Fine pena Mai di Antonello Laiso La Repubblica - Napoli, 8 gennaio 2019 Il tema non è nuovo anzi, esso fa parte di temi di quelle battaglie di lunga data, di battaglie condotte in particolar modo da Marco Pannella, che si sono susseguite incontrandosi con altre tematiche del sociale pari modo toccanti. Parliamo dell’ergastolo, ovvero un qualcosa di quanto più punitivo nel nostro ordinamento della Giustizia, un qualcosa a cui ogni speranza, ogni sofferenza per quella altrettanto sofferenza che è la pena detentiva viene annullata dalla non speranza. Quella non speranza che un giorno scontata quella dovuta pena per quel debito a cui si è tenuti ad onorare per un delitto commesso si possa condurre una vita normale. Chi ha subito quella pena aspetta un qualcosa che mai potrà essere se non nei sogni realizzato, un qualcosa a cui né buone condotte né il tempo né rieducazione possono dar speranza. Ma la detenzione non nasce come fine rieducativo e di debito avverso a quei delitti commessi in società? Quale fine rieducativo può aver un fine pena mai, verso un detenuto che potrà diventare anche un angelo nell’ inferno di quel carcere senza che possa in nessun modo cambiare la sorte anche futura della sua vita? Non si vuol discutere qui giammai su quelle norme del nostro Codice Penale ma accentuare quella dovuta sensibilità a norme umanitarie e comunitarie di tutta quell’Eurozona a cui apparteniamo. La speranza di un fine pena aiuta tantissime volte, aiuta sempre in quel percorso di rieducazione, in quel percorso a riscatto di una male fatto, in quel percorso spesso lungo e doloroso da cui si potrà e si dovrà intravedere prima o poi uno spiraglio di luce in fondo a quel tunnel. Ecco quello spiraglio che aiuta necessariamente a vivere e mantiene in vita quella fiamma esile di quella speranza di poter uscire un giorno da quelle carceri. Nell’ergastolo tutto cambia, tutti i giorni diventano uguali, come tutte le settimane e tutti gli anni, l’ergastolo equivale ad una morte spirituale mantenendo il fisico in vita, ma si sa un fisico senza quella necessaria vita spirituale diventa uno zombie. Probabilmente la condanna all’ergastolo supera la sofferenza della morte poiché’ questa quando arriva termina ad ogni percezione dello spazio e del tempo, termina ad ogni dolore, termina ogni frustrazione come ogni gioia ed ogni affetto, l’ergastolo accentua la sofferenza dello stare in vita ed aspettare. Qualcosa in questo senso si è mosso con la decisione della Corte Costituzionale di alleggerire un poco quelle norme di chi viene condannato a quella pena. Ovvero alla concessione di lavoro esterno, alla concessione di permessi premio, alla semilibertà ed alla libertà condizionale dopo almeno ventisei anni di pena, tali rigide concessioni devono essere obbligatoriamente subordinate a determinati requisiti. Chi subisce quella pena ha commesso efferati delitti, che almeno possa disporre di quella speranza. Il cimitero dei vivi di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 8 gennaio 2019 La Polizia penitenziaria opera in condizioni inumane e si ribella. “Il cimitero dei vivi”. Con queste parole il deputato Filippo Turati, nei primissimi anni del secolo scorso, definiva le carceri italiane. Poco, in verità, è mutato da allora. Persino i muri decrepiti sono rimasti gli stessi, e la medesima disperazione custodiscono. Lo sanno bene coloro che la galera la respirano notte e giorno. Non solo i detenuti, ma anche gli agenti della polizia penitenziaria, 35 mila tra uomini e donne (31 mila i primi, circa 4 mila le seconde), i quali, reclusi per scelta superato un concorso pubblico, ricevono un compenso mensile trai 1.000 e i 1.200 euro per sfiancanti turni di lavoro, che dovrebbero essere di sei ore al dì ma che finiscono con il dilatarsi per esigenze di servizio e carenza di personale, dato che in certi istituti è previsto un agente per ogni 3,8 detenuti. Eroi senza lode, i poliziotti penitenziari nel primo semestre del 2018 hanno sventato 585 tentativi di suicidio da parte dei ristretti e sono intervenuti per bloccare 5.157 atti di autolesionismo. Il che implica che episodi di questo genere sono all’ordine del giorno e copiosi in ogni istituto della nostra penisola. Nel 2017 le morti volontarie evitate furono 1.135, gli atti di autolesionismo 9.510; l’anno precedente le prime furono 1.011, i secondi 8.586, come ci raccontano i dati raccolti e forniti a Libero dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). Codesti numeri ci consegnano la fotografia di un sistema penitenziario che non funziona come dovrebbe, in quanto le carceri non dovrebbero essere luoghi in cui il trapasso costituisce la soluzione, bensì ambienti in cui si sceglie di rinascere, intraprendendo un nuovo percorso esistenziale, alternativo alla devianza. Lo scopo rieducativo è rimasto sulla carta. Nella realtà, purtroppo, sempre come diceva Turati, “le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Questo perché un trattamento individualizzato di riabilitazione e rieducazione del reo diventa impossibile a causa di una piaga che è tornata ad essere dolorosa e infetta: il sovraffollamento endemico. La popolazione carceraria aumenta ma di contro non cresce il numero degli agenti della polizia penitenziaria, i quali vengono oberati di lavoro e sono costretti a resistere ad ogni genere di disagio. Rivolte, risse, aggressioni, rappresentano pane quotidiano. “Le carceri sono tornate ad essere incandescenti. Per questo sollecito di nuovo il ministro della Giustizia Bonafede ad indire un incontro sul tema. Il crescente sovraffollamento e l’escalation di eventi critici sono fenomeni allarmanti”, dichiara il segretario generale del Sappe, Donato Capece, augurandosi che “quanto prima Bonafede si confronti con chi rappresenta le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, i quali lavorano 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, con grande stress nelle prigioni italiane caratterizzate da costante violenza contro gli agenti”. Insomma, i poliziotti chiedono di essere ascoltati al fine di fornire il loro contributo, volto a risolvere le criticità di un sistema che “necessita con urgenza di interventi, anche a tutela del personale”. A fronte di una capienza regolamentare di 50.581 reclusi, al 31 dicembre 2018 i nostri istituti di pena ospitano 59.655 detenuti, di cui 20.255 stranieri (fonte: Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Il malessere vissuto dai carcerati anche a causa del limitato spazio vitale, condizione che acuisce le tensioni, si riflette sugli agenti, che condividono coni condannati la quotidianità tra le sbarre e persino la scelta di togliersi la vita. Se nel 2018 si sono suicidali 65 detenuti, negli ultimi tre anni 55 poliziotti. E dal 2000 ad oggi sono stati oltre 110. Il 2019 è appena iniziato ma già si contano i cadaveri. L’ultimo episodio risale a venerdì scorso: un assistente capo di 41 anni, padre di due bambine, originario di Cagliari e da diversi anni in servizio presso il carcere di San Vittore a Milano, si è sparato. “Il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria sembra non avere fine” commenta Capece, il quale ritiene che “sui temi del loro benessere lavorativo Amministrazione Penitenziaria e ministero della Giustizia sono in colpevole ritardo e non hanno fatto nulla di concreto. Non si può più tergiversare su questa drammatica realtà. Ministro, se ci sei batti un colpo”, conclude il segretario. Se è vero, come sosteneva lo scrittore Dostoevskij, che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, non ci resta che constatare che in Europa ci distinguiamo per inciviltà. Ci consola sapere che la chiusura dei porti all’arrivo in massa di immigrati che - loro malgrado - finiscono con il vivere per strada e di conseguenza delinquere, consentirà di tenere sotto controllo almeno il numero esorbitante di stranieri che nelle nostre carceri dimorano. Siamo alla canna del gas. Non c’è più spazio. Non c’è più speranza. Servizio Civile nell’esecuzione penale esterna: al via quattro progetti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2019 Anche quest’anno verranno impegnati decine di nuovi volontari del Servizio Civile presso gli uffici dell’esecuzione penale esterna. Si tratta di giovani di età non superiore a 28 anni, che saranno impegnati per tutto l’anno presso 30 uffici dell’esecuzione penale esterna. Lo prevede il Bando del Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, pubblicato il 21 agosto scorso, con il quale sono stati ammessi al finanziamento i seguenti quattro progetti: “Insieme: per il potenziamento della rete di giustizia di comunità”, che impiegherà 44 volontari presso gli uffici della Direzione generale e gli undici Uffici interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe); “Guidare l’inserimento operativo dei volontari per l’accompagnamento nell’Esecuzione Penale esterna”, elaborato dall’Uiepe della Puglia e Basilicata, per l’inserimento di 14 volontari in cinque sedi Uiepe del distretto; “Progetto di Comunità”, elaborato dall’Uiepe del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta, che impegnerà 24 volontari in tutte le undici sedi dell’interdistretto; Progetto “Mettersi in prova pensando al futuro”, elaborato dall’Uiepe del Veneto, Trentino Alto Adige-Süd Tirol e Friuli Venezia Giulia, che prevede l’inserimento di 4 volontari in due uffici territoriali. Progetti di vitale importanza, come quello per il potenziamento della rete di giustizia di comunità che prevede l’assistenza dei detenuti in misure alternativa alla pena carceraria ed ex detenuti. Si intende offrire ai giovani in servizio civile un percorso di impegno e di formazione che permetta di fornire una forte esperienza di servizio che, adeguatamente seguita in termini di formazione, verifica e ri-progettazione, dia spunti sulla scelta professionale e orienti i giovani ai valori della giustizia e del reinserimento sociale. Ma soprattutto il progetto promuove, organizza e partecipa, in collaborazione con gli operatori penitenziari, a momenti di incontro, sensibilizzazione, riflessione e diffusione delle tematiche legate all’esecuzione della pena, anche nell’ottica della promozione del Servizio Civile come strumento di diffusione della solidarietà e della cittadinanza attiva. Gli obiettivi del progetto è quello di arrivare, da parte dello Stato, ad incrementare le convenzioni con gli enti gli enti pubblici dal 48% al 60% e quelle con le associazioni di volontariato dal 42% al 50%. Ma anche, sempre come situazione di arrivo, all’utilizzo di esperti psicologi per almeno il 20% di imputati che richiedono la messa alla prova. Si tratta della seconda edizione di un progetto che ha avuto inizio nel 2017, tuttora in corso, e che ha permesso ad altri 48 giovani volontari del servizio civile di fare esperienza nell’esecuzione penale esterna, lavorando in 12 uffici e supportandone l’operatività nel settore della sospensione del procedimento con messa alla prova. Il progetto ora è stato esteso anche al settore delle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento alla detenzione domiciliare. L’Uiepe, tramite le parole dell’allora dirigente generale Lucia Castellano, aveva lanciato una sfida presentando il primo progetto del 2017: quello di far aumentare il numero di misure alternative e di sanzioni di comunità. L’ostentazione del disumano in assenza di opposizione politica di Marco Revelli Il Manifesto, 8 gennaio 2019 Nella terra di nessuno dei valori, ricostruire un’articolazione tra l’opposizione morale - che resiste ma stenta a esistere - e un’opposizione politica che non c’è più e richiede una ricostruzione ab imis, diventa impellente e vitale. Al punto più basso dei diritti umani nell’intera storia dell’Italia repubblicana, di fronte a un governo che alza come bandiera la propria ostentazione del disumano, dobbiamo constatare l’inedita assenza di un’opposizione politica. Opposizione morale sì, da parte di qualche sindaco coraggioso, di qualche vescovo fedele al vangelo, di qualche persona di buona volontà che non si arrende al deserto che cresce. Ma sul piano politico il vuoto. Anzi un pessimo pieno, con una destra (FdI e FI) che sul terreno delle politiche securitarie e migratorie tende a scavalcare a destra la peggior destra di governo proponendo blocchi navali e politiche segregazioniste (leggetevi Libero e Il Giornale se siete di stomaco forte). E quella che fu la sinistra che sul piano delle politiche sociali riesce ad essere persino peggio del governo difendendo austerità e legge Fornero, attaccando l’istituto stesso del reddito di cittadinanza, mettendosi al seguito degli impresentabili Commissari europei nell’assumere come dogmi i suicidi vincoli comunitari; mentre su quello delle politiche migratorie e della difesa della Costituzione manca totalmente di credibilità, delegittimata dalla propria stessa storia recente. Si pensi a quanto accaduto alla Camera a fine anno, quando le esibizioni circensi di Emanuele Fiano in difesa della Costituzione platealmente umiliata dalla coalizione giallo-verde sono apparse a tutti grottesche, perché provenienti da chi quella stessa Costituzione aveva cercato di fare a pezzi con uno sciagurato referendum, e l’oltraggio alla discussione parlamentare l’aveva perpetrato compulsivamente (ricordate?) a colpi di canguri e voti di fiducia addirittura in materia di legge elettorale e revisione costituzionale. O si rifletta sull’attuale caccia alle streghe nei confronti delle Ong, su cui il Pd è costretto a tacere dopo lo sciagurato “codice Minniti” che di quella damnatio boni aveva inaugurato la via. O, ancora, ci si soffermi sulla vicenda del cosiddetto decreto Salvini. Possibile che nessuno abbia trovato nulla da eccepire (sia pur con il rispetto dovuto alla persona) alla scelta del Presidente della Repubblica di firmare senza se e senza ma quel testo indecente, palesemente in antitesi con i principi fondamentale della nostra Carta. Se quel testo fosse stato rinviato alla Camere, o se almeno fosse stato accompagnato da un messaggio presidenziale con i necessari caveat, i “sindaci coraggiosi” non sarebbero stati costretti a quel ruolo di supplenza nella custodia della Costituzione che sarebbe spettato a figure istituzionali ben più in alto, incassando peraltro dal ceto politico di quella che illusoriamente continua a considerarsi “sinistra di governo” non una solidarietà piena, ma timidi balbettii, pieni di distinguo e di formalistici legalismi, come se il principio della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza fossero cose di cui vergognarsi anziché strumenti necessari in casi di emergenza umanitaria. La ragione di tanto fariseismo se l’è lasciata scappare Stefano Folli sulle pagine del quotidiano d’area, Repubblica, definendo “l’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris” discutibile, anzi deplorevole perché compiuta “in sfregio alle istituzioni”, e pericolosa, perché - qui sta il vero nocciolo del discorso - creerebbero, con il loro richiamo alla coscienza e il loro radicalismo, “un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che voglia risalire la china”. S’intuisce qui, neppur tanto tra le righe, il profilo di un progetto politico che sta venendo avanti sotto traccia, per allusioni e illusioni, e che vedrebbe - in opposizione ai nuovi populismi - la costruzione di un fronte unito esteso dai malpancisti di Forza Italia ai vetero-progressisti del Pd, composto da tutti i pragmatici dell’esistente, dai rappresentanti di tutte le élites, di tutti gli interessi, da quelli un tempo incarnati dal partito azienda berlusconiano fino a quelli visibili nel parterre della Leopolda renziana. È in fondo l’esperimento che si sta tentando nel laboratorio-Torino in vista delle regionali del Piemonte, dove il governatore uscente Chiamparino sta lavorando a un “fronte del SI” aperto a tutti i fautori del Tav e in generale delle Grandi opere (al “partito degli affari”, insomma). E dove il neo-eletto segretario regionale Pd, Paolo Furia, ha scoperto gli altarini dichiarando, nella sua prima intervista in carica, che in questa fase politica “è giusto interloquire con la pancia delusa di Forza Italia” (proprio così, non con la testa, che sarebbe già inquietante, ma con la pancia, cioè con l’organo più vorace), soprattutto se “la Lega continuerà a governare con i 5 Stelle” (che sono selezionati evidentemente come il “nemico principale”, molto meno allarmante dello xenofobo Salvini e dei suoi pragmatici giannizzeri). Paolo Furia è considerato esponente della “sinistra” del Partito (figuriamoci gli altri!). La sua vittoria sul renziano Mauro Marino è stata salutata come una svolta. Ciò non toglie che utilizzerà la nuova adunata del 12 gennaio dei Si Tav - che con coazione a ripetere si sono dati di nuovo appuntamento in Piazza Castello, con tanto di madamine, notai e banchieri, industriali e commercianti - come apertura della lunga campagna elettorale per “rimontare la china” (come dice Folli). Il fatto è che nel corso del lungo ciclo di sistematico taglio delle radici la sinistra ha via via decostruito l’intero proprio patrimonio culturale, politico e morale giungendo infine a questo “punto zero” dei valori e dell’identità, in cui la cultura diventa vizio salottiero e la morale viene stigmatizzata come moralismo, mentre l’unico metro di giudizio diventa il potere (potere senza egemonia, potere senza coscienza, infine potere senza potere, emblema di una sinistra incosciente e inconsistente, priva di radicamento sociale e di orizzonte ideale). In questa terra di nessuno dei valori, ricostruire un’articolazione tra l’opposizione morale - che resiste ma stenta a esistere - e un’opposizione politica che non c’è più e richiede una ricostruzione ab imis, diventa impellente e vitale. Con molta probabilità, a riempire quello iato tra etica e politica ci proverà la Chiesa, l’unica a conservare il senso della “coscienza” e delle obiezioni ad essa connesse, e a non risolvere l’idea di giustizia nella lettera della legge. Ma sarebbe impresa piena di rischi (sarebbe un ritorno di confessionalismo, etico certo, ma pur sempre confessionale) e non sarebbe indolore anzi, comporterebbe una concreta possibilità di scisma che allargherebbe il cratere in cui ci dibattiamo anziché bonificarlo. Per questo la cultura laica non può chiamarsi fuori. Rivisitare la vecchia “questione morale” che funzionò a suo tempo come emblema di diversità, adeguandola al nuovo mondo, nell’affermazione della centralità dei diritti umani universali e della fraternità sociale, è una delle vie per uscire dal labirinto della paura e dell’impotenza in cui ci siamo cacciati. Prima che l’eterno Minotauro ci divori. Ecco perché sulla legittima difesa la maggioranza non andrà in tilt di Errico Novi Il Dubbio, 8 gennaio 2019 Il Ddl caro alla Lega non stravolge la disciplina: può solo evitare processi fiume. Come finirà sulla legittima difesa? Basterà poco per avere le prime risposte: venerdì prossimo scade il termine per presentare gli emendamenti in commissione alla Camera e un primo segnale verrà dalle eventuali richieste di modifica targate Cinque Stelle. Qualora fossero numerose, e se arrivassero anche da deputati estranei alla fronda emersa sul dl Sicurezza, la Lega avrebbe di che preoccuparsi. Ma i vertici del Carroccio non manifestano una simile ansia. Da ultima, ma con l’autorevolezza che le è dovuta per competenza in materia, è stata la responsabile della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno ad allontanare i dubbi. In un’intervista sul Messaggero di ieri, la ministra ha detto che le nuove norme sulla legittima difesa sono di “buonsenso” e che il guardasigilli Alfonso Bonafede “le condivide in pieno”. Tanto dovrebbe bastare. Lo stesso Matteo Salvini poche ore prima si era detto certo che sulla legge a lui così cara “non ci saranno scherzi” da parte dell’alleato di governo. E in effetti, oltre all’importanza che i leghisti assegnano al provvedimento, c’è una questione di merito a rendere le sorprese alquanto improbabili, in questo caso. Si tratta dell’effettivo impatto che le nuove norme potrebbero determinare sui processi. Il punto è che non si tratta di rivoluzioni. Piuttosto, c’è l’esclusione della punibilità per chi agisce “in stato di grave turbamento”, che dovrebbe evitare almeno in qualche caso il rinvio a giudizio o comunque ridurre i tempi dell’accertamento. Non si tratta di un effetto da poco. Anzi. È proprio quanto la Lega, ma persino il premier Giuseppe Conte, confidavano di ottenere dal nuovo testo. Sempre nell’intervista di ieri, Bongiorno ricorda che “da avvocato ho difeso un gran numero di persone aggredite in casa: anche quando poi sono state assolte, hanno avuto la vita segnata dal calvario di processi lunghissimi”. E nella conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio aveva spiegato la decisione di “riformare” la legittima difesa senza “sconvolgerla” proprio perché “in alcuni casi pazzeschi il soggetto interessato è rimasto assoggettato al triplo grado di giudizio e, solo dopo anni, è stato assolto”. Su tale efficacia si pronunceranno avvocatura e magistratura nei prossimi due giorni. Nella commissione Giustizia di Montecitorio, domani sarà audito il presidente del Cnf Andrea Mascherin, il giorno dopo toccherà a una delegazione dell’Anm, guidata dal presidente Francesco Minisci. Quest’ultimo potrebbe lamentare un restringimento del margine di discrezionalità oggi lasciato ai magistrati. Va però detto che già con le norme attuali è altissima la percentuale di casi in cui chi reagisce a un’aggressione viene assolto. Nelle remote circostanze in cui arriva, la condanna per eccesso colposo è inflitta perché c’era stata la desistenza dell’aggressore. E con le modifiche volute dalla Lega, il fatto che “non vi sia desistenza” continua ad essere una precondizione indispensabile per riconoscere che la difesa è legittima. Ecco perché il rischio di una perdita di discrezionalità paventato dalla magistratura pare destinato a non avere alcuna conseguenza effettiva. Cosa cambia, in realtà? Tutto sta in una parola: “Pericolo”. È il concetto chiave, forse, anche nell’attuale disciplina della materia. Una delle due modifiche cardine del ddl in attesa dell’ultimo sì prevede che - qualora ci si trovi nel proprio domicilio e vi sia la necessità di difendere “la propria o altrui incolumità” o anche i propri “beni” - la “difesa” è “sempre” proporzionata all’offesa se non vi è desistenza, e ci si trova di fronte a un’intrusione “posta in essere con violenza” o “minaccia di uso di armi”. In pratica si associa la “violenza” dell’intrusione al “pericolo”. Non un’idea bizzarra: se per esempio un ladro frantuma una finestra per entrare in casa, non è insensato temere che quelle modalità violente possano prefigurare anche una minaccia fisica alle persone. Ma poiché la valutazione di quel “pericolo” può essere difficile in pochi istanti, un’altra modifica esclude la punibilità di chi ha mal valutato la situazione qualora sia stato “ingannato” dai modi e dal tempo dell’aggressione o si sia trovato appunto “in stato di grave turbamento”. Con questa norma chiave si stabilisce che la paura giustifica l’errore. Cosa che i magistrati già riconoscono, seppure al termine di lunghi processi. E che ora forse sarà possibile concedere in tempi più brevi. Duecento milioni all’anno per le intercettazioni: il record è di Palermo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2019 Nel 2017 la Procura del capoluogo siciliano ha speso 30.710.264 per 8.948 bersagli, Napoli 16.963.668, ma di bersagli ne ha fatti 16.540. Costi esorbitanti e una evidente discrepanza di spese che varia a seconda i distretti. Parliamo della spesa riguardante la gestione delle intercettazioni che resta una di quelle con il maggior impatto sul portafoglio del ministero della Giustizia visto che parliamo di quasi 200 milioni di euro l’anno. I dati parlano chiaro e sono messi a disposizione dalla direzione generale di statistica del ministero. Nel 2017 - ultimo dato disponibile, ma indicativo - risulta che la spesa totale da parte dei tribunali è di 197.830.372 euro. Di questi, ben 168.751.695 sono spesi per le sole intercettazioni ambientali e telefoniche. Sempre dalla statistica del ministero si possono estrarre i numeri dei “bersagli”, ovvero gli strumenti intercettati (non le persone intercettate che per evidenti motivi potrebbero risultare molte di più), e si evince un totale di 127.813 agganci. La statistica li divide anche per distretti, così c’è la possibilità di fare una media dei costi. Cosa si scopre? Che alcune procure spendono di più in intercettazioni, rispetto alle altre. Primeggia la procura di Palermo che nel solo 2017 ha speso 30.710.264 di euro in intercettazioni per un totale di 8.948 bersagli. Napoli 16.963.668 euro, ma di bersagli ne ha fatti 16.540. Quindi, facendo la proporzione, Palermo spende di più rispetto a Napoli, nonostante abbia fatto la metà di bersagli. Andiamo nei dettagli al livello regionale. Partiamo dai dati in Sicilia, dove Palermo vanta un primato schiacciante sugli altri distretti: infatti è il distretto palermitano che si aggiudica il primo posto in assoluto rispetto a Catania, a Messina e persino a Caltanissetta. Si passa dai 30.710.264 euro spesi a Palermo, ai 5.887.528 euro spesi dal distretto di Catania fino ai 1.885.706 euro spesi a Messina, con un costo dell’ultimo distretto almeno 15 volte più basso del primo. Molto ridotto anche il costo per le intercettazioni nel distretto di Caltanissetta, che spende solo 3.284.762 di euro, cioè circa 10 volte in meno di Palermo. I conti della spesa non vanno tuttavia di pari passo con le attività effettivamente svolte: Palermo, che sarebbe la più costosa in termini di spesa per l’erario anche a livello nazionale, conserva in Sicilia il primato regionale con 8.948 bersagli, ma non fa lo stesso a livello nazionale, dove c’è il distretto di Napoli che con 16.540 bersagli - tra intercettazioni ambientali e telefoniche - si aggiudica il primo posto. Insomma Palermo spende quasi il doppio di Napoli, ma i bersagli agganciati sono circa la metà. Roma in termini di rapporto tra costi e bersagli non è da meno rispetto a Napoli: è tra i distretti che hanno speso di più per le intercettazioni, ma in rapporto alla primatista Palermo (12.229.262 rispetto a 30.710.264), che ha raggiunto quasi il triplo di spesa, ha agganciato circa 13.670 bersagli, cioè almeno il 30% in più dei 8.948 agganciati dal distretto palermitano. A Milano dai costi per l’erario sembra si facciano meno intercettazioni, ma il numero di 9.980 bersagli nel 2017 - circa 1000 in più di quelli del distretto palermitano - conferma che il dato è solo apparente: la spesa per l’erario di 13.305.693 euro è meno della metà di quella del distretto palermitano, ma a fronte di un minor numero di bersagli agganciati. In Puglia i costi molto bassi sembrano indicare uno scarso ricorso al mezzo di prova delle intercettazioni, almeno facendo un confronto con i costi degli altri distretti: dai 4.294.476 di Bari ai 2.410.716 di Lecce. I bersagli agganciati risultano essere 4.921 dal distretto di Bari e 2.941 da quello di Lecce. In Calabria, il distretto di Reggio Calabria vanta il primato sul distretto di Catanzaro con un netto distacco: dai 18.854.523 di euro per i costi assunti dal primo rispetto ai 7.949.577 di euro del secondo, cioè quasi un rapporto di tre a uno. La netta differenza tra le due somme non corrisponde al numero di bersagli che sono pressoché analoghi: 7.457 al distretto di Reggio Calabria contro i 6.390 di Catanzaro, a fronte di una spesa per l’erario doppia per il primo distretto rispetto a quella del secondo. In Campania i costi assunti dal distretto di Napoli, pari a 16.963.668, sono otto volte superiori ai 2.450.395 di euro spesi a Salerno: l’indice del maggior ricorso all’uso dell’intercettazione, in termini così esorbitanti, potrebbe far pensare ad una più intensa attività di indagini sui reati che per legge consentano le intercettazioni, oppure semplicemente ad un “eccesso di zelo” degli investigatori nell’utilizzo di una prova così invadente per la raccolta di informazioni. In effetti i bersagli agganciati a Napoli nel 2017 sono stati 16.540 contro i 2.844 di Salerno, cioè quasi otto volte di più. Campobasso, Trento, Perugia, Messina, Ancona, Brescia, Potenza: i distretti che meno ricorrono all’uso dell’intercettazione, con un costo per l’orario ben al di sotto dei 2.000.000. Si potrebbe pensare che a gravare l’erario di maggiori spese per lo svolgimento delle intercettazioni, che siano ambientali o telefoniche, risultano essere i distretti maggiormente interessati da procedimenti per criminalità organizzata quelli che importano i maggiori costi all’erario. Ma entrando nel dettaglio, questo non si evincerebbe. Prendendo ad esempio Palermo, notiamo che il numero dei bersagli per quanto riguarda le attività anti mafia (la DDA) risulta essere di 3.406 sul totale di 8.948, quindi meno della metà rispetto all’utilizzo per le altre attività di tipo ordinario. A conti fatti, tra le voci di spesa pagate dall’erario per le attività degli Uffici Giudicanti e Requirenti, la spesa maggiore resta quella sulle intercettazioni telefoniche pari a un totale di 168.751.695 per l’anno 2017: tuttavia, dalla lettura dei numeri, non è detto che ad un costo più alto corrisponda un altrettanto alto numero di attività svolte rispetto ai distretti più parsimoniosi. La filiera degli ascolti presenta un fatturato milionario. Sono 148 le imprese private attive nel settore delle intercettazioni associate all’Iliia, l’associazione di riferimento delle aziende che si occupano di servizi di intelligence e intercettazioni contro la criminalità. Ma la gestione dei costi, con l’attuale parcellizzazione degli appalti, presenta con tutta evidenza un problema dove esistono procure virtuose e altre no. Calo consistente degli indennizzi da versare per condanne della Cedu di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2019 Netto calo degli importi da versare per gli indennizzi dovuti dall’Italia in esecuzione di sentenze di condanna inflitte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo o di decisioni di radiazione dal ruolo dopo la conclusione di un regolamento amichevole. Da 77 milioni di euro corrisposti nel 2015, l’Italia è scesa a 4,5 milioni nel 2017 che, tradotto in percentuale, vuol dire -94,08% rispetto al 2015 e -71,22% con riferimento al 2016, anno nel quale il Governo ha dovuto versare quasi 16 milioni. Un segnale positivo che emerge dalla relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce della Cedu nei confronti dell’Italia presentata il 27 dicembre 2018, con riferimento al 2017, dal dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri. Dal 2009 non era mai stata raggiunta una cifra così bassa, tanto più che l’importo riferito unicamente alle pronunce del 2017 è stato di 774.286 euro, al quale vanno aggiunti i quasi 4 milioni per versamenti arretrati 2015-2016. L’Italia, poi, nel 2017 ha utilizzato gli istituti del regolamento amichevole (con il ricorrente) e delle dichiarazioni unilaterali (riconoscendo la propria responsabilità) previsti dal regolamento della Corte di Strasburgo, evitando così accertamenti giurisdizionali delle violazioni con sentenze di condanna. Nel triennio 2015-2017, infatti, l’Italia risulta al primo posto con 2.681 dichiarazioni unilaterali e all’ottavo per i regolamenti amichevoli (324). Pendono, invece, dinanzi alla Corte alcuni ricorsi di grande importanza: quelli di 182 soggetti per l’inquinamento provocato dall’Ilva di Taranto, 5 ricorsi per l’accoglienza a minori stranieri non accompagnati e il ricorso del giornalista Sallusti, con l’Italia sul banco degli imputati perché tra i pochi Paesi a prevedere pene detentive in caso di diffamazione a mezzo stampa. Arranca ancora, invece, l’istituto della rivalsa attuata dal Governo nei confronti degli enti interessati. Nonostante tre novità come la modifica, con legge 208/2015, dell’articolo 43, comma 9-bis, della 234/2012, l’adozione di due accordi sui criteri per la rateizzazione del debito degli enti territoriali, e il via libera della Corte costituzionale con la sentenza 219/2016, la rivalsa continua a incontrare ostacoli, malgrado la sua portata preventiva funzionale a responsabilizzare i soggetti coinvolti nell’attuazione della Convenzione. Tuttavia “permane - si legge nella relazione - il contrasto di posizioni sulla responsabilità della violazione accertata dalla Corte europea e della conseguente imputabilità della relativa sanzione”. Le azioni di rivalsa attivate dal ministero dell’Economia sono comunque diminuite arrivando a 37 a fronte delle 65 del 2016: sono state concluse 12 procedure con decreto ministeriale, con un balzo in avanti rispetto alle 3 del 2016 (+300%) e un recupero di 1,6 milioni di euro a fronte dei 400mila euro nel 2016. Per 5 sentenze di condanna gli enti interessati hanno proceduto spontaneamente al pagamento dell’indennizzo versato dallo Stato e in 8 casi gli enti hanno dichiarato la disponibilità a raggiungere un’intesa. Continua, però, la conflittualità in sede giudiziale. Mafia, lo Stato chiede ai familiari di Totò Riina 2 milioni per le spese sostenute in carcere Corriere della Sera, 8 gennaio 2019 Ad attivare la procedura di recupero del credito sarebbe stato il carcere di Parma, ultimo istituto penitenziario in cui il capomafia è stato detenuto ed è morto. I familiari: “A noi sembra una boutade perché la legge esclude espressamente che il rimborso per le spese di mantenimento in carcere si estenda agli eredi”. I 24 anni di carcere duro di Totò Riina sarebbero costati allo Stato circa 2 milioni di euro. Il “conto” è stato presentato ai familiari del boss mafioso deceduto il 17 novembre 2017. A notificare la cartella esattoriale da pagare alla moglie di Riina, Ninetta Bagarella, è stata Riscossione Sicilia, la società che riscuote i tributi nell’isola. “A noi sembra una boutade perché la legge esclude espressamente che il rimborso per le spese di mantenimento in carcere si estenda agli eredi del condannato. Perciò stiamo studiando bene la questione per vedere in che termini è”, ha commentato il legale dei Riina, l’avvocato Luca Cianferoni. Il riferimento è all’articolo 189 del codice penale che, dopo aver disposto l’obbligo per il detenuto di rimborsare le spese sostenute dall’Erario dello Stato per il suo mantenimento in cella, esclude che l’obbligazione si estenda agli eredi: in questo caso moglie e figli del capomafia corleonese. Arrestato il 15 gennaio del 1993 dopo 23 anni di latitanza, Riina ha trascorso al 41 bis 24 anni, ed era ancora considerato dagli inquirenti il capo indiscusso di Cosa Nostra (“U curtu”, il boss delle stragi. Da Corleone ha sfidato lo Stato senza mai svelare i suoi segreti). Ad attivare la procedura di recupero del credito sarebbe stato, attraverso il ministero della Giustizia, il carcere di Parma, ultimo istituto penitenziario in cui il mafioso è stato detenuto. Quando è morto Totò Riina stava scontando una pena cumulativa di 26 ergastoli, il primo dei quali per un delitto commesso a Corleone negli anni 50. L’accusa più grave nei suoi confronti è quella per gli attentati costati la vita ai magistrati Falcone e Borsellino e alle rispettive scorte avvenuti entrambi nel 1992. Era ancora imputato nel processo per la cosiddetta trattativa Stato - mafia: finché la salute glielo ha consentito, ha sempre seguito le udienze del processo in videoconferenza. Secco il commento di Maria Falcone, la sorella di Giovanni: “Non provo né gioia né perdono”. Cagliari: Fratelli d’Italia “cinque milioni di euro per il carcere minorile di Quartucciu” castedduonline.it, 8 gennaio 2019 “Sblocchiamo il progetto da cinque milioni di euro per l’ammodernamento del carcere di Quartucciu, per garantire la sicurezza degli agenti e far scontare in modo dignitoso la pena ai giovani detenuti”. Salvatore Deidda e Paolo Truzzu, deputato e capogruppo di Fratelli d’Italia in Consiglio regionale, hanno visitato questa mattina l’istituto penale per minori dell’hinterland cagliaritano e garantito alla direttrice il loro impegno col Governo per rendere presto disponibili i fondi già previsti per la struttura. “La visita rientra in una serie di iniziative intraprese da Fratelli d’Italia per constatare di persona quali siano le condizioni di vita e lavoro all’interno delle carceri, degli agenti di polizia penitenziaria e del personale.”, ha spiegato Deidda. “L’istituto di Quartucciu necessita di interventi urgenti di ristrutturazione che garantiscano agli agenti penitenziari di operare in piena sicurezza e ai detenuti di scontare la loro pena seguendo un percorso rieducativo mirato”, ha dichiarato Truzzu. “Per il carcere minorile esiste già un progetto di ammodernamento da cinque milioni di euro stanziati da tempo e mi impegnerò personalmente perché questi fondi arrivino a Quartucciu quanto prima, ma lavorerò anche per presentare quelle proposte per garantire maggiore sicurezza agli agenti di polizia penitenziaria”, ha confermato Deidda. “Chiederemo, inoltre, che venga realizzato un piano di assunzioni per colmare le carenze di organico fra gli agenti della polizia penitenziaria, che ora operano in una condizione di difficoltà oggettiva all’interno del carcere”, ha concluso Truzzu. Eboli (Sa): presentato lo sportello socio legale gratuito a sostegno dei detenuti di Miriam Mangieri ondanews.it, 8 gennaio 2019 È stato presentato questa mattina ai detenuti dell’Icat di Eboli, l’Istituto di Custodia Attenuata, lo sportello socio-legale, realizzato a cura dell’associazione “Il Faro” rappresentata da Anna Ansalone, e promosso dall’Ufficio regionale del garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il progetto rientra tra le varie iniziative promosse dall’Ufficio regionale del garante e prevedrà la copertura del servizio per 4 mesi sia all’Istituto di Custodia Attenuata di Eboli che alla casa circondariale di Fuorni. Faranno parte dello staff gli avvocati G. Arabia, A. Fattorello e le assistenti sociali L. Guarino, A. Ansalone, O. Manolio e E. Sbarra. Lo sportello socio legale avrà l’obiettivo di curare gli aspetti sociali e legali gratuitamente durante la fase dell’esecuzione penale dei detenuti dell’Istituto di Custodia Attenuata, a tutela dei diritti e dell’orientamento dei servizi sociali ai fini rieducativi. L’iniziativa mira al supporto e alla valorizzazione della persona detenuta che vive un doppio disagio sia di privazione di libertà che di tossicodipendenza. “Questa iniziativa, promossa dal garante regionale Samuele Ciambriello, permette a noi volontari penitenziari di offrire un servizio sociale in più, a chi vive una deprivazione territoriale di servizi pubblici il più delle volte burocratizzati e ritardatari, favorendo un ponte con i servizi territoriali - afferma il presidente Anna Ansalone - Il nostro intento è supportare la tutela dei diritti del detenuto e la dignità umana della pena. Lo sportello nella sua dimensione volontaria, ha l’obiettivo di umanizzare i trattamenti in un’ottica di partecipazione del mondo del volontariato esterno nei servizi di esecuzione penale. Sarà l’inizio di una nuova collaborazione fattiva e concreta a disposizione dell’amministrazione penitenziaria e della direzione nella persona della dottoressa Rita Romano che ha ben accolto l’iniziativa, promossa dall’associazione il Faro a cui va il nostro ringraziamento insieme al personale educativo e penitenziario”. Monza: volontario a 90 anni, così nonno Mario estingue la pena di Federico Berni Corriere della Sera, 8 gennaio 2019 La scelta di nonno Mario: “messa in prova” al posto della condanna per aver investito uno scooterista. “Non voglio vedere macchiata la fedina penale dopo aver basato l’esistenza su lavoro e aiuto al prossimo”. Di vedere macchiata la sua fedina penale a 91 anni, dopo aver basato la propria esistenza su principi onesti come il lavoro e l’aiuto al prossimo, non ne voleva sapere. Per Mario P., monzese di San Rocco, rione popolare del capoluogo brianzolo, finito sotto processo per lesioni colpose a seguito di un incidente stradale in cui ferì un motociclista, la possibilità di redimersi arriva attraverso “l’istituto della messa alla prova”. Farà volontariato sociale presso una cooperativa. Nessuna fatica, per lui, nonostante l’età. Perché “nonno Mario”, come veniva chiamato dai bimbi delle scuole elementari della città, nella sua vita si è sempre messo a disposizione della comunità. La sua passione per la botanica e la coltivazione dell’orto, trasmessa ai giovani alunni, gli è valsa anche, in passato, il riconoscimento del “Giovannino”, l’equivalente monzese dell’Ambrogino. Storia emersa da palazzo di giustizia nello stesso periodo in cui il tribunale di Sorveglianza di Milano scarcerava l’ex golden boy del centrodestra lombardo Massimo Ponzoni, condannato in via definitiva a cinque anni e dieci mesi per corruzione e bancarotta, liberandolo con l’obbligo di svolgere attività lavorativa in un centro benessere di Seregno. Notizia che ha sollevato qualche ironia, in ambienti giudiziari e non solo, visto che l’ex assessore regionale Ponzoni, come emerso anche dal processo che lo ha riguardato, non era uno che si risparmiava viaggi, serate di rappresentanza e vacanze tra la Tunisia e la Costa Azzurra. Per il pensionato Mario P., invece, tutto nasce da una distrazione al volante, a maggio dell’anno scorso quando, a un incrocio stradale del suo quartiere, urtò un uomo in sella al suo scooter facendolo cadere al suolo, e provocandogli la rottura di una clavicola. Vicenda dalla quale è derivata l’accusa e il relativo procedimento giudiziario in tribunale. Per Mario, assistito dall’avvocato Luigi Peronetti, anche la più lieve condanna sarebbe stata insopportabile. Già è stata dura, assicura chi lo conosce, accettare l’idea di aver fatto del male ad un’altra persona (che fortunatamente si poi ristabilita dopo l’incidente). Pensare poi di vedere, a novant’anni compiuti, una piccola ombra macchiare una condotta vita sempre specchiata, gli levava il sonno. La legge, per i reati puniti sotto una certa soglia, prevede la possibilità, a favore delle persone incensurate, di sospendere il processo attraverso l’istituto della “messa alla prova”, che può implicare, tra le altre cose, anche lo svolgimento di “attività di volontariato di rilievo sociale”. Una cooperativa del territorio si è mostrata disponibile a prendersi carico della sua posizione, compatibilmente con quanto possono concedere le condizioni fisiche di un ultranovantenne, anche se in salute come lui. Milano: in Duomo l’elemosina per l’eroina, fantasmi pendolari fino al Bosco di Rogoredo di Gianni Santucci Corriere della Sera, 8 gennaio 2019 Ogni giorno dal bosco della droga al centro di Milano si procurano le dosi chiedendo la carità ai passanti. I clan hanno creato la micro quantità, “il punto di nera”, che costa 5 euro. Salgono per scollettare. Sono otto fermate. Dodici minuti di metropolitana. Sotterraneo collegamento tra due città. La risalita laggiù, a Rogoredo, è confine della metropoli senza più abitazioni e l’eroina che si compra nel bosco. La superficie al ritorno, fermata “Duomo”, è centro illuminato e popolato di Milano, dove attendere granelli di ricchezza, carità fatta di monetine: ed è come se i clan della droga si fossero adattati, perché chi ha allestito la più grossa piazza di spaccio del Nord Italia ha brevettato la micro dose, il punto di nera, al costo di 5 euro, eroina che s’acquista con gli spiccioli. Per quegli spiccioli A., romeno, 18 anni appena compiuti, passa ore a terra su un cartone abbracciato al suo cane. F., ucraino, quasi 30 anni, ha lasciato un pupazzo piccolo di Babbo Natale nella scatola di cartone per l’elemosina, ma alle 5 di ieri pomeriggio dondolava avvolto in una coperta chiara e perso nella nebbia dello stupefacente, fin quasi a cadere dai suoi tre cuscini. C., ragazza col cane, sui 30 anni anche lei, piange per ore e le sue lacrime toccano la commozione continua dei passanti che le lasciano qualche moneta. Si sistemano tra i portici di piazza del Duomo, le colonne davanti ai grandi magazzini e le vetrine di corso Vittorio Emanuele, fino a San Babila: e sono ormai una piccola popolazione pendolare, un centinaio di uomini e donne, dai 18 ai 50 anni, in centro per scollettare (e spesso dormire), in periferia per comprare (e bucarsi). Sequenza continua di andate e ritorni. Ormai nella questua del centro di Milano il gruppo maggiore è quello, i tossici di Rogoredo. I segnali della strada Le grandi piazze metropolitane restano i luoghi in cui sperare nella carità di passaggio. Intorno al Duomo l’hanno fatto per anni uomini dell’Est con gravi infermità fisiche (erano sfruttati e controllati, negli ultimi tempi si vedono meno). Ci sono gli alcolizzati gravi. Un gruppo più piccolo di persone con problemi psichiatrici. Negli ultimi tre, quattro anni sono aumentati i tossicodipendenti. Fermarsi a guardare chi chiede l’elemosina è anche una chiave per leggere le trasformazioni della città, e dunque oggi la ripresa dei consumi di eroina, pur se lo smercio e il consumo si sono spostati oltre le periferie, arriva a mostrare segnali nei paraggi della cattedrale. Per capire quei segnali bisogna fermarsi qualche minuto a parlare (o provare a farlo) con la donna sudamericana che si sistema all’incrocio con via Agnello, e alla tossicodipendenza somma l’alcolismo e una deriva psichiatrica che la rende spesso e d’improvviso aggressiva. O col ragazzino che sta abbracciato al suo cane, che condivide col suo amico di strada, un uomo molto più grande di lui e con la stessa dipendenza. Dice: “Qui posso fare anche 150 euro in un giorno”. I segni dell’eroina sono profondi. Il corpo emaciato, pallido; gli occhi vaghi; piccoli ematomi che punteggiano le mani. C. è italiano, vicino ai 50, e racconta che faceva l’autotrasportatore, ma che per due volte gli hanno sequestrato il camion, e “a quel punto non c’è l’ho fatta più a tirare avanti, avevo avuto problemi in passato con la roba e ci sono rientrato, ma stavolta la linea l’ho passata per sempre”. La sopravvivenza Vivere in strada è segno di tossicodipendenza allo stadio più avanzato, e a Milano ormai si sono formati piccoli gruppi di queste persone: ragazzi e ragazze che passano quasi tutta la giornata alla stazione di Rogoredo, come una sorta di “zoo di Berlino”; altri che vivono in stabili dismessi; infine le persone del Duomo. C’è un tratto comune: uomini e donne, soprattutto i più giovani, che non vengono intercettati (o rifiutano, o comunque non hanno contatti) con i servizi di assistenza. Solo nel centro città sono tre o quattro le associazioni che portano cibo e vestiti; l’elemosina paga la droga: e così il filo che unisce queste esistenze in strada non si spezza. La vicesindaco e assessore alla Sicurezza di Milano, Anna Scavuzzo, riflette: “La progressiva diminuzione dei costi dell’eroina fa sì che siano sufficienti pochi euro per poter acquistare una dose, talvolta proprio quelli raccolti con la questua”. Quei ragazzi spesso non si notano tra la folla, ma sono lì, tra il Duomo e il Comune: “Stringe il cuore vedere persone, spesso molto giovani, chiedere l’elemosina in condizioni fisiche così compromesse - continua la vicesindaco - sapendo che poi useranno anche gli spiccioli per l’acquisto di droga. È una situazione complessa e richiede anche interventi che raggiungano questi giovani per tentare in ogni modo di inserirli in percorsi di recupero”. L’equilibrio sottile Molti negozi del centro si lamentano ogni giorno, perché hanno i “loro” mendicanti tossicodipendenti sempre davanti alle vetrine: ad avvicinarsi sono sempre gli agenti della Polizia locale (comando decentrato di Zona 1 e Unità antiabusivismo), è un lavoro complicato perché sta tutto in una mediazione, da una parte il “decoro urbano” e dall’altra l’assistenza all’emarginazione, un lavoro che si fa (quasi) tutto con le parole, dissuasione necessaria e comprensione del disastro umano. Un po’ come nel caso della ragazza che piange per ore: lei stessa ha ammesso davanti agli agenti che il pianto è uno stratagemma per suscitare più pietà. Quei soldi li porta a Rogoredo per l’eroina. E tutti hanno pensato che motivi per piangere ne ha davvero. Aosta: carcere di Brissogne, gli auguri del Garante dei diritti dei detenuti gazzettamatin.com, 8 gennaio 2019 Il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot, ha formulato ai detenuti della Casa Circondariale di Brissogne gli auguri per il nuovo anno. “La condizione di restrizione della libertà personale - ha scritto ai detenuti Enrico Formento Dojot - rappresenta, come ho già avuto modo di evidenziare, una delle situazioni sicuramente più gravose da sopportare per l’essere umano. In tale condizione, può succedere che intervengano lo scoramento, la mancanza di progettualità. E invece, durante i colloqui, ho avuto modo di percepire tra di voi confortanti potenzialità. E, come me, la percepiscono, ritengo, altri soggetti che si occupano della realtà del carcere. Nell’ottica del ritorno alla vita libera e del reinserimento nella società, principio, questo, stabilito dalla Costituzione, auspico che tali potenzialità producano risultati positivi per voi e per la comunità. Auguro a voi e alle vostre famiglie un sincero e sereno 2019.” Sondrio: Pinocchio entra in carcere, l’iniziativa rivolta ai detenuti di Paola Rainoldi Settimanale Diocesi di Como, 8 gennaio 2019 Si è concluso nelle scorse settimane un laboratorio di lettura che è stato proposto nel corso dell’ultimo anno nella casa circondariale. Come sempre quando si inizia una attività, per quanto se ne voglia tracciare il cammino, non si sa esattamente gli esiti che porterà... ma l’impegno e la costanza del lavoro i loro frutti li danno. E così il 22 novembre eccoci a chiudere il laboratorio di lettura su Pinocchio. Anche noi a saltelli e corse, come il burattino, abbinino camminato per un anno leggendo, riflettendo. C’è chi in questo anno se ne è andato, con la raccomandazione di non dimenticare le cose che ci siamo detti, c’è chi si è iscritto da poco al gruppo, con la speranza di un pizzico di ritrovata serenità. Ma il lavoro misteriosamente non ha perso di unità. Da questa lettura alcune cose le abbiamo imparate. Certe volte ci sentiamo un po’ come Mastro Ciliegia, l’uomo che crede già di sapere ciò che ha di fronte e che afferma con convinzione che “un pezzo di legno è solo un pezzo di legno”. Anche noi spesso riteniamo che solo ciò che si vede e si tocca sia vero. E soprattutto ne traiamo la conseguenza più terribile: solo ciò che è sempre capitato può capitare. Eppure, in questa bellissima fiaba, un povero ciabattino pieno di sentimento, Geppetto, prende quel pezzo di legno e ne sa ascoltare la voce dell’anima; l’impossibile diventa possibile, persino il pezzo di legno ha un cuore e può essere educato alla speranza. Il grande Carlo Collodi in questo splendido romanzo non nega la durezza del legno, la sua fibrosità la resistenza di questo materiale. Non nega la testardaggine di Pinocchio nel suoi sbagli e la incapacità di correggersi. Fino alle ultime pagine Pinocchio ricade nelle sue infedeltà. Ma l’autore pian piano inserisce, con un sorriso, uno sguardo positivo. Nel legno indocile e ribelle penetra una linfa nuova. Come nell’albero sale la clorofilla, da quei piedi rifatti con amore da papà Geppetto comincia a salire un sentimento, la percezione di non essere soli, cioè di essere nel cuore di qualcuno. E come la linfa rinnova il legnoso ramo finché spuntano, piccole piccole, le gemme, così in Pinocchio la cura ricevuta dal padre, anche se disattesa mille volte, trasforma la cellulosa in materia vivente. Per Pinocchio c’è però bisogno di un lungo cammino, un percorso di pentimento. Pentimento, dal verbo pentire, dal greco “render puro”. Ma uno non si rende puro da sé. È troppo facile lasciarsi ingannare dai malandrini e dalle illusioni del campo dei miracoli. C’è bisogno che quella linfa si trasformi in lacrime, in nostalgia per il padre, in affezione per la fata Turchina. Penso che non sia un caso che tutti noi che abbiamo letto o riletto questo libro siamo andati con il pensiero a nostro padre, quella figura che abbiamo avuto o che abbiamo desiderato presente o che rimpiangiamo. Padri spesso semplici, come quello contadino in Marocco, che sperava per il figlio un percorso di studi. E che lo ha visto invece partire per l’Italia in cerca di avventura. Ma in tutti rimane il desiderio di poter avere un abbraccio paterno, quell’abbraccio che fa ritrovare sé stessi. Pinocchio però deve andare fino in fondo al suo desiderio. Deve sfidare la morte e scendere sul fondo del mare. Ci vuole coraggio, tanto coraggio e saper che si rischia la vita. Ma finalmente si rischia la vita per qualcosa che vale e forse ci sarà mandato un tonno che ci porterà sul suo dorso, finalmente sul dorso di qualcuno. Un grazie a tutti quelli che hanno partecipato a questo lavoro durante lo scorso anno e che hanno permesso anche a me di ripensare a queste cose. La povertà e la miseria. Verità dei fatti, parole e scelte cattive di Marco Tarquinio Avvenire, 8 gennaio 2019 Se si escludono l’appassionante questione delle tenute militari e paramilitari con cui appare in pubblico e la fredda determinazione con cui evita qualunque parola di umana comprensione di fronte al dramma dei profughi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi “Sea Watch” e “Sea Eye”, l’ultimo tormentone di Matteo Salvini è lo slogan “prima i cinque milioni di italiani poveri”. Un ritornello che il segretario della Lega, nonché vicepremier e ministro dell’Interno, interpreta con una variante dedicata alla Chiesa italiana: “Ho sentito che la Cei ci invita ad “accogliere”: abbiamo già dato e ora ci occupiamo degli italiani. Ci sono 5 milioni di poveri che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena”. Frase piena di astioso effetto, ma vuota di rispetto e desolatamente svuotata di verità. I “cinque milioni di poveri” - anzi, per l’esattezza, 5 milioni e 58mila, ognuno di loro è importante… - non sono saltati fuori dall’oggi al domani. Dopo un salto impressionante tra il 2008 e il 2010, sono aumentati incessantemente negli ultimi undici anni: stagioni in cui Salvini ha assunto sempre più importanti responsabilità politiche e in cui anche il suo partito ha governato l’Italia. Come fa ora, accingendosi ad attuare nuove e corpose misure di sostegno alle povertà. Un’iniziativa - come si sa - del Movimento 5 Stelle, che l’ha battezzata Reddito di cittadinanza e con essa punta ad andare oltre il Reddito di inclusione varato lo scorso anno dal governo Gentiloni dopo una complessa gestazione, durata quasi quattro anni. Speriamo che la nuova ricetta funzioni e faccia del bene all’Italia e a tutte le persone coinvolte. Che sono poveri e basta. Perché in realtà, come tutti i poveri, anche questi “nostri” poveri non hanno passaporto. I 5 milioni e 58 mila indigenti assoluti certificati dall’Istat sono infatti sia italiani di nascita sia stranieri residenti. Di questi ultimi sappiamo che rappresentano più del 32% del totale, in cifra assoluta circa 1 milione e 610mila uomini, donne e bambini. Un dato che colpisce, visto e considerato che gli stranieri residenti in Italia sono l’8,5% della popolazione: neanche un dodicesimo del totale dei residenti, un terzo dei nostri poverissimi. Dunque i “cinque milioni di italiani” citati dal ministro Salvini sono residenti italiani di diversa origine, di identica povera condizione, di uguali diritti e doveri secondo la Costituzione e i saldi princìpi del nostro ordinamento. Questa è tutta la verità, ed è importante tenerlo a mente. I dati appena citati li conosce assai bene chi l’accoglienza dei poveri, di tutti i poveri la pratica davvero, o comunque la sostiene, e non si limita a declamarla. E in prima linea tra i praticanti dell’accoglienza dei poveri, di tutti i poveri, anche se il ministro Salvini non lo sa o comunque si guarda bene dal dirlo, c’è la Chiesa italiana. Con milioni e milioni di pasti e di aiuti garantiti a chi “non ce la fa” attraverso la rete delle mense e dei mercati solidali, con le sue case di accoglienza, con il sistema dei pacchi viveri e dei pacchi vestiario. Un soccorso rispettoso e discreto, senza fanfare e senza comizi in tv, messo in campo dalla Caritas, da realtà parrocchiali, da associazioni, da comunità, da gruppi di volontariato. Donne e uomini di tutte le età, che sono Chiesa e, con i loro preti e i loro vescovi, si occupano davvero di povertà e miseria, qualunque forma assumano. Compresa la solitudine e l’abbandono. Già perché, ogni giorno, sono circa 500mila le persone emarginate (o anche auto-emarginate) che in Italia vengono “viste”, ascoltate e incontrate. Insomma, i cattolici come è logico - logico per fede e per cittadinanza - fanno davvero molto, e non hanno certo bisogno delle meschine battute del potente di turno per rendersi conto di non fare ancora abbastanza. Il Vangelo, e la parola del Papa, sono uno stimolo costante a fare di più. E i grandi valori umani e civili che la Costituzione ha scolpito con splendida efficacia sono una bussola che aiuta a non essere e non sentirsi soli. Già, perché nella nostra società, nonostante l’indifferenza e persino l’ostilità di politici che sembrano capaci di concepire e fomentare solo tristi “guerre tra poveri”, sul fronte del sostegno ai più fragili agiscono, e spesso in bella collaborazione tra loro, realtà diversamente ispirate (evangeliche, di altre religioni, laiche…) e ugualmente generose. P.S. Amare e soccorrere i “poveri residenti” è necessario, ma non basterà mai a quanti lavorano per un mondo più giusto, o almeno non si rassegnano all’ingiustizia. E non basterà mai alla coscienza cristiana e civile di chi non intende adeguarsi a una politica italiana ed europea che, per calcoli e giochi di equilibrio e di potere, continua a tenere ostentatamente e ostinatamente in ostaggio gruppi di povere persone migranti sospese tra una terra che non hanno più e una terra che non devono trovare. Ma questa fiera di parole e di scelte cattive basterà a chi, dopo le cronache, scriverà la storia degli anni che stiamo attraversando per riconoscere e indicare il confine dell’umanità tradita e la miseria di chi se n’è fatto guardiano. Migranti. “Decreto sicurezza incostituzionale”: partono i ricorsi delle Regioni di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 8 gennaio 2019 Le scelte dal Piemonte all’Umbria. Sea Watch, alcuni migranti in sciopero della fame. Zingaretti (Lazio): “Il decreto è vergognoso, rende i migranti fantasmi”. Si allarga il fronte delle Regioni “rosse” mobilitate contro il decreto sicurezza. La Toscana di Enrico Rossi, l’Umbria di Catiuscia Marini e l’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini ieri hanno deliberato ufficialmente il loro ricorso alla Consulta. Ma anche il Piemonte di Sergio Chiamparino, dopo averlo da giorni annunciato, ha concluso che esistono “le condizioni giuridiche” per presentarsi davanti alla Corte Costituzionale. Il decreto, secondo i governatori, impedendo il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, avrà ripercussioni sulla gestione dei servizi sanitari e assistenziali che sono di competenza delle Regioni. Così, sono ormai prossime al passo formale anche la Sardegna di Francesco Pigliaru, la Calabria di Mario Oliverio e la Basilicata della vicepresidente reggente Franca Franconi. E farà lo stesso pure il Lazio di Nicola Zingaretti, il governatore candidato alle primarie del Pd: “Il decreto è vergognoso, rende i migranti fantasmi - ha detto ieri Zingaretti. Abbiamo già stanziato 1,2 milioni di euro per non far chiudere gli Sprar”. Salvini: “Mi fa specie l’ignoranza di alcuni governatori” - “Questo decreto porterà più insicurezza - è anche la tesi del governatore della Toscana, Enrico Rossi. Lascerà persone senza diritti, accrescerà il numero di irregolari”. Ma, avverte Rossi, questo non significa sposare la linea dei sindaci dissidenti, da Orlando a de Magistris: “Non abbiamo intenzione di compiere atti di disobbedienza civile”, chiarisce il governatore. A tutti loro, ieri, ha replicato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “Sono sconvolto. Toscana, Piemonte e Umbria contro il decreto sicurezza? Mi sto facendo mandare il numero dei cittadini delle tre regioni che aspettano una casa popolare: mi fa specie che ci siano sindaci e governatori che invece di fare il loro lavoro si preoccupano di cose del governo. Mi fa specie l’ignoranza di alcuni governatori, penso a quello del Lazio, che parlano di diritto alla salute violato: se oggi un immigrato fa ricorso al pronto soccorso, gli vengono concesse tutte le cure necessarie”. “La vita umana è sacra” - Ma il titolare del Viminale, in queste ore, è alle prese anche col caso migranti. Non solo Papa Francesco. Ieri, per la prima volta, anche la Comunità ebraica di Roma ha fatto sentire la sua voce sul caso dei 49 profughi ancora a bordo delle due navi delle Ong Sea Watch e Sea Eye: “La vita umana è sacra e deve essere anteposta a qualsiasi considerazione politica”. Salvini, però, va avanti per la sua strada: “Possono farmi tutti gli appelli che vogliono, io non cambio idea. Aspettiamo novità da Malta, Berlino o Amsterdam”. I porti dell’Italia restano chiusi, insomma, anche se il commissario Ue per l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, ha chiamato i vari leader europei per assicurare uno sbarco già nelle prossime ore dei 49 migranti da giorni al largo di Malta. Secondo fonti diplomatiche, una decina di Paesi tra cui l’Italia stessa, eppoi Germania, Francia, Portogallo, Lussemburgo, Olanda e Romania si sarebbero offerti per accoglierli appena La Valletta si deciderà a dare l’ok allo sbarco. Ma è proprio questo il nodo: il governo maltese chiede che oltre ai 49 siano ridistribuiti nell’Ue anche gli altri 249 profughi da loro salvati di recente. Così, in attesa di sviluppi, la situazione a bordo delle due navi si fa difficile: l’acqua ormai è razionata e alcuni dei profughi hanno deciso di cominciare lo sciopero della fame. Si temono gesti di autolesionismo. Salvini, però, ieri ha ribadito la chiusura totale all’arrivo in Italia persino delle donne, dei bambini e dei loro familiari a bordo, 15 persone in tutto, a cui invece avevano aperto uno spiraglio il premier Conte e il vicepremier Di Maio. “Uno, 15, 150. No, non arriveranno. Sarebbe un segnale di cedimento. Farebbe dire agli scafisti “continuiamo ad andare a prenderli perché tanto prima o poi in Italia ci arrivano”. E invece io dico basta”. Migranti. Riccardi (Sant’Egidio): “Decreto frena l’integrazione, l’emergenza non c’è” di Flavia Amabile La Stampa, 8 gennaio 2019 Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, il Papa ha chiesto ai governi di aiutare non solo chi scappa dalle guerre ma anche i migranti economici. Non le sembra che invece i governi siano sempre più lontani da questa richiesta? “È una posizione espressa più volte dal Papa e non è soltanto sua ma viene da lontano. Anche Paolo VI ad esempio condivideva questo pensiero. La differenza è che oggi si colloca in un contesto nuovo, quello della globalizzazione in cui abbiamo l’illusione di vivere in un mondo unico. È solo una illusione perché al suo interno ogni Paese cerca di risolvere il problema in modo diverso”. La via scelta dal governo italiano non sembra aiutare affatto i migranti. “Il cardinale Bagnasco ha ammesso la liceità dell’obiezione di coscienza contro il Decreto Sicurezza. Produrrà irregolarità per 120 mila persone, una cifra enorme. Avrà effetti sulla loro residenza, porterà a un allungamento dei tempi della richiesta della cittadinanza: sono tutti temi che rallentano l’integrazione, molte associazioni cattoliche sono impegnate in questo ambito e vengono messe in difficoltà. La Chiesa non ha mai avuto paura di questi flussi anche se portano religioni diverse. La maggior parte dei cattolici vive l’accoglienza come una forma di responsabilità. Oltretutto non mi sembra che esista più nemmeno un pericolo di invasione, gli sbarchi sono molto calati e la fase dell’emergenza è passata”. Non è quello che sostiene questo governo, anzi. Sembra che dai migranti arrivino tutti i problemi dell’Italia. “La visione del Papa non è solo evangelica ma anche di estremo realismo. Come si potrebbero altrimenti risolvere i problemi dei tanti italiani che hanno bisogno di badanti? I migranti stanno svolgendo una funzione di ammortizzatore sociale necessaria. Il problema è che manca l’integrazione. Ci sono provvedimenti restrittivi e mancano i flussi che porterebbero migranti in modo controllato. Li vogliono gli imprenditori, non la Croce Rossa. È una visione che guarda alla crescita del Paese e che si rivelerà letale nel caso in cui dovesse mancare. Quella del Papa è una battaglia non politica ma legata a un’idea di Paese. È figlio di emigrati, cresciuto in un Paese di forte emigrazione, non può non pensare che l’economia si arricchisca accogliendo e integrando gli altri”. Lei è stato il primo ministro dell’Integrazione in Italia. Che cosa prova quando sente che i porti italiani restano chiusi anche a costo di far morire persone in mare? “Mi ricordo che quando ero ministro parlare di integrazione in termini pacati aiutava gli italiani a credere nel futuro del Paese. Credo che sia necessario farlo anche oggi. Le diverse religioni possono convivere bene. Creare reti e integrazione è il compito della politica, ma anche della passione civile di tutti gli italiani”. L’odissea dei 49 migranti e l’Europa nel guado tra strategie e coscienza di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 8 gennaio 2019 Più passano i giorni, più il problema politico si trasforma sotto i nostri occhi nella più semplice e abbagliante delle questioni non umanitarie ma umane. Si tratta di una questione politica europea: la ragionevolezza vorrebbe che gli Stati si mettessero d’accordo per accogliere la miseria di 35 migranti più 14, cioè un totale di 49 profughi africani che sono stati salvati dalle navi di due Ong e cercano rifugio in uno dei tanti porti del Continente. Per mostrare esemplarmente a un bambino di dieci anni l’incapacità colpevole o meglio l’indifferenza olimpica dell’Europa di fronte a un fenomeno che ormai è solo ridicolo o vile o incosciente chiamare emergenza, basterebbe aver seguito qualche telegiornale delle ultime due settimane. Da giorni si racconta delle condizioni penose in cui sono ridotti uomini, donne e bambini, dei gravissimi pericoli per la salute, del freddo insopportabile, delle intemperie, delle condizioni complessivamente disumane in cui si trovano. Da giorni scorrono in tv le immagini strazianti seguite dalle astratte polemiche dei governi, dagli appelli umanitari e dalle repliche dei duri, dalle affermazioni affrettate e dalle successive smentite. Da settimane assistiamo al disgustoso spettacolo che riduce 49 vite a battibecco internazionale, a scaricabarile e rimbalzo di accuse, a bilancino di calcoli numerici, a prudenza diplomatica e preoccupazione nel non voler “creare un precedente”. Salvare dei poveri dispersi in fuga dalle guerre o dalla miseria dei loro Paesi sarebbe, per i singoli Stati europei che hanno appena lautamente festeggiato il Natale il Capodanno e l’Epifania, un precedente imperdonabile, perché salvarne uno (o 35 o 14 o 49) potrebbe significare in futuro doverne salvare troppi: e nessuno, per il momento, intende assumersi questa immonda responsabilità. Dunque, meglio niente che troppi. Il risultato è che, più passano i giorni, più il problema politico si trasforma sotto i nostri occhi nella più semplice e abbagliante delle questioni non umanitarie ma umane. Una autentica questione di coscienza umana. Ammesso che l’aggettivo “umano” abbia ancora un valore senza cadere nel sospetto di debolezza buonista. Stati Uniti. #FreeCyntoiaBrown, la giovane che uccise il suo “cliente” sarà liberata Corriere della Sera, 8 gennaio 2019 A 16 anni aveva ucciso un uomo con cui era stata costretta a prostituirsi ed era stata condannata all’ergastolo. Grazie alla mobilitazione social il suo caso è stato ridiscusso. Cyntonia Brown ha ottenuto la grazia e uscirà dal carcere fra qualche mese, ad agosto. La donna, che oggi ha trent’anni, era stata condannata all’ergastolo in Tennessee per un omicidio commesso a 16 anni: aveva ucciso un uomo che, come ha raccontato lei stessa confessando il delitto, l’aveva violentata e dal quale temeva di essere a suo volta uccisa. L’ultimo capitolo di una storia di violenza. Cyntoia Brown, infatti, ha avuto un’infanzia difficile: la madre, che l’ha partorita a 16 anni dopo essere rimasta incinta durante uno stupro, abusava di alcol, spacciava cocaina ed era finita più volte in carcere. Anche l’adolescenza della giovane non è stata semplice: il fidanzato, uno spacciatore violento soprannominato Kutthroat, la spingeva a prostituirsi. Era stato proprio per procurarsi dei soldi da dargli che la ragazza aveva accettato di fare sesso con Johnny Allen, un agente immobiliare. L’uomo le aveva prima mostrato la sua collezione di armi e dopo l’aveva violentata. Poi si era girato e aveva allungato la mano verso il suo lato del letto: Cyntoia aveva raccontato di essere stata presa dal panico e, temendo di venire uccisa, aveva sparato alla testa di Allen con una pistola che le aveva dato Kutthroat. A quel punto lei era scappata con le pistole e il portafogli di lui. Un dettaglio che aveva spinto i giudici ad accusarla di omicidio premeditato e rapina aggravata: il verdetto sarà ergastolo, con la possibilità di essere ammessa alla libertà condizionale a 67 anni. Il processo è diventato un documentario, girato dal regista Daniel Birman che ha seguito il caso della giovane per sette anni. Il lungometraggio ha scatenato il dibattito negli Usa: in molti si sono chiesti se, e quanto, sul verdetto dovesse pesare anche l’infanzia distrutta di Cyntoia. Sui social qualche mese fa è partita la campagna #FreeCyntoiaBrown alla quale hanno aderito anche star come Rihanna, Cara Delevigne e Kim Kardashian. Ora il governatore Bill Haslam ha deciso di concederle la grazia, “dopo un’attenta valutazione di questo tragico e complesso caso” come ha sottolineato. Cyntoia Brown, che dovrà seguire un piano di rieducazione, ha già dichiarato che vuole dedicarsi “ad aiutare gli altri, soprattutto i giovani. Spero di aiutare altre ragazze in modo da evitare che finiscano dove sono finita io”. Pakistan. “Nessuno è infedele”: 500 imam si schierano con Asia Bibi di Lucia Capuzzi Avvenire, 8 gennaio 2019 Svolta dei predicatori: la “Dichiarazione di Islamabad” condanna le discriminazioni delle minoranze. “Uccidere con il pretesto della religione è contrario ai precetti dell’islam”. Inizia così la “Dichiarazione di Islamabad”, firmata domenica durante un incontro organizzato dal Consiglio pachistano deglulema. Oltre cinquecento imam di tutto il Paese hanno sottoscritto il documento che condanna senza mezzi termini violenze e discriminazioni sulle minoranze e chiede il rispetto per tutti i pachistani, a qualunque religione appartengano. Un passo non da poco, “in una nazione in cui i fondamentalisti si accaniscono sugli appartenenti a fedi minoritarie, in particolare cristiani, ahmadi e sciiti. La stessa legge anti-blasfemia viene spesso impiegata arbitrariamente come strumento di persecuzione nei confronti di questi ultimi. A rendere ancora più eccezionale la Dichiarazione, una risoluzione ad essa allegata in cui i predicatori islamici fanno un esplicito riferimento ad Asia Masih, ovvero Asia Bibi, emblema degli abusi della normativa anti-blasfemia. Arrestata il 19 giugno 2009, la donna cattolica è stata condannata a morte senza prove con l’accusa di aver offeso Maometto e detenuta per 3.421 giorni fino al pieno proscioglimento, da parte della Corte Suprema, il 31 ottobre scorso. I gruppi estremisti legati al movimento Tehreek-e-Labbaik non si sono, però, dati per vinti e hanno presentato una richiesta di revisione del verdetto. Al riguardo, i 500 imam firmatari chiedono al ministero della Giustizia di esaminare il suo caso con assoluta priorità, in modo “da far conoscere all’opinione pubblica la verità giuridica” sulla vicenda. Gli esperti sostengono che il riesame sia un atto formale, dato che ad esprimersi saranno gli stessi alti togati autori della sentenza di assoluzione. Fino al pronunciamento, però, Asia Bibi resta in un limbo. Fuori ormai dal carcere, la donna è costretta a nascondersi in un luogo segreto, sotto stretto controllo autorità. Queste ultime cercano di proteggerla dagli estremisti, che l’hanno condannata a morte. Il rischio aumenta di giorno in giorno: da quasi tre mesi, la donna aspetta un visto d’espatrio, l’unica possibilità di tornare davvero libera, seppur in esilio. Sembra difficile, però, che le autorità pachistane glielo concedano prima dell’ultimo pronunciamento della Corte. Da qui la richiesta degli imam di un rapido pronunciamento. Articolata in sette punti, la dichiarazione affronta il problema del terrorismo a tutto tondo. Non solo gli assassinii di innocenti con “pretesti religiosi” sono contrari ai precetti dell’islam. Lo è pure “dichiarare un gruppo religioso o setta”, qualunque esso sia, come “infedele” e privarlo dei propri diritti costituzionali di vivere nel Paese in base alle proprie norme culturali e dottrinali. Per tale ragione, le esecuzioni extragiudiziali di presunti “infedeli” - pratica frequente soprattutto nel caso di accusati di blasfemia - sono condannate con forza, come pure le pubblicazioni, cartacee e digitali, che incitino all’odio, nonché le “fatwa” (editti) emesse in modo indiscriminato dagli ulema radicali. Nella parte finale, il documento, riconoscendo il Pakistan come nazione multietnica e multiculturale, sottolinea il dovere del governo di “proteggere la vita e le proprietà dei non musulmani” e i loro luoghi sacri. Per tale ragione, ribadisce l’importanza di applicare il Piano d’azione nazionale contro il terrorismo e decreta il 2019 come anno di eliminazione della piaga che l’anno scorso ha ucciso almeno 595 persone.