Antigone, più suicidi e sovraffollamento: il dramma delle carceri italiane di Marta Rizzo La Repubblica, 9 gennaio 2019 Inoltre carenza di personale e di formazione al lavoro: sono questi i tratti salienti del sistema carcerario nel 2018. Antigone denuncia in un rapporto le vecchie e attualissime emergenze degli istituti penitenziari d’Italia. Nel 2018, sono stati 63 i morti per volontà nelle carceri italiane, 20 volte in più rispetto ai suicidi della vita libera in Italia. Era dal 2011 che non si avvertiva un innalzamento tanto preoccupante. L’Associazione Antigone propone soluzioni auspicabili, informa della crescita del sovraffollamento e denuncia la necessità di adottare al più presto le misure alternative, per almeno 1/3 dei reclusi del Paese (coloro che sono in custodia cautelare). Condizioni carcerarie mortificanti per le persone. Nel corso del 2018 Antigone ha visitato, con i propri osservatori, 86 istituti penitenziari. L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso ma, nei 70 istituti per cui è conclusa, è stato rilevato che, nel 20% dei casi, ci sono celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq ciascuno. Nel 36% degli istituti le celle sono senza acqua calda e, nel 56%, senza doccia. Nel 20% non ci sono spazi per realizzare lavorazioni di tipo industriale e nel 29% non esiste un’area verde in cui incontrare i familiari d’estate. Queste sarebbero tutte cose previste per legge. E poi, ci si ammazza spesso, in carcere. Mille suicidi in carcere in 20 anni. Sono stati 63, di cui 4 nel solo istituto di Poggioreale a Napoli, le morti volontarie nel 2018 in carcere; il primo avvenuto il 14 gennaio nel carcere di Cagliari e l’ultimo il 22 dicembre in quello di Trento. Era dal 2011 che non se ne registravano così tanti. Ogni 900 detenuti presenti, durante il 2018, uno ha deciso di togliersi la vita. I suicidi nelle carceri sono 20 volte superiori a quelli registrati nell’intera popolazione italiana (si uccide 1 persona detenuta su 1.000 a fronte di 1 persona libera su 20.000). “La scelta di togliersi la vita è sempre personalissima - spiega Francesco Morelli, curatore dei dati sui suicidi per Ristretti Orizzonti - Ognuno dei 1000 suicidi che il carcere ha prodotto in 20 anni aveva il “suo motivo”. Chiediamoci invece come mai 999 detenuti su 1.000 sopravvivono alla detenzione. I fattori di resilienza sono vari: l’essere in buone condizioni di salute, avere il sostegno di una famiglia, essere istruiti; trascorrere il “tempo della pena” in ambienti dignitosi e impiegandolo utilmente con lavoro, studio, sport; e poi, la così detta “speranza”, ovvero la percezione di una società includente. Ma quando le carceri sono sovraffollate e fatiscenti e i detenuti passano 20 ore al giorno chiusi in cella i suicidi aumentano”. Le proposte di Antigone per prevenire le morti volontarie. L’Associazione Antigone propone, a queste tragedie, soluzioni ragionevoli, ma ancora non attuate. La prevenzione dei suicidi richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo. Va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitato l’isolamento forzato dal mondo. L’isolamento penitenziario fa male alla salute psichica del detenuto, perché è durante l’isolamento che diventa più frequente suicidarsi. Vanno posti limiti di tempo. Va, infine, abolita la norma obsoleta che prevede l’isolamento diurno per i pluri-ergastolani. Cresce il sovraffollamento, carceri pugliesi le prime. Ma il suicidio, tarlo autolesivo della perdita di libertà, si aggiungono altre importanti segnalazioni dall’Associazione Antigone sullo stato carcerario, come l’insopportabile sovraffollamento. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i detenuti sono tornati a essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Con una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%. Il sovraffollamento è però molto disomogeneo nel paese. Al momento la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 161%, seguita dalla Lombardia con il 137%. Se poi si guarda ai singoli istituti, in molti (Taranto, Brescia, Como) è stata raggiunta o superata la soglia del 200%, numeri non molto diversi da quelli che si registravano ai tempi della condanna della CEDU (L’Italia viene condannata l’8 gennaio 2013 dalla Corte di Strasburgo per le condizioni disumane dei detenuti per sovraffollamento). Carenza di personale, poco lavoro, poca formazione. Inoltre, si continua a registrare carenza di personale carcerario. Negli istituti visitati c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti. Ma in alcuni realtà si arriva a 3,8 detenuti per ogni agente (Reggio Calabria “Arghillà”) o a 206 detenuti per ogni educatore (Taranto). Negli 80 istituti di pena visitati da Antigone nel 2018, lavora per il carcere il 28,9% dei detenuti, mentre solo il 2,5% lavora per datori di lavoro privati. La scuola è presente quasi ovunque, ma la grande assente è la formazione professionale, che coinvolge in media il 4,8% dei detenuti e in 28 (40%) carceri è stata registrata la totale assenza di offerta di formazione professionale. “Migliorare la qualità del detenuto e investire subito nelle misure alternative”. “L’indirizzo dell’attuale governo - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. A oggi, cioè, servirebbero circa 40 nuovi istituti per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti, dal 2014, ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo. Quello che si potrebbe fare subito, è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre, andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente”. Il “cimitero dei vivi”. Le ipocrisie di troppo sul carcere di Maurizio Crippa Il Foglio, 9 gennaio 2019 Si suicidano anche i detenuti, e non solo i secondini. Qualche numero utile per i colleghi di Libero. Poi ci si rasserena, si raschia il barile della pazienza e ci si dice va bene, lascia stare, magari torna utile anche questa. L’importante è che se ne parli. Perché ovviamente c’è anche un po’ di vero nella storia che il carcere è “il cimitero dei vivi” (dai tempi di Filippo Turati non è cambiato poi troppo) per tutti: per chi è rinchiuso ma anche per chi tutti giorni gira il catenaccio. Soprattutto dove le prigioni sono come in questo paese. Però “È meglio essere carcerato che non secondino”, è un titolo da prenderli a calci in culo, sulla prima pagina di un giornale che di carcere si occupa di soltanto come luogo terminale di cui si deve “buttare via la chiave”. Insomma, su Libero. Poi raschiato il barile della pazienza, si può dire che anche sì: è vero che le condizioni in cui questo stato violatore del diritto fa lavorare i suoi uomini grida vendetta: dalle paghe da fame ai turni senza turno over (ah, le risorse) alle condizioni ambientali e psicologiche. E 110 guardie che si sono suicidate dal 2000 sono un fatto. Anche se, e perdonate la contabilità, i suicidi di detenuti sono stati 67 solo nel 2018. E allora un calcio in culo a “meglio essere carcerato”. E soprattutto una domanda: i politici per cui fate il tifo, come il vostro idolo Salvini, o quelli per cui il tifo non lo fate più, siete furbi, come il ministro Guardagalere Bonafede, cosa hanno mai fatto per rendere il carcere un po’ meno “cimitero dei vivi”? Democrazia e disobbedienza, una sfida su cui riflettere di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 9 gennaio 2019 Se tutto si riduce a un interrogativo giuridico, a chi crede nella politica resta l’amaro in bocca. La disobbedienza civile non vale solo nei regimi dispotici. È, anzi, il sale della democrazia. A provocarla è, come ha scritto Hannah Arendt nel 1970, “l’incapacità del governo di funzionare adeguatamente”. I cittadini sono assaliti dal dubbio sulla legittimità di una legge. Non sanno, però, come esprimerlo, perché l’opposizione è affievolita o tace del tutto. Il timore è di restare inascoltati, mentre il governo insiste in quelle iniziative “la cui legalità e costituzionalità suscitano molti interrogativi”. Parlare di “ribellismo” è pretestuoso. Sarebbe comodo “ridurre le minoranze dissidenti a un’accozzaglia di ribelli e traditori”. Ma chi disobbedisce si muove nel quadro dell’autorità costituita. Non viola la legge - la sfida. E la sfida in nome di una legge più alta, di una Costituzione tradita, di una giustizia mancata. Articola il disaccordo pubblicamente e opera per il bene comune, assumendosi la propria responsabilità. Certo che la legge non può giustificare la violazione della legge! Perciò i disobbedienti si muovono ai margini, dove il diritto è chiamato in causa dalla giustizia. Chi avrebbe mai detto che la disobbedienza civile sarebbe salita alla ribalta della cronaca italiana? È avvenuto per iniziativa dei primi cittadini, Orlando a Palermo, de Magistris a Napoli, e altri sindaci che si propongono di sospendere il decreto Salvini. Il che è comprensibile già solo al buon senso: smantellando la rete di accoglienza degli Sprar, e gettando sulla strada migliaia di immigrati, il decreto promette sicurezza, ma produce insicurezza. Un paradossale rovesciamento! Si sono quindi aggiunte alcune Regioni che del decreto chiedono la costituzionalità. È questo passaggio, però, che lascia l’amaro in bocca a chi crede nella politica. Possibile che tutto debba essere ridotto ad un interrogativo giuridico? Dov’è in questo paese un’opposizione capace finalmente di reggere lo scontro? Perché qui la questione è eminentemente politica. La disobbedienza può dare voce a quei tanti cittadini preoccupati per l’introduzione di norme che pregiudicano la convivenza. Si tratta di norme apertamente razziste che discriminano chi non è italiano, che istituzionalizzano il sospetto verso i rifugiati (i “falsi profughi”), legalizzano la fobia per gli stranieri, ufficializzano l’odio per i migranti. A chi è nato altrove viene negata la residenza, e con ciò anche tutti quei diritti che dovrebbero essere intangibili, dalle cure sanitarie all’istruzione. Come se fosse normale lasciare fuori dalla scuola i bambini che avrebbero l’unico torto di essere figli di immigrati; come se fosse normale non prestare cure sanitarie a chi ne ha urgente bisogno, per via della pelle di un altro colore. Ci sono limiti. I cittadini non sono sudditi e non possono accettare supinamente una legge che, prima dei limiti di costituzionalità, ha superato quelli di umanità. Assurdo sarebbe, semmai, obbedire, avallando quella selezione tra cittadini e immigrati che assurge ormai a criterio di governo. Inquietanti sono le parole del vicepremier Di Maio che assicura il reddito di cittadinanza solo per gli italiani - non per gli stranieri, anche qualora rispondessero a tutti i criteri (ad eccezione di qualche “meritevole”). Ma con questi gesti discriminatori si mette a repentaglio la democrazia che vuol dire uguaglianza. Dove la difesa dei diritti umani è considerata eversione, la democrazia rischia il tracollo. Di questo dovremmo preoccuparci, piuttosto che incolpare altri, dalla piccola Malta (437.00 abitanti), all’Europa, capro espiatorio di questo governo. Quale immagine dell’Italia viene fuori dal dominante racconto vittimistico? E ci riconosciamo in quell’immagine? Un paese di grandi navigatori, gente del mare, che per due settimane lascia in balia delle onde 49 naufraghi? Non è mai accaduto. Ben venga allora la disobbedienza per denunciare la bancarotta etica di questa Italia. E chissà quanto profondi saranno i danni, e quanto duraturi! Arendt puntava l’indice contro la meschinità spensierata, la grettezza senza pensieri, diffuse anche nella democrazia, che vorrebbero imporre a ognuno l’incapacità di “pensare mettendosi al posto degli altri”. Proprio in questa facoltà Kant riconosceva la base della convivenza civile. Vista così la disobbedienza è una risposta responsabile. La realtà della Consulta di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 gennaio 2019 Dal decreto sicurezza alle pensioni. A rischio di incostituzionalità le misure spot del governo gialloverde Roma. Una vera mannaia rischia di abbattersi nei prossimi mesi, per mano della Corte costituzionale, su alcune delle principali riforme varate dal governo gialloverde. Una raffica di bocciature per illegittimità costituzionale potrebbe infatti giungere dalla Consulta su alcuni provvedimenti simbolo voluti da Lega e Movimento 5 stelle: decreto sicurezza, reddito di cittadinanza, pensioni, riforma della giustizia, vitalizi. Uno dei fronti più caldi è rappresentato dal decreto Sicurezza, approvato lo scorso ottobre per iniziativa del ministro dell’Interno Matteo Salvini e su cui negli ultimi giorni è esplosa la rivolta di diversi sindaci, in particolare contrari alla norma che impedisce di concedere la residenza ai richiedenti asilo in possesso di un regolare permesso di soggiorno. Questa è solo una delle misure contenute nel decreto su cui si concentrano forti dubbi di legittimità costituzionale, peraltro già avanzati da importanti giuristi durante le audizioni in Parlamento. Oltre alla questione formale (ma comunque rilevante) della possibile assenza del requisito di omogeneità di un decreto legge che in un colpo solo interviene su ambiti tra loro molto diversi (immigrazione, terrorismo, mafia), la Corte presieduta da Giorgio Lattanzi - se investita della questione di legittimità costituzionale - potrebbe farsi sentire su numerose altre previsioni: l’abolizione dei motivi umanitari tra le concessioni di permesso di soggiorno per i richiedenti asilo, l’aumento da 90 a 180 giorni del tempo in cui gli stranieri possono essere trattenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio (norma su cui già il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute ha espresso forti perplessità), la revoca della cittadinanza a chi non è italiano per nascita ed è stato definitivamente condannato per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale (provvedimento che violerebbe il principio di uguaglianza tra i cittadini), fino ad arrivare alla norma che nega l’asilo e prevede l’espulsione immediata per chi risulta condannato anche in via non definitiva per reati di particolare allarme sociale (possibile violazione del principio di presunzione di innocenza e del diritto di difesa). Ma a cadere sotto la scure della Consulta potrebbe essere anche la “regina delle riforme” annunciata dal M5s, cioè il reddito di cittadinanza. Il sogno della Lega (che la scorsa settimana ha trovato l’inaspettata sponda del ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio) è quello di destinare il sussidio solo ai cittadini italiani. In questo caso, la misura andrebbe incontro a una quasi certa bocciatura da parte della Corte costituzionale, che in passato - come la Corte europea dei diritti dell’uomo - ha più volte ricordato come i cittadini stranieri non possano essere esclusi da una prestazione assistenziale. Alcune bozze del decreto circolate nelle ultime settimane estenderebbero la platea dei beneficiari anche a chi non è italiano ma risiede nel nostro paese da 5 o 10 anni. Anche in questo caso, però, non è detto che le restrizioni siano considerate dalla Consulta conformi alla Costituzione. Restando in ambito economico, potrebbe finire all’attenzione della Consulta anche l’ennesimo rinvio di tre anni del ripristino del sistema classico di adeguamento delle pensioni al costo della vita, previsto dalla nuova manovra (misura peraltro già bocciata dalla Corte nel 2015). Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha difeso la misura affermando che “si tratta di un provvedimento temporaneo, anche perché se non lo fosse sarebbe incostituzionale”, ma i giudici costituzionali potrebbero pensarla diversamente se si considera che con tutti i rinvii decretati dal 2012 a oggi la misura sembra aver perso il suo carattere transitorio. Un altro settore in cui il governo rischia di dover subire una raffica di bocciature da parte della Consulta è quello della giustizia, in particolare sul ddl anticorruzione approvato in via definitiva prima di Natale. Qui la norma che più appare a rischio incostituzionalità è il cosiddetto Daspo per i corruttori, cioè l’incapacità a vita di contrattare con la Pubblica amministrazione per chi (soprattutto imprenditori) è stato condannato in via definitiva a una pena superiore a due anni per reati legati alla corruzione. La Corte costituzionale ha affermato più volte in passato l’esigenza di tutelare il necessario principio di proporzionalità delle pene accessorie, che in questo caso verrebbe seriamente a essere messo in discussione da una misura perpetua. Profili di incostituzionalità ancor più evidenti si palesano attorno alla riforma della prescrizione, che ha provocato la dura reazione degli avvocati penalisti e che soprattutto è stata demolita durante le audizioni in Parlamento dalla stragrande maggioranza dei giuristi e dei costituzionalisti ascoltati. Infatti, la norma che prevede la sospensione (o per meglio dire l’interruzione) dei termini di prescrizione dopo una sentenza di primo grado, appare manifestamente contraria ad alcuni princìpi basilari stabiliti dalla nostra Costituzione: il diritto di difesa (art. 24), la presunzione di innocenza e la funzione rieducativa della pena (art. 27), la ragionevole durata del processo (art. 111). L’entrata in vigore della riforma è stata spostata al 2020, in attesa dell’approvazione della riforma del processo penale, ma il problema della sua conformità alla Costituzione è solo rimandato. Infine, traballa anche uno dei cavalli di battaglia del nuovo governo, cioè il taglio dei vitalizi di oltre duemila ex parlamentari, già deliberato dagli uffici di presidenza di Camera e Senato. Una pioggia di ricorsi (quasi 1.200) è già pervenuta agli organi giurisdizionali interni alla Camera. Lo stesso potrebbe avvenire in Senato, con il rischio che la questione finisca all’attenzione della Consulta per la possibile violazione dei princìpi di ragionevolezza, non arbitrarietà e non retroattività. E delle riforme volute dal governo gialloverde potrebbe rimanere solo la polvere. Decreto Sicurezza: tra propaganda e diritto di Giovanni Francesco Fidone* L’Opinione, 9 gennaio 2019 Ciò che maggiormente contraddistingue i principali attori politici attuali è la ricerca spasmodica di visibilità, anche a costo di dar prova marcata di sconoscere i fondamenti del nostro stato di diritto e dell’assetto istituzionale che lo caratterizza. Propaganda, social e media: tutto si fonda sulla logica dell’apparire e sulla capacità di suscitare le reazioni più forti nella pancia della gente. Al centro del dibattito, negli ultimi giorni, vi è stato il tema del “Decreto Sicurezza” e, più in particolare, la parte del testo dedicata all’immigrazione. La misura adottata prevede, tra l’altro: limitazioni per il conseguimento della cittadinanza italiana; la revoca della cittadinanza per determinati reati; la protezione internazionale, in luogo del permesso di soggiorno umanitario; restrizioni all’accoglienza da parte degli Sprar, i quali potranno “ospitare” soltanto minori non accompagnati e chi ha ricevuto la protezione internazionale, ma non i richiedenti asilo. Il provvedimento è stato approvato con il ricorso al voto di fiducia e con una larga maggioranza sia al Senato che alla Camera. E, dall’approvazione del testo, è nata la levata di scudi dei sindaci di alcune importanti città italiane e dei governatori di diverse regioni, i quali hanno promesso la disapplicazione delle norme riguardanti le proprie prerogative (salvo successivamente correggere il tiro almeno in parte), per la vera o presunta violazione di diritti costituzionalmente tutelati. Urla, schiamazzi, dirette sui social ed interviste seriali dei protagonisti del dibattito hanno invaso la scena. Ora, al netto di ogni considerazione sulla bontà o meno del contenuto del Decreto Sicurezza, rifuggiamo l’idea che tutti gli attori in campo ignorino i più elementari principi che caratterizzano il nostro ordinamento giuridico, la cui almeno sommaria conoscenza è imprescindibile per chi ritiene di poter ricoprire ruoli di governo nazionale, regionale o locale. Pare sin troppo scontato, infatti, ricordare che le leggi dello Stato vanno rispettate sempre e comunque, senza se e senza ma, da parte di tutti. Ma è altrettanto scontato rammentare che è facoltà e diritto dei soggetti titolati di agire dinanzi ai giudici amministrativi, civili e penali, al fine di ottenere la sospensione di una legge che lede diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, in attesa della pronunzia della Corte costituzionale in merito alla legittimità, o meno, del provvedimento legislativo. Oggi, dunque, non resta che rispettare ed applicare rigorosamente il Decreto Sicurezza. E, a meno che qualcuno non ritenga che anche i giudici amministrativi e i giudici ordinari (o finanche i giudici della Consulta) debbano candidarsi e sottoporsi al voto popolare prima di poter valutare la conformità di una legge alla nostra carta fondamentale, resta salva la facoltà per sindaci e presidenti di Regione “dissidenti” di agire dinanzi ai giudici competenti a tutela delle proprie posizioni. A quel punto tutti, forze di governo e forze di opposizione, non potranno che soggiacere al decisum giudiziale. È tutto molto semplice. Ma nell’era in cui la propaganda prevale sul diritto, anche l’Abc del nostro ordinamento giuridico diventa complesso. E ad essere a rischio, purtroppo, sono le fondamenta su cui si regge il nostro Paese. *Avvocato amministrativista e giuspubblicista dal 2009, patrocinante in Cassazione L’agorà on line di Bonafede, “Un giornale per dialogare con avvocati e magistrati” di Errico Novi Il Dubbio, 9 gennaio 2019 Via Arenula rilancia Gnews con editoriali dei vertici del mondo forense e dell’Anm. Giustizia news on line, o nella sua versione abbreviata Gnews, esisteva già. Si tratta di uno strumento giornalistico adottato già in passato da via Arenula. Ieri il ministero della Giustizia lo ha rilanciato con un’intervista al procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Un’iniziativa dal significato non trascurabile, considerata l’altro biglietto da visita scelto dall’ufficio comunicazione di Alfonso Bonafede: la pubblicazione in homepage di interventi firmati dai rappresentanti dell’avvocatura e della magistratura associata. Metodo che indica trasparenza: il giornale on line del ministero ha affermato in un modo esplicito l’opzione di Bonafede per un dialogo trasparente. Così da ieri sull’homepage di Gnews campeggiano gli articoli a firma del presidente del Cnf Andrea Mascherin e dei vertici di due delle maggiori organizzazioni associative del modo forense, ossia il numero uno dell’Unione nazionale Camere civili, Antonio de Notaristefani, e il presidente dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza. Con loro, propone un editoriale il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci. È il portavoce del ministro Bonafede, Andrea Cottone, a rivendicare la doppia cifra dell’iniziativa: da una parte l’apertura di via Arenula al dibattito sulle idee, dall’altra l’obiettivo di seguire le regole del giornalismo propriamente detto: “Vogliamo che Gnews diventi un punto di riferimento per l’informazione inerente l’ambito giustizia, che lo faccia avendo come bussola i principi del giornalismo e la conseguente autonomia che questi portano con sé. Anche per questa ragione”, scrive il portavoce del guardasigilli, “vorremmo che fosse un luogo (virtuale) di dibattito, e cominciamo subito ospitando i contribuiti di alcuni degli attori principali della giustizia. Ci auguriamo che siano sempre più costanti”. Nell’editoriale si prefigura “una vera e propria agorà” sulla giustizia. Esito che sarebbe prezioso, visto come i temi del processo sono esposti a un uso sbrigativo, mediatico e disattento al tema delle garanzie. A fare da antidoto a un simile scenario dovrebbero provvedere i tavoli di confronto aperti da Bonafede sia sulla riforma del processo penale che sul civile. Non a caso Mascherin, de Notaristefani, Caiazza e Minisci si soffermano sugli incontri che li vedranno coinvolti nei prossimi mesi, e dei quali ciascuno dei loro editoriali pare un’anticipazione. Il presidente del Cnf ricorda “il costante confronto fra il ministro, i suoi uffici e il Cnf”, pur considerato che sui diversi temi si registrano “piena convergenza” in alcuni casi - come il riconoscimento dell’avvocato in Costituzione, la riforma del patrocinio a spese dello Stato, le specializzazioni, l’equo compenso - e “divergenza” su altri. La stella polare, scrive Mascherin, è valorizzare “la dialettica e la cultura del dubbio”, principi che devono essere alla base “di una “società profondamente democratica”. I vertici delle due massime organizzazioni di civilisti e penalisti colgono l’occasione del “battesimo” di Gnews per entrare nel merito delle proposte di riforma. Il numero uno dell’Uncc de Notaristefani ricorda il “recente confronto sul progetto del ministro” relativo appunto al processo civile e ribadisce la necessità di dire “basta” a “preclusioni, decadenze e quant’altro la fantasia dei processualisti ha escogitato perché i risultati del processo si allontanino dalla realtà della vita. I diritti”, scrive, “non sono un ostacolo per i processi, ma la ragione per la quale essi si celebrano”. Il presidente dell’Ucpi Caiazza riconosce la “franchezza” e la “cortesia” con cui il guardasigilli si è impegnato a superare le prime fasi complicate del rapporto con i penalisti, e richiama le “misure” proposte dall’avvocatura anche in accordo con Anm e accademia “per un più razionale utilizzo del tempo del processo tale da garantire la sua ragionevole durata”. Caiazza ribadisce il dissenso sul blocco della prescrizione, modifica che lo stesso Minisci ritiene debba essere quanto meno incorniciata in una revisione “più complessiva del sistema processuale”. Il presidente dell’Anm confida a sua volta sia in un ministro che “si è mostrato particolarmente aperto al dialogo” sia nella “proficua interlocuzione con il Foro”. Tutti segni di una disponibilità alla dialettica, appunto, tra gli attori del sistema giustizia, che sembrano un auspicio per riforme affrancate dall’agenda mediatica e in grado di puntare alla sostanza delle questioni. Vogliono 2 milioni dagli eredi di Riina, ma la legge dice che non possono di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 gennaio 2019 La procedura di recupero del credito sarebbe stata attivata dal carcere di Parma. È di circa due milioni di euro il conto da pagare recapitato alla famiglia di Totò Riina per il suo mantenimento al 41 bis. A notificare a Ninetta Bagarella, moglie dell’ex capo dei capi, la cartella esattoriale da pagare è stata Riscossione Sicilia, la società che riscuote i tributi nell’isola. La procedura di recupero del credito sarebbe stata attivata, attraverso il ministero della Giustizia, dal carcere di Parma, ultimo istituto penitenziario in cui il capomafia è stato detenuto prima di morire in ospedale. Un conto che però, secondo quanto prevede la legge, non dovrebbe essere esteso agli eredi. Parliamo del dispositivo dell’articolo 188 del codice penale dove c’è scritto testualmente che “il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili”. Dopodiché aggiunge che “l’obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile, e non si trasmette agli eredi del condannato”, come sottolineato nella sent. n. 98/ 1998 della Corte Costituzionale. Proprio per questo motivo il legale dei Riina, l’avvocato Luca Cianferoni, ha così commentato: “A noi sembra una boutade perché la legge esclude espressamente che il rimborso per le spese di mantenimento in carcere si estenda agli eredi del condannato. Perciò stiamo studiando bene la questione per vedere in che termini è”. La cifra è enorme, perché le spese per il mantenimento, secondo quanto dispone l’art. 2 della legge 26 luglio 1975, n. 354, si limitano agli alimenti e al corredo e comunque sono dovute in misura non superiore ai due terzi del costo reale, ma a queste si aggiungono anche le spese processuali e l’assistenza sanitaria. Totò Riina di processi ne ha avuti molti, così come l’assistenza sanitaria visto i suoi continui ricoveri e un’assistenza da parte di un operatore socio sanitario durante la sua carcerazione dura. Costi che, per 23 anni di detenzione al 41 bis, sono ovviamente lievitati soprattutto per la sua degenza. Tale notizia serve anche per sfatare il luogo comune che in carcere uno ci stia gratis. Non è così. Il nostro ordinamento prevede che le spese di mantenimento dei detenuti siano parzialmente versate da loro stessi, in quanto per legge sono tenuti a corrispondere allo stato una cifra mensile che viene chiamata “quota di mantenimento”. Se infatti lo Stato si fa carico delle spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentive, il nostro codice penale - come già ricordato- sancisce che la persona condannata sia obbligata a rimborsare all’erario le spese per il suo mantenimento in carcere, rispondendo di tale obbligazione con tutti i propri beni, sia mobili che immobili, presenti e futuri. Obbligazione, ricordiamo, che non si estende agli eredi. Poiché la pena detentiva comporta inevitabilmente che il carcerato trascorra il proprio tempo negli istituti penitenziari, all’interno di questi dovrà di necessità mangiare, dormire, consumare acqua e ed energia elettrica, utilizzare mobilio e biancheria. Soltanto parte di questi costi gli verranno però addebitati, secondo una precisa previsione tariffaria che tiene conto del fatto che per legge costituiscono spese di mantenimento a suo carico solo quelle che concernono “gli alimenti ed il corredo”. Nel 2015, tramite circolare del Dap, è stata aumentata la quota di mantenimento prevista, fissandola alla cifra di 3,62 euro “per giornata di presenza”, per un totale dunque di 108,60 euro a persona al mese. A queste si aggiungono, appunto, anche le spese processuali e spese processuali e l’assistenza sanitaria. Il ritorno in studio non basta a provare il rischio di recidiva di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 406/2019. Lo svolgimento di un’attività professionale non può essere valutato in sé come indice di rischio per la recidiva, e quindi non può essere utilizzato come presupposto per applicare o per confermare una misura cautelare personale. La Terza penale della Cassazione (sentenza 406/19) ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Riesame di Bologna aveva attenuato gli arresti domiciliari di un commercialista, sostituendo la misura con un - non meno blando - divieto di esercitare la professione per 12 mesi. L’imputato era accusato di aver commesso, in concorso con l’amministratore di fatto di una società cliente, i reati di dichiarazione infedele e di indebita compensazioni (articoli 4 e 10-quater del Dlgs 74/2000) per aver evaso Iva, Ires e altri tributi utilizzando crediti erariali inesistenti per l’ammontare di circa 128mila euro. Per i giudici bolognesi la rilevanza del danno, il richiamo a un precedente (peraltro terminato con un “non doversi procedere”) e il dimostrato - nei fatti - spregio delle regole deontologiche costituivano una prognosi sufficiente per un “intenso pericolo di recidiva”, considerato il probabile rientro in studio e all’attività professionale all’indomani del ritorno in libertà. Da qui la scelta del Riesame di congelare il ritorno all’attività del professionista con la misura interdittiva per la durata di un anno, prontamente impugnata dai difensori. La Terza penale nel motivare l’annullamento con rinvio ripercorre i più recenti orientamenti seguiti all’ennesimo intervento legislativo in materia (legge 47 del 2015) e, pur senza aderire alla linea “massimalista” - secondo cui il giudice deve trovare e dimostrare l’occasione prossima in cui l’indagato ricadrà nell’illecito (tra gli altri 21350/16; 24477/16; 50454/15) - pone dei paletti chiari per la valutazione del pericolo di reiterazione. A parere della Corte la valutazione prognostica deve allora considerare la permanenza della pericolosità personale dell’indagato (dal momento della commissione a quello del giudizio) “desumibile dall’analisi soggettiva della sua personalità” ma anche la presenza di “condizioni oggettive ed “esterne” all’accusato, ricavabili da dati ambientali o di contesto che possano attivarne la latente pericolosità, favorendone la recidiva”. In questo contesto il mero esercizio di un’attività professionale, lecita in sé, non può essere considerato tout court un’occasione per delinquere, tanto più se il riferimento ai precedenti specifici è lontano nel tempo (in questo caso nel 2009, peraltro terminato con un nulla di fatto) e se il coinvolgimento nell’indagine esaminata è stato marginale rispetto agli stessi coindagati. Per non parlare della valutazione secondo cui l’indagato “in passato aveva dato prova di essere pronto a commettere reati tributari”, circostanza che “non autorizza a ritenere concreto ed attuale il pericolo di recidiva”. Ciò che ne fa, appunto, una motivazione “assertiva e carente” sia sotto il profilo della probabilità di ricaduta, sia sotto quello della “attualità e concretezza”. Scambi di file protetti tra colleghi sono accesso abusivo al sistema di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 565/2019. Reato in concorso per l’impiegato di banca che chiede al collega l’invio di dati a cui non ha accesso per policy aziendale. La Quinta penale della Cassazione (sentenza 565/19) ha confermato la condanna alle sole statuizioni civilistiche (il reato era nel frattempo prescritto) per il dipendente di un grande gruppo bancario che si era fatto spedire da un collega “titolato” il file excel relativo alla posizione di un cliente importante. Il ricorrente, accusato di accesso abusivo a sistema informatico, aveva impugnato la decisione della Corte d’appello di Milano sostenendo che il semplice invio di una mail tra colleghi non può integrare il profilo oggettivo del reato contestato. La Corte però, nel solco dei due importanti precedenti delle Sezioni Unite (sentenza Casani, 4694/12; sentenza Savarese, 41210/17), ha ribadito che la violazione sussiste anche se l’operatore - pur abilitato - “accede o si mantiene in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni e i limiti delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema”. In questo contesto sono “del tutto irrilevanti gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema”. Pur decisi in relazione a posizioni di dipendenti pubblici, argomenta la Quinta, i precedenti possono essere estesi anche al settore privato nella parte in cui vengono in rilievo “i doveri di fedeltà e di lealtà del dipendente che connotano anche il rapporto di lavoro privatistico”. Tra l’altro la Corte ha confermato il ruolo di concorrente/istigatore del collega che, non avendo accesso per policy aziendale a dati sensibili di una certa rilevanza - in quanto relativi a clientela di rango - aveva chiesto ben due volte l’invio dei documenti informatici, una prima alla casella di mail aziendale, una successiva all’indirizzo su un server di posta esterno. Ciò che, secondo i giudici, dimostra senza ragionevoli dubbi i rispettivi ruoli giocati dai bancari nell’effrazione informatica. Turbata libertà degli incanti e del procedimento di scelta del contraente Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2019 Delitti contro la pubblica amministrazione - Delitti dei privati contro la Pa - Turbata libertà degli incanti - Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente - Configurabilità - Caratteristiche di una trattativa privata - Esclusione. I delitti di cui agli artt. 353e 353 bis c.p. non si configurano allorquando vi sia una trattativa privata svincolata da ogni schema concorsuale, o quando sia prevista solo una comparazione di offerte che la pubblica amministrazione è libera di valutare, in mancanza di precisi criteri di selezione, oppure quando, pure in presenza di più soggetti interpellati, ciascuno presenti indipendentemente la propria offerta e l’amministrazione conservi piena libertà di scegliere secondo criteri di convenienza e di opportunità propri della contrattazione tra privati. (Nel caso in esame i giudici hanno pertanto escluso che fosse configurabile la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 353-bis c.p. ritenendo che la Pa avesse proceduto legittimamente ad affidamento diretto e non avendo comunque ritenuto di predisporre, a tal fine, benché non obbligata a farlo, una trattativa privata in base a un pur rudimentale schema concorsuale). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 18 dicembre 2018 n. 57000. Concorso in turbata libertà degli incanti e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente - Configurabilità degli elementi soggettivi e oggettivi dei reati ascritti - Divieto di applicazione della norma in malam partem - Genericità delle censure - Inammissibilità. Il delitto di turbata libertà degli incanti è configurabile in ogni situazione in cui vi sia una procedura di gara, anche informale e atipica, quale che sia il nomen iuris adottato e anche in assenza di formalità, mediante la quale la P.A. proceda all’individuazione del contraente, a condizione, tuttavia, che l’avviso informale di gara o il bando, o comunque l’atto equipollente, previamente indichi i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie offerte. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 luglio 2018 n. 30730. Reati contro la pubblica amministrazione - Reati (in genere) - Turbata libertà degli incanti - Gara informale - Nozione - Condizioni per la sussistenza del reato. Il reato di turbata libertà degli incanti non è configurabile solo in presenza di pubblici incanti o di licitazioni private, cioè quando vi sia diretta applicazione delle norme in materia di aggiudicazione di appalti, ma in tutti i casi in cui vi sia una procedura di gara anche informale e atipica, mediante la quale la pubblica amministrazione decide di individuare il contraente e concludere un contratto che assicuri una libera competizione tra più concorrenti. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 26 febbraio 2016 n. 8044. Turbata libertà degli incanti - Ambito di applicazione - Gare di consultazione - Applicabilità - Limiti. Il reato di cui all’articolo 353 del C.p. non è configurabile nell’ipotesi di contratti conclusi dall’amministrazione a mezzo di trattativa privata, a meno che la trattativa privata, al di là del nomen iuris, si caratterizzi per la presenza di una vera e propria “gara”, sia pure informale, attraverso la realizzazione di una vera e propria “procedimentalizzazione” di “gare ufficiose” o “di consultazione” finalizzate all’individuazione del contraente, attraverso la previsione di regole procedurali per il loro svolgimento. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 novembre 1998 n. 12238. Milano: “La paura del reintegro nella società”, testimonianze dei detenuti di Bollate tpi.it, 9 gennaio 2019 Come viene affrontato nelle carceri il tema del reinserimento post-pena? Il racconto dal carcere di Milano tra paure e speranze. Inizia con questo articolo la collaborazione tra TPI e CarteBollate, il giornale scritto, pensato e finanziato dai detenuti del carcere di Bollate di Milano. Un carcere resta sempre un carcere. Ma Bollate è uno dei pochi istituti italiani che applica una legge del 1975, secondo la quale le porte delle celle, durante il giorno, possono restare aperte. Si è sempre distinto nel promuovere una nuova cultura della detenzione e nel dedicare particolare attenzione al detenuto, creando canali di dialogo con la società civile. In quella che è la seconda Casa di reclusione di Milano (1100 detenuti e 100 detenute), si svolge da cinque anni il Laboratorio giornalistico condotto da Paolo Aleotti che si prefigge di avvicinare i detenuti all’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Il magazine Carte Bollate è stato fondato nel 2002, la sua direttrice è Susanna Ripamonti, mentre l’art director è Federica Neeff. TPI ospiterà sulla sua testata non solo articoli, ma anche podcast e altri lavori redatti dagli stessi detenuti, per raccontare il carcere senza filtri, dal suo interno. Ecco il primo episodio per TPI, “Quando il fuori spaventa” di Giacomo Pelliccia: Capita spesso di pensare al dopo questo, un questo pesante, fastidioso, un questo non voluto ma il più delle volte cercato, nel nostro caso “questo” è il carcere, nudo, crudo, freddo, spesso invivibile. Poi però se la condanna è lunga quasi ci si abitua agli stessi rumori, alla stessa intensità di luce che ci sveglia al mattino, ci si abitua addirittura al deambulare costante dei compagni che affollano le sezioni, tutto diventa uguale a tutto. Presi da un po’ di coraggio si può addirittura provare a chiedere a quei compagni che hanno vissuto in questi posti per anni, cosa pensano del dopo, se una volta usciti dal contenitore che li ha isolati dal resto del mondo per una parte considerevole della loro vita sanno già cosa fare o dove andare, se tutti questi anni hanno fatto in modo che la pena sia valsa a qualcosa, se il carcere serve o se semplicemente torneranno a fare ciò per cui hanno abitato le atre galere. E lì nasce un’altra domanda: “hai paura di uscire?”. Abbiamo fatto un giro per le sezioni del carcere di Bollate provando a domandare a quelli più temprati: “Se uscissi domani come ti sentiresti?”. La prima sensazione è stata di pessimismo e sfiducia: “non c’è futuro se il carcere non ti aiuta”. A.D. 35 anni, che ha conosciuto anche le carceri di altri Paesi europei dice: “Se la società non offre strumenti concreti di reinserimento, una casa, un lavoro, inevitabilmente torni a fare quello che hai sempre fatto. In Inghilterra, in Germania o nei Paesi nordici lo Stato accompagna il detenuto anche all’esterno, nel suo percorso di reinserimento. Qui non ti supportano nemmeno se sei tu a trovarti un lavoro esterno, che ti darebbe prospettive e che giustificherebbe pienamente la concessione di un articolo 21, che ti consenta di riavvicinarti al lavoro anche prima del fine pena. Sembra proprio che la parola reinserimento non esista nel vocabolario dell’istituzione penitenziaria”. Tra le persone interpellate poco meno della metà ha risposto di essere convinta “di rientrare in carcere entro un anno”. Altri al contrario, che non rientrano nella cosiddetta categoria dei delinquenti abituali, la pensano diversamente. D.B, alla prima carcerazione, dice: “Mai più. Piuttosto mangio pane e cipolla, ma non commetterò più gli errori che mi hanno portato in carcere”. I più fiduciosi sono quelli che fuori hanno una vita regolare, una casa, una famiglia, un lavoro che li attende. “Il mio timore - dice E.B., anche lui in carcere da pochi mesi - è che il mondo che ho lasciato fuori dai cancelli nel frattempo si dimentichi di me o quanto meno si abitui alla mia assenza. Non ho una lunga condanna e ho sempre pensato che avrei iniziato presto a essere ammesso al lavoro esterno, ma adesso vedo che questo obiettivo si allontana, che i tempi della burocrazia stanno allontanando questo obiettivo, anche se ho tutti i requisiti per raggiungerlo. Allora vedo svanire le possibilità lavorative che adesso avrei, temo che all’esterno si abituino a considerarmi un detenuto e a fare a meno di me”. L’obiettivo degli ex-regolari è quello di tornare a prendere il proprio posto, in una società da cui si sono esclusi commettendo un reato, ma di cui continuano a sentirsi parte. Appartengono a questa categoria anche quelli che hanno commesso reati gravi, come un omicidio, un gesto unico e generalmente irripetibile, ma che ha definitivamente deviato la traiettoria della loro esistenza. Sull’altro fronte, tra i lungodegenti delle patrie galere, ci sono i recidivi e i plurirecidivi, quelli che hanno iniziato in riformatorio la loro carriera carceraria e che hanno vissuto entrando e uscendo di prigione. Sono quelli che hanno scelto di vivere fuori dalle regole, che preferiscono la galera alla piattezza di una vita fatta di regole, di doveri e di normalità e anche se hanno passato in carcere la maggior parte della propria esistenza, costretti a rispettare norme molto più rigide di quelle che regolano la società esterna, non rinunciano alla loro identità di ribelli. Sono incazzati con giudici, sbirri e avvocati e si riconoscono solo nella comunità dei loro simili, le persone che hanno fatto le loro stesse scelte. L.B, cinquantenne, detenuto di lungo corso, dice esplicitamente: “A me piace questa vita, la malavita. So quali sono i rischi che corro, sono consapevole della sofferenza che dò ai miei familiari, ma questa è la mia vita e non ne conosco altre”. Altri non hanno nessuna sensazione, all’idea di uscire sono felici e basta. Altri ancora non sanno cosa accadrà, ma quelli che più fanno riflettere sono quelli che hanno risposto: “Ho paura”.Ma come si può aver paura di uscire da un carcere? La paura è una sensazione che si avverte quando non si conosce qualcosa, il nuovo per esempio spaventa. Il punto è proprio questo: se anziché subire il carcere lo si utilizza, ci si mette in discussione, si scopre di avere potenzialità ignorate, può succedere di avvertire un cambiamento, che nulla ha a che fare con quello che eravamo prima che la libertà ci venisse tolta. In questi casi uscire e dover pensare a un futuro senza reati fa paura, l’idea di modificare i comportamenti che hanno portato al nostro arresto ci rende più fragili, insicuri, quasi inermi di fronte a un futuro “normale”. Paura vissuta da molti ed esplicitata da pochi, perché è assodato che cambiare vuol dire adeguarsi alle mille sfaccettature che una vita diversa impone, e questa prospettiva spaventa. Il carcere, in base alla nostra Costituzione, dovrebbe avere la funzione di reinserire. Può anche aiutare ad avere meno paura del dopo? La maggior parte dei detenuti non si sente supportata in questo percorso: “Quando esci è come se ti scaraventassero contro un muro e anche se avessi voglia di cambiare vita, ti troveresti solo porte sbattute in faccia”. Ma ci sono anche quelli che vogliono provarci: “No, il carcere potrebbe funzionare se chi lo vive facesse in modo di utilizzarlo, per riprendere in mano la propria vita. La paura di uscire è giustificata, non bisogna mai però dimenticare che cambiare, se pur difficile, è possibile, le paure se sane passano, responsabilità, famiglia, lavoro sono ottimi rimedi per un nuovo inizio”. Il nostro compagno C.S. ci ha particolarmente colpiti spiegando come le dinamiche che il carcere ha prodotto sulla sua persona lo hanno portato ad avere paura del dopo: “Ci si sente urlatori silenziosi quando il sistema con la sua lentezza rende tutto più lontano, il circuito carcere trascina in un vortice che mai avresti pensato di vivere, il tempo che hai a disposizione rende ancor più palpabile la paura del domani, forse la paura deriva anche da un senso di abbandono che gli istituti ti fanno calzare come scarpe troppo strette da portare, se passi svariati anni in una gabbia senza che nessuno ti prepari a quando si apriranno le porte è normale che la paura, il dubbio su cosa fare, arrivi come uno schiaffo in pieno viso”. Forse dovrebbero cambiare le cose, forse noi dovremmo cambiare. E forse la paura di uscire è soltanto la paura che si ha di rientrare. Cagliari: Caligaris (Sdr) “situazione sanitaria del carcere di Uta mina vagante” cagliaripad.it, 9 gennaio 2019 “La sanità penitenziaria della Casa circondariale di Uta è una mina vagante”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo Diritti Riforme. “Assente un coordinatore sanitario, il facente funzioni ha presentato le dimissioni. In ferie la psichiatra che ha gestito da sola gli ultimi mesi del 2018. Prossima al trasferimento la tossicologa, vincitrice di concorso. Una sola psicologa. Carenti i Medici specialisti ma in costante aumento i detenuti, sempre più spesso con gravi problemi di salute. Insomma la sanità penitenziaria della Casa circondariale di Uta è una mina vagante che rischia ogni giorno di mandare in tilt l’intero sistema”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo Diritti Riforme, dopo diverse segnalazioni dei familiari dei detenuti. “Il nuovo anno nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta - sottolinea - non presenta elementi di miglioramento nell’organizzazione sanitaria che, al contrario, appare abbandonata a se stessa. Non è possibile che 576 persone (24 donne e 142 stranieri) a fronte di 561 posti possano non avere garantito quotidianamente il diritto alla cura. La Casa Circondariale di Cagliari-Uta è equiparabile a un Comune di media grandezza considerando la presenza di impiegati amministrativi, educatori e Agenti della Polizia Penitenziaria. Complessivamente si tratta di oltre un migliaio di persone. La situazione è particolarmente pesante e complessa perché circa il 45% dei detenuti ha problemi psichici e di tossicodipendenza ma non mancano persone con problemi tumorali, renali, cardiocircolatori, respiratori, senza contare i normali disturbi legati all’influenza o alle cure odontoiatriche. Un’organizzazione sanitaria che guardi ai bisogni di così tante persone che vivono all’interno di una struttura chiusa non può - conclude Caligaris - ignorare le difficoltà che si ripercuotono sull’intero sistema già di per sé problematico. È impensabile che in servizio possano esserci solo una psichiatra e una psicologa o che il dentista effettui 18 ore alla settimana. C’è poi il problema irrisolto di un medico referente per ciascun detenuto”. Cagliari: “Usciamo dalle gabbie”, i detenuti diventano educatori cinofili di Teresa Valiani Redattore Sociale, 9 gennaio 2019 È sostenuto dalla Regione Sardegna il progetto che dagli Stati Uniti sbarca in Italia, nella casa circondariale di Uta-Cagliari, e che assegnerà ai ristretti la qualifica di istruttore. Il direttore, Marco Porcu: “Ognuno di noi avrebbe qualcosa da imparare da un’esperienza del genere”. Cani randagi e detenuti insieme in un progetto che vuole restituire dignità e futuro a vite che si stanno consumando ai margini della società. È un percorso di recupero reciproco quello che dagli Stati Uniti sbarca in Italia attraverso l’esperienza che sta partendo nel carcere di Uta (Cagliari). Sostenuto dalla Regione Sardegna, che lo ha inserito nell’ultima finanziaria appena approvata, con un contributo di circa 170 mila euro, il progetto si chiama “Usciamo dalle gabbie”, coinvolgerà circa 20 detenuti e avrà durata biennale. Partito con un primo esperimento nel 2016 e fortemente voluto dall’avvocato e consigliera regionale Anna Maria Busia, il piano ha diversi obiettivi: offrire alle persone ristrette la possibilità di imparare un mestiere, acquisendo la qualifica di istruttore cinofilo, migliorare le relazioni dei detenuti all’interno dell’istituto di pena e dare una famiglia ai cuccioli che, dai canili e dai rifugi convenzionati, faranno ingresso in carcere per iniziare, si spera, una nuova vita una volta fuori. “È un progetto che ricalca un esperimento inserito, già nel 2016, nell’ambito della scuola per i detenuti promossa nel nostro istituto - spiega il direttore del carcere di Uta, Marco Porcu. Il cane non sarà presente nelle celle ma in spazi adatti e locali appositi, nella zona interna al muro di cinta. “Usciamo dalle gabbie” è un corso di formazione per detenuti che, attraverso le lezioni e il contatto con gli animali, avranno la possibilità di acquisire la qualifica di educatore cinofilo, spendibile anche sul mercato del lavoro. Nulla in questo progetto è lasciato al caso - sottolinea il dirigente -: le lezioni sono affidate a esperti estremamente qualificati e con una esperienza ventennale nel settore, il benessere degli animali è tenuto in grandissima evidenza ed anche il personale dell’istituto, polizia penitenziaria ed educatori in primis, contribuiranno con la propria professionalità e competenza all’organizzazione interna e al buon esito del progetto. Nel corso delle ore di lezione i detenuti impareranno le tecniche utili all’educazione dei cani problematici e, nello stesso tempo, acquisiranno informazioni preziose anche per gestire i rapporti con gli altri e con se stessi. Ognuno di noi avrebbe qualcosa da imparare con un’esperienza del genere”. “Parlare di carcere, di persone detenute, di espiazioni e di condanne non è mai stato facile. In questo periodo lo è ancora di meno - scrive dal suo profilo Facebook Anna Maria Busia annunciando il progetto. C’è sempre qualcuno che ritiene di essere maggiormente meritevole di aiuti rispetto a chi ha commesso errori. Per questa ragione sono stata in qualche occasione contestata. Per certi versi capisco, ma non smetto di sostenere iniziative, di promuovere progetti che possano non solo alleviare la detenzione, ma soprattutto che facciano sperare che ci sia un futuro. Per tutti, nessuno escluso”. Catanzaro: Parco biodiversità mediterranea, manutenzione affidata ai detenuti ilcrotonese.it, 9 gennaio 2019 L’Amministrazione provinciale di Catanzaro e la Casa circondariale di Siano insieme per la cura e la manutenzione del Parco della biodiversità mediterranea. Ne dà notizia l’ufficio stampa della Provincia. Una convenzione regola le modalità d’impiego all’interno del parco dei detenuti ammessi al lavoro esterno. A sottoscrivere il protocollo d’intesa sono stati il presidente della Provincia, Sergio Abramo; il presidente onorario del Parco, Michele Traversa, e il direttore della Casa circondariale, Angela Paravati. La convenzione con l’Amministrazione penitenziaria si aggiunge a quella già siglata con il Consorzio di bonifica, guidato da Grazioso Manno, per garantire un presidio fisso all’interno del parco. “La necessità di scontare la pena e di rendersi al contempo utili alla società - ha affermato il presidente Abramo - rappresenta un tema di fondamentale importanza che trova spazio nel protocollo d’intesa firmato oggi. Mi preme ringraziare il vicepresidente Antonio Montuoro, che, credendo fortemente nell’importanza che ai detenuti venga offerta la possibilità di professionalizzarsi, ha lavorato con lodevole impegno e responsabilità affinché si arrivasse alla definizione di questa convenzione e si fortificasse la sinergia e la collaborazione con l’istituto penitenziario. Allo stesso modo, voglio plaudire all’estrema attenzione con cui lavora l’amico Michele Traversa per garantire la perfetta manutenzione del parco”. Frosinone: figlio detenuto in gravi condizioni, il padre si incatena davanti al tribunale tg24.info, 9 gennaio 2019 Il figlio detenuto versa in gravi condizioni di salute, il padre per protestare contro quel regime carcerario che sta uccidendo il suo ragazzo, si incatena davanti ai cancelli del tribunale di Frosinone. L’increscioso episodio si è verificato ieri mattina. Gianni Cupido padre di Diego, condannato a 18 anni di reclusione per il processo “Gli intoccabili” è disperato. Il figlio da circa un anno non deambula più. Da alcuni giorni ha anche smesso di alimentarsi. “Se non verrà trasportato in un centro ospedaliero specializzato, mio figlio morirà. Ed io non voglio perderlo in questo modo”. Diego Cupido ieri mattina è arrivato in tribunale con una ambulanza. L’uomo ha voluto essere presente alla prima udienza del processo “Firework” dove lui in questa vicenda era stato denunciato a piede libero per spaccio di droga. Al momento il detenuto che ha perso oltre quaranta chili si trova nel carcere di Secondigliano. Tutte le indagini diagnostiche a cui è stato sottoposto non hanno fatto emergere alcuna patologia circa la sua impossibilità a deambulare. A seguito di questa immobilizzazione però, ha riportato una atrofia muscolare. Il padre, la moglie ed i suoi sei figli adesso sperano soltanto nella clemenza dei giudici. Palombara Sabina (Rm): detenuto ritrovato morto in una Comunità di Recupero tiburno.tv, 9 gennaio 2019 Manolo V., 27 anni, era ai domiciliari per rapina dal 2017 all’interno della Onlus “Il Merro 2” a Palombara Sabina ma alle 11 del 28 dicembre la tragica scoperta del suo compagno di stanza: il cuore del ragazzo aveva smesso di battere. Malore improvviso o assunzione di farmaci e/o sostanze stupefacenti? È giallo sulla morte, a chiarire le cause sarà l’autopsia. Napoli: carcere di Poggioreale, polemiche per docu-film di Garrone La Repubblica, 9 gennaio 2019 Il ministero: “Ci occupiamo di giustizia non di casting”. Il Sappe contesta l’autorizzazione alle riprese di un docu-film che vede un ex detenuto nei panni di un agente penitenziario: “Sul caso si esprima anche Salvini”. “Il ministero si occupa della giustizia italiana, non di casting per film o documentari”. Via Arenula replica così - dalle colonne di Gnewsonline, sito di informazione del dicastero - alle dichiarazioni rese dal segretario generale del Sappe, Donato Capece, circa l’autorizzazione alle riprese di un docu-film nel carcere di Poggioreale che vede un ex detenuto interprete di un agente penitenziario. “È inammissibile, inaccettabile, intollerabile e insopportabile che un ex detenuto, condannato e quindi colpevole di vari reati, rivesta i panni del poliziotto penitenziario, magari per discutere del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale - ha accusato il sindacato - una decisione gravissima che non può rimanere senza conseguenze”. “In data 4 gennaio 2019 - precisa il ministero della Giustizia - è stato inviato alla direzione della casa circondariale di Napoli Poggioreale il nulla osta per la richiesta avanzata dalla società Archimede Srl di poter effettuare riprese per una scena del film “Nevia”. La scena autorizzata è ambientata in esterno, prevede la presenza di una fila di persone intente ad accedere all’interno della struttura per visitare i propri cari e prevede l’accesso della protagonista e di alcune figurazioni all’interno dell’androne, così come si legge nella richiesta della società di produzione. Con il nulla osta alle riprese veniva autorizzato anche il sopralluogo preventivo e null’altro. La scena risulta essere effettivamente stata girata sabato 5, appositamente in un giorno prefestivo, meno impegnativo per il personale poiché a Poggioreale il sabato non è programmato lo svolgimento dei colloqui”. “Prima di rilasciare l’autorizzazione alle riprese cinematografiche - continua la nota - vengono da sempre richieste alla casa di produzione, e vagliate attentamente, copia della sinossi e della sceneggiatura del film, con particolare riguardo alle scene da ambientarsi all’interno dell’istituto penitenziario. Tuttavia, il ministero della Giustizia, in nessuna delle sue articolazioni, ha o può avere competenza nella scelta degli attori dei film che vengono girati in carcere, né ha mai chiesto documentazione sul casting degli interpreti perché si tratterebbe di un’indebita ingerenza. Sugli attori, così come nei confronti di ogni persona che entri in un istituto penitenziario, vengono soltanto effettuati gli ordinari controlli nel cosiddetto Sistema d’indagine (Sdi). Dal nuovo insediamento, questo ministero non si è mai sottratto a eventuali critiche. Ma queste devono essere sensate e non fini a se stesse, giusto per nutrire la vis polemica di certuni”. “Nulla da dire, se non fosse che a indossare la divisa da poliziotto penitenziario sia stato autorizzato un ex detenuto - afferma il segretario generale del Sappe Donato Capece - è semplicemente scandaloso tutto questo e come sia potuta accadere una cosa del genere lo vogliamo sapere dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che certo non può autorizzare riprese di docu-film in carcere senza prima avere avuto assicurazioni dalla società produttrice su chi è parte dello staff”. Secondo il leader del Sappe, si tratta di un fatto “gravissimo” e “vorremmo - aggiunge - che anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini si esprimesse nel merito, perché davvero ci sembra una cosa assurda e vergognosa”. Capece, dunque, ricorda alcuni episodi degli anni passati, quando Adriano Sofri venne invitato a partecipare agli Stati generali dell’esecuzione pena, “incarico rigettato dopo la denuncia e le proteste del Sappe, o - continua il sindacalista - quando un ergastolano fece lezioni a una platea di allievi agenti di Polizia Penitenziaria nella scuola di Cairo Montenotte. Oggi vedo che si continua a calpestare il senso dello Stato e delle Istituzioni, e di quella penitenziaria in particolare. Lo trovo semplicemente sbagliato e offensivo”. Catania: “Sogno di una notte a Bicocca”, quando la fantasia è libertà di Antonella Sturiale italianotizie.it, 9 gennaio 2019 Sold out e lunghi applausi il 6 gennaio al Centro Zo di Catania per “Sogno di una notte a Bicocca” di Francesca Ferro. Il carcere toglie ogni speranza al detenuto oppure, attraverso il dono di un valido mezzo come può essere l’arte, è capace di offrire la possibilità di guardarsi dentro? E il Teatro può servire allo scopo? Il Teatro è assodato sia una vera e propria “panacea”, un’ottima terapia antistress, un modo efficace per spingere fuori l’io più intimo e vero, un’eccellente antidoto contro le malattie e le esperienze traumatiche e forti come può essere una lunga detenzione in un carcere. L’esperienza della bravissima attrice, attenta regista ed autrice Francesca Ferro, nella sua pièce teatrale “Sogno di una notte a Bicocca”, ispirata alla celebre “Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare, vuol proprio dimostrare quanto scritto: il sogno del teatro riesce a superare le gelide mura ed i freddi cancelli del carcere spingendo i detenuti ad immaginarsi immersi in un luogo ameno per le singole personalità, avendo la possibilità di vivere, in piena libertà e fantasia, la vita del personaggio che ognuno interpreta. È una tematica seria e gravosa che richiede molto coraggio nella realtà: Francesca Ferro racconta di anime prigioniere nel carcere di Bicocca a Catania, anime reali, anime e cuori con dei nomi, dei cognomi e dei soprannomi che hanno vissuto pesanti esperienze, ma le racconta con molta “delicatezza” e “leggerezza” che non è sinonimo di superficialità ma di semplicità ed empatia, potremmo dire “con il cuore in mano”. Francesca è un’insegnate-attrice che propone un progetto teatrale da sottoporre ai detenuti i quali, esercitando e spesso imponendo le loro “impronte” letterarie sul testo, riescono a mettere in scena in modo simpatico ed ironico, la commedia a loro suggerita. Dallo spacciatore al mafioso, dal pluriomicida all’omicida per sbaglio: storie dure, difficili da gestire “emotivamente” per qualcuno, vissuti drammatici che si intrecciamo creando un gioco di pathos e brio, luce ed ombre. Gli attori in scena dimostrano molto affiatamento e bravura nella caratterizzazione di ogni singolo personaggio: la grande esperienza di Agostino Zumbo (il prepotente ed eccentrico Cardinale), l’istrionico Mario Opinato (il simpatico Pippo Pacchio), il divertentissimo Renny Zapato (il convinto, canterino Elvis), Giovanni Arezzo (il mansueto Provola), il sempre valente Francesco Maria Attardi (l’irrequieto “Polifemo”), Giovanni Maugeri (“Ciccio Boutique”), Dany Break (eccellente rumorista “Ivan Petrov Ucraino”) ed infine la grande disinvoltura scenica e la spiccata attrattiva dell’attore Mansour Gueye nei panni del senegalese Fodé Dussuba, detto “Obama”. Straordinario è l’attore Silvio Laviano nell’interpretazione del napoletano detto “o’ Capitone”; una grande prova d’attore la sua per un personaggio difficile e dai tratti caratteriali ostici ma con un grande amore per il mare della sua Napoli. Molto credibile e con grande sicurezza interpretativa, Antonio Marino è Fabio, un’autoritaria e temuta guardia giurata. Le musiche sono del maestro Massimiliano Pace, assistente alla regia Mariachiara Pappalardo. Molti sorrisi amari alla ricerca di una dimensione capace di oltrepassare quei muri spessi e soffocanti, di far scorrere il tempo della detenzione più velocemente: una condanna nella condanna. L’unica via d’uscita sta nella mente, la “chiave di Volta” è la fantasia, chiave che riesce ad aprire tutte le porte alla ricerca quei luoghi gradevoli dove rifugiarsi, dove poter finalmente assaporare la libertà. Grandissimi applausi hanno sottolineato il meritato successo della pièce che andrà in tournée il 24 gennaio a Regalbuto, il 25 gennaio a Ribera, il 27 gennaio a Favara, l’uno febbraio a Comiso. Il teatro è sogno. Il sogno è compagno della fantasia. La fantasia è libertà! Migranti. La guerra elettorale della Ue sulla pelle dei profughi di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 9 gennaio 2019 Ricordiamoci che stiamo parlando di sole 49 persone, potenziali richiedenti asilo, quando sappiamo che sono più di 68 milioni le persone nel mondo in fuga dalle loro case a causa di conflitti, guerre e carestie. Il monito del Papa all’Europa perché si faccia rapidamente carico dei 49 naufraghi salvati da Sea Watch e Sea Eye, dimostra come i governi dell’Ue stiano perdendo oramai ogni credibilità, impegnati cinicamente nei loro interessi elettorali. In questa guerra mediatica, gli argomenti usati da Salvini per giustificare l’orrore delle sue decisioni, poco o per nulla contrastate dagli altri governi e dai suoi alleati, continuano ad essere falsi, ma non per questo meno efficaci anche per responsabilità di quasi tutta la stampa e per l’assenza di contraddittorio. In uno dei suo ultimi Tweet il ministro dell’Interno ha dichiarato “(…) Fate quello che volete, ma per chi non rispetta le leggi i porti Italiani sono e rimarranno chiusi”. A quale fattispecie di reato si riferisce? All’ingresso senza visto? Il ministro sa bene che non esiste alcuna modalità di ingresso legale per queste persone: non si può entrare regolarmente in Italia per chiedere asilo, così come non esiste la possibilità di entrare in Italia per cercare lavoro. Ricordiamoci che stiamo parlando di sole 49 persone, potenziali richiedenti asilo, quando sappiamo che sono più di 68 milioni le persone nel mondo in fuga dalle loro case a causa di conflitti, guerre e carestie. L’Italia quanti ne vuole accogliere? Zero, “abbiamo già dato”; Salvini sostiene infatti che l’Italia ha già fatto il proprio dovere e chiede a Malta di fare altrettanto, permettendo lo sbarco. Peccato però che i numeri - disponibili sul sito di Eurostat - raccontino un’altra storia e cioè che Malta ha fatto più dell’Italia se si rapportano le richieste di asilo al numero di abitanti: la piccola isola, poco più grande della nostra Napoli, in questi anni ha dovuto gestire 27 richieste di asilo politico ogni mille abitanti. Più del triplo rispetto alle 7,9 istanze di protezione internazionale ogni mille residenti presentate in Italia. I dati sugli arrivi via mare nell’Ue parlano ancora una volta di un’Europa assente sul piano dell’accoglienza. Se nel 2018 sono state 115 mila circa le persone che hanno attraversato il mare per giungere in Europa, contro le 170 mila del 2017 (dati Unhcr), è bene ricordare che l’Ue, con i suoi 500 milioni di abitanti (senza contare la ricchezza dei paesi europei e le loro responsabilità internazionali nelle guerre in corso e nel sostegno alle dittature), dovrebbe farsi carico, se si potesse procedere a un’equa distribuzione, di circa 5 milioni di persone in fuga (circa 7% del totale dei profughi), e l’Italia (12% dei residenti nell’Ue) di circa 600 mila persone. L’Italia in realtà ha accolto poco più di mezzo milione di domande d’asilo nei 10 anni che vanno dal 2008 al 2017, e non in un solo anno, come avrebbe dovuto essere per equità. Altro che “abbiamo già dato”, come dice il ministro della propaganda. Tutta la politica europea sembra concentrarsi solo sui respingimenti. In primis l’Italia che di recente ha annunciato l’apertura dell’ennesimo bando per finanziare le operazioni di rinvio nei lager libici delle persone che sono riuscite a fuggire da quell’inferno. Una strategia in continuità con la politica di Minniti e del governo di centro sinistra, è bene ricordarsene, di criminalizzazione del salvataggio in mare e della solidarietà che, combinandosi con quella di Salvini di chiusura dei porti, ha fatto tragicamente aumentare il bilancio dei morti nel Mediterraneo. Gli sbarchi continuano nonostante tutto e nel silenzio di chi interviene solo al fine di condannare chi fa il soccorso in mare: migliaia di persone continuano a mettere a rischio la propria vita per raggiungere le coste italiane. In queste ore, insieme al futuro e alla credibilità dell’Ue, con il destino delle 49 persone bloccate al largo di Malta, sono in gioco anche le stesse fondamenta della democrazia, come ha sostenuto su queste pagine Luigi Ferrajoli. Se non si costruisce una ampia risposta sociale e culturale, oltre che politica, all’altezza della sfida, ricorrere alla magistratura e alla Corte Costituzionale non basterà. *Presidente Arci Migranti. Decreto sicurezza, ecco una “via d’uscita” per i Sindaci che lo contestano Redattore Sociale, 9 gennaio 2019 Due avvocate dell’Asgi hanno trovato il modo con cui i comuni possono continuare a rilasciare la carta d’identità ai richiedenti asilo: visto che il permesso di soggiorno non è più un documento valido per chiedere la residenza anagrafica, se ne possono presentare altri, come l’identificazione effettuata dalla Questura dopo lo sbarco. Come in una partita a scacchi, può essere la mossa che ribalta la situazione. E se verrà adottata dai sindaci “ribelli” al decreto sicurezza, toccherà al Ministero dimostrare che sbagliano. Secondo due avvocate esperti di immigrazione, Daniela Consoli e Nazzarena Zorzella, i sindaci, infatti, possono continuare a rilasciare la carta d’identità ai richiedenti asilo. Nel pieno rispetto della legge, anche del decreto sicurezza. In un loro articolo sul sito dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) spiegano infatti che l’articolo 13 del decreto sicurezza (convertito dal Parlamento nella legge 132 del 2018) “non pone alcun esplicito divieto, ma si limita ad escludere che la particolare tipologia di permesso di soggiorno” che hanno in mano i richiedenti asilo “possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza”. È il documento in sé, quindi, a non essere più valido, ma il richiedente asilo ha comunque diritto ad essere iscritto nell’anagrafe del Comune in cui risiede. Bisogna vedere allora se il richiedente asilo può esibire un altro documento, alternativo al permesso di soggiorno. Può sembrare un’interpretazione azzardata, ma le avvocate Consoli e Zorzella ne sono convinte. Anche perché se il decreto sicurezza avesse tolto il diritto all’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo, sarebbe stato “in palese contrasto non solo con una serie di norme gerarchicamente superiori - scrivono -, ma con gli stessi principi generali in materia di immigrazione che trattano di iscrizioni anagrafiche e che non sono stati modificati dal cosiddetto decreto sicurezza. In particolare, si veda l’art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998, secondo il quale le ‘iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani’“. Resta però il problema di quale documento alternativo il richiedente asilo possa presentare in Comune. Dato che nel decreto sicurezza non c’è scritto, “è compito dell’interprete procedere, colmando la lacuna e risalendo alla funzione che nell’ambito del diritto/dovere alla residenza anagrafica svolge l’esibizione del permesso di soggiorno”. In particolare, secondo le avvocate Consoli e Zorzella, il permesso di soggiorno ha solo il compito di dimostrare che l’immigrato è presente in Italia regolarmente. Quindi “gli interpreti e gli ufficiali di Governo dovranno chiedersi, nel silenzio del legislatore, quale documento possa, invece del permesso di soggiorno, assolvere alla funzione voluta dalla legge”. Ed è qui che c’è la pedina che permette ai Sindaci di giocare la loro mossa. “Per i richiedenti la protezione internazionale la regolarità del soggiorno, più che dal permesso di soggiorno che teoricamente potrebbero anche non ritirare o ottenere in ritardo come spesso accade, è comprovata dall’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione e quindi dalla compilazione del cd. “modello C3”, e/o dalla identificazione effettuata dalla questura nell’occasione. L’uno o entrambi i documenti certificano la regolarità del soggiorno in Italia, assolvendo perfettamente alle condizioni previste dalla legge per l’iscrizione anagrafica. Il tutto in linea, e comunque non in contraddizione, con la modifica legislativa di cui si discute. Ecco, pertanto, che le nuove disposizioni di cui al dl 113/2018 in materia di iscrizione anagrafica del (solo) richiedente asilo possono essere interpretate con effetto di non impedire detta iscrizione”. Quindi gli uffici anagrafe dei Comuni possono rilasciare la carta d’identità al richiedente asilo: è sufficiente che quest’ultimo presenti il “modello C3” o il documento con cui la Questura ha accertato la sua identità. Migranti. SeaWatch e Sea Eye. Unhcr: “No a negoziati sulla pelle delle persone” Redattore Sociale, 9 gennaio 2019 Dopo 18 giorni alcuni migranti rifiutano il cibo, si temono atti di autolesionismo. Sami (Unhcr): “Fase salvataggio e sbarco nel più vicino porto sicuro vanno distinte da accoglienza”. Di Giacomo (Oim): “Se anche salvare vite è una colpa, siamo al punto più basso solidarietà”. A giugno la proposta Unhcr-Oim caduta nel vuoto. Dopo settimane le due navi delle ong Sea Watch e Sea Eye attendono ancora un porto sicuro di sbarco. E le condizioni a bordo sono sempre più difficili. Sulla Sea Watch (al diciottesimo giorno in mare) alcuni dei 32 migranti hanno iniziato a rifiutare il cibo. Le forze sono allo stremo e i medici temono atti di autolesionismo, per questo anche oggi, Kim, il capomissione, ha riunito le persone per spiegare che quello che si sta portando avanti è un “combattimento difficile”. “Da una parte c’è la politica, dall’altra la società civile, che combattono l’una contro l’altra. E il combattimento sta diventando sempre più estremo”. Mentre le ore passano senza l’assegnazione di un porto sicuro, vanno avanti le trattative diplomatiche e si ripetono gli appelli da parte delle organizzazioni umanitarie alla responsabilità europea. Anche l’Unhcr, dopo aver sollecitato gli stati il 31 dicembre scorso, ieri ha chiesto di nuovo una soluzione rapida per i migranti a bordo. “Non era mai successa una cosa del genere: tenere le persone in mare per così tanti giorni. Soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di un un numero basso di persone, 49 in tutto. È il limite a cui si è arrivati continuando con questo approccio barca per barca - dice a Redattore sociale Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa. Nonostante siano stati fatti diversi tentativi per portare i paesi europei a discutere dei meccanismi di sbarco, che devono essere immediati, e a distinguere questa fase da quella cosiddetta di “redistribuzione” dei richiedenti asilo”. A giugno, in occasione del summit europeo, Unhcr e Oim avevano provato a portare avanti una proposta di collaborazione tra Ue, Onu e Unione Africana, che prevedeva piattaforme di sbarco e redistribuzione dei migranti tra i paese europei. “Noi abbiamo fatto una proposta che partiva dalla considerazione che il lavoro di salvataggio e sbarco si doveva fondare sul comune senso di responsabilità - spiega Sami -. La nostra proposta comprendeva i paesi europei e alcuni paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo, nel Nord Africa. Esclusa la Libia che, lo ripetiamo, noi non consideriamo un porto sicuro. È un paese verso il quale le persone salvate in acque internazionali non devono essere riportate”. Il progetto, “nonostante fosse molto operativo e potesse svolgersi passo per passo, vedendo tutti i paesi cooperare in maniera equa, non è andata avanti - aggiunge Sami. Il negoziato politico fatto sulla pelle delle persone, in un approccio barca per barca, è diventato una modalità di discussione e di relazione tra alcuni paesi europei, e questo è il dato più preoccupante che non possiamo accettare”. Droghe. Cannabis a Washington: la legalizzazione non fa aumentare il consumo di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 9 gennaio 2019 Uno dei principali miti proibizionisti è quello che sostiene che ad un processo di regolazione dell’uso ricreativo della cannabis per gli adulti, sia associabile un aumento dell’uso della sostanza da parte degli adolescenti. Questo argomentare si basa sull’assunto che una maggiore disponibilità legale della sostanza favorisca l’accessibilità della stessa anche a soggetti esclusi perché minorenni. Ovviamente vi sono numerosi fattori di confusione, a partire dal fatto che un sistema illegale assicura l’accessibilità a chiunque, praticamente ovunque e a qualsiasi orario. D’altra parte un sistema regolato che riesce a far emergere larga parte (se non tutto) il mercato illegale della cannabis sottrae certamente disponibilità, anche a coloro che ne sono esclusi: meno mercato nero, meno sostanza, meno spacciatori. Inoltre la rimozione del tabù ha probabilmente altri due effetti: il primo di rendere meno trasgressivo per l’adolescente (e quindi meno attrattivo) un comportamento che potrà essere legale nel giro di pochi anni, dall’altro di rendere più facile l’ammissione dell’uso, visto il processo di normalizzazione in atto. Ci viene in aiuto un recentissimo articolo, commissionato dal Nida (National Institute on Drug Abuse) e pubblicato dalla rivista americana Jama Pedriatics, che ha riesaminato un lavoro di Cerdà et al. pubblicato nel febbraio 2017 che riferiva un aumento della prevalenza d’uso nella popolazione studentesca dello Stato di Washington (che ha legalizzato a partire dal 2014) sulla base dei dati del Monitoring the Future survey (Mtf). La nuova ricerca (Dilley, Richardson, Kilmer et al. Prevalence of Cannabis Use in Youths After Legalization in Washington State), firmata anche dalla stessa Cerdà, ha verificato i fattori confondenti dei dati presi in esame dal precedente studio, e li ha confrontati con quelli derivanti dal Washington Healthy Youth Survey (Hys) dal 2010-2012 al 2014-2016. A differenza dell’Mtf che è realizzato a livello federale per fornire stime macro-regionali (e i cui dati furono adattati per creare un modello per ciascun stato), l’Hys è costruito a livello locale proprio per individuare un campione rappresentativo degli studenti dello Stato di Washington. C’è una enorme differenza di ampiezza della popolazione rispondente (3000 studenti contro 50.000). Inoltre si è notata una differenza rilevante nella composizione del campione Mtf prima e dopo la legalizzazione: gli studenti definibili appartenenti a categorie di “basso livello socio-economico” pre-legalizzazione erano molto inferiori rispetto a quelli presi in considerazione nelle annualità post-legalizzazione. Ebbene, valutati i dati del primo studio e quelli del Washington Healthy Youth Survey, si conferma una diminuzione, anche rilevante dei consumi negli adolescenti, mentre rimangono stabili i consumi fra gli alunni dell’ultimo anno delle medie superiori (17-18enni). Nello specifico, per gli studenti della terza media inferiore (13-14 anni) la prevalenza cala dal 9.8% al 7,3% (-25%) e per quelli del secondo anno delle medie superiori dal 19,8% al 17,8% (-10%). Questi dati confermano altri studi riferiti a Colorado e California in cui viene evidenziato come il consumo in adolescenza di cannabis non viene aumentato dai processi di regolamentazione legale, semmai diminuisce. Per i ricercatori è certamente ancora presto per trarre conclusioni a lungo termine: serve una maggiore ricerca, anche qualitativa, sui modelli di consumo e sulle differenze di applicazione sul territorio della legalizzazione. Molte città e contee di Washington hanno applicato diversamente la regolamentazione, alcune vietando del tutto la commercializzazione. Questo può influire nel campionamento e al contempo essere utile per confrontare come diverse applicazioni influiscano più o meno sui consumi. Stati Uniti. Il detenuto Scott suicida nel braccio della morte di Sara Volandri Il Dubbio, 9 gennaio 2019 L’esecuzione di Scott Dozier era stata rinviata due volte. Una storia tragica e paradossale quella del 48enne Scott Dozier che mette in luce la tortura quotidiana tortura psicologica che subiscono i detenuti nel braccio della morte. Dopo che la sua esecuzione era stata rinviata già due volte, Dozier condannato a morte nello stato del Nevada si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo ad una presa dell’aria della sua cella. La tragica notizia è stata resa nota ieri mattina nell’edizione online del Washington Post che cita il Nevada Department of Corrections il quale ha confermato il suicidio. La scorsa estate era stata fissata, per la seconda volta, l’esecuzione con iniezione letale dell’uomo condannato per duplice omicidio. “Non ho più grandi speranze, la vita in prigione non è vita, se hanno deciso di uccidermi, procedano”, aveva detto, in un’intervista telefonica con un giornale locale, rilasciata pochi giorni prima dell’esecuzione poi bloccata per un ricorso contro il cocktail letale che, per la prima volta, le autorità del Nevada intendevano usare. Condannato in Arizona nel 2005 e poi in Nevada nel 2007, Dozier nel 2016 aveva rinunciato a lottare per salvarsi la vita e a presentare ricorsi, dicendosi pronto a morire. Ma nel Nevada, dove l’ultima esecuzione risale ad oltre 10 anni fa, la camera della morte è, come in altri stati, bloccata dall’impossibilità di avere a disposizione i farmaci un tempo usati per l’iniezione letale, a seguito di prese di posizioni di case farmaceutiche dietro le pressioni di opinioni pubblica e comunità internazionale. Una circostanza che ha permesso ai suoi avvocati di ottenere i rinvii. L’ultimo lo scorso luglio a seguito dell’azione della casa produttrice del midazolam, un comune sedativo che si intendeva usare nel cocktail letale. La casa farmaceutica Alvogen aveva accusato infatti lo stato del Nevada di aver acquistato il farmaco “con un sotterfugio, nascondendo l’intento di usarlo nelle esecuzioni”. Un giudice federale aveva accolto il ricorso riconoscendo che lo stato del Nevada aveva agito in “cattiva fede”. Già nel 2017 l’esecuzione di Dozier era stata bloccata da un giudice che aveva accolto il ricorso presentato contro l’uso di un altro farmaco, il cisatracurium, agente che induce alla paralisi muscolare, che, secondo le testimonianze di esperti, avrebbe annullato gli effetti dei sedativi, provocando quindi una morte per soffocamento da sveglio al condannato. Filippine. Come si vive nel carcere di Manila di Gabriele Fazio agi.it, 9 gennaio 2019 Secondo un rapporto internazionale, nella prigione delle Filippine c’è la più alta densità di popolazione per metro quadrato. Un ragazzo alza la voce in pubblico, è disperato, la famiglia lo ha rinnegato perché gay, ha un coltello con sé ma non l’ha tirato fuori, viene bloccato dalla polizia, ha solo 16 anni, ma gli agenti che operano il blocco macchiano la data di nascita, così viene scambiato per un maggiorenne e mandato in un carcere che non gli compete. Il caso viene risolto più o meno velocemente, un paio di mesi, quando arrivano i risultati delle analisi dei suoi denti che dimostrano la sua vera età. La condanna per il reato commesso consisterebbe nel pagamento di 4 dollari o in 15 giorni di detenzione, ma da quelle parti la burocrazia del sistema giudiziario è incancrenita e il carcere non riceve alcun ordine di scarcerazione dal Dipartimento di previdenza sociale. Lui naturalmente protesta ma nessuno lo sta a sentire, non sa nemmeno a chi rivolgersi, perché quello in cui è finito non è un carcere come tutti gli altri ma qualcosa che assomiglia più a come ci immagineremmo un girone dell’inferno, un inferno dentro il quale il ragazzo verrà rinchiuso per un anno e nove mesi. Un accumulo di uomini dove la notte non si distingue dove finisce uno e inizia un altro, sdraiati per terra, anche nei bagni senza finestre, in 518 in uno spazio che ne potrebbe contenere al limite 170. Un luogo dove la notte l’aria si fa umida e si riesce a respirare esclusivamente il sudore degli innumerevoli compagni di cella, rintanati nei loro cartoni, a ricoprire fino all’ultimo centimetro di pavimento. Il sovraffollamento nelle carceri filippine, secondo prisonstudies.org, è il più alto al mondo, tocca il 463,6% (in Italia il 117,9%, 84esimo paese al mondo, sotto la Francia, sopra Tanzania, Corea del Sud, Taiwan e India), in notevole aumento dal 2016 quando il Presidente Rodrigo Duderte ha imbastito una violentissima campagna antidroga, una campagna dove il destino, per reati anche minimi legati allo spaccio, si risolveva in un omicidio (57 vittime ogni 35 giorni documentate dal New York Times) o in carcere, senza sapere se e quando si sarebbe rivista la luce del sole. Un luogo, il carcere di Manila, che ridisegna i contorni di qualsiasi concetto umanamente accettabile di riabilitazione. Il sovraffollamento da record infatti ovviamente poi sfocia nella formazione di un microcosmo dove non ci si può proprio aspettare che a comandare siano le guardie, una ogni 528 detenuti (il governo filippino ne raccomanda una ogni 7), così l’unico modo per umanizzare il più possibile il luogo è scendere a patti con le cinque mega gang che lo controllano, stare alle loro regole. “Qui c’è un equilibrio di pace e ordine”, ha detto al New York Times il capitano Jayrex Bustinera, portavoce e capo degli archivi del carcere. “Formalmente, non permettiamo ai detenuti di sorvegliare gli altri detenuti. Informalmente, lo facciamo a causa della mancanza di risorse”, fare diversamente, insomma, sarebbe impossibile. Una di queste gang si chiama Sigue Sputnik ed è comandata da un detenuto 37enne di nome Buboy Mendiola, in uno dei rari raid dell’amministrazione carceraria gli vengono trovati circa 13.500 dollari, frutto di una microeconomia assolutamente necessaria ai capi per soddisfare bisogni primari totalmente ignorati dallo Stato. Per cui a Natale con quei soldi vengono comprati maiali e polli per la loro festa, una parte viene messa da parte per le emergenze mediche e i servizi base del dormitorio come sapone e dentifricio. Lo scontro fisico chiaramente non c’è modo di poter essere evitato, così gli Sputnik hanno deciso di gestirlo, imponendo anche in quel caso delle regole ferree: una scazzottata costa 5 frustate con una mazza in legno laccata e targata Sputnik, e se qualcuno nello scontro perde sangue quel numero può salire a 15 o 20; avvicinarsi al visitatore di un altro detenuto costa 20 frustate, 25 se si osa anche solo strizzargli l’occhio. Regole magari severe, animalesche, ma che servono a gestire una situazione che viaggia sul filo della follia, tant’è che dopo sei anni passati dietro le sbarre l’avvocato del boss Mendiola gli ha comunicato che presto verrà scarcerato ed ora il problema è trovare un altro capo, non, dice, semplicemente qualcuno che si faccia rispettare, ma “qualcuno devoto, uno a cui importi la vita delle persone, che vuole fare le cose giuste e si dimostri giudizioso nel gestire la disciplina”. Finire nel carcere di Manila, in pratica, è come finire in un altro universo, dove cambiano le regole, cambia la religione, cambiano i punti riferimento, il concetto stesso di famiglia e si diventa solo, come le foto mostrano bene, carne accumulata dentro uno spazio che fa di tutto per non impazzire. Messico. Abortire in significa carcere, ora 200 donne sperano nell’amnistia, basterà? di Isabella Gerini Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2019 Duecento donne potrebbero essere liberate per decisione del nuovo governo messicano. Sono state condannate per omicidio quelle che hanno partorito un feto morto o che hanno avuto complicazioni ostetriche. Qualunque sia stata la causa della morte dei feti, a quelle donne non è stata concessa neppure una solida difesa legale. La maggior parte di loro arriva da zone rurali, è povera, fa parte di famiglie numerose e in un caso una detenuta spiega che non sapeva neppure di essere incinta dato che si sentiva bene. Lei ha perso il bambino nato di sette mesi e subito dopo deceduto. Questa amnistia però non risolve affatto il problema, dato che quel che servirebbe - e che le donne chiedono - è la depenalizzazione totale dell’aborto. La legge che in Messico criminalizza l’aborto risale al 2016 e in questi anni di assoluto regresso culturale abbiamo visto come il movimento femminista ha riempito le piazze per rivendicare il diritto all’aborto. Alcune raccontano di essere state arrestate per un’interruzione di gravidanza nonostante siano state stuprate. Pur avendo denunciato lo stupro, però, il carnefice non viene perseguito e invece lei è destinata a scontare una pena che può raggiungere i dieci anni. Dieci anni di vita per aver cercato di ribellarsi alla sorte che gli era toccata. L’America Latina in questi ultimi anni ha subito lo stesso regresso che ha colpito molte altre nazioni. Ricordiamo con dispiacere i viaggi del Papa in quelle zone e dunque le restrizioni dovute a un forte movimento antiabortista. Agli antiabortisti spetta prestigio e riconoscimento sociale e pensano perfino di essere vittime di femministe che spesso li hanno contestati. Ma alle donne non è dato il diritto di ribellarsi. Ribellarsi allo stupro così come alla maternità imposta. La questione è diventata così grave che le femministe chiedono un censimento delle donne incarcerate per quella ragione. Al momento risultano circa 200 casi, ma è un dato parziale. Una delle tecniche usate è quella di obbligare le donne arrestate a firmare una confessione dicendo loro che poi saranno libere. C’è un divario culturale e linguistico tra i messicani del Nord e quelli del Sud, che parlano solo i dialetti locali risalenti ai linguaggi Maya. A loro non sono forniti interpreti e quindi firmano i documenti scritti in lingua spagnola senza comprendere quello che c’è scritto. La criminalizzazione dell’aborto in Messico è sicuramente una conseguenza del fanatismo ultra cattolico che caratterizza la loro cultura. Non dimentichiamo che i corpi delle donne sono ritenuti oggetti da consumare e poi buttare nel deserto. I femminicidi sono tantissimi e tante lavoratrici vengono rapite, stuprate, torturate e poi uccise. Tante le lavoratrici e le loro figlie, una delle quali - per esempio - nell’ottobre scorso è stata uccisa perché le piaceva il calcio. Senza dimenticare le esecuzioni ai danni di donne - militanti, giornaliste, politiche - che hanno cercato di cambiare un po’ le cose. La condizione della donna è dunque conseguenza di una mentalità che grava su tutte le donne, obbligate a recitare copioni in cui i protagonisti sono gli stereotipi sessisti. L’amnistia potrebbe allora essere un segnale di cambiamento, uno di quei segnali rinviati a donne che quando sono in piazza devono scontrarsi con la polizia, che è parecchio violenta. Se gli atti intimidatori dicono che le donne non devono uscire o interessarsi ad altro che non sia la riproduzione e il matrimonio eterosessuale non si può immaginare che in Messico vi sia una resistenza attiva che coinvolge ogni persona del Paese. Nonostante le campagne di sensibilizzazione è chiaro che restano isolate molte donne che non sono in contatto con le militanti femministe. L’isolamento è un altro dei problemi che coinvolgono le donne della zona a Sud del Messico. Sono donne che sfilano compatte per difendere la terra, ma non fanno la stessa cosa per difendere la propria autonomia e autodeterminazione da un punto di vista di genere. Quello che speriamo è che all’amnistia succeda dunque la depenalizzazione dell’aborto e poi la fine dell’omertà e dell’atteggiamento protettivo che lo Stato dimostra nei confronti di assassini e stupratori. Senza un cambiamento di questo tipo le donne rimarranno altrimenti soggiogate e mai libere di scegliere la vita che vogliono. Indonesia. Rilasciato dopo 11 anni di carcere l’attivista Johan Teterissa amnesty.it, 9 gennaio 2019 Dopo 11 anni di carcere, Johan Teterissa, insegnante, attivista e pacifista indonesiano, è stato finalmente rilasciato il 25 dicembre 2018. Johan aveva partecipato ad una protesta pacifica di fronte al Presidente dell’Indonesia nel 2007. Ora vive nella sua città natale sulle isole Molucche, insieme alla sua famiglia. Con lui è stato rilasciato anche un altro prigioniero di coscienza: Johanis Riry. Sfortunatamente, gli altri sei prigionieri di coscienza di molucchesi sono ancora nella prigione di Ambon. Johan Teterissa ha ringraziato tutti i nostri sostenitori che hanno partecipato alla campagna per chiederne la liberazione. Ha inoltre fatto sapere che le lettere di solidarietà ricevute hanno rappresentato un sostegno per lui e per tutti gli altri prigionieri di coscienza delle isole Molucche che vivono a migliaia di chilometri di distanza dalle loro famiglie. La storia di Johan Teterissa - Prima di essere imprigionato, Johan Teterissa era insegnante di scuola elementare. Il 29 giugno 2007, in occasione della Festa nazionale della famiglia, il governo aveva organizzato una cerimonia nel capoluogo delle Molucche, Ambon. Questa città è un luogo strategico per il governo centrale: il cuore dell’irredentismo indipendentista ma, soprattutto, il centro di uno scontro religioso tra cristiani e musulmani che, tra il 1999 e il 2002, ha fatto migliaia di vittime e che non sembra del tutto ricomposto. All’alba del 29 giugno 2007, Johan insieme ad altri 21 attivisti, insegnanti e contadini, supera i cordoni di sicurezza, inscena davanti al presidente una danza tradizionale di guerra e, al termine, sventola la “Benang Raja”, la bandiera simbolo del movimento d’indipendenza per la Repubblica delle Molucche meridionali. Immediatamente arrestati e presi a calci e pugni non appena fuori dalla vista del presidente, i 22 attivisti furono portati alla stazione di polizia di Ambon e lì torturati per 11 giorni: li hanno fatti strisciare con la pancia sull’asfalto rovente, infilato palle da biliardo in bocca, frustato con cavi elettrici, esploso colpi di fucile vicino alle loro orecchie e colpiti col calcio dei fucili, sempre sulle orecchie, fino a farli sanguinare. Mentre le denunce di queste torture non sono state prese in considerazione, il 4 aprile 2008 Teterissa è stato condannato all’ergastolo per aver commesso il reato di “ribellione”. La pena è stata ridotta a 15 anni. Senza il nostro intervento la sua condanna sarebbe terminata nel 2023. Nel marzo 2009, Teterissa viene trasferito in una prigione sull’isola di Giava, a migliaia di chilometri di distanza da Ambon. Per i suoi familiari, andare a trovarlo è praticamente impossibile. Arabia Saudita. Quattro anni fa le 50 frustate al blogger saudita Raif Badawi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 gennaio 2019 Il 9 gennaio di quattro anni fa, all’esterno della moschea principale di Gedda (la città dove tra una settimana si giocherà la Supercoppa italiana Juventus - Milan), al termine della preghiera del venerdì e di fronte a una folla giubilante che invocava la grandezza di Allah, il blogger saudita Raif Badawi subiva 50 frustate. Uno spettacolo turpe. Badawi è un eretico, una sorta di Giordano Bruno del XXI secolo, che ha sfidato l’estremismo religioso di stato e la paura, altrettanto di stato, e lo stretto legame tra il primo e la seconda. Arrestato il 17 giugno 2012 per aver messo online un forum di dibattito chiamato “Liberi liberali sauditi”, dopo aver rischiato persino la pena di morte per “apostasia”, il 7 maggio 2014 è stato riconosciuto colpevole di “offesa all’Islam” e condannato a 10 anni di carcere, a 1000 frustate e a una multa di un milione di rial. La sentenza è diventata definitiva il 6 giugno 2015 (si noti: sei mesi dopo l’esecuzione delle 50 frustate!). Da quel 9 gennaio, ogni venerdì è stato vissuto con la paura che le frustate si sarebbero ripetute, 50 a settimana per 20 settimane consecutive. Grazie a un’enorme mobilitazione internazionale, le altre 950 frustate non hanno avuto luogo. Dal momento dell’arresto sono passati sei anni e mezzo e Badawi è ancora in carcere. La moglie Ensaf Haidar, rifugiata politica in Canada insieme ai loro tre figli (Najwa di 15 anni, Terad di 14 e Miryiam di 11), porta avanti una tenace ma sempre più solitaria campagna per il suo rilascio. Quando assisterete a Juventus - Milan, tra una settimana, ricordatevi di Raif Badawi.