conflittuale. Gli slogan più usati sono “Libertà, pace e giustizia», e “Abbasso». I social network hanno svolto un ruolo importante in questi tentativi di liberare un popolo che aspira a vivere in pace e giustizia. Ma l’esercito e la polizia sono quasi subito venuti meno alla tregua stabilita con i manifestanti e con i loro rappresentanti estremamente ben organizzati. Va detto che, il 18 maggio, gli islamisti hanno denunciato gli accordi tra la giunta e i rappresentanti civili. L’esercito si è sentito affrancato da ogni impegno. Il 3 giugno, per disperdere centinaia di migliaia di manifestanti, non ha usato i gas lacrimogeni ma le armi. Risultato: 101 morti e 326 feriti. Una quarantina di corpi sono stati ripescati nel Nilo, 800 persone sono state arrestate. Ritroviamo in Sudan le stesse dinamiche dell’Egitto, quando, dopo la rivolta è entrato in scena l’esercito e ha posto fine alle proteste sotto la guida del maresciallo Al Sisi, uomo forte sostenuto dagli americani e dagli israeliani. L’Unione Africana ha reagito con prontezza e ha mandato il primo ministro etiope a mediare tra l’esercito e il popolo. L’Ua ha negato qualsiasi legittimità all’attuale governo. E la resistenza popolare continua pacificamente. Anche l’Algeria sta seguendo con interesse e preoccupazione ciò che accade in Sudan. Non sappiamo come si evolverà l’attuale periodo di transizione nelle mani dell’esercito. Finora, ogni venerdì, il popolo algerino manifesta contro il sistema che ha dominato il Paese fin dall’indipendenza. Si teme che l’esempio sudanese venga seguito dall’esercito algerino che, se si arrende, dovrà dar conto del suo operato. *Traduzione di Carla Reschia Hong Kong. Un milione in piazza contro l’ingerenza cinese di Francesco Radicioni La Stampa, 10 giugno 2019 Cortei anti-legge sull’estradizione. “Nessuno sarà più sicuro”. Scontri e feriti. Oltre un milione di persone hanno manifestato ieri per le strade di Hong Kong contro l’emendamento che promette di rendere più semplice la consegna di presunti criminali a quei Paesi - innanzitutto la Cina - che non hanno un accordo di estradizione con l’ex-colonia britannica. Per tutto il pomeriggio un fiume di persone - famiglie con bambini, studenti, storici attivisti democratici - ha sfilato pacificamente in mezzo ai grattacieli di questo importante hub finanziario dell’Asia fin sotto i palazzi del potere di Admiralty. “No extradition to China», “No evil law», hanno scandito lungo i tre chilometri di corteo le centinaia di migliaia di manifestanti, molti dei quali vestiti di bianco. Poi quando è calata la sera la tensione e gli scontri, con gli attivisti che hanno tentato di erigere barricate e bloccare la strada dinanzi al Parlamento di Hong Kong. La polizia ha reagito con la forza. Secondo le stime del Civil Human Rights Front, ieri un hongkonghese su sette era in piazza. Insomma, potrebbe essere stata la più imponente manifestazione a Hong Kong fin da quando nel 1997 l’ex-colonia britannica è tornata sotto il controllo della Cina: più partecipata delle manifestazioni del Movimento degli Ombrelli nell’autunno del 2014, ma anche delle proteste del 2003 che consentirono di fermare l’approvazione di un controverso articolo della legge sulla sicurezza nazionale. Secondo la polizia, la manifestazione ha visto la partecipazione di sole 240mila persone. Mentre nell’ex-colonia britannica crescono le preoccupazioni per la progressiva erosione dell’autonomia e delle libertà garantite dalla formula “un Paese, due sistemi» negoziata nel 1984 tra Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, il timore è che la nuova legge possa esporre Hong Kong a nuove ingerenze politiche di Pechino, compromettere l’indipendenza del sistema legale ereditato dal colonialismo britannico e dare anche un colpo all’ecosistema del business nella città. Le autorità locali hanno detto che l’emendamento è necessario per “colmare un vuoto» normativo dell’attuale legge e per evitare di trasformare la città in un paradiso per i criminali. L’amministrazione di Carrie Lam, la chief executive dell’ex-colonia britannica sostenuta da Pechino, ha assicurato che le richieste di estradizione saranno decise “caso-per-caso», la norma sarà applicata solo “ai crimini più gravi» che prevedono pene di almeno sette anni di carcere, mentre coloro che sono accusati di reati politici o religiosi non saranno estradati. Il governo di Hong Kong ha più volte detto che l’urgenza nell’approvare la legge è dovuta alla necessità di estradare a Taiwan un 20enne hongkonghese accusato di aver lì ucciso la fidanzata. “Non mi fido», ripetevano ieri molti tra i manifestanti. Nonostante le rassicurazioni delle autorità, i critici ritengono che la nuova legge sull’estradizione offrirà a Pechino un nuovo strumento per fare pressioni sulle autorità locali, mentre esporrà gli hongkonghesi al rischio di detenzioni arbitrarie nella Repubblica Popolare e di finire a processo davanti a un tribunale cinese controllato dal Partito Comunista. “Nessuno sarà al sicuro - sostiene Sophie Richardson di Human Rights Watch - inclusi gli attivisti, gli avvocati per i diritti umani, i giornalisti». Già la scorsa settimana centinaia di avvocati hanno organizzato un corteo silenzioso per le strade dell’isola contro una legge che rischia anche di minare lo stato diritto e il sistema legale dell’ex-colonia britannica: uno dei pilastri che rendono Hong Kong una destinazione attraente per gli investimenti stranieri. Così che persino la comunità economica ha espresso la propria contrarietà all’emendamento sull’estradizione, costringendo il governo a cancellare dalla norma una serie di disposizioni sui reati commerciali. Nella serata di ieri un portavoce del governo ha confermato che l’emendamento sarà discusso il 12 giugno dal Consiglio legislativo, anche se ha auspicato che il parlamento di Hong Kong possa “esaminare la legge in modo calmo, ragionevole e rispettoso per aiutare Hong Kong a rimanere una città sicura per i residenti e per il business». Se il movimento democratico Demosisto aveva annunciato di voler rimanere in sit-in davanti al Consiglio legislativo almeno fino al voto sull’emendamento, ieri intorno alla mezzanotte ci sono stati incidenti tra la polizia e alcune centinaia di giovani manifestanti. Come in un déjà-vu di quanto avvenuto cinque anni fa con il Movimento degli Ombrelli, i manifestanti hanno tentato di alzare barricate per bloccare la strada davanti al parlamento di Hong Kong, la polizia ha risposto usando manganelli e con spray urticanti.