Le carceri come tombe vergogna italiana di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 7 gennaio 2019 La sicurezza tutela solo una parte della popolazione o riguarda tutti, anche chi è privato della libertà? Se la risposta è affermativa alla seconda opzione, allora la politica dovrebbe prendersi a cuore una tragedia che si consuma nel chiuso delle carceri italiane, ponendosi interrogativi seri, all’opposto del cinico “buttiamoli dentro e gettiamo la chiave”. La tragedia è in alcuni numeri: nel 2018 ogni settimana più di un detenuto si è tolto la vita, 67 in totale, come non accadeva da anni. Uno degli ultimi casi riguarda un uomo di 47 anni, arrestato nello scorso settembre per aver rubato merendine in un market di Catania. Era recidivo e veniva chiamato ironicamente “serial Kinder”. Ma non c’è nulla di divertente. I decessi dietro le sbarre per altre cause sono stati invece 74, tra i quali un 75enne che si è lasciato morire di fame e altre due persone che hanno perso la vita per asfissia da gas (andrebbero annoverati nella prima casistica). Dal Duemila ci sono stati 1.030 suicidi nei nostri italiani. Inoltre nel primo semestre 2018 si sono registrati 5.157 atti di autolesionismo. La percentuale di chi si toglie la vita è più alta nelle carceri (9,1 ogni mille detenuti) che fuori (6,5 ogni mille abitanti). Ogni suicidio è una storia a sé ma ha conseguenze traumatiche simili: sui familiari, ma anche sul carcere incapace di prevenirlo, sugli agenti che trovano il corpo e sui compagni di cella. Anche tra gli agenti non sono rari i gesti estremi: il 19 ottobre scorso si è tolta la vita un’assistente capo della Polizia penitenziaria di Monza. Stiamo trattando un tema che non gode di attenzione, popolare e mediatica. Anzi. Ma un Paese che si fregia della sua civiltà non può assistere inerme, magari giustificando il disinteresse col fatto che le vittime sono persone che hanno compiuto reati e quindi appartengono a un’umanità minore. In discussione è il nostro sistema penale e carcerario, che negli ultimi anni è stato migliorato (anche in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti umani che nel 2013 condannava l’Italia proprio per le condizioni di detenzione) ma restano ancora grandi pecche. A cominciare dal sovraffollamento, oggi al 118,6%: i detenuti sono tornati a superare quota 60 mila a fronte di 50.583 posti regolari. Le probabilità di gesti estremi sono più alte proprio nelle carceri sovraffollate e con condizioni igienico-sanitarie trascurate, dove non è rispettata la regola dei tre metri quadrati a disposizione per ogni persona, dove la chiusura delle celle è totale ad esclusione delle ore d’aria, dove mancano attività formative e lavorative e dove c’è una cronica carenza di personale (ormai generalizzata). Non a caso in un istituto modello come Bollate il numero di chi si toglie la vita è molto basso. La detenzione andrebbe riservata alle situazioni che davvero lo meritano (il 40% di chi è in cella è in attesa di giudizio), investendo sulle pene alternative. Andrebbe poi favorito un aumento del tempo che i detenuti possono trascorrere coi propri cari, riducendo inoltre il ricorso all’isolamento (condizione nella quale è più diffuso il ricorso la suicidio). In Gran Bretagna ad esempio stanno sperimentando i telefoni nelle celle per poter comunicare con i familiari. Il nostro governo, per voce del vice premier Luigi Di Maio, punta sulla realizzazione di nuove carceri, senza indicare dove trovare le coperture: la realizzazione di un istituto di 300 posti costa in media 25-30 milioni, con tempi di costruzione di 7-10 anni. Dovremmo invece essere più coraggiosi: investire sul lavoro nei penitenziari, sulle relazioni e sulle pene alternative. Dove ciò viene fatto, la recidiva (il ritorno a commettere reati) scende dal 70% per chi ha scontato tutta la pena in cella al 20% (con percentuali spesso anche più basse) per chi invece ha lavorato o goduto di pene alternative. Numeri da imparare a memoria. Conviene ai detenuti ma anche alla società. La doppia condanna dei detenuti psichiatrici di Luca De Vito La Repubblica, 7 gennaio 2019 I giudici: “Senza fondi né regole chiare é stato tradito lo spirito della legge che ha chiuso gli Opg”. “Che fine hanno fatto i matti?”, si domandava qualche mese fa l’attore Paolo Rossi in uno spettacolo-riflessione a quarant’anni dalla legge Basaglia che nel 1978 chiuse i manicomi. Ed è una domanda che si pongono anche magistrati, avvocati e medici che hanno a che fare con liste d’attesa bloccate e un sistema che sta scricchiolando, incapace di gestire il fenomeno della pericolosità sociale legata al disagio psichiatrico. Un dato più di altri inquadra la questione: in Lombardia ci sono 35 persone che dovrebbero essere dentro a una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ma che non ci possono andare perché mancano i posti. “Ce ne sono 590 in tutta Italia e 160 sono qui da noi, a Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, l’unica struttura in Lombardia - dice Monica Lazzaroni, presidente del tribunale di Sorveglianza di Brescia. Posti che sono tutti occupati. Erano previste altre due strutture a Garbagnate, ma non si sono viste. Delle liste d’attesa, per altro, non conosciamo i criteri che sono in capo alla Regione e lo scorrimento avviene secondo modalità che non sono trasparenti”. Il primo risultato di questa situazione è che persone con problemi gravi che hanno commesso reati, e che magari sono pure peggiorati nel tempo, rimangono dove sono (quindi anche a casa con i genitori che non sono più in grado di tenerli), seppure ci siano provvedimenti del giudice che ne attestano la pericolosità e che prevedono il loro ricovero in una Rems. Il secondo risultato è che alcuni detenuti che hanno scontato la loro pena in carcere e che avrebbero diritto a uscire per essere ricoverati non possono lasciare la cella perché non ci sono strutture in grado di accoglierli: carcerati che hanno pagato il loro debito con la giustizia, ma che sono costretti a rimanere dentro. “Un mio cliente è a San Vittore e aspetta il posto in una Rems dopo dieci anni di detenzione - spiega Emanuele Di Salvo, avvocato del foro di Milano. La carenza di posti è una sconfitta del sistema che vede contrapposti due ministeri baluardo, quelli della Giustizia e della Sanità con una doppia responsabilità: il primo che vede detenuti senza titolo che hanno già espiato la pena, il secondo che non investe in altre strutture o nell’ampliamento di quelle esistenti”. Come si è arrivati a questa situazione? Per capirlo bisogna fare un passo indietro e tornare alla promulgazione della legge 81 del 2014 che ha istituito le Rems e ha chiuso gli Ospedali psichiatrici giudiziari. “Una legge di altissima civiltà giuridica, ma per cui non è stato preparato il terreno - aggiunge Lazzaroni. Inoltre Castiglione delle Stiviere, a differenza di altre strutture italiane, era all’avanguardia per quanto riguarda trattamenti e terapie. È stato un errore non coltivare quell’esperienza”. La norma aveva come obbiettivo quello di rendere la detenzione una extrema ratio e puntare tutto sulla libertà vigilata: ovvero fare in modo che i malati psichiatrici venissero seguiti e non rinchiusi in strutture non più al passo con i tempi. Peccato che la legge sia rimasta una scatola vuota. “I fondi stanziati non sono sufficienti, i servizi non sono stati potenziati e si fa fatica ad attuare lo spirito della legge”, spiega Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano. La norma c’è, le idee sono chiare, ma i soldi non ci sono e i posti nelle Rems sono troppo pochi. E a chi rimane in mano il cerino? Spesso ai giudici che si trovano a emettere provvedimenti che non possono essere rispettati. “Fatti che si traducono in grosse responsabilità per i magistrati - aggiunge Di Rosa. In alcuni casi il titolo detentivo non c’è, ma la comunità vuole sicurezza. In altri i detenuti che hanno diritto ad andare in Rems, rimangono in carcere”. La soluzione, al momento non c’è e non sì intravede. Per questo i territori cercano di muoversi in autonomia. I tribunali di Sorveglianza di Brescia e di Milano hanno stilato due protocolli studiati con i soggetti coinvolti, dalle procure alle Ats. “L’obbiettivo è instaurare prassi che consentano alla magistratura di mantenere contatti con i presidi psichiatrici - dice Lazzaroni - evitando che i giudici si muovano senza regole definite”. Nel frattempo però, nulla si muove per quei malati che continuano a scontare la loro doppia pena, nel silenzio. Braccialetti introvabili, anche chi potrebbe uscire resta in carcere di Stefano Brogioni La Nazione, 7 gennaio 2019 I dispositivi elettronici non arrivano, la riforma è un flop. Sono tanti i detenuti che potrebbero uscire, “costretti” a scontare la pena in cella. Che fine hanno fatto i braccialetti elettronici? La riforma che avrebbe dovuto alleggerire le carceri, intese come strutture, e il carcere, come pena da espiare, è un clamoroso flop. Lo sanno bene quei detenuti che, in attesa di un dispositivo che non arriva, sono costretti a restar detenuti anche in presenza di ordinanze di giudici che avevano previsto la forma di detenzione alternativa. Tra questi anche Rolando Scarpellini, volto noto del calcio storico fiorentino che lo scorso agosto si rese protagonista di un turbolento arresto: minacciò una donna con un’arma (che poi è stato scoperto deteneva illegalmente), esplose alcuni colpi, si eclissò per quasi un giorno, mentre la polizia gli dava la caccia, fino a “consegnarsi” grazie al tramite di un agente. A metà dicembre, Scarpellini, con il suo legale, Massimiliano Manzo, ha patteggiato una pena di tre anni e due mesi. Il giudice ha anche disposto la sua scarcerazione: arresti domiciliari, “garantiti” dal braccialetto elettronico. E qui cominciano i problemi, perché di braccialetti elettronici ce ne sono pochi, pochissimi, sicuramente meno di quanti ce ne sia realmente bisogno. E spesso funzionano anche male. Per Scarpellini, e tanti altri, non c’è nessun braccialetto pronto. E dunque, a meno che il giudice non cambi idea (e non l’ha fatto), il calciante fiorentino resta a Sollicciano. E non è un caso, che lo scorso trenta novembre, gli avvocati della Camera Penale di Firenze, presieduta da Luca Bisori, abbiano scelto proprio il penitenziario fiorentino come luogo simbolo della protesta della “Giornata dei braccialetti”. Il flop della riforma “che avrebbe dovuto contribuire, nelle intenzioni, a deflazionare il carcere in favore di una esecuzione della detenzione domiciliare più razionale, più sicura e meno onerosa per le forze di polizia”, dicono le Camere Penali, è sotto gli occhi di tutti, “vergognosamente naufragata tra inefficienze del sistema e sperpero di denaro pubblico”. La speranza è nell’ultima infornata di dispositivi. Il Ministero ha fatto un nuovo accordo con la Fastweb, ne dovrebbero entrare altri in circolazione. Però mancano, allo stato, i collaudi. Scarpellini spera di uscire comunque prima del “tagliando” ai braccialetti: secondo il suo legale, con il presofferto, cioè la detenzione fatta prima del patteggiamento (quasi 4 mesi), la pena residua è sotto i tre anni e dunque non dovrebbe neanche essere dentro. Processo penale e riforme, una storia infinita di Donatella Stasio questionegiustizia.it, 7 gennaio 2019 Dal 1989 ad oggi sono state approvate più di cento modifiche al processo penale e ogni volta si ricomincia senza una visione organica e ideale ma solo in funzione dell’incapacità del sistema di garantire un processo democratico ed efficiente. Ventinove anni fa - avete letto bene - il processo penale era già in stato comatoso. A certificarlo, i dati e i toni gravi dell’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi. Che, in quel contesto, profetizzò vita breve, e difficile, per il neonato Codice di procedura penale. Un anno di tempo per sopravvivere o morire, fu la sua prognosi ad appena due mesi dall’entrata in vigore del Codice Vassalli-Pisapia. Correva l’anno 1990 e la giustizia - che veniva già da decenni di acciacchi - puntava molto sulla riscrittura del vecchio Codice di procedura penale. Eppure, quella riforma epocale si rivelò quasi subito un “vorrei ma non posso”. Non solo per ragioni culturali - che impedirono agli addetti ai lavori, all’opinione pubblica e alla stessa politica di accettare il nuovo modello di giustizia penale - ma anche e soprattutto per quella cronica mancanza di risorse che - al netto delle lacune normative o delle norme ad personam - da sempre segna il destino delle riforme, facendole vivere o morire. Spesso, modificandole geneticamente. Ventinove anni dopo, di quella riforma è sopravvissuto poco o nulla. Ma molti interventi sono stati funzionali più a carenze organizzative e di risorse che alla necessità di migliorare l’impianto originario coerentemente allo spirito con cui era stato concepito. Ventinove anni fa, molti dei vincitori dell’ultimo concorso in magistratura non erano neppure nati. A me, invece, è capitato di essere cronista anche del trentennale “vorrei ma non posso”, di raccontarne aspettative, contraddizioni, fallimenti, passi indietro e in avanti, aspirazioni. Una narrazione scandita da numeri impietosi sull’arretrato, sulle prescrizioni e soprattutto sui tempi lunghi del processo che ne hanno moltiplicato l’aspetto afflittivo invece di rafforzarne la funzione di accertamento o meno delle responsabilità degli imputati. Dal 1989 si sono susseguite un centinaio di modifiche legislative, e alcune proposte di riforma - mini, maxi, pseudo, tentate, consumate - sono state accompagnate da svariati slogan: nel 2000, a seguito della riforma dell’articolo 111 della Costituzione, si parlò di processo giusto anche con riferimento alle successive modifiche di legge ordinaria; poi fu la volta del processo breve, del processo europeo, passando per il processo lungo. Riforme in taluni casi stoppate dalla moral suasion del Quirinale e magari riproposte in forme più o meno analoghe in contesti politici diversi. L’ultima risale ad appena un anno fa, o poco più, e come tutte quelle che l’hanno preceduta è stata accompagnata da scontri politici e di categoria (tra magistrati e avvocati) pur promettendo una “svolta” nei tempi e nella qualità della risposta della giustizia penale. Benché sia prematuro stabilire oggi se quella promessa sia stata mantenuta, ecco che già si annuncia una nuova riforma del processo penale, da confezionare addirittura entro l’anno e con l’accordo di magistrati e avvocati (che su molte, rilevanti, proposte, continuano però ad essere divisi). Ma ancora una volta le possibili modifiche vengono valutate - e piegate - non tanto in funzione delle esigenze della giustizia penale (e quindi dei cittadini, vittime o imputati che siano) quanto dell’incapacità del sistema di renderle efficaci. Quest’incapacità finisce perciò per “dettare la linea” delle modifiche, a scapito di un processo penale efficiente e democratico e a vantaggio, invece, di interventi settoriali e incoerenti. Tant’è che - a distanza di pochi anni e alla luce di statistiche sempre uguali - arrivano puntuali nuovi interventi, spesso emergenziali e, dunque, ancora più nefasti. Un continuo, infinito, apparente processo riformatore che di fatto sancisce il perenne immobilismo della giustizia penale. La giustizia è un servizio ma anche un potere. Luciano Violante ha ricordato che, secondo una regola ferrea della politica, nessun potere è disposto a riconoscere a un altro i mezzi per funzionare meglio se non sono chiari i presupposti e i confini della sua azione. Pertanto, la politica non sarà mai disposta a far funzionare la giustizia nell’interesse dei cittadini se prima non avrà definito i poteri della magistratura e messo sé stessa in sicurezza. Dall’altro lato, la magistratura continuerà a usare come alibi la carenza di mezzi per giustificare le proprie inefficienze. Un gioco di sponda, insomma. Che, come annotavo nel mio primo Controcanto con riferimento alla riforma delle intercettazioni, da sempre consente alla politica inadempiente sul fronte delle risorse di delegittimare la magistratura per le inefficienze della giustizia, e alla magistratura, invece, di trovare in quelle inadempienze un comodo alibi alle proprie responsabilità, di qualunque natura. Perpetuando così un immobilismo funzionale ai reciproci interessi ma micidiale per quelli dei cittadini. Ho voluto sommariamente ricordare la vicenda del processo penale perché senza memoria storica non può esserci futuro né tanto meno cambiamento ma solo l’inutile, compulsiva replica di comportamenti, sia pure sotto mentite spoglie. La memoria ci soccorre e ci esorta a evitare gli errori del passato, ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione degli auguri ai rappresentanti delle istituzioni, della politica e della società civile. La memoria ci aiuta anzitutto a riconoscere le responsabilità, individuali e collettive. E questo è il primo passaggio per costruire il futuro. Con la convinta consapevolezza - aggiunge Mattarella - che solo il dialogo, e non il conflitto, rappresenta lo strumento per affermare valori, principi, interessi di ciascuna comunità nel contesto della più vasta comunità dei popoli. Ripartire dalla memoria per dare sostanza ai nostri valori e attuarli in qualunque settore non significa rinunciare alla diversità. Anzi: La democrazia non teme la diversità; al contrario ne ha bisogno, ma va sempre coltivato e difeso il senso del futuro comune. È con questo spirito, e con questa passione, che ho cercato di interpretare ogni mio Controcanto, fin dalla prima pubblicazione. Spero di esserci riuscita e di lasciare ai lettori il senso della diversità di questa inedita Rubrica, che oggi si conclude. Un saluto particolare a Questione Giustizia, luogo straordinario di conoscenza, di approfondimento, di confronto, di pluralismo delle idee. E, quindi, di crescita culturale. Giulia Bongiorno: “La legittima difesa non si tocca” di Mario Ajello Il Messaggero, 7 gennaio 2019 Il ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno fa il punto sulla ripresa del governo giallo-verde: “La legittima difesa otterrà il via libera in tempi brevi, M5S rispetterà il contratto”. E ancora. “Il governo andrà avanti anche dopo le europee”. Intanto sull’ipotesi di riformare le regole del referendum è scontro sull’ipotesi M5S di eliminare il quorum. Ministro Bongiorno, il decreto sicurezza sembra aver condensato una larga opposizione. Come andrà a finire? “Si sta dipingendo la situazione attuale come se l’anomalia fosse il decreto sicurezza. Ma la vera anomalia è quanto succedeva in passato. In maniera fuorviante ed erronea si è accettato negli scorsi anni l’ingresso, indiscriminato, di chiunque in Italia. Con la conseguenza che oggi chi vuole garantire ordine deve fare i conti con un’eredità difficile da gestire. E addirittura, paradossalmente, viene accusato di razzismo e di disumanità. Ma la battaglia non è tra buoni e cattivi, bensì tra caos e ordine”. Lei, da garantista doc, crede davvero che sia una legge garantista verso i migranti? “È di assoluto rispetto di tutte le garanzie. Introduce maggiori tutele per chi scappa dalle guerre, per chi è perseguitato. L’ordine giova a coloro che sono dalla parte della ragione. E questa legge riuscirà a porre fine al fenomeno dei finti profughi e dei furbetti. Chi è legislatore ha il dovere di farsi carico di tracciare nettamente una linea di confine tra legittimo e illegittimo”. È illegittimo il comportamento dei sindaci che non vogliono applicare questa legge? “Sicuramente se alle parole seguissero condotte di disapplicazione sarebbero in una situazione di illegittimità. Esistono delle procedure da seguire, per sollevare questioni di incostituzionalità. E quelle vanno seguite. È di una gravità inaudita che chi rappresenta le istituzioni scelga di non applicare una legge”. Sta dicendo che la disobbedienza civile è uno pseudo-concetto? “È un alibi inaccettabile. Le parlo da avvocato. Lo sa quante volte arrivano sentenze che si ritengono ingiuste? Tantissime volte. Ma dico sempre ai miei clienti che protestano per una condanna: bisogna rispettare le sentenze, sempre e comunque. Lo stesso vale per le leggi. Altrimenti, si arriva all’arbitrio. Si dice spesso, in maniera caricaturale, che è la Lega il partito della giustizia fai da te, ma non è vero affatto. Sono gli altri, penso soprattutto al sindaco Orlando, che vogliono il far west”. Lei da cattolica dovrebbe approvare le critiche della Chiesa a questa legge. O no? “Intanto, ho apprezzato l’appello appena fatto dal Papa ai leader europei, in cui li invita a risolvere la questione dei migranti. Esiste ancora oggi questo problema perché l’Europa non l’ha voluto affrontare. Si è limitata a scaricare tutto sulle nostre spalle. Ma ora finalmente l’Italia ha deciso di non farsi più carico di tutto”. La Cei vi critica. “Ma un legislatore non può fingere che non esistano i problemi. Deve scrivere regole e farle rispettare. E questo non significa affatto che siamo intolleranti. Non è più intollerante o razzista chi lascia, in nome di una falsa accoglienza, che la situazione incancrenisca?”. Sulla legittima difesa non tira una buona aria. M5S anche per problemi interni vorrebbe farla slittare almeno a dopo il voto europeo. È preoccupata? “Le assicuro che questa legge si farà e si farà in tempi brevi. Non vedo assolutamente il problema delle divisioni nei 5Stelle, e tra 5Stelle e Lega. Su quel testo, che afferma che tra l’aggressore e l’aggredito va difeso quest’ultimo, c’è intesa. Se c’è qualcuno che non la pensa così, va contro la logica e il buon senso. Io da avvocato ho difeso un gran numero di persone aggredite in casa. Anche quando poi sono state assolte, hanno avuto la vita segnata dal calvario di processi lunghissimi”. Crede che la legittima difesa verrà approvata prima delle Europee? “Assolutamente sì. Il ministro Bonafede la condivide in pieno e abbiamo lavorato tutti insieme fin dall’inizio. Questa legge è nel Contratto di governo ed è in linea con le norme di altri Paesi europei che fanno leva sull’importanza che deve avere lo stato di ansia e di paura per scriminare. L’Italia era rimasta assai indietro su questo tema”. La sensazione, comunque, è che le divisioni politiche e la campagna elettorale portino a uno stallo dell’attività di governo da qui a maggio. Scenario reale? “Non mi sembra proprio. Non vedo nessuna stasi all’orizzonte. Per quanto riguarda il mio dicastero, tra le priorità c’è quella di fare approvare anche alla Camera il provvedimento che introduce la verifica della presenza sul posto di lavoro tramite le impronte digitali. Se ne parla da decenni, ora ci siamo. Questo provvedimento è stato accolto con favore dai dipendenti pubblici, perché la stragrande maggioranza di loro sono le prime vittime dell’assenteismo di alcuni colleghi. Spero sia approvata entro febbraio. Sarà una vera svolta”. Con il placet dei sindacati? “Li ho incontrati e ho detto: possiamo discutere di tutto, tranne che dei reati. Dare il proprio cartellino al collega, perché timbri una presenza fittizia, non è semplice malcostume. È truffa aggravata! Su questo non farò passi indietro”. Gli statali andranno da luglio in pensione con quota cento? “La finestra è di sei mesi perché devo garantire la continuità amministrativa, e nella Pa si entra per concorso. Per la partenza stiamo valutando due ipotesi: quella di luglio o di ottobre. Stiamo facendo una valutazione per capire quanti sceglieranno quota cento. E c’è anche da dire sul Tfr”. Quali le modifiche? “Entro la metà della prossima settimana, si troverà la soluzione per anticipare il Tfr. Siamo a pochi metri dal traguardo. Non ci devono però essere equivoci, il differimento e la rateizzazione sono conseguenze di norme di precedenti governi”. La riforma delle autonomie quale impatto avrà sull’amministrazione centrale? “È una legge che sta prendendo forma. Già da ora l’amministrazione centrale ha come interlocutori quotidiani le regioni e i comuni. Una maggiore autonomia che garantisca efficienza può essere soltanto positiva. Sto pensando, e questa è una novità importante, di far fare concorsi regionali per la Pa, perché assicurano maggiore rapidità nel reclutamento e favoriscono la riduzione dei costi. Oltretutto, concorsi regionali unici al posto di centinaia di concorsi comunali garantiscono omogeneità di valutazione e massima trasparenza”. Tanti progetti, ma se dopo le Europee non ci sarà più il governo resteranno tutti per aria? “Dopo il voto di maggio si andrà avanti e continueremo a lavorare come abbiamo fatto finora. La convivenza con i 5Stelle viene descritta come infernale. Ma non è questo l’aggettivo giusto. Lega e M5S sono diversi e complementari. E mi sembra che questo mix qualche risultato importante sia riuscito a produrlo”. Arriva la legittima difesa, favorevoli anche Fdi e Fi di Luca Maurelli Il Secolo d’Italia, 7 gennaio 2019 Sostenuto dalla maggioranza gialloverde, il ddl che ha visto convergere anche i voti a favore di Fi e Fdl, mercoledì 9 gennaio arriva in Commissione Giustizia a Montecitorio. Dopo la dialettica serrata con gli alleati di governo al Senato. Il benzinaio Graziano Stacchio di Ponte di Nanto, nel vicentino, il 3 febbraio 2015 sparò e uccise uno dei rapinatori che avevano assaltato la gioielleria di Roberto Zancan, vicina alla sua pompa di benzina. Franco Birolo, tabaccaio di Civé di Correzzola (Pd), uccise un ragazzo moldavo che aveva tentato un furto nel suo negozio il 26 aprile 2012. Due storie simili, tre volti divenuti ‘simbolo’ per i sostenitori della battaglia in favore del ddl sulla legittima difesa. “Sono sicuro che l’impegno verrà mantenuto sulla legittima difesa, sicuro che non ci saranno scherzi in Parlamento”, garantisce Matteo Salvini in una diretta Facebook, alla vigilia dell’inizio dell’iter del ddl, che domani sbarca alla Camera, per il via libero definitivo, atteso tra fine gennaio e l’inizio di febbraio. Una norma che in sostanza modifica il codice penale, puntando a ritenere sempre legittima la difesa, in caso di aggressioni e furti in casa e nel proprio luogo di lavoro. Un testo che ha già incassato l’ok del Senato, lo scorso 24 ottobre, ricevendo 195 voti favorevoli, 52 contrari e una astensione. Non senza “scherzi” e “scherzetti” possibili dai grillini, come dimostra il precedente passaggio a Palazzo Madama. Sostenuto dalla maggioranza gialloverde, il ddl che ha visto convergere anche i voti a favore di Fi e FdI, mercoledì 9 gennaio arriva in Commissione Giustizia a Montecitorio. Dopo la dialettica serrata con gli alleati di governo al Senato - con i M5S che avevano ritirato gli emendamenti solo all’ultimo minuto, dopo l’affondo dello stesso Salvini (“Si comportano come fossero all’opposizione”, aveva tuonato il ministro dell’Interno), per la Lega alla Camera potrebbero esserci ancora problemi. “Il testo è nel contratto di governo”, ricorda il capogruppo a Montecitorio del Carroccio Riccardo Molinari. “Non ho sentore di problemi da parte dei Cinque Stelle, avremo due settimane per discutere in Commissione”, dice. Due settimane che serviranno anche a disinnescare la fronda nel M5S, che potrebbe rallentare l’iter del provvedimento. “È una cosa di buonsenso, voluta fortemente dall’opinione pubblica, diamo vita a norme già presenti in altri ordinamenti europei”, aggiunge Gianni Tonelli, deputato della Lega, già presidente del Sap, il sindacato della Polizia. “Non era più accettabile regalare il vantaggio della prima al delinquente, penalizzando la brava gente che viene resa oggetto di atti criminali”, sottolinea. Tonelli fa il caso di una ragazza “che passeggia e viene borseggiata”. “Se - spiega - reagisce e con un ombrello colpisce all’occhio il delinquente che l’ha aggredita, finora poteva dover pagare fino a 300mila euro per risarcire l’autore del furto, mentre questo ora non capiterà più”. Tra le novità previste nei nove articoli che compongono il ddl, l’addio al margine di discrezionalità a disposizione dell’autorità giudiziaria nel valutare la legittimità dell’azione di difesa. Il testo di legge, con l’art. 1, infatti, modifica l’art.52 del Codice penale, introducendo la parola “sempre” rispetto alla proporzionalità tra offesa e difesa nei casi di legittima difesa domiciliare. “Chi compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere - prevede la legge in approvazione - agisce sempre in stato di legittima difesa”. Nel mirino della nuova norma anche il perimetro di ricorso giudiziario all’eccesso colposo, che viene ampiamente circoscritto solo ad alcuni specifici casi. Non sarà, inoltre, punibile chi reagisce “in stato di grave turbamento”, (come previsto dall’art.2) su cui si è registrato il voto favorevole al Senato anche del partito democratico. Niente processo, dunque, si legge ancora nel testo, per chi “trovandosi in condizioni di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità”. La nuova norma prevede ancora, nell’ultimo articolo, il numero 3, che “nei casi di condanna per furto in appartamento la sospensione condizionale della pena venga subordinata al pagamento integrale del risarcimento del danno subito dalla persona offesa”. Pugno di ferro anticorruzione di Marino Longoni Italia Oggi, 7 gennaio 2019 Trojan nei telefonini, operazioni sotto copertura, interdizione dalla p.a., via la prescrizione: finita l’epoca della sostanziale impunità dei colletti bianchi. Corrotti e corruttori fino a oggi, anche se pizzicati, spesso se la sono cavata con poco: adesso devono cominciare a preoccuparsi. Il 18 dicembre il senato ha infatti approvato in via definitiva una legge, ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, con una serie di interventi mirati alla riduzione del tasso di corruzione, sia nei rapporti con la pubblica amministrazione, sia tra privati. La norma che ha fatto più discutere è indubbiamente la cancellazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado o il decreto di condanna. Ma la legge prevede anche l’introduzione di efficaci misure investigative, come la possibilità di intercettare le comunicazione su telefonini, computer o tablet attraverso l’uso di trojan, senza nemmeno l’obbligo di garantire la tutela della privacy all’interno del domicilio dei sospettati: così gli organi inquirenti vedranno enormemente facilitato il loro compito. Sarà inoltre possibile condurre operazioni con agenti sotto copertura e garantire la non punibilità a chi si autodenuncia e si rende disponibile a collaborare con l’autorità giudiziaria. Altre misure sono l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per chi si macchia dei reati più gravi e l’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione (Daspo), oltre che l’obbligo di versare una riparazione pecuniaria alla p.a. parte lesa per poter beneficiare della sospensione condizionale della pena. Non mancano l’incremento delle pene accessorie, l’arresto in flagranza, l’aumento di due anni dei termini per le indagini preliminari e preclusioni all’accesso dei benefici penitenziali e alle misure alternative. Infine disposizioni che inaspriscono le sanzioni a carico delle società e un blocco di norme per rendere più trasparente il finanziamento di partiti, movimenti o fondazioni. Si tratta di una serie di norme che, messe in fila, possono avere effetti potenzialmente in grado di ribaltare la sostanziale immunità che caratterizza i reati dei colletti bianchi: oggi la prassi giudiziaria vede infatti pochissimi casi di condanne superiori a 4 anni (anche se il massimo della pena previsto è di 12 anni), l’applicazione della sospensione condizionale della pena è quindi generalizzata. Senza contare che la maggior parte dei processi si conclude con la prescrizione, con la conseguenza che, in caso di incriminazione successiva, non si rende applicabile nemmeno la recidiva e gli imputati riescono spesso a uscire incensurati anche dopo più di un processo. Ora questa situazione, che sembra disegnata per garantire la sostanziale immunità di corrotti e corruttori, dovrebbe cambiare. Tuttavia le polemiche più infuocate si sono concentrate sull’abolizione della prescrizione, che entrerà in vigore dal 2020. La contrarietà a questa misura ha unito (caso raro) magistrati e avvocati. In effetti la prescrizione presenta qualche utilità per entrambe le categorie: da una parte consente di liberare le scrivanie dei giudici dai fascicoli più datati per far posto a quelli più recenti o più importanti (e pazienza per tutto il lavoro inutile fatto fi no a quel momento) e dall’altra consente ai legali di aumentare il loro tasso di successo con casi che, se fossero arrivati a sentenza definitiva, avrebbero anche potuto segnare una sconfitta. Tuttavia c’è il rischio che una misura del genere possa essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. E che finisca per allungare la durata media dei processi, con la necessità di incrementare il costo dei rimborsi previsto dalla legge Pinto. A fronte di questi dubbi e problemi resta però il fatto di una riforma che, in modo energico, tenta di porre un freno a un cancro che sta divorando la vita politica, economica e sociale del Paese. Ovvio che l’approvazione di una legge è solo il primo passo. Ora bisognerà vedere come verrà applicata e soprattutto come verrà percepita, nei suoi effetti concreti, da corrotti e corruttori. Con la speranza che non si riduca tutto alle classiche grida di manzoniana memoria. Corrotti e corruttori al bando, la riabilitazione può attendere di Claudia Morelli Italia Oggi, 7 gennaio 2019 Via per sempre (o quasi) dalla vita economica del Paese corrotti e corruttori: i primi saranno interdetti dai pubblici uffici a vita, oltre che per i reati attualmente previsti, anche in caso di corruzione impropria e aggravata, induzione indebita a dare o promettere utilità, per corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, corruzione attiva, istigazione alla corruzione; traffico di influenze illecite. I secondi saranno esclusi dalla vita economica pubblica anche per i reati di peculato, escluso quello d’uso; corruzione in atti giudiziari; traffico di influenze illecite. E non solo. Anche se dovesse intervenire la riabilitazione (che estingue la condanna) a seguito dell’esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali, le pene accessorie interdittive sarebbero comunque perpetue. Insomma: niente più casi “Berlusconi”, il quale è tornato ad essere candidabile dopo che il Tribunale di sorveglianza di Milano nella primavera scorsa lo ha riabilitato a seguito del servizio sociale svolto presso l’istituto della Sacra Famiglia di Cesano Boston. I “faccendieri” non potranno più far sentire la loro influenza, reale o millantata che sia. La stretta del governo giallo-verde sulla corruzione si annuncia destinata a propagare i suoi effetti in un futuro espanso, e non solo nei termini della maggiore incisività investigativa e di accertamento dei reati contro la pubblica amministrazione nel processo, ma anche con l’intento, in effetti anche dichiarato, di “spazzare via” dalla vita pubblica tutti coloro che si sono macchiati di comportamenti illeciti nei confronti dell’amministrazione pubblica. Sono forse questi gli aspetti di maggiore incisività, che si aggiungono ai temi più prettamente processuali, della legge “spazza corrotti” approvata in via definitiva dal Senato lo scorso 18 dicembre. Ed ai quali si sommano le altre novità, oltre il cosiddetto “Daspo” appunto: aumento dell’entità delle pene accessorie, arresto in flagranza di reato, aumento a due anni dei termini delle indagini preliminari e preclusioni ad accedere ai benefici penitenziari e misure alternative. Introduzione del “pentito” e delle operazioni sotto copertura (ma non agente provocatore) e della possibilità di utilizzare le intercettazioni con trojan (finora limitate alle ipotesi di criminalità organizzata e terrorismo) anche per i reati contro la p.a. Congelamento della prescrizione dopo le sentenze di primo grado e nuove regole per la trasparenza del finanziamento dei partiti. L’andamento parlamentare. Approvata con la fiducia al Senato il 23 novembre scorso, il testo esaminato in seconda lettura da Montecitorio è pressoché identico a quello licenziato in prima lettura se non fosse per la modifica che ha eliminato la disposizione volta ad assorbire nell’abuso d’ufficio una fattispecie configurata attualmente come peculato e perciò punita più severamente. “Questa legge è per tutti i cittadini onesti”, ha detto il ministro guardasigilli Alfonso Bonafede commentando il voto finale, “per tutti gli imprenditori che vogliono fare bene il loro lavoro e per tutte le persone che faranno rinascere questo Paese. Per noi questa è una legge molto importante, il mio primo pensiero va ai giovani italiani e al loro futuro”. Per magistrati e avvocati però la musica è diversa: Anm e Ucpi si si sono ritrovate nelle critiche alle modifiche alla norma sulla prescrizione, destinate, è la denuncia, a rendere il processo penale una spada di Damocle permanente sulla testa degli indagati o imputati. Anche il Csm, con un parere arrivato a legge approvata, lo scorso 19 dicembre, ha espresso critiche sulla riforma della prescrizione e sulla previsione del Daspo a vita per i corrotti adombrando seri rischi di incostituzionalità anche per gli effetti sui diritti alla difesa e alla ragionevole durata dei processi. Con conseguente probabile ricaduta sugli esborsi ex Legge Pinto. L’inasprimento dei reati contro la Pa. Per grandi linee, il provvedimento interviene su due questioni: i reati contro la pubblica amministrazione e la trasparenza nel finanziamento ai partiti. Sul primo fronte, la legge interviene sul codice penale (inasprendo le pene dei reati contro la pa), sul codice di procedura penale (potenziando strumenti di indagine e di accertamento), sul codice civile (rendendo perseguibile d’ufficio la corruzione tra privati), sull’ordinamento penitenziario e sulla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa da reato per le persone giuridiche (vedi altro articolo nella pagina affianco). Il testo introduce un’aggravante del delitto di indebita percezione di erogazioni a danno della Stato, quando il fatto sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio; aumenta le pene per i delitti di corruzione per l’esercizio della funzione e di appropriazione indebita. Ridefinisce la fattispecie del traffico di influenze illecite, assorbendo il millantato credito e rendendo passibile di pena anche colui che dà o promette la somma di denaro, non più reputato alla stregua di una vittima del raggiro. Inasprimento delle pene accessorie (Daspo). Il provvedimento introduce l’incapacità di contrarre con la p.a. (cosiddetto Daspo) nell’ipotesi di un ventaglio molto ampio di reati, così come la interdizione perpetua dai pubblici uffici. La riabilitazione sarà possibile, sulla carta, non prima di sette anni e con la prova di buona condotta. Aumentano i termini della interdizione temporanea. L’accesso alla sospensione condizionale della pena sarà più oneroso: non solo riguarderà anche il corruttore “privato” e sarà condizionato al pagamento, all’amministrazione lesa, della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria; ma il giudice potrà decidere di non estenderne gli effetti alla interdizione dai pubblici uffici o al cosiddetto Daspo. Viene introdotta la figura del “pentito”. La legge introduce una causa di non punibilità (nuovo articolo 323-ter), in presenza di autodenuncia (prima di essere iscritto nel registro degli indagati e in ogni caso entro sei mesi dal fatto, mettendo a disposizione l’utilità ricevuta) e di collaborazione con l’autorità giudiziaria. l millantato credito viene abrogato come fattispecie a sé e ricompreso nella nuova formulazione del traffico di influenze illecite. Agente sotto copertura. Il provvedimento estende la disciplina delle operazioni di polizia sotto copertura al contrasto di alcuni reati contro la pubblica amministrazione. La nuova prescrizione. Per quanto riguarda la prescrizione, il testo prevede una parziale riforma modificando gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale. Il provvedimento individua nel giorno di cessazione della continuazione il termine di decorrenza della prescrizione in caso di reato continuato (si tratta di un ritorno alla disciplina anteriore alla legge ex Cirielli del 2005); sospende il corso della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del citato decreto. L’entrata in vigore della riforma della prescrizione è fissata (comma 2 dell’art. 1) al 1° gennaio 2020. Trojan per investigazioni domiciliari ad ampio raggio. Sono consentite sempre le intercettazioni mediante l’uso dei captatori informatici (cd. trojan) su dispositivi elettronici portatili nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Inoltre cade il paletto del loro utilizzo domiciliare, che sarà possibile anche quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa. Padova: laurearsi in carcere, 31 detenuti sono già dottori di Federica Cappellato Il Gazzettino, 7 gennaio 2019 Il progetto della Fondazione Cariparo e dell’Università: altre 45 persone sono iscritte ai corsi. Trasformare il tempo di detenzione in tempo di qualità e favorire il recupero e il reinserimento sociale dei carcerati usando come strumento la cultura: sono questi due degli obiettivi che hanno spinto la Fondazione Cariparo a sostenere il Polo universitario in carcere. L’iniziativa è stata avviata nel 2003 dall’associazione patavina Gruppo operatori carcerari volontari. L’associazione ha organizzato le attività, mettendo a disposizione dei detenuti i materiali informatici e didattici necessari, ma soprattutto affiancandoli con dedizione e passione. Questo ha permesso a 31 carcerati di conseguire la laurea. In cella - La Fondazione, riconoscendo l’importanza che gli studi universitari possono ricoprire rispetto alle finalità rieducative e di reinserimento sociale, sosterrà anche quest’anno il progetto con un contributo all’Università di Padova per le spese relative alle tasse universitarie e al materiale didattico necessario agli studi. Il Polo universitario in carcere offre a chi sta scontando una condanna la possibilità di poter studiare e laurearsi, accedendo alla didattica e sostenendo gli esami. Attualmente sono iscritti all’Università di Padova 45 detenuti, distribuiti tra i corsi di laurea di Lettere e Filosofia, Scienze Politiche, Scienze della Formazione, Giurisprudenza e Ingegneria. All’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi è stata creata una sezione specifica il polo universitario dedicata allo studio e dotata di strumenti informatici e di una biblioteca. I detenuti che non vi possono accedere per motivi legati alla pena che stanno scontando, hanno la possibilità di studiare all’interno delle proprie celle. Le opportunitá - Inoltre gli studenti sono seguiti direttamente da tutor che li affiancano nel percorso formativo. Francesca Vianello, delegata del rettore per il progetto, ricorda che con un protocollo d’Intesa siglato tra l’Università degli studi e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, ai detenuti negli Istituti penitenziari del Veneto è offerta la possibilità di fruire di una serie di servizi, normalmente offerti a tutti gli studenti, ma a cui la condizione detentiva ostacola l’accesso. Tutto ciò è reso possibile dall’impegno assunto dall’Università, dalla Direzione del carcere, dalla disponibilità dei volontari carcerari e dall’impegno della Fondazione. I risultati ci sono stati, negli ultimi anni, diverse lauree triennali e magistrali regolarmente raggiunte, ma soprattutto la riscoperta dello studio come risorsa e opportunità. “Portare l’Università in carcere, permettendo ai detenuti di studiare e di laurearsi, significa offrire alle persone che vivono in stato di detenzione - osserva Gilberto Muraro, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e di Rovigo - una nuova opportunità di realizzare il loro potenziale e di riscattare il proprio futuro”. Avellino: “mancano medici e infermieri”, l’allarme del Garante dei detenuti internapoli.it, 7 gennaio 2019 “Nella mia visita di oggi nel carcere di Avellino, ho verificato ancora una volta, ascoltando diversi detenuti, che al centro delle criticità vi sono spesso i medesimi temi: la sanità negata e la rigidità ed i tempi lunghi nelle decisioni del Tribunale di Sorveglianza. Mancano gli infermieri, medici specialisti, gli psichiatri ed il medico del reparto per i tossicodipendenti. Chiedo ai Dirigenti dell’Asl di intervenire; alcune volte i detenuti attendono mesi per visite specialistiche e ricoveri ospedalieri”. Così la denuncia del Garante Campano dei Detenuti, Samuele Ciambriello. Ieri presso la sala teatro del carcere di Avellino si è tenuta la rappresentazione teatrale “i conti sbagliati” organizzata dalla Associazione il Faro, il cui presidente è Anna Ansalone, nell’ambito del progetto “far-musica”. Tale rappresentazione ha visto partecipi la compagnia “La Fermata” e 12 detenuti dello stesso istituto. Erano presenti, oltre al Garante Regionale dei detenuti, il Direttore dell’istituto Paolo Pastena, il comandante Attilio Napolitano e la responsabile dell’area educativa Angela Ranucci. Ha assistito alla rappresentazione teatrale una delegazione di Detenuti del nuovo padiglione. Cagliari: paziente morto durante un Tso, inchiesta del pm per omicidio colposo L’Unione Sarda, 7 gennaio 2019 Al momento non ci sono indagati ma si attendono gli esami istologici. Il paziente aveva 45 anni. Ci vorranno almeno tre mesi per accertare le reali cause del decesso di Agostino Pipia, il 45enne morto la mattina del 23 dicembre durante il ricovero nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Santissima Trinità. Il medico legale Roberto Demontis ha chiesto alla Procura 90 giorni per terminare gli esami istologici, quelli cioè sui tessuti prelevati dalla salma nel corso dell’autopsia disposta dagli inquirenti. Una verifica che potrebbe confermare o meno la prima ipotesi, l’embolia polmonare. L’autopsia - L’esame necroscopico è stato disposto dal pubblico ministero Enrico Lussu, che ora indaga per omicidio colposo, dopo l’arrivo nel suo ufficio di un esposto presentato dalla famiglia della vittima una volta saputo che già l’Azienda sanitaria aveva ritenuto di dover eseguire la stessa analisi. Così, per potervi partecipare con un proprio consulente poi individuato nel chirurgo toracico Roberto Cherchi, i parenti si sono rivolti all’avvocato Luigi Trudu il quale la mattina del 28 ha bussato alla porta del magistrato di turno. L’inchiesta - La decisione di aprire un’inchiesta, al momento senza indagati, è derivata proprio dall’iniziativa dei familiari del ricoverato, il cui obiettivo è capire cosa abbia provocato la disgrazia. “Non vogliamo accusare alcuno ma solo far luce su quanto accaduto. Abbiamo la massima fiducia nel lavoro dell’autorità giudiziaria”. Sulla presunta contenzione del fratello in ospedale (l’eventualità che fosse stato legato al letto per evitare potesse far del male a sé e agli altri) “non sappiamo nulla, non ci risulta”. Il ricovero - La vittima, nata a Cagliari e residente a Quartucciu, non era sposato e non aveva figli. Era ricoverato a Is Mirrionis dal 10 dicembre per un disturbo di natura neuropsichiatrica non legato comunque “a episodi di violenza contro le persone”, sottolinea l’avvocato Trudu. Già dieci anni fa era stato ospite del medesimo reparto, poi non si era più presentata la necessità del ricovero. L’arresto cardiaco - Poi il 23 mattina è arrivata una telefonata dall’ospedale che avvisava i familiari che Pipia aveva avuto un arresto cardiaco. Corsi in ospedale, lo hanno trovato già morto. Tre giorni dopo la decisione della Asl di eseguire l’autopsia e della famiglia di prenderne parte ma per nominare un proprio esperto era necessaria l’apertura di un’inchiesta da parte della magistratura. Così è stato. Il pm ha bloccato l’iniziativa dell’Azienda sanitaria e, la stessa mattina, incaricato il medico legale di svolgere un lavoro portato a termine poche ore dopo. Embolia polmonare, il primo e parziale esito. Provocata da cosa? Si attendono gli esiti degli esami istologici. Lettera dei Radicali sull’uso del Tso La morte di Agostino Pipia durante la degenza nel reparto di psichiatria al Santissima Trinità riaccende il dibattito sul Tso (Trattamento sanitario obbligatorio): a farlo sono i segretari di “Diritti alla Follia” e “Radicali Cagliari-Marco Sappia” Michele Capano e Carlo Loi. Le due associazioni hanno scritto una lettera aperta che parte proprio dalla morte dell’uomo, “in degenza da 13 giorni”, un ricovero, come spiega il legali della famiglia, non legato a “episodi di violenza contro le persone”. Le due associazioni, in particolare, mettono in discussione lo strumento del Tso, regime nel corso del quale sono morte diverse persone. Morti che “impongano, con assoluta urgenza, una riforma radicale di tale istituto”. Uno strumento messo in discussione, spiegano le associazioni, dal garante nazionale delle persone detenute private della libertà personale che, scrivono, “evidenzia come già nella definizione il Tso designi una forma di privazione della libertà personale”. Problemi legati all’istituto (si parla anche del rispetto delle prerogative del medico) e lacune nell’Isola. “Denunciamo con forza che ad oggi in Sardegna non è stata istituita la figura del garante regionale delle persone private della libertà personale, nonostante il fatto che l’iter di designazione dell’incarico sia in essere da mesi e con parecchi anni di ritardo rispetto all’approvazione della legge istitutiva”. La lettera aperta, indirizzata al garante nazionale, si chiude con una serie di proposte. E, attraverso la citazione di una sentenza della Cassazione, si ricorda che “la contenzione meccanica non è atto terapeutico e, se non scriminata dallo stato di necessità, da valutarsi in base a criteri rigorosi, comporta per i sanitari responsabilità per sequestro di persona”. Le due associazioni, comunque, garantiscono che proseguirà il loro lavoro di monitoraggio dei casi come quello di Pipia. Taranto: il ristorante “sociale” che fa lavorare detenuti e immigrati di Valeria Cigliola Corriere del Mezzogiorno, 7 gennaio 2019 Il progetto si chiama Articolo 21, ed è nato con il sostegno della Caritas e della direttrice della Casa circondariale tarantina, Stefania Baldassari. Già assunte sette persone. “La strada per la libertà non è mai facile”, scriveva Nelson Mandela. Qualche volta, quella strada passa per la cucina di un ristorante. Lo dimostrano Articolo 21 e Fieri Potest Pastry Lab, rispettivamente un ristorante “sociale” e un laboratorio di pasticceria. Attività pensate per offrire ai detenuti in affidamento ai servizi sociali, e ai cittadini in difficoltà, la possibilità di riprendersi la propria vita. Articolo 21 nasce a Taranto due anni fa, su iniziativa di don Francesco Mitidieri, cappellano della Casa circondariale jonica Carmelo Magli e presidente dell’associazione di volontariato Noi e Voi onlus. Una rete di persone, quest’ultima, impegnata sul territorio tarantino dal 1992, con l’obiettivo di “costruire ponti tra le periferie esistenziali e la comunità”. Da diversi anni la onlus gestisce, in convenzione con la Prefettura di Taranto, anche centri di accoglienza straordinaria per i richiedenti protezione internazionale. Fieri Potest Pastry Lab - un’iniziativa più recente rispetto a quella del ristorante - è un laboratorio di pasticceria, inaugurato lo scorso 7 dicembre, all’interno dell’istituto penitenziario del capoluogo ionico. Determinante la collaborazione della direttrice Stefania Baldassari. L’esperimento, sostenuto dalla Caritas Italiana, è nato in realtà qualche tempo fa, fuori dalle mura della Casa circondariale, per volere dell’arcivescovo Filippo Santoro. L’idea - La frase stampata sulla bella scatola che contiene le crostate del laboratorio è in sintesi la filosofia alla base del progetto: “La vita è dolce se glielo concedi”. Fieri potest dice in latino quello che in italiano suona come “È possibile”, per intendere che se si crede in qualcosa lo si rende possibile. Poco più di due anni fa il ristorante sociale Articolo 21, in via Costantinopoli, a due passi dall’ex Gambero, era solo un’idea. Oggi è una realtà che dà lavoro a sette persone (tutte con regolare contratto a tempo determinato), tra detenuti, ex detenuti, immigrati e ragazzi di periferia. Per tutto il mese di dicembre i suoi tavoli “sono stati letteralmente presi d’assalto”, racconta Lucia Scialpi, “anima” del ristorante, che spiega anche il senso del suo nome: l’articolo 21 della Costituzione Italiana che sancisce la libertà di pensiero, l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che prevede per i detenuti la possibilità di lavorare all’esterno del carcere, e l’articolo 21 del testo unico sull’immigrazione, ovvero la necessità del lavoro ai fini dell’integrazione. Il successo - Un lavoro di squadra costante e un finanziamento iniziale della Fondazione Con il Sud (ente no profit attivo nel Mezzogiorno) hanno trasformato questi articoli di legge in un luogo fisico. Un faro per chi vi lavora, un’attività che muove energie anche al suo esterno: “Inizialmente i nostri clienti arrivavano da noi spinti dalla curiosità e dai pregiudizi, poi le cose sono cambiate. C’è persino chi ci scrive dall’America per farci i complimenti, senza aver mai messo piede nel locale. Il web parla di noi”, aggiunge la volontaria. Dallo scorso marzo a guidare la cucina è Gabriele Falerio, della Federazione italiana cuochi. Con lui i ragazzi imparano anche a selezionare gli ingredienti, in base a proprietà organolettiche e provenienza, facendo attenzione alla sfumatura che possono conferire al piatto. “Privilegiamo la cucina a base di pesce, siamo a due passi dal Mar Piccolo, ma prepariamo anche pietanze che integrano elementi esotici, come la papaya. Nel menu niente è casuale, il vino per esempio è prodotto nelle terre siciliane confiscate alla mafia e il caffè viene dal penitenziario di Pozzuoli. Siamo anche in grado di soddisfare il palato di chi ha delle intolleranze alimentari”. Un percorso di riscatto - Il ristorante è curato anche nell’estetica, spicca sulla parete di fronte all’ingresso una gigantografia delle colonne di Poseidon; gli spazi, ben distribuiti, possono accogliere fino a sessanta persone. “Nulla è frutto dell’improvvisazione - ribadisce Antonio Erbante, presidente della cooperativa (costola di Noi e Voi) che gestisce il progetto -. Prendiamo per mano coloro che sono in difficoltà e li accompagniamo lungo un percorso di riscatto; negli anni abbiamo formato persone che hanno raggiunto anche obiettivi importanti, come la laurea”. Parole confermate da Nicola Taurino, aiuto cuoco: “Con loro ho ritrovato l’equilibrio ed è come se avessi già scontato la mia pena, anche se non è così”. Non mancano collaborazioni con le scuole, come quella con l’Alberghiero di Pulsano. “Il professor Marcucci ha scelto il nostro locale per mostrare ai ragazzi il lavoro che in futuro sarà il loro”, sottolineano. E il futuro prende forma per chi pensava di non averne più uno, tra i profumi della cucina e tanto duro impegno. Monza: nel carcere al via progetto di lettura per evadere con la mente di Barbara Apicella seietrenta.com, 7 gennaio 2019 “Visto che i detenuti non vanno in biblioteca sarà la biblioteca ad andare da loro”. Così commenta Sergio Conti, presidente dell’associazione “La biblioteca è una bella storia” che inaugurerà domani, lunedì 7 gennaio, un nuovo progetto nella Casa circondariale di Sanquirico. Obiettivo dell’iniziativa è stimolare nei detenuti l’amore per la lettura, aiutarli ad evadere (con la fantasia), scoprendo che attraverso la lettura è possibile imparare, conoscere e viaggiare anche se solo con la mente. Il progetto, che coinvolge dodici volontari precedentemente formati all’incontro e al confronto con chi sta scontando una pena, prevede letture ad alta voce nelle sei sezioni (i dodici volontari dell’associazione “La biblioteca è una bella storia” si recheranno a coppie). Un incontro una volta alla settimana (per quindici settimane) della durata di un’ora e mezza. “Leggeremo testi ad alta voce - spiega -. Poi ci sarà il momento del confronto e delle domande. L’obiettivo è stimolare in chi vive l’esperienza della detenzione la curiosità e la passione per la lettura, incuriosendoli e stimolandoli ad accedere alla biblioteca”. Nel carcere di Monza esiste una biblioteca, dove da circa un anno opera a livello di volontario anche Sergio Conti, una lunga esperienza nel mondo delle biblioteche che oggi in pensione mette a disposizione di quella del carcere cittadino. Una biblioteca con circa 9 mila titoli, ma poco utilizzata. Solo una minima parte dei detenuti (Conti stima il 5 per cento) utilizza la frequenta: un po’ per problemi linguistici (molti detenuti sono stranieri, non parlano e non leggono l’italiano), un po’ per scarsa propensione alla lettura. “I libri, soprattutto all’interno della realtà del carcere, sono una risorsa straordinaria - commenta Massimo Bertarelli, uno dei volontari dell’associazione che fin da subito ha fortemente creduto nella validità educativa di questo progetto - Fondamentale per una crescita umana e personale. I libri sono fonti di informazioni ma anche strumenti per svagarsi, per evadere con la mente”. Sulmona (Aq): agenti e detenuti in Vaticano, offrono un dono al Papa di Luca Pompei rete8.it, 7 gennaio 2019 C’era anche una folta delegazione del carcere di Sulmona ieri a Roma, insieme alla Comunità Sulmonese in visita, per la solenne cerimonia dell’Epifania, dal Papa. I dettagli della visita in una nota diffusa dal segretario generale territoriale della Uil Polizia Penitenziaria Mauro Nardella. Il dono consistente in una sedia in legno di frassino, è frutto di una idea dei detenuti lavoranti (nelle fabbriche sono mediamente impiegati 80 detenuti che tutti i giorni lavorano e, attraverso il lavoro, compiono passi di riconciliazione o di riabilitazione) che, guidati da tre agenti e un amministrativo, in collaborazione con tutto l’altro personale operante nella struttura di Sulmona, l’hanno concretizzata in un prototipo capace di trasformarsi in inginocchiatoio; essa è frutto di un lavoro sinergico e di un pensiero condiviso, espressione di una comunità, quella carceraria, che pur nelle differenze di posizione dei singoli che la compongono, si ispira o tende ad ispirarsi alla condivisione del bene comune e dei valori dell’esistenza. “Mi associo al pensiero di Romice - Sottolinea Nardella riprendendo un bellissimo concetto espresso dal Direttore della Casa di Reclusione - rimarcando il fatto che i detenuti, il personale di Polizia Penitenziaria e il personale civile (cd. del comparto funzioni centrali) sono stati e sono lieti di aver partecipato ad un progetto per Papa Francesco, nella condivisione dell’idea che una struttura penitenziaria, non deve limitarsi a penalizzare, a marchiare le colpe, ad escludere o emarginare, ma deve ispirarsi invece all’integrazione, all’inclusione, all’aiuto nel bisogno e tradursi operativamente in gesti concreti, di comune tensione verso la condivisione dei valori dell’esistenza, del bene comune, della promozione del valore dell’umanità e del riconoscimento delle sue debolezze. Un particolare ringraziamento va, oltre che al Direttore Sergio Romice, al Comandante della struttura Sarah Brunetti, ai rappresentanti dell’Area Trattamentale, agli ispettori di reparto, a tutto il personale sia esso di Polizia Penitenziaria che facente capo al comparto ministeri e ai detenuti che hanno collaborato nell’ideazione e realizzazione del manufatto realizzato e che verrà consegnato direttamente nelle mani di Papa Francesco, va a Paolo La Vella, Marcello Di Felice, Michele Casasanta e Maria Impedovo, operatori delle fabbriche insite nella Casa di Reclusione di Sulmona. I primi due dirigono la falegnameria, il terzo la calzoleria e la quarta la sartoria”. Roma: teatro-carcere con “Famiglia”, tra gli attori anche Marcello Fonte tiburno.tv, 7 gennaio 2019 Domenica 13 gennaio alle ore 16.00, al Teatro Ramarini di Monterotondo, con il Patrocinio del Comune di Monterotondo, torna lo spettacolo “Famiglia”, della drammaturga e regista Valentina Esposito, fondatrice della factory Fort Apache Cinema Teatro, un progetto teatrale rivolto a detenuti ed ex detenuti per il loro inserimento nel sistema spettacolo. In scena insieme ad altri dodici attori, Marcello Fonte, premiato come migliore attore a Cannes con la Palma D’Oro e agli oscar europei, gli European Film Awards. Questo spettacolo è dedicato a chi non c’è. Ai figli lontani e ai padri che sono morti mentre i figli erano lontano. Sulla scena ci sono tutti, le persone, i personaggi e i fantasmi. Non importa se non c’è più il muro di un carcere a separarli. Ancora una volta questi attori usano il teatro per quello che serve, per colmare una distanza, per aggredire il senso di colpa, per sostenere il peso del giudizio. Per parlare a chi forse è in platea o a chi forse non c’è più. Ed è in questo sforzo ed in questa necessità che ci raccontano della famiglia, della ferocia degli affetti, dell’amore e della violenza, della solitudine. Del tempo che passa. In un semplice, tragico, commovente passaggio dalla realtà alla finzione. Fort Apache Cinema Teatro - si costituisce nel gennaio 2014 per volontà di Valentina Esposito, autrice e regista impegnata per oltre un decennio nelle attività teatrali all’interno del Carcere di Roma Rebibbia N.C. Il Progetto coinvolge attori ex detenuti o detenuti in misura alternativa (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, affidamento in centri di prevenzione alla tossicodipendenza, detenzione domiciliare), che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo. Brescia: rugby in carcere, una partita per sentirsi liberi giornaledibrescia.it, 7 gennaio 2019 L’alta recinzione in cemento e ferro fa capire che esistono due mondi distinti. Da una parte la libertà, la vita e la possibilità di costruirsi una famiglia coltivando i propri interessi; dall’altra invece il tempo sembra essersi decisamente fermato. abato pomeriggio, sul prato della casa di reclusione di Verziano si è disputata la partita tra detenuti e I Gnari del Rugby. Promotore speciale dell’incontro, il mitico Roberto “Pego” Pegoiani, una leggenda nel mondo della palla ovale nostrana. La storia all’interno del penitenziario di Verziano è incominciata quasi tre anni fa con un primo allenamento diretto appunto dall’ex pilone di Borgosatollo. I carcerati, gran parte di nazionalità straniera, hanno apprezzato tanto che il gruppo oggi conta quindici persone. “Una vita dedicata al rugby mi ha insegnato il dovere e il piacere di dover fare qualcosa per gli altri”, spiega Pegoiani. Ad aiutarlo c’è da un po’ di tempo anche Oliviero Geroldi, come lui vincitore di quello storico scudetto ottenuto con il Concordia Brescia nel 1975. In realtà, nemmeno la squadra scherza molto. Costel Blanaru, trentuno anni, romeno, da alcuni mesi libero oggi gioca stabilmente come ala nel Cus Brescia in C2 mentre Ben Smail Arbi, tunisino suo compagno di squadra, esordirà in campo contro i Lions del Chiese tra due settimane. “Si tratta del primo caso in Italia in cui un detenuto viene regolarmente tesserato da una società di rugby - continua Pegoiani. Per me che lo alleno è una soddisfazione meravigliosa”. Amicizia, rispetto e fratellanza. Le sensazioni che si respirano a Verziano quando si ha un ovale tra le mani sono proprio queste. I padroni di casa, eccezionalmente rinforzati dalla presenza di un ex giocatore di serie A come Luigi Castiglia, sabato hanno fatto la gara della vita, vincendo per tre mete a due. “Questo progetto ci fa sentire utili e liberi, almeno con la mente - ammette Max. I valori che mi porto dentro? La disciplina prima di tutto”. Nel terzo tempo Salvatore “Nembo Kid” Bonetti, ex capitano della Nazionale e vecchio compagno di “Pego” e Geroldi ha curato le premiazioni. “Ringazio la direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi per la disponibilità, la dottoressa Annarita Zani e l’educatrice Silvia Frassine - ha aggiunto Pegoiani. Vincere contro un gruppo di giocatori esperti ci ha reso orgogliosi di noi”. “La giustizia è Cosa Nostra” di Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni La Repubblica, 7 gennaio 2019 Inchieste insabbiate e giudici corrotti: l’edizione aggiornata del saggio scritto negli anni Novanta. Ci eravamo lasciati molti anni fa con una mafia che sparava, metteva bombe. E che aveva garanzia di un’impunità che sembrava eterna, erano tutti sempre innocenti e sempre liberi. Per grazia ricevuta da una magistratura a volte complice e altre volte semplicemente sbadata, per lungo tempo ai mafiosi ha assicurato conservazione e potere. A noi giovani cronisti, che raccontavamo i morti per le strade o annotavamo sui taccuini lo svolgimento dei dibattimenti che si concludevano sempre con la stessa sentenza - assolti, assolti per insufficienza di prove, era diventato oramai familiare un glossario della giustizia che faceva paura. Scrivevamo di giudici “avvicinati” e di avvocati “di controllo” o “di corridoio”, di processi “buttati in nullità”, di presidenti di Corte o di Tribunale “parlati”, di verdetti comprati e venduti, ergastoli cancellati, perizie mediche falsificate, testimoni intimiditi, lunghissime istruttorie pilotate verso il niente. Così, qualche anno più tardi - nel 1995 - non è stato difficile trovare un titolo per il nostro libro: “La giustizia è Cosa Nostra”. Con Peppe, il mio amico Giuseppe D’Avanzo, l’avevamo scelto quando la prima parte - quella sul povero capitano Basile - era stata solo parzialmente chiusa e mancavano ancora da rivedere i capitoli sugli ultimi “aggiustamenti” dell’interminabile e vergognoso processo sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. Ogni mattina iniziavamo un nuovo paragrafo, novanta o cento righe scritte di getto e poi all’improvviso ci fermavamo, increduli di ciò che stavamo leggendo su qualche documento recuperato dal nostro archivio. Atti ufficiali, come quello sulle motivazioni della prima Corte di Assise di Palermo che giudicò non colpevoli i tre sicari - tutti rampolli di importanti “famiglie” di Cosa Nostra - del capitano. Una lettura da brivido: “Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento della Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi...”. Ma mese dopo mese, studiando la storia di grandi e piccoli processi di mafia, ci siamo accorti che alcune decisioni della magistratura siciliana non erano per nulla casuali e che Cosa Nostra aveva potuto contare per decenni sulla “benevolenza” di molte toghe. Il processo Basile con tutte le sue tortuosità ci aveva permesso di “entrare” nel mondo della giustizia “aggiustata” e salire, inchiesta dopo inchiesta e dibattimento dopo dibattimento, sino alla Suprema Corte. Il mio amico Peppe, con il suo talento aveva già raccontato su Repubblica - il nostro giornale - le gesta di quella “leggenda in ermellino” che era diventato negli anni 80 Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione penale della Cassazione noto ai tempi come “l’Ammazzasentenze”. Molte delle pagine di questo libro come avete letto sono state dedicate a Sua Eccellenza, il giudice Corrado Carnevale. Al di là delle conclusioni della sua vicenda giudiziaria - assolto in Cassazione “perché il fatto non sussiste” dopo una condanna per concorso in associazione mafiosa in Appello che ribaltava il verdetto di primo grado - il giudice fu al centro di uno dei più grandi scandali dove è sprofondata la magistratura italiana. Un’assoluzione definitiva che non cancella però i fatti narrati in questo libro, le sue sentenze, il risentimento incontenibile verso Falcone e Borsellino che erano già stati uccisi. Avevamo scritto su di lui, nel 1995: “Prende fuoco... erutta turpiloquio”. Dopo tanto tempo ho maturato la convinzione che la sentenza più severa contro Carnevale l’abbia emessa lui stesso. Ci eravamo lasciati molti anni fa con quelle bombe e quelle figure picaresche e ci ritroviamo oggi in un’Italia più felpata, silenziosa, docile. Sappiamo bene che nulla tornerà mai più come prima. Negli anni del sangue mafioso è nata nel nostro Paese una nuova generazione di magistrati, ma oggi quell’ “ansia di giustizia” sembra venuta meno, la nostra società è cambiata, la magistratura è cambiata rispetto quegli anni 90. Questi sono i ragionamenti che ci hanno spinto a ripubblicare La giustizia è Cosa Nostra dopo quasi un quarto di secolo. Devo ringraziare i magistrati che con affetto ci hanno consegnato una loro riflessione sul libro, alcuni l’hanno già letto 23 anni fa e altri per la prima volta negli scorsi mesi. Molti di loro sono vecchi compagni di ventura, almeno così io li considero per la tanta strada che abbiamo fatto insieme a Palermo. Il “fuori registro” che avete trovato con le loro firme e il loro sapere è un piccolo tesoro, una sorta di guida alla lettura. Vorrei concludere con il mio amico Peppe. Mi manca, mi manca tanto. Anche come giornalista. Quali infinite discussioni avremmo avuto oggi su questa post-fazione del nostro libro, scritto nelle prime ore del mattino con in sottofondo il rock duro dell’algerino Khaled e con la caffettiera fumante sempre sulla scrivania? Quali tante altre dispute ci sarebbero state su un aggettivo in più o in meno su questo o quell’altro personaggio, su un capitolo da anticipare o da collocare altrove nel libro che avremmo ancora voluto scrivere, su chi avrebbe dovuto stendere una piccola parte di racconto e su chi lo avrebbe dovuto rivedere? Ma, soprattutto, cosa avrebbe detto Peppe su questa magistratura italiana che forse non sa più vedere sino in fondo? Servizi sociali e giudici, così i minori diventano “figli dello Stato” di Mario Alberto Marchi Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2019 In questi giorni le cronache riportano ancora una volta casi di intervento della giustizia minorile in storie familiari complesse e dolorose. Giudizi su capacità genitoriali, valutazioni su condizioni di minori, provvedimenti che vengono messi in discussione per la loro apparente crudeltà, giustificata dall’intento di mettere al centro delle decisioni il bambino, quale figura più vulnerabile e titolare di un diritto al benessere che va oltre il momento, proiettato nel suo futuro. L’approccio attuale è articolato e affidato - almeno in teoria - alla competenza specifica di servizi sociali e giudici, ma si riferisce a un sistema molto datato, che affonda le radici culturali nel Ventennio fascista, dove lo Stato avocava a sé il diritto a educare e formare. Con qualche eredità controversa. Ha più di 60 anni la legge che istituisce l’affido di minorenni ai servizi sociali. In realtà si tratta di una modifica della prima norma, datata addirittura 1934. Ma più che di una legge, si tratta in realtà di un’attribuzione di potere. Infatti non è previsto né un vero elenco dei motivi che possano portare alla sottrazione dei minori alla responsabilità genitoriale, né tantomeno la possibile durata. È considerato un provvedimento temporaneo e ciò significa che non è appellabile, quindi non è suscettibile di ricorso mediante un tribunale, ma contemporaneamente può durare anche anni: perfino sino alla maggior età del soggetto preso in carico. Formalmente è una sospensione della potestà dei genitori, che però mantiene in vigore i doveri economici da parte di questi. In pratica i minori diventano “figli dello Stato”. Una condizione abbastanza inquietante, se non si considera che in origine era prevista come correttivo delle devianze giovanili. In seguito è stata fatta diventare un mezzo per sopperire a carenze educative gravi, riassumibili nel cosiddetto “stato di abbandono”, o come mezzo per mettere al riparo figli di coppie separate dai conflitti tra adulti. Ma quanti sono i minori “dello Stato”? Un numero esatto non si conosce, perché non vi è alcun obbligo per le istituzioni locali di stilare un elenco e soprattutto di comunicarlo alle istituzioni nazionali. Un dato del 2012 vuole circa 14mila minori nelle case famiglia, ma anche in questo caso non vi è distinzione tra coloro che sono stati tolti ai genitori e coloro che vengono ospitati, ad esempio, con la madre a seguito di casi di violenza domestica. C’è poi un fenomeno ibrido, che nasce dalla distinzione tecnica - spesso poco conosciuta anche da chi fa informazione - tra collocamento e affido. Accade che il minore sia collocato presso i genitori, ma affidato ai servizi sociali. L’intento è quello di non privare i figli di ambiente e affetti, durante un percorso di sostegno ai genitori che vengono ritenuti temporaneamente non in grado di svolgere del tutto i loro compiti. Purtroppo spesso il meccanismo produce - invece - conflitti e delegittimazione dei genitori agli occhi dei figli. In pratica il genitore non può decidere nulla: dalle scelte scolastiche al permesso per uscire con gli amici. Non di rado si crea una condizione per la quale il minore si appella all’assistente sociale per ottenere quel che sa non otterrebbe dalla madre o dal padre. Basta denunciare un stato di disagio e scatta la sostituzione del ruolo genitoriale. Chi scrive tempo fa raccolse il racconto di una madre collocataria, ma non affidataria a causa del conflitto con l’ex marito: le figlie minorenni ricorrevano all’assistente sociale per potersi fare piercing, tatuaggi, poter uscire la sera: la madre poteva solo vedersi “passare sulla testa” le scelte concordate tra figlie e assistente sociale. La domanda è: se il provvedimento fosse stato davvero temporaneo, cosa avrebbe dovuto fare la madre per essere considerata adeguata dalle figlie? Replicare all’infinito le scelte precedenti dell’assistente sociale? Avrebbe dovuto rimanere perennemente sotto ricatto? Il problema non si pose, perché - come spesso accade - le due minorenni rimasero “figlie dello Stato” fino ai 18 anni. Accade praticamente sempre. Fine del problema? In realtà, no. Semplicemente fine dell’opera di delegittimazione totale del genitore, visto che da quel momento in poi la maggior età consente l’autodeterminazione, riconosciuta dalla legge. Con - però - un dettaglio non da poco: la stessa legge impone la ritrovata responsabilità genitoriale fino all’indipendenza economica del figlio. In pratica il genitore ritrova tutti i doveri, ma non più l’autorità. Del resto anche durante la condizione di “figlio dello Stato” del minore, il genitore aveva in capo a sé tutti gli obblighi economici, ma era privato di ogni vantaggio, come gli assegni famigliari o qualsiasi altro sgravio fiscale. E se lo Stato si limitasse a controlli e verifiche e magari orientasse il suo intervento al sostegno? Insomma, se lo Stato rinunciasse ad avere “figli” e pensasse a coltivare genitori? Forse si seguirebbe un concetto più moderno e liberale che farebbe bene a tutti. Migranti. Salvini sfida la Chiesa: “Fate i vostri appelli ma non entra nessuno” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 7 gennaio 2019 Richiamo del Papa: accoglieteli. Il ministro: “Gli scali restano chiusi”. Si ribellano le autorità portuali. Sui migranti in mare Salvini sfida la Chiesa. Il Papa invita ad accoglierli, così come il vescovo di Torino Nosiglia. A loro si contrappone il pugno duro del ministro dell’Interno: “I porti restano chiusi, non sarò mai complice degli scafisti”. Ma le autorità degli scali si ribellano. Dopo i sindaci e i governatori, Matteo Salvini apre il fronte di scontro con la Chiesa. “Finché sarò ministro i porti saranno chiusi”, ha detto il ministro dell’Interno dopo che persino Papa Francesco si era speso per gli immigrati a bordo delle navi Sea Watch e Sea Eye. “Possono fare gli appelli che vogliono, Fabio Fazio, il vescovo, il cantante, il calciatore, ma io rispondo a 60 milioni di italiani che hanno diritto a un Paese in cui si entra se si ha il diritto”, ha spiegato in una delle sue dirette Facebook, stavolta dal Viminale. L’appello ai leader europei In mattinata il Pontefice all’Angelus aveva rivolto un “accorato appello ai leader europei, perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di 49 persone che da parecchi giorni sono a bordo di due navi nel Mediterraneo”. Il vescovo di Torino Cesare Nosiglia si era spinto a dichiarare la disponibilità della Chiesa torinese “ad accogliere alcune delle famiglie che si trovano a bordo delle navi”. “La nostra Chiesa aveva già offerto questa disponibilità per i profughi della nave Diciotti, nel settembre scorso”, ha detto Nosiglia. “Ci pare necessario lanciare un segnale preciso alle autorità istituzionali italiane e degli altri Paesi europei sul significato dell’accoglienza, altrimenti come facciamo a predicare l’accoglienza dei bisognosi, se poi non ci mettiamo nelle condizioni di praticarla?”. “Quanti migranti accogliamo? Zero, abbiamo già dato”, la gelida risposta di Salvini. “Su questa scrivania ho firmato il permesso di arrivare in Italia a centinaia di donne e bambini riconosciuti in fuga da associazioni serie. Poi basta: per i trafficanti di esseri umani i porti italiani sono, erano e saranno chiusi. Grazie a questo traffico gli scafisti comprano armi e droga. Io non sarò complice e non mollo di un millimetro: se cediamo il 6 gennaio dal giorno dopo siamo da capo e gli scafisti torneranno a far quattrini e le Ong che non rispettano le norme torneranno ad aiutare i trafficanti”. Quindi il botta e risposta con Di Maio. “Sui porti decido io”, attacca il leader leghista ma l’altro vicepremier lo stoppa: “No, la decisione è collegiale, del governo”. La rivolta delle Regioni Dopo la rivolta dei sindaci aperta il 2 gennaio da Leoluca Orlando, il fronte tra il capo leghista e gli enti locali a guida centrosinistra resta aperto. Oggi la giunta della Regione Toscana guidata da Enrico Rossi si riunisce per dare mandato ai legali di fare ricorso alla Corte Costituzionale contro la legge Salvini, in particolare sull’articolo 13 che impedisce l’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. I tempi sono strettissimi: il ricorso va presentato entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, e cioè il 3 febbraio. L’obiettivo, spiegano dalla Regione, è dimostrare che con quella norma lo Stato è intervenuto su materie come l’assistenza sociale (di competenza regionale) e su materie concorrenti tra Stato e Regioni come sanità e istruzione. In sostanza, senza poter concedere la residenza ai richiedenti asilo, la Toscana si troverebbe a non poter erogare servizi su cui invece ha voce in capitolo. A Firenze si ragiona anche sulla possibilità che la Regione porti alla Consulta le questioni sollevate da alcuni sindaci sulla costituzionalità della legge Salvini. “È previsto dalla legge la Loggia del 2003”, spiega l’assessore Pd Vittorio Bugli. Sulla stessa linea si muovono anche altre regioni a guida dem. Oggi il governatore del Lazio Nicola Zingaretti incontra l’avvocatura regionale per mettere a punto il dossier e capire se ci sono fondate possibilità di fare ricorso alla Consulta. “Se ci sono le condizioni giuridiche non perderemo tempo”, fa eco il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino. Così anche la presidente dell’Umbria Catiuscia Marini e quello della Calabria Mario Oliverio. Migranti. Se le Regioni si rivolgono alla Corte costituzionale di Ugo De Siervo La Stampa, 7 gennaio 2019 La probabile diretta impugnazione da parte di alcune Regioni del cosiddetto decreto legge Salvini origina la necessità di alcune spiegazioni, al fine di cercare di capire in cosa potranno consistere questi ricorsi e quali siano le possibili conseguenze. Anzitutto ricordiamo che il nostro sistema di giustizia costituzionale prevede che ciascuna Regione possa ricorrere direttamente alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione di una nuova legge statale, allorché ritenga che questa legge leda la sua sfera di competenza o - sulla base della giurisprudenza della stessa Corte - quella degli enti locali presenti nel territorio regionale. Da questo punto di vista quindi, almeno in astratto, non vi è alcun problema poiché la legge di conversione è stata pubblicata all’inizio di dicembre. Semmai occorre conoscere quale sia la disposizione o le disposizioni impugnate, dal momento che la Regione deve necessariamente individuare quelle parti del decreto legge convertito che ritenga invasive delle competenze proprie o degli enti locali, mentre il “decreto Salvini” appare estremamente vasto ed eterogeneo (circa sessantacinque articoli di legge, che si occupano di temi assai diversi tra loro). Pur nel rispetto delle competenze statali in tema di immigrazione, di sicurezza pubblica o di anagrafe, non mancano certo varie disposizioni del decreto che incidono in modo diretto o indiretto sulle competenze regionali in materia di assistenza sociale, di sanità, di edilizia popolare, di scuola o sulle specifiche competenze degli enti locali in questi settori. In particolare si può ricordare la disposizione che ha già sollevato le proteste di molti Sindaci, secondo la quale coloro che hanno un permesso di soggiorno perché hanno richiesto la protezione internazionale, non possono più essere iscritti (pur temporaneamente) nell’anagrafe comunale, con tutta una serie di gravissime conseguenze (iscrizione al Servizio sanitario nazionale, accesso all’assistenza sociale, partecipazione a bandi per alloggi di edilizia residenziale pubblica, ecc.). È certo quindi che siamo alla vigilia di un primo importante tipo di conflitto su questo testo tanto tormentato, ma in questa prima vicenda non verranno in rilievo tutti i suoi seri difetti. Infatti adesso vengono in gioco solo le reciproche competenze di Stato e Regioni e quindi possono venire in rilievo solo le incoerenze rispetto alla politica di riparto dei poteri fra Stato, Regioni ed enti locali. In questo conflitto però non possono essere sollevate le tante possibili critiche contro la linea di fondo di questo testo legislativo, che purtroppo appare quasi tutto radicalmente ostile ad alcuni fondamentali valori costituzionali (la solidarietà, l’eguaglianza di fondo fra tutte le persone, l’apertura verso i più deboli) anche là dove non vengono in rilievo le Regioni o gli enti locali. Nel giro di poco tempo, starà però ai tanti soggetti danneggiati e discriminati, magari a ciò stimolati anche dalle attuali iniziative di alcune Regioni, porre in via incidentale, prima dinanzi ai giudici ordinari e poi dinanzi alla Corte costituzionale, tutti i problemi di giustizia e di razionalità che possono essere agevolmente sollevati contro un testo eterogeneo del genere e che potrebbero anche portare ad una sua diffusa demolizione ad opera dei giudici ordinari e costituzionali. C’è sinceramente da chiedersi se si è calcolato quanto potrà costare al paese una fase di acuta e prolungata conflittualità come quella che si preannuncia. Né si cerchi - come pure qualcuno ha tentato di fare confusamente nei giorni passati - di coinvolgere nella responsabilità di tutto ciò il Presidente della Repubblica, che ovviamente ha doverosamente promulgato la legge 132/2018, così come è tenuto a promulgare tutte le leggi ai sensi dell’art. 74 della nostra Costituzione, salva la sola possibilità di rinviare il testo legislativo alle Camere insieme ad un messaggio di spiegazione dei suoi dubbi, dubbi peraltro sempre superabili dalla difforme volontà parlamentare: come già molti hanno chiarito (ma l’ignoranza istituzionale appare attualmente davvero forte!), il Presidente della Repubblica con la controfirma non garantisce la costituzionalità della legge, che non a caso può essere successivamente impugnata presso la Corte costituzionale. Migranti. Giovanni Maria Flick: “La mossa dei governatori può sospendere la legge” di Andrea Carugati La Stampa, 7 gennaio 2019 Se andasse in porto, la strada del ricorso alla Corte Costituzionale di una o più regioni contro la legge Salvini sull’immigrazione sarebbe molto più rapida rispetto ad altre. Potrebbe portare nel giro di pochi mesi ad una sospensione delle norme a rischio di incostituzionalità (come quella che impedisce ai Comuni di concedere la residenza ai richiedenti asilo). E in tempi un po’ più lunghi anche alla cancellazione delle stesse norme. Una strada decisamente più veloce, quella del ricorso “in via principale” da parte delle Regioni, le uniche che hanno titolo a rivolgersi direttamente alla Consulta. Senza cioè dover passare prima da un giudice, cosa che invece tocca a un singolo cittadino o anche a un sindaco che contesti la norma. Il nodo, spiega l’ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte Giovanni Maria Flick, “riguarda la negata concessione della residenza, fatto che secondo alcune regioni impedisce di erogare ai richiedenti asilo alcuni servizi come le prestazioni sociali e l’istruzione e rende più difficile l’accesso ai servizi in tema di sanità e lavoro”. “Il punto è che su queste materie le Regioni hanno una competenza concorrente con lo Stato centrale, e dunque possono rivolgersi alla Corte per ottenere il rispetto delle proprie prerogative sacrificate dalla legge dello Stato”, spiega Flick. Un contenzioso tipico, quello tra Stato e Regioni sulle competenze legislative, già ampiamente sperimentato. Questa volta però la questione è più complessa: “L’immigrazione è un tema di competenza dello stato centrale, e questo potrebbe portare a respingere i ricorsi delle Regioni”, avverte Cesare Mirabelli, altro ex presidente della Consulta. E aggiunge: “È difficile definire rigidamente i confini di competenza di una norma: in questo caso si tratta di norme sull’assistenza sociale o sull’immigrazione?”. E ancora: “Le Regioni non hanno competenza sullo stato civile”. Mirabelli ricorda che le Regioni possono presentare obiezioni di costituzionalità solo “in riferimento a una eventuale delle proprie competenze legislative”. Non altro. Un singolo cittadino, cui venissero negati diritti a causa della legge Salvini, avrebbe un ventaglio più ampio di argomenti da sottoporre al giudice ordinario. Il quale, a sua discrezione, potrebbe decidere di ricorrere alla Corte se rilevasse la violazione di un principio costituzionale. I due tipi di ricorsi, del singolo o di una o più Regioni, non si escludono a vicenda. Possono viaggiare in parallelo. È questa la doppia sfida di sindaci e governatori a Salvini. Migranti. “L’assistenza sociale compete alle Regioni, decreto sicurezza pura propaganda” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 7 gennaio 2019 Enrico Rossi, presidente della Toscana, spiega i motivi del ricorso alla Corte Costituzionale. Presidente Enrico Rossi, oggi parte il ricorso alla Consulta della regione toscana contro il decreto sicurezza. Il governo assicura che non è precluso l’accesso degli stranieri alla sanità, perché dite che sono incostituzionali? “Questa legge ostacola il nostro lavoro: erogare assistenza sociale. Invade una materia che la Costituzione ci affida. Per questo oggi deliberiamo in giunta il ricorso. Secondo i nostri conti almeno in Toscana ci sono almeno 6mila persone che diventano “invisibili”. Gli stessi volontari dicono: se continuiamo a tenere queste persone nei nostri centri verremo accusati di favoreggiamento della clandestinità? Pensi in che condizioni hanno messo il Paese! Dall’oggi al domani rischiamo di ritrovarci in giro decine di migliaia di giovani disperati, altro che maggiore sicurezza”. Cioè il decreto aumenta l’insicurezza? “Cosa fa Salvini? Le rimpatria tutte queste persone? Aveva già promesso di rimpatriarne 600mila, ma non mi pare che nel suo semestre radioso siano aumentati i rimpatri, anzi. È una legge propagandistica, gli serve solo a mostrare i muscoli. A voler pensar male, da un lato pare che si voglia far crescere una riserva di manodopera a basso prezzo, dall’altro sembra punti ad aumentare la rendita di posizione di chi specula sull’immigrazione: aumenta l’insicurezza, aumentano i voti alla Lega”. Condivide i sindaci che rifiutano di applicare la legge Salvini? La presidente del Senato dice che così si finisce nell’anarchia. E anche Renzi pensa che “il decreto Salvini crea problemi, ma in attesa della Consulta le leggi si rispettano”. “È un concetto un po’ astratto, i sindaci non sono mica ragionieri. Naturalmente ci vuole ragionevolezza: non è che si può ogni giorno disapplicare una legge, ci deve essere in ballo qualche principio di fondo. Ma in questo caso non si può parlare di politica irresponsabile. Peraltro, i sindaci si assumono una bella responsabilità, pronti a pagare le conseguenze: possono essere accusati di abuso di ufficio. Io sono dalla loro parte. C’è un fatto che forse sfugge, purtroppo anche a Renzi: noi presidenti di regione e sindaci non abbiamo l’immunità parlamentare. Tra tutti i privilegi che si vogliono abolire, questo lo conservano”. Ma la paura nei confronti degli immigrati è diffusa soprattutto in quelle periferie che la sinistra vuole riconquistare. Non pensate di fare un favore a Salvini accettando questo terreno di sfida? “Non voglio riaccendere polemiche, ma penso che purtroppo il successo di Salvini nasce dalla timidezza e dall’arretramento culturale della sinistra. Lo “ius soli” non si è fatto perché non erano maturi i tempi, la Bossi-Fini non è stata cancellata. Si è creata una prateria e questi l’hanno percorsa. Si doveva fare leva sui sindaci per impiegare questi ragazzi in attività socialmente utili, invece che tenerli a bighellonare pagando 35 euro per ciascuno a una cooperativa. Questo ha creato una reazione negativa, è stato un errore del governo precedente”. L’argomento di Salvini è proprio questo: ci sono tanti poveri in Italia e aiutiamo gli stranieri? Lo ha detto anche a lei: “Rossi pensi ai 119 mila toscani poveri”… “Lo ha detto, però non vuole fare una discussione. Io l’ho sfidato a discutere in pubblico: vediamo cosa ho fatto io per i poveri e cosa ha fatto lui. Ma non ha accettato, ha detto che ha troppo da fare. Posso assicurare che la Toscana sui problemi del lavoro, dell’uguaglianza, del sostegno a chi ha bisogno ha fatto tanto”. Stati Uniti. Pena di morte rinviata due volte, condannato si uccide in cella Gazzetta del Sud, 7 gennaio 2019 Un omicida condannato alla pena capitale nello stato americano del Nevada si è impiccato nella sua cella dopo che la sua esecuzione tramite iniezione letale era stata rimandata due volte. Scott Raymon Dozier, 48 anni, aveva più volte detto di voler morire, piuttosto che passare il resto della vita in carcere, e aveva al suo attivo già diversi tentativi di suicidio. Quando, nel 2017, un giudice statale aveva rimandato la sua esecuzione a causa di timori sulle sofferenze - soffocamento mentre era ancora cosciente - che un mix sperimentale di farmaci letali avrebbe potuto causargli prima della morte, Dozier gli aveva consegnato una nota scritta in cui diceva: “Sono stato molto chiaro sul mio desiderio di essere giustiziato, anche se è impossibile evitare la sofferenza”. “Fatelo, fatelo rapidamente e smettetela di litigare”, aveva poi dichiarato in un’intervista alla AP lo scorso agosto, dopo che un giudice aveva nuovamente bloccato l’esecuzione all’ultimo minuto. Libia. La storia di Amir: “a 15 anni in carcere, senza soldi e senza speranze” di Emanuel Butticè alqamah.it, 7 gennaio 2019 Dal Niger alla Libia, dalle cucine del carcere al viaggio della speranza alla ricerca del padre- “Da dieci anni non ho notizie di mio padre, sono andato via dal Niger per non essere arrestato”. Questo è il racconto di un 19enne nigerino che chiameremo Amir, nome di fantasia. Anche la sua storia è molto complessa, piena di eventi tragici e inaspettati. In Niger studiava e frequentava la scuola. Il suo Paese da anni è centro di diversi conflitti militari e politici, la sua storia è stata condizionata proprio da un conflitto interno. Il padre lavorava in un ufficio di frontiera e a causa di queste tensioni è stato costretto ad abbandonare il Paese nel 2008, quando Amir era ancora un bambino. La mamma e i fratelli restano in Niger, lui, figlio maggiore, era destinato a finire arrestato al posto del padre, nel frattempo fuggito. Così, la madre, prima del compimento della maggiore età decide di mandarlo via. “Mia madre ha venduto la sua mucca per pagarmi il viaggio. Dalla mia città arrivo ad Agadez, in cui resto una settimana perché non avevo abbastanza soldi per raggiungere la Libia”. Amir decide così di andare verso la Libia, per trovare un lavoro e, magari, per ricongiungersi con il padre di cui da anni non aveva più notizie. Trova così il modo di attraversare il deserto del Saharah a bordo di un auto che faceva la spola nel deserto. Erano molti, stretti, con niente da mangiare e da bere. L’auto ogni tanto era costretta a fare lunghe pause a causa di problemi tecnici. Lui è solo, senza niente e nel cuore del deserto. Solo con un piccolo gruppo di ragazzi diretto a Sebha, città libica cuore della rotta dei migranti, la cosiddetta rotta Agdez-Dirkou-Sebha. Una tratta difficile in cui molto spesso i migranti finiscono vittime delle razzie di polizia e ribelli. Amir arriva sfinito, non conosce nessuno. Usa gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli, ma sta male. Dopo 21 giorni al freddo, tra deserto e viaggio, a digiuno e con poca acqua, si sente male. Accusa anche una forte reazione allergica, ma non è tutto: era molto magro, aveva perso le forze ed era debole. Aveva dolori ovunque. Finalmente, dopo diverse peripezie, senza conoscere la lingua, incontra un amico che lo accoglie in casa, ma con lui era dura, ogni tanto riuscivano a mangiare, ma non sempre. “Cercavo un lavoro, ma non conoscevo l’arabo, quindi era molto difficile. Un giorno mi ferma la polizia e mi porta in carcere.” Il suo racconto è duro, pieno di pause, fa fatica a rievocare quei ricordi e quelle sofferenze. Era molto giovane, debole e senza nessun punto di riferimento. Così la polizia, quella che almeno lui ha riconosciuto esserlo, lo porta in carcere. Nei primi 10 giorni nessuno gli chiede niente, lo lasciano in balìa del nulla e della solitudine. Ricorda ancora bene le botte dei poliziotti: “loro picchiavano molto, io ero uno dei più piccoli quindi non capitava spesso, però erano molto duri”. Lui non conosceva nessuno oltre all’amico, quindi non sapeva chi contattare per uscire da lì. Così, ammanettato, insieme ad altri ragazzi, viene portato in un centro fuori città. Lì riesce a lavorare inizialmente come muratore, portava la sabbia su per i ponteggi. Ma era ancora debole, aveva forti dolori al fianco e alla schiena. Dura una sola settimana. Aveva guadagnato pochi soldi, così finisce nuovamente in carcere. “Perché se avevi soldi o qualcuno fuori riuscivi ad uscire, in caso contrario restavi in carcere”. Dopo un mese un “padrone” lo prende a cuore, lo vede piccolo, gracile, debole, aveva solo 15 anni. Così prendono lui e un altro giovane ragazzo e li portano in cucina. Per quasi un anno ha cucinato per i “carcerati”. Infine altri lavori, a casa di un “capo” e di un suo conoscente. “Ho lavorato anche nella sua casa, lui aveva delle pecore e dei cammelli, lavoravo senza essere pagato. Ero come uno schiavo. Ma era l’unico modo se volevo raggiungere la libertà…” ad un certo punto il suo racconto si interrompe. Porta le mani al volto. Interrompiamo l’intervista. Non ce la fa. Gli provoca troppo dolore. Il suo racconto fin da subito è stato a “singhiozzo”, troppo intenso di eventi, drammatici e di sofferenza, non riesce a raccontare tutto. Ma è quando chiediamo del padre che si interrompe. Decidiamo di fare una pausa. Piange. Apprendiamo nel frattempo che dal 2008 non ha più notizie del padre, sa solo che era diretto in Libia. Nessuna notizia. A 15 anni si ritrova da solo in una città libica pur sapendo che il padre era diretto proprio in quella nazione. Per 2 anni non ha sentito neanche la madre. I due torneranno a sentirsi dopo essersi liberato dall’oppressione del carcere, ma del padre neanche lei ha più avuto notizie. Riprendiamo, ma decidiamo di omettere la parte sul padre per non evocare altre sofferenze. Con gli occhi ancora lucidi, ripercorre altri momenti della vita nel carcere libico, dai lavori e infine di come è stato visitato in un ospedale per i suoi problemi di salute. Dopo aver messo da parte un po’ di soldi insieme ad altri 3 ragazzi decide di provare a prendere un barcone. Nel frattempo gli giungono racconti terribili: gente morta annegata, molti non sono mai arrivati in Europa. Inghiottiti dal mare per sempre. La paura lo costringe a fare un passo indietro: “Non volevo andare in Italia, ho dato dei soldi ad amici conosciuti nel frattempo per fare la traversata, una volta in Italia mi avrebbero chiamato e ridato i soldi. Ma non li ho più sentiti. So che sono arrivati, ma non hanno più risposto alle mie chiamate.” Parte dei soldi, come spesso accade, li ha dovuti dare a quella che lui chiama “polizia”. Dopo essersi liberato dal carcere viene ospitato da una donna incinta, poi, dopo un mese, anche lei decide di partire per l’Europa. Decide di darle le sue coperte per il viaggio, a lei sarebbero state più utili. Adesso però era di nuovo solo e senza niente. Non aveva più niente da perdere, così decide di “imbucarsi” tra i ragazzi pronti per partire per l’Italia. Di notte, con il buio fitto, con la sabbia fredda sotto i piedi riesce a salire sul gommone. Partono, ma l’imbarcazione accusa subito un problema al motore e torna indietro: Amir è terrorizzato all’idea di essere arrestato e riportato in carcere. Fortunatamente, il danno viene riparato in poco tempo. Amir trascorre quasi 24 interminabili ore in mare. “Ho avuto paura, il mare è terribile, soprattutto di notte. Il gommone era pieno di donne e anche di bambini che piangevano”. Poi, l’inevitabile accade. Il mare si ingrossa, il gommone inizia a rimbalzare sulle onde. Sarà una nave di cui non ricorda la nazionalità che li salverà da una morte certa. Il gommone era parzialmente sommerso dall’acqua quando la lave li affianca. Sono riusciti a salire appena in tempo. Sbarca a Trapani, viene trasferito a Triscina e successivamente nella vicina Castelvetrano dove segue alcuni corsi di alfabetizzazione. Oggi si trova ospite di uno Sprar di Alcamo. Ed è felice, si trova bene. “Ho il permesso di soggiorno e lavoro in campagna, nel frattempo sto frequentando la scuola e a breve prenderò la terza media. Vorrei continuare a studiare e imparare la lingua”. Amir è sereno. Ma ha ferite ancora aperte che sanguinano. La madre pensava fosse morto durante il viaggio verso la Libia: “ci siamo sentiti dopo 2 anni, mi credeva morto. Lei adesso sta bene e vive con i miei fratelli più piccoli”. Oggi Amir sorride. Terminata l’intervista ci ringrazia, parlare lo ha aiutato a metabolizzare alcuni ricordi. Arabia Saudita. Le donne allo stadio e quelle in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 gennaio 2019 In questi giorni il dibattito politico sull’opportunità o meno di giocare la finale della Supercoppa italiana di calcio in Arabia Saudita, in programma a Gedda il 16 gennaio, ruota intorno alla divisione dello stadio in settori a seconda del genere. Secondo una nota diffusa dalla Lega Calcio, nel settore “singles” potranno accedere solo gli uomini mentre alle donne sarà riservato un settore chiamato “families”. La Lega Calcio si è affrettata a chiarire, citando fonti saudite, che le donne potranno “arrivare” allo stadio da sole. Non è chiaro cosa accadrà all’interno dello stadio, se dovranno essere accompagnate da un parente stretto di sesso maschile. Lo scopriremo probabilmente solo il giorno della partita. Il tema è importante, non c’è dubbio. Ma va detto che in Arabia Saudita la discriminazione nei confronti delle donne non si esaurisce all’interno degli stadi ma riguarda ogni aspetto della loro vita pubblica. Se solo di recente è stato abolito l’odioso divieto di guida ed è di ieri la notizia che le donne saranno informate con un sms che i loro mariti hanno ottenuto il divorzio, resta l’obbligo per le donne di chiedere l’autorizzazione al loro “tutore” per ogni importante decisione riguardo alla loro vita, dal lavoro agli studi, dal matrimonio a - persino - gli interventi chirurgici. Quasi nessuno, a parte i giornalisti e gli attivisti che da mesi chiedono che la partita Juventus - Milan non venga giocata in Arabia Saudita, ha sollevato il problema delle donne che languono da mesi nelle prigioni del regno. A partire da maggio, sono state arrestate diverse note attiviste e promotrici di campagne per i diritti umani. Tra loro figurano Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef. Molte di loro sono tuttora in prigione senza che sia stata formalizzata alcuna accusa e rischiano fino a 20 anni di prigione se processate dal tribunale anti-terrorismo. Sono in carcere anche Samar Badawi e Nassima al-Sada. Samar Badawi è la sorella di Raif, il blogger condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, 50 delle quali già eseguite (ne parleremo tra due giorni), per aver pubblicato un sito nato per favorire il dibattito pubblico. Nassima al-Sada ha svolto campagne nella Provincia orientale in favore dei diritti civili e politici, dei diritti delle donne e di quelli della minoranza sciita che vive nell’est del paese. Nel 2015 si è candidata alle elezioni locali ma la sua candidatura è stata respinta. È stata anche protagonista della campagna per il diritto delle donne di guidare e per la fine del sistema repressivo del tutore maschile. Nonostante i reiterati tentativi delle autorità di Riad di mostrare l’immagine di un paese che sta attuando riforme ‘modernizzatrici’, la realtà è che continuano gli arresti degli attivisti e delle attiviste che portano avanti la loro azione in favore dei diritti umani in modo del tutto pacifico. Al di là dell’assegnazione dei posti negli stadi, nell’Arabia Saudita del principe della Corona Mohamed bin Salman non c’è posto, se non in carcere, per chi difende i diritti umani. Arabia Saudita. Attiviste torturate in carcere, la denuncia di Reem Sulaiman di Katia Cerratti arabpress.eu, 7 gennaio 2019 Dopo lo scandalo per la morte del giornalista Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita in Turchia il 2 ottobre scorso e la recente notizia rivelata dal New York Times che attribuisce al regno del principe ereditario Mohammed bin Salman il reclutamento di bambini soldato sfuggiti alla guerra in Darfur e acquistati per 10mila dollari per combattere nello Yemen, una ulteriore vergogna emerge dalla testimonianza della giornalista saudita Reem Soulaiman, sulle torture inflitte in carcere alle attiviste femministe arrestate nei mesi scorsi. Reem, attualmente rifugiatasi nei Paesi Bassi, ha raccontato attraverso una serie di tweet, i suoi due giorni di detenzione a causa di articoli da lei scritti sulle attiviste saudite. “Sono Reem Sulaiman - racconta- e ho scritto per i giornali Mecca, al-Wiam e Anha. Voglio parlarvi della repressione e dei maltrattamenti a cui sono stata sottoposta e che mi hanno portato a fuggire dall’Arabia Saudita e a rifugiarmi in Olanda”. Reem comincia così a raccontare della telefonata ricevuta da un assistente di Saud al-Qahtani, consigliere della corte reale saudita, presumibilmente coinvolto nell’affaire Khashoggi, dal quale riceve l’ordine perentorio di smettere di scrivere articoli, altrimenti ci sarebbero state pesanti conseguenze e persino la prigione. Reem rimane scioccata ma è costretta a sottostare agli ordini. Dopo una settimana, degli uomini armati fanno irruzione nella sua casa e l’arrestano. Condotta in un luogo sconosciuto, racconta di essere stata insultata, sottoposta a torture piscologiche e minacce di abusi per due giorni interi. Le viene intimato di non raccontare a nessuno quanto accaduto e di smettere di scrivere. Per Reem sono i giorni più difficili della sua vita. Non ha altra scelta, deve lasciare il paese. Si rifugia cosi in Olanda, dove vive attualmente. “Francamente, temevo di essere sottoposta a ciò cui erano state sottoposte le donne arrestate, come la tortura, la sparizione forzata e persino lo stupro”, racconta, aggiungendo un’amara riflessione e un atto di accusa: “Il mio cuore è con il mio paese. Il mio cuore è con i miei genitori che potrebbero essere danneggiati perché ho lasciato il paese e rivelato ciò che mi è successo. Il mio cuore è con gli attivisti, uomini e donne, che sono ingiustamente imprigionati, torturati, molestati e violati. È deplorevole che il paese sia stato trasformato dal suo sovrano da un abbraccio sicuro per i suoi figli e figlie in un incendio infernale per loro”. Nel frattempo i suoi amici l’hanno abbandonata, rea di aver raccontato quanto accaduto e il giornale per cui scriveva, Anha, ha cancellato i suoi articoli. Difficile per la giovane giornalista, cancellare le immagini che hanno segnato la sua prigionia, quelle di giovani attiviste arrestate e minacciate di molestie sessuali, frustate, sottoposte a scosse elettriche e torturate per ottenere una confessione:”Quello che pensavo di più all’epoca era: sopporto o mi suicido. Sì, ho pensato al suicidio più di una volta a causa degli orrori che ho visto”. Reem Soulaiman ha documentato ogni attimo di quei giorni bui e ne realizzerà un documentario in collaborazione con la CNN o con la BBC. L’articolo che ha incriminato Reem, sembra essere stato quello dal titolo “L’intellettuale e la crisi tra Arabia Saudita e Qatar” in cui la giornalista invitava a razionalizzare il discorso sui media nei primi giorni della crisi del Golfo, quando gli abusi e le calunnie erano in aumento. A questo punto del suo racconto, le accuse nei confronti della casa regnante si fanno sempre più forti ed esplicite: “Proprio come hanno negato di aver commesso il loro atto contro Jamal Khashoggi, e poi la verità è venuta fuori, e proprio mentre negavano di sottoporre le donne attiviste a torture e molestie sessuali, e poi la verità è apparsa, oggi stanno cercando di ripetere le loro asserzioni ridicole che sostengono che io non sono stata oppressa e offesa da Saud al-Qahtani e dai suoi scagnozzi. Il mondo intero conosce la vostra vera natura, voi padroni dell’oppressione e della repressione”. Durante l’interrogatorio, Reem viene sottoposta a domande di ogni genere:” “Cos’è questo articolo? Perché hai scritto questi tweet? Qual è il tuo rapporto con le donne attiviste al-Mani, al-Hathlul e al-Nafnajan “. Le viene chiesto inoltre di fornire i nomi di tutti gli intellettuali che conosceva e del suo rapporto con gli sceicchi. Ma Reem racconta che ciò che l’ha sconvolta maggiormente, è stato il momento in cui sua madre ha ricevuto la telefonata di Saud al-Qathani che le comunicava che sua figlia stava bene e in un posto “appropriato”. “Poi le disse - racconta - uno di voi scriva una “testimonianza” per dire che Reem era solo una giovane donna zelante che scrive ciò che ha in mente e non ha alcun legame con le donne attiviste o con i difensori dei diritti.” Chiese loro di consegnargli quella testimonianza per agire su di essa più tardi. Reem dunque, fugge dall’Arabia Saudita, entra in Olanda con un visto per studenti e chiede facilmente asilo politico in quanto i funzionari addetti sono perfettamente a conoscenza delle restrizioni saudite imposte agli attivisti donne. Promette inoltre di dare informazioni e aiutare quegli attivisti che desiderino lasciare il paese. Reem pensava che il suo fosse un paese giusto e invece ha fatto a pezzi i suoi sogni: “Sono una cittadina che non ha nulla in mano se non una penna. Scrivere è tutta la mia vita. È così che affronto le preoccupazioni della gente comune e le difendo […]. Ho lasciato il paese ma il mio cuore è rimasto lì, con le donne detenute, con i miei compagni di prigione”. I diritti delle donne in Arabia Saudita sono calpestati da sempre, non solo in occasione di una partita di calcio internazionale.