Partito Radicale: “nelle carceri si è tornati all’emergenza” di Biagio La Rizza ilmeridio.it, 6 gennaio 2018 Non lascia dubbi il rapporto sulle carceri italiane inviato dal Consiglio di Europa dal Partito radicale nonviolento lo scorso 16 dicembre e indirizzato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che vigila sull’esecuzione delle condanna nei confronti degli Stati membri comminate dalla Corte Edu per violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. La condanna dell’8 gennaio 2013 per la violazione dell’articolo 3 (trattamenti inumani e degradanti) della Cedu era tecnicamente una “sentenza pilota” che doveva applicarsi a tutto il territorio nazionale e a tutte le nostre patrie galere perché la Corte Europea s’era accorta che la violazione dei diritti umani era sistematica. Dopo la sentenza “Torreggiani” del 2013 che ha visto condannare l’Italia dalla Cedu - appunto - per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, vi sono stati tre anni di “sorveglianza” e, nel 2016, il Comitato del Ministri ha ritenuto di chiudere il “caso Torreggiani”. Ma per il Partito radicale il caso Italia non è affatto chiuso e, per questo, è stato necessario trovare un altro “caso” da sottoporre al Consiglio d’Europa come caso strutturale di violazione dei diritti umani. Ad inizio 2016 ciò che il Governo italiano ha “raccontato” all’Europa è stato ritenuto sufficiente e convincente a far chiudere la procedura. Effettivamente i detenuti - dal 2013 al 2015 -, grazie ad alcuni provvedimenti adottati dai Governi di allora, erano diminuiti. Il problema è che, dal 2016, le presenze dei detenuti hanno ripreso ad aumentare e, al 30 novembre 2018, sono ben 7.800 in più rispetto alla capienza regolamentare. Oggi però, nei 190 istituti penitenziari italiani sono presenti ben sessantamila detenuti rispetto a poco più di 45 mila posti regolamentari. Ed è ritornata strutturale l’emergenza e la violazione di fondamentali diritti umani. Quelli che, sulla carta almeno, sarebbero inviolabili. Per questo il Partito radicale Ntt nel dossier ha segnalato un nuovo “caso” - il caso “Cirillo”: un detenuto a cui - a causa del sovraffollamento - è stato negato il diritto alla salute. Portando il “caso Cirillo” in Europa, il Prntt si auspica che, come avvenne per il caso “Torreggiani”, diventi anche questo un caso per una sentenza “pilota”. Un dato singolare sul sovraffollamento è che sono ben 4.600 i posti inagibili che diminuiscono la capienza e alzano il tasso di sovraffollamento medio nazionale dal 118% al 130%. “Ma in realtà, ci sono ben 94 carceri delle 190 che sono molto più sovraffollate rispetto alla media nazionale. In questi 94 istituti più affollati della media sono stipati - ha sottolineato Rita Bernardini durante la conferenza stampa - ben 37.506 detenuti in 26.166 posti regolamentari. Quindi con un sovraffollamento del 143%”. Anche in Calabria si è passati da 2.383 detenuti del 2015 a oltre 2.650 detenuti a gennaio 2018 e, ben 7 istituti sui 12 del territorio regionale, ospitano più detenuti della capienza regolamentare. E a fronte di un sovraffollamento medio del 98,15% ci sono istituti in cui si arriva al 134% di sovraffollamento. E, a fianco a tutto questo, c’è da considerare che, secondo i dati pubblicati dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, oltre a numerose carenze strutturali degli istituti, la situazione in Calabria è aggravata da forti carenze di organico: la polizia penitenziaria, ad esempio, lavora col 74% dell’organico previsto essendo presenti in servizio 1.418 agenti di polizia penitenziaria su 1.913 previsti in organico. Stessa cosa dicasi per educatori (46 in servizio su 60 previsti) e personale amministrativo (151 in servizio su 207 previsti in organico). “È chiaro - ha spiegato il Prntt - che, in dette condizioni e col sovraffollamento ripreso a crescere, garantire i diritti ai detenuti diventa un’impresa: diritti fondamentali quali diritto alla salute, diritto ad attività lavorative, allo studio e alla formazione, ma anche al semplice diritto di ricevere la corrispondenza in tempo, in carcere restano “sospesi”, ibernati in un limbo fuori dalla legalità e dallo Stato di Diritto. Per questo, da militanti del Partito Nonviolento di Marco Pannella e come Associazione radicale nonviolenta calabrese continuiamo ad occuparci di carcere, non molliamo, e già domani, 6 gennaio 2019, nel giorno della manifestazione della divinità di Gesù ai Magi, noi andremo a ritrovarla tra gli ultimi”. Esclusi dal “reddito di cittadinanza” i detenuti e i ricoverati in lunga degenza Adnkronos, 6 gennaio 2018 Non hanno diritto al reddito di cittadinanza “i soggetti che si trovano in stato detentivo” e “coloro che sono ricoverati in istituti di lunga degenza o altre strutture residenziali a totale carico dello Stato o di altra amministrazione pubblica”. Si legge nella bozza del decreto. L’ex ministro Fedeli: “far uscire dalle carceri i bambini che sono con le madri” cronachedellacampania.it, 6 gennaio 2018 “Sono decine, in Italia, i bambini che ogni anno entrano in carcere con le proprie madri. Io penso che l’impegno della politica e delle istituzioni debba essere quello di farli uscire” lo dichiara la senatrice Valeria Fedeli, capogruppo Pd in Commissione Diritti umani alla vigilia della visita presso la Sezione Nido della Casa Circondariale di Rebibbia. “L’incontro che come Commissione diritti abbiamo promosso per domani sarà un momento di condivisione con le mamme e con le bimbe e i bimbi della struttura ma dovrà soprattutto essere un’occasione per stimolare l’attenzione sulle condizioni delle madri detenute e dei bambini che, è fondamentale sottolinearlo, vivono in carcere ma non sono detenuti e non devono essere trattati come tali. Quanto accaduto nel settembre scorso proprio a Rebibbia, dove una donna ha scaraventato dalle scale i suoi figlioletti, è un drammatico segnale d’allarme sulle condizioni di esclusione, discriminazione e ingiustizia che ancora troppe donne e bambini soffrono sulla propria pelle. Abbiamo il dovere di rimuovere ogni ostacolo normativo al superamento di queste condizioni. Impegnare il Parlamento durante questa legislatura a intervenire per mettere in campo strumenti di contrasto alla spersonalizzazione, il senso di abbandono, la sofferenza soprattutto dei più piccoli e per ampliare la presenza delle strutture alternative al carcere su tutto il territorio italiano. Nostro dovere è garantire a tutte le bambine e i bambini figli di detenuti il diritto a vivere da non reclusi”, conclude Valeria Fedeli. Quando la pena si espia al resort di Aldo Grasso Corriere della Sera, 6 gennaio 2018 Non tutti i percorsi di riabilitazione sono uguali. Per esempio, Massimo Ponzoni, l’ex golden boy del Pdl lombardo, ex assessore regionale e uomo di fiducia di Formigoni, è stato condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi per vari reati (tra cui bancarotta e corruzione). La galera non redime, lo sappiamo, è solo per i poveri cristi. L’affidamento in prova ai servizi sociali prevede che Ponzoni vada a stare dai genitori a Desio e a lavorare alla “Medical resort”, un luogo già da lui frequentato, specializzato in “medicina estetica, nutrizione, wellness training”. Tempo fa, gli avvocati di Giulia Ligresti avevano chiesto che la loro assistita potesse scontare il residuo della pena di due anni e otto mesi agli arresti domiciliari e prestando servizio sociale come designer di arredamento o come “pr” per la società della sorella, Jonella (desiderio respinto). Anche Umberto Bossi voleva “espiare” il suo residuo di pena fra i banchi di Montecitorio (non proprio un luogo di rieducazione). Chissà che un giorno Francesco Schettino non chieda di riabilitarsi come bagnino all’isola del Giglio: una condanna che serva da monitor. Nell’ex Italia, com’è giusto, anche la pena aspira a migliorare l’immagine. Accanto al reddito di cittadinanza ci vorrebbe però un’indennità di umiliazione per chi osa ancora pagare il fio. Guerra di sicurezza: la strategia della tensione di Matteo Salvini di Fabrizio Gatti L’Espresso, 6 gennaio 2018 Migliaia di nuovi fuorilegge e di senzatetto. Chi vuole tornare in Africa non può farlo. E scaduti i permessi non potranno più lavorare, affittare una casa e neppure andare dal medico. Non rimane che resistere. Contro le conseguenze del decreto sicurezza di Matteo Salvini. Contro la sua piazza digitale popolata di sostenitori sempre più incattiviti. Contro questo governo gialloverde che, a oltre sei mesi dal suo insediamento, non può più giustificarsi con l’inesperienza. Il periodo di rodaggio di Giuseppe Conte è finito. E, in attesa che nasca una qualche forza politica in grado di rappresentarla, ecco allearsi un’Italia che non si piega alle disumanità del nostro tempo. Un Paese che nei suoi esempi migliori passa attraverso l’ospitalità spontanea dell’associazione Famiglie accoglienti di Bologna, i parroci che non denunceranno gli ospiti stranieri diventati irregolari a causa della nuova legge, i medici che non tradiranno il loro giuramento, la società civile che pur scontando le conseguenze della crisi economica non si rassegna a scorciatoie ideologiche: gli immigrati sono loro stessi vittime della ferocia del mercato globale, non la causa dell’impoverimento degli italiani. È questa l’Italia che incarna ogni giorno l’eredità di Vittorio Arrigoni, il volontario ucciso in Palestina nel 2011: stay human, rimanete umani. Perfino tra gli imprenditori, che in settimana da Torino hanno protestato contro le scelte di Conte e dei vicepremier Salvini e Luigi Di Maio, è chiaro un concetto molto semplice: senza la progressiva formazione e integrazione di nuovi cittadini, il “made in Italy” pagherà presto le conseguenze dell’invecchiamento e poi del crollo demografico nazionale già evidente nelle statistiche. Con tutti i danni prevedibili sul Prodotto interno lordo e sul reddito delle famiglie. L’Italia gialloverde però va nella direzione opposta. Paolo Gentiloni ha paragonato le decisioni del governo contro gli stranieri a una nuova strategia della tensione: “Si alimenta un’illegalità che è carburante per il proprio consenso”, ha detto l’ex presidente del Consiglio ad Annalisa Cuzzocrea su Repubblica. In attesa di una correzione alla manovra economica, credibile e accettabile per Bruxelles, l’immigrazione è infatti uno dei pochissimi capitoli su cui la maggioranza Lega-5 Stelle in Parlamento ha impresso la sua impronta. E, con il decreto sicurezza, è sicuramente un’impronta repressiva: anche nei confronti di migliaia di cittadini regolarmente residenti in Italia che, con la cancellazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, si troveranno da un giorno all’altro fuorilegge. Forse il ministro dell’Interno Salvini intende far dimenticare così la sua promessa elettorale (irrealizzabile) che annunciava il rimpatrio di seicentomila stranieri. Nel frattempo il governo non riesce nemmeno a organizzare l’operazione più facile ed economica: far tornare in patria quanti vogliono rientrare, perché disoccupati da troppo tempo o perché è stata respinta la loro domanda di asilo. Sono al momento 684 persone, delle quali 337 hanno già ottenuto da parte delle questure l’autorizzazione a partire e i documenti di viaggio. Il Viminale ha pubblicato in ritardo il nuovo bando di finanziamento e da sei mesi le procedure in corso si sono bloccate. Un ulteriore esempio di cattiva programmazione dei fondi istituiti dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea. Sono soldi che l’Europa ci restituisce e che non siamo in grado di spendere in modo efficace. L’Italia non è mai stata in testa ai programmi di “ritorno volontario assistito e reintegro” verso i Paesi d’origine dell’immigrazione. E non lo è tuttora. Non si tratta di rimpatri forzati, ma di progetti condivisi con gli interessati perché, una volta rientrati, possano avviare attività sfruttando quanto hanno appreso durante la loro emigrazione. Nel 2017 con il “Fondo asilo, migrazione e integrazione 2014-2020” la Germania ha finanziato il ritorno volontario di 29.522 immigrati. Il Niger, Stato africano lungo la rotta verso la Libia e l’Europa, con lo stesso capitolo di finanziamento ha organizzato il ritorno di 6.467 persone, la Grecia 5.655, il Belgio 3.670, l’Austria 3.546, Gibuti 2.829, la Turchia 2.321, i Paesi Bassi 1.532. L’Italia soltanto 653 stranieri. Non va meglio quest’anno. Siamo ancora gli ultimi del gruppo con 699 partenze dal primo gennaio al 30 giugno. Ma nemmeno l’arrivo di Salvini al Viminale ha dato una svolta al programma. Da luglio a ottobre sono stati portati a termine soltanto 216 ritorni volontari: fissando così il totale italiano del 2018 a 915 persone rientrate nei propri Paesi, secondo i dati forniti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), l’agenzia delle Nazioni Unite che cura il maggior numero di reintegri. La Germania è sempre in testa con 8.859 stranieri riaccompagnati da gennaio a giugno 2018, il Niger secondo con 8.249, la Grecia terza a 2.335. I ritorni volontari sono il risultato della collaborazione sul campo tra agenzie internazionali, organizzazioni non governative e Comuni. Ma è il ministero dell’Interno che deve mettere a disposizione i fondi europei e controllare il loro impiego. “I progetti”, spiegano al Viminale, “si sono via via fermati per la scadenza dei termini e il passaggio di consegne tra il governo precedente e l’attuale”. Soltanto l’Oim è riuscita a proseguire, fino all’esaurimento del budget due mesi fa. Tutti gli altri programmi si sono fermati a giugno. Dal 2016 l’Italia ha riaccompagnato 1.701 stranieri: 1.286 maschi e 415 femmine. I casi vulnerabili con problemi di salute, spesso conseguenza delle condizioni di lavoro, sono 191, mentre il dieci per cento dei rientri del 2018 è costituito da famiglie. Il nuovo bando è stato pubblicato soltanto il 29 ottobre e programmerà le operazioni di ritorno volontario da febbraio 2019 al 31 dicembre 2021. Un ministro come Salvini che si è fatto eleggere con lo slogan “prima gli italiani” per coerenza non dovrebbe trascurare questo tipo di interventi. Anche perché costano meno: 4.500 euro a persona contro gli oltre 7.000 euro a persona delle operazioni di rimpatrio forzato scortate dalla polizia. Il denaro non viene consegnato in contanti ma trasformato in attività come l’apertura di piccoli negozi o l’avviamento di imprese artigianali, comprendendo il pagamento di corsi di studio per i figli. Duemila euro a persona - Il finanziamento prevede duemila euro per ogni singolo capofamiglia o single, mille per ogni familiare maggiorenne a carico e 600 euro per ogni minore a carico. Con queste cifre un panettiere che aveva perso il lavoro in Lombardia ha aperto un forno in Senegal. Il resto serve a coprire il viaggio, l’eventuale formazione professionale e i costi di gestione in Italia e nei luoghi di destinazione dei progetti che vengono monitorati anche dopo il loro avvio. Non sono somme stratosferiche: 415 euro di rimborso a pratica per le spese sostenute in Italia, 585 per i costi del personale nei Paesi di destinazione. Il programma italiano ha così permesso il rientro di cittadini della Nigeria (17 per cento), Bangladesh (8 per cento), Ghana (6 per cento), Pakistan (4 per cento), oltre a Serbia, Perù e Senegal. Nella maggior parte si trattava di immigrati regolari che non avevano potuto rinnovare il permesso di soggiorno dopo aver perso il lavoro per la crisi. Salvini comunque non porterà l’Italia in testa alla classifica dei ritorni volontari. Nel triennio 2019-2021 il bando del Viminale stabilisce un massimo di duemila beneficiari: 666 all’anno, soltanto il 2,2 per cento di quanto ha fatto la Germania nel 2017. Nemmeno i rimpatri forzosi, che costano quasi il doppio poiché ogni straniero deve essere accompagnato da due o tre agenti di polizia, saranno un record. Dal registro dei voli di Stato si ricava il successo internazionale del governo di Giuseppe Conte: da quando è ministro, il leader della Lega è volato a Tripoli, a Innsbruck, al Cairo, a Vienna, a Tunisi, a Lione e a Doha. Ma a parte Libia, Egitto e Tunisia, Salvini non è stato in Niger, in Mali, in Senegal, in Gambia, in Ghana, in Pakistan, in Bangladesh, in Nigeria, in Algeria, o in Costa d’Avorio: questa la provenienza di gran parte degli stranieri sbarcati in Italia negli ultimi anni. Nemmeno il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, gli è stato d’aiuto. Eppure senza relazioni intergovernative e accordi bilaterali con i Paesi d’origine, anche su questo fronte le promesse della maggioranza gialloverde sfumano come fantasie. Lo rivelano i numeri: nei primi tre mesi di governo Conte, secondo gli ultimi dati pubblicati, il Viminale ha eseguito il rimpatrio forzato di 1.296 persone, contro le 1.506 rimpatriate l’anno prima nello stesso periodo. L’Italia è sempre più isolata, chiusa in un vicolo cieco. Ma tanto per non smentirsi, il ministro dell’Interno ha annunciato che il governo italiano non parteciperà al vertice internazionale sull’immigrazione convocato dalle Nazioni Unite il 10 e l’11 dicembre a Marrakech in Marocco. Diciannovemila senzatetto - Il blocco dei ritorni volontari e i nuovi irregolari creati dal decreto sicurezza di Salvini gravano su paesi e città. La prefettura di Milano ha calcolato quanti stranieri saranno espulsi dal circuito legale a causa della nuova norma che cancella i permessi di soggiorno per motivi umanitari. La questione è stata discussa in una riunione con i vertici di polizia e carabinieri: 240 persone con i permessi appena scaduti si ritrovano già in una posizione di illegalità. Ma nel giro di qualche mese saliranno a novecento. Tra loro anche nuclei familiari con bambini piccoli. Il permesso umanitario è la forma di protezione più generica e per questo maggiormente riconosciuta dalle commissioni territoriali: riguarda il 52 per cento delle richieste, contro il 13 per cento di concessioni dello status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra e il 35 per cento di protezione sussidiaria, riservata a chi non può essere rimpatriato perché proviene da zone di guerra o rischia di essere vittima di condanne a morte o tortura. Secondo i dati raccolti in un rapporto della Corte dei Conti pubblicato nel marzo 2018, sono diciannovemila in Italia le persone con il permesso umanitario in scadenza nel giro di pochi mesi: non potranno rinnovarlo, né trasformarlo in permesso di lavoro. Non potranno più lavorare legalmente. Non potranno pagare un affitto legale. Non potranno farsi curare dal sistema sanitario se non in caso di emergenza. E chiunque potrà essere fermato e rinchiuso per sei mesi in un centro di detenzione, anche se non ha mai commesso reati. Tutto questo per volontà di un ministro a capo di un partito come la Lega che ha sottratto 49 milioni allo Stato italiano e ha ottenuto ottant’anni di tempo per restituirli. “Il blocco dei ritorni volontari prima e il decreto sicurezza ora: la Lega cavalca la paura, per acquisire consenso con la mancata risoluzione dei problemi”, dice Pierfrancesco Majorino, assessore alla Salute e alle Politiche sociali del Comune di Milano: “Verranno messi per strada migliaia di immigrati. Avremo a Milano novecento nuovi senzatetto tra cui mamme e bambini che finiranno sul marciapiede nelle prossime settimane. Sono situazioni critiche che da un giorno all’altro non verranno più gestite dai centri di accoglienza. Ricadranno sui servizi dei Comuni. E magari la Lega ci dirà poi che ci sono troppi stranieri in giro”. Fin dall’emergenza Siria nell’autunno 2013 il Comune di Milano ha costruito un modello di accoglienza che coinvolge associazioni e famiglie. Chi oggi sta legalmente ospitando stranieri con permesso di soggiorno per motivi umanitari, stando al decreto Salvini, una volta scaduto il documento dovrebbe metterli alla porta. È prevedibile un’ampia rete di disobbedienza civile contro un provvedimento che contrasta con l’articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle liberta democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Il ritorno volontario assistito potrebbe ridurre l’impatto del decreto sicurezza e aiutare a rientrare chi non vede più alternative in Italia. Ma nel nuovo bando per il periodo 2019-2021 il ministero dell’Interno ha inserito una difficoltà in più. Gli operatori saranno rimborsati dallo Stato soltanto se il rimpatrio andrà a buon fine. Se l’interessato riceve un diniego all’espatrio dalla questura, magari per l’esistenza di carichi pendenti, oppure come a volte capita rinuncia all’ultimo momento per paura, il lavoro fatto non sarà invece retribuito. Adunata digitale - Questa prospettiva mette in crisi l’apertura di sportelli fissi che potrebbero sostenere il ritorno volontario come alternativa al rimpatrio forzato. Il ministro dell’Interno continua intanto a coltivare la sua piazza digitale: su Facebook ha portato il suo record europeo per un politico a tre milioni 436 mila 907 seguaci. Una piazza sempre adunata e pronta a diffondere il pensiero con migliaia di commenti e condivisioni. La cassa di risonanza non dorme mai. E sui social-media si muove ormai da sola. Come è accaduto qualche giorno fa quando in Friuli una giunta di destra è stata accusata di razzismo dall’opposizione di sinistra. Codroipo è un paesone della provincia di Udine a quindici minuti di macchina dalla tomba di Pier Paolo Pasolini, lo scrittore-regista sepolto a Casarsa della Delizia. Basterebbe leggere il suo primo romanzo “Il sogno di una cosa” per ricordare quanto fossero affamati i friulani, come milioni di altri italiani, costretti a emigrare anche illegalmente all’indomani della Seconda guerra mondiale. In settimana la maggioranza Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia di Codroipo è diventata famosa per non aver voluto inserire nel regolamento dell’asilo nido comunale un riferimento alle diverse culture di provenienza dei bambini, preferendo una frase più adeguata al periodo politico: l’asilo, è scritto, opera “garantendo a tutti i piccoli eguali possibilità di sviluppo e di mezzi espressivi e contribuendo a superare i dislivelli dovuti a differenze di stimolazioni ambientali e culturali”. Nessuno vieta il gioco con bambole africane e sicuramente le maestre sapranno destreggiarsi secondo le necessità. Ma nel linguaggio della burocrazia il concetto è sottile: ciò che sarebbe semplicemente una differenza culturale, a Codroipo viene chiamato “dislivello”. Qualcuno sta sopra e qualcun altro deve necessariamente stare sotto Il “cambiamento” porta molte pene di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2018 Il cambiamento, dopo tanti tumulti di parole e di mani, è avvenuto. Per esempio, tutti gli immigrati perderanno protezione, ospedali, scuole e persino luoghi per vivere. Lo prescrive la nuova legge detta “sicurezza” che trasformerà in vagabondi decine di migliaia di adulti e bambini. Se non vi va bene, siete dei “traditori”, dice il ministro dell’Interno ai sindaci che dissentono. L’accusa entra per la prima volta in un dibattito politico italiano in tempo di pace. Ma non è tempo di pace. E il Paese dove la mafia spara e l’immigrato scontala pena, o perché buttato sulla strada o perché i porti chiusi dal nuovo governo (Salvini decide, Di Maio conferma per restare in gara) respingono in mare, anche con maltempo feroce, chi è stato salvato da quei “traditori” dei volontari. È stata proclamata la fine della povertà ma non si sa chi sono i poveri. Quelli di Rosarno, che di giorno muoiono nei campi di pomodori e di notte nei roghi? I bambini digiuni delle scuole di Lodi che non possono pagare il pasto degli altri bambini? In quale lista di poveri saranno? Quella di Di Battista, che pur avendo vissuto un anno nella giungla con famiglia a carico, sa tutto, tramite Steve Bannon, su un ex presidente dell’Honduras che gli assicura che Obama ha le mani sporche di sangue; o Di Maio, che sarebbe il vicepremier che ha tassato con pesantezza il volontariato, e ora promette che basteranno dieci anni (poco fa erano cinque) agli stranieri per avere il reddito di cittadinanza? Ma, come abbiamo detto, non siamo in tempo di pace. I nostri porti sono chiusi, dunque siamo in stato di emergenza. Noi siamo chiusi a tutti, e tutti sono chiusi a noi, grosso modo questo è il cambiamento. E questo è il sovranismo. Ma non dimentichiamo che il cambiamento è anche lo smontaggio di un’Italia messa insieme da un Risorgimento voluto probabilmente da poteri forti, banche e Soros. Le regioni ricche vogliono sganciarsi e tenersi i soldi, creando un sovranismo nel sovranismo. Comunque, è la prima disintegrazione di una Paese incoraggiata dal governo centrale, come se Madrid incitasse la Catalogna. M a ci sono altri tratti che distinguono la nuova epoca. Uno: non dici più “questo lo facciamo perché c e lo ha chiesto l’Europa”. Adesso tutti sanno che lo facciamo perché all’Europa, dopo lunga contrattazione, lo abbiamo chiesto noi. Due: non c’è più austerità. C’è l’aria cupa e inflessibile di giudici sempre in camera di consiglio. Espellono anche se stessi. Vi viene in mente qualcosa di allegro in un Paese che ha come garante un comico? Vi viene in mente qualcosa di certo (qualcosa che non sarà cambiato, discusso, negato fra poco) nel Paese in cui il comico garante è garantito da un quasi scienziato? Se qualcuno protesta, Salvini risponde senza imbarazzo, per esempio al Procuratore della Repubblica di Torino, che, se vuoi criticare, prima devi farti eleggere. E se chi protesta è già eletto, allora prima si deve dimettere. Cerchiamo di riassumere i caratteri del tempo che stiamo vivendo. Primo, bisognerà tagliare gli stipendi dei deputati. L’economia del Paese non lo noterà, ma è un bel simbolo per la prossima campagna elettorale. Secondo: bisogna tagliare il numero dei deputati e senatori. Bastano la metà. Bastano anche meno. Nelle votazioni della legge di bilancio, la consegna era non fare niente. Chi voleva poteva gridare ma non sentire qualcuno in grado di spiegare qualcosa. Spiegare che cosa? Una volta messa a tacere Radio Radicale, con la sua ossessione per il diritto alla conoscenza (vedi alla voce Marco Pannella) non c’è bisogno di perdere tutto quel tempo e tutti quei soldi a discutere a vuoto cose che sono state già decise. I soldi servono e serviranno a Di Maio e Salvini. L’imprecisione grandiosa e sfuocata dei loro due progetti (caos della povertà e caos delle pensioni) faranno gonfiare quelle somme con il rischio evidente di restare sempre fuori obiettivo. Terzo: ma chi ha dato il segnale di questo cambiamento caotico? Non il popolo. Non aveva immaginato che, sotto un tappeto di promesse, ci fosse una botola. Non i nuovi partiti che si sono trovati in un reggimento, con gli ufficiali già nominati. Sì, lo so, questo è il destino dei Cinque Stelle, che possono solo ubbidire o li cacciano. Ma per la vecchia Lega, dove niente è nuovo salvo la cattiveria, che dire? Si ritrovano un capo direttamente connesso con legami internazionali di cui non sanno (non sappiamo) nulla, e nulla ci viene detto. Però, dal momento che l’Italia è nel caos ma resta una grande ricchezza, qualcuno sta decidendo per noi. Ma chi, e che cosa, visto che da noi si vive solo una politica semplice, crudele, inutile, scriteriata, senza pace e senza lavoro? Col Decreto sicurezza la pacchia è finita, ma per noi di Francesco Cancellato linkiesta.it, 6 gennaio 2018 Paradossi italiani: gli abitanti delle periferie dovrebbero scendere in piazza a fianco dei Sindaci ribelli, per protestare contro un decreto che scarica tutte le tensioni sociali nei quartieri popolari e alimenta la guerra tra poveri, anziché mitigarla. Svegliamoci, prima che sia troppo tardi. Possiamo entrare nel merito delle questioni, per qualche minuto? Perché la verità è che dovremmo svegliarci tutti, non solo in sindaci ribelli, soprattutto chi ancora oggi pensa che il pugno di ferro di Salvini sia sinonimo di sicurezza sociale. Perché chiunque abbia un minimo di buonsenso dovrebbe avere la lucidità di leggersi il decreto cosiddetto sicurezza e chiedersi se davvero la sua vita migliorerà, discriminando chi sta sotto di lui nella piramide sociale. Perché, come a Lodi con il caso mense, è difficile non vedere le discriminazioni dentro il decreto sicurezza. Negare l’iscrizione all’anagrafe ai richiedenti asilo, per dire, vuol dire negare loro le cure sanitarie e ai loro figli la possibilità di andare a scuola. E cancellare la protezione umanitaria, trasformando in dalla sera alla mattina decine di migliaia di persone in clandestini che non possono nemmeno cercare una casa o un lavoro che non sia irregolare. Parliamo di buonsenso, però, ancor prima che di umanità. Perché col decreto sicurezza la pacchia finirà nelle periferie, nei quartieri popolari, non certo nelle Ztl dove abitano i buonisti, i radical chic e pure Matteo Salvini. Meno bambini a scuola, più baby gang nelle strade. Meno persone che curano i loro malanni, più contagi ed epidemie. Meno persone dentro un circuito abitativo e lavorativo legale, più manodopera per caporali e mafie. Dov’è la sicurezza in tutto questo? Dov’è che finisce la pacchia? Davvero pensate che le 50mila persone cui sarà revocata la protezione umanitaria e consegnato un decreto di espulsione se ne torneranno di loro spontanea volontà “a casa loro”? Davvero pensate che ogni richiedente asilo si presenterà ai cancelli dei “centri per il rimpatrio”, sapendo che dovrà passare sei mesi da detenuto? Meno bambini a scuola, più baby gang nelle strade. Meno persone che curano i loro malanni, più contagi ed epidemie. Meno persone dentro un circuito abitativo e lavorativo legale, più manodopera per caporali e mafie. Dov’è la sicurezza in tutto questo? Dov’è che finisce la pacchia? La verità è che nel nome della rabbia accumulata in anni di propaganda xenofoba e securitaria - nonostante i reati in calo, nonostante il crollo degli sbarchi antecedente all’era Salvini - stiamo costruendo un sistema che aumenta i livelli di insicurezza sociale, anziché ridurli. Che mette sotto stress le comunità locali e le periferie, anziché migliorarne le condizioni di vita. Che nel nome dell’ideologia e del consenso di Salvini alle prossime elezioni europee, mette una pressione enorme sulle spalle dei sindaci e degli amministratori, di qualunque colore siano. Peraltro, nel contesto di una legge di bilancio che toglie loro un sacco di soldi. E possono pure farvi schifo Leoluca Orlando, Luigi De Magistris, Dario Nardella, Antonio Decaro, Beppe Sala e tutti gli altri sindaci che si sono schierati contro il decreto sicurezza. Potete pure giudicare strumentale la loro protesta e illegittima la loro minaccia di disobbedienza. Ma vi conviene - per il vostro bene, non certo per la faccia di Salvini o Di Maio - pensare seriamente al merito della questione. Perché qualunque esse saranno poi le conseguenze del decreto sicurezza sarete voi, saremo noi, a pagarne il conto. La Toscana ricorre alla Consulta contro il Decreto sicurezza di Riccardo Chiari Il Manifesto, 6 gennaio 2018 Una delibera ad hoc della giunta, che permetterà anche ai Comuni di aggregarsi nel ricorso alla Corte Costituzionale. In arrivo anche una legge regionale per garantire tutele di base ai migranti, dalla sanità all’istruzione, dalla casa all’alimentazione. Rossi sfida Salvini: “Confrontiamoci in pubblico e vediamo chi ha fatto di più per la sanità e le persone in difficoltà”. Contro il Decreto sicurezza del governo la Toscana ha già pronto un ricorso alla Consulta, attraverso una delibera ad hoc che sarà approvata domani in giunta regionale. Ad annunciarlo il presidente Enrico Rossi, confermando il suo sostegno alla protesta dei sindaci: “Fanno bene a ribellarsi ad una legge disumana che mette sulla strada, allo sbando, decine di migliaia di persone, che così diventano facile preda dello sfruttamento e della criminalità organizzata, aumentando l’insicurezza”. Già prima della conversione del decreto la Regione aveva denunciato, insieme all’Anci, gli effetti che può produrre sul territorio. Solo in Toscana sono state stimate 5.000 persone costrette all’irregolarità. È il braccio destro di Rossi, l’assessore Vittorio Bugli (Pd), che spiega la genesi del provvedimento: “Da giorni stiamo lavorando al ricorso contro alcune norme contenute nel decreto. Tratteremo anche il problema relativo all’iscrizione all’anagrafe, che va ad incidere negativamente sull’effettiva possibilità di accedere ai servizi essenziali, ai quali tutte le persone hanno diritto”. A ruota da Bugli arriva una puntualizzazione, importante: “Diamo tutta la nostra disponibilità a valutare, insieme ai sindaci, l’esercizio previsto dalla legge La Loggia, una norma che prevede la possibilità per i Comuni di richiedere attraverso il Consiglio delle autonomie locali che sia la Regione a farsi carico del ricorso alla Consulta, in tempi più rapidi e modalità coerenti con il dettato costituzionale. In questo senso si rafforzerebbe, in un percorso Regione-Comuni, l’obiettivo di far valutare la norma alla Corte Costituzionale”. “Nel frattempo - sottolinea a sua volta Rossi - per aiutare e assistere i migranti e tutti coloro che hanno bisogno, almeno in Toscana si avranno tutele stabilite da una legge regionale. Lo scorso 22 dicembre abbiamo approvato in giunta una proposta di legge, che sarà votata in Consiglio il 15 gennaio prossimo, e per la quale abbiamo già previsto in bilancio due milioni di finanziamento. La legge tutela i diritti della persona umana, a prescindere dalla cittadinanza: diritti per tutti, non solo per i cittadini italiani, ad essere curati, ad avere un tetto sulla testa, un’alimentazione adeguata e un’istruzione”. Sul punto il presidente toscano, che aveva annunciato la legge nell’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, di fronte a ottomila studenti, osserva: “I temi sanitari, assistenziali e dell’istruzione sono materie concorrenti su cui le Regioni, per il titolo V della Costituzione, hanno potere di legiferare. Già nel 2010 la Corte Costituzione si era pronunciata contro il governo Berlusconi, e aveva dato ragione alla Toscana su una legge analoga che riconosceva il diritto di ogni persona alle cure di base. Forte di quella sentenza la giunta propone al Consiglio regionale una legge più estesa e precisa. L’esatto contrario di quella del governo, che invece viola i diritti fondamentali della persona umana. Confidiamo che possa essere approvata in via definitiva per la metà di gennaio”. La risposta del ministro Salvini non si fa attendere: “Sono 119mila i toscani, 53mila famiglie, in condizioni di povertà assoluta, si contano quasi 22mila domande per ottenere una casa popolare, e c’è una sanità criticata da medici e utenti per le liste d’attesa, i tagli e i turni di lavoro massacranti. Eppure Rossi straparla del decreto sicurezza. Lui pensa ai clandestini, noi agli italiani”. Secca la controreplica del presidente toscano: “Sia io che lei - avverte Rossi - dovremmo sicuramente fare di più per le famiglie in povertà assoluta e per il servizio sanitario. Ma vediamo se ha il coraggio di confrontarsi in pubblico, dove vuole e quando vuole, per dimostrare ai toscani e agli italiani cosa lei e cosa io abbiamo fatto fino ad ora, per sostenere le persone in difficoltà e per la sanità pubblica”. Addio rapine in banca, in cinque anni sono calate del 70% di Fabio Savelli Corriere della Sera, 6 gennaio 2018 Fra il 2013 e il 2017 le banche italiane, riferisce l’Abi, hanno speso oltre 3 miliardi di euro, pari a una media di 645 milioni all’anno per la sicurezza. Potremmo definirlo il giusto premio agli investimenti in sicurezza effettuati dalle banche italiane. Che tra il 2013 e il 2017, rileva l’Abi (l’Associazione di rappresentanza degli istituti bancari), hanno speso oltre 3 miliardi di euro, pari a una media di 645 milioni all’anno per la sicurezza. Nel periodo in considerazione le rapine allo sportello denunciate all’Autorità giudiziaria sono diminuite del 70%. L’andamento positivo ha caratterizzato anche altri comparti maggiormente esposti al fenomeno, segnalando come gli investimenti in sicurezza stiano crescendo per tutelare l’incolumità di dipendenti, clienti e risparmiatori. Secondo l’ultimo rapporto sulla “criminalità predatoria”, nei cinque anni analizzati il calo è stato pari al 46% negli uffici postali e in farmacia, al 42% ai distributori di carburante, al 34% negli esercizi commerciali, al 31% negli esercizi pubblici e al 28% in tabaccheria. L’indagine è stata messo a punto dall’Abi, in collaborazione con la direzione Centrale della Polizia criminale del Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, e con la partecipazione di Confcommercio-Imprese per l’Italia, la Federazione Italiana Tabaccai, Federdistribuzione, Federfarma, Poste italiane e Unione petrolifera. Micro corruzione, vera piaga italiana: ogni otto ore un caso di mazzette e favori illeciti di Giovanni Tizian L’Espresso, 6 gennaio 2018 Dal professore universitario che obbliga il ricercatore a versare una somma per garantirsi il rinnovo della collaborazione al sindaco che cambia destinazione ai terreni per aiutare l’amico imprenditore. Sull’Espresso in edicola da domenica 6 gennaio vi raccontiamo la Mala Italia delle mini-mazzette. Anche il 2018 lascia in eredità una scia di grandi e piccole corruzioni. Passano i governi, si susseguono leggi anti corrotti, ma la malattia resiste, immune a qualunque antibiotico. Uno studio di Transparency International del 10 dicembre scorso ha rivelato che nell’anno appena concluso i giornali hanno riportato 983 casi di corruzione. Quasi il doppio del 2017. E chissà quanti sono rimasti fuori da questo censimento. L’Espresso in edicola da domenica 6 gennaio pubblica un servizio sulla corruzione quotidiana, che molti considerano spicciola, in confronto alle grandi mazzette e ai grandi appalti. Ma che in realtà è capillare e i cui effetti sono devastanti per la comunità. Quelle citate da Transparency sono storie per lo più ignote all’opinione pubblica di micro corruzione. Divise per tutti i giorni dell’anno producono il dato più allarmante: tre casi al giorno, che coinvolgono almeno - la stima è al ribasso - 6 cittadini italiani ogni 24 ore. Dal professore universitario che obbliga il ricercatore a versare una somma per garantirsi il rinnovo della collaborazione fino al sindaco che cambia destinazione ai terreni per fare una “cortesia” all’amico imprenditore. Non c’è settore immune: sanità, istruzione, giustizia, sociale, edilizia. Ogni ambito ha la sua cricca. Non mancano le mafie, che alla lupara preferiscono le bustarelle per convincere gli indecisi. La fotografia della mazzetta italiana è impietosa: da sud a nord, non c’è regione, provincia, comune, esente dal desiderio di crearsi una scorciatoia pagando un dazio non dovuto. A scapito delle collettività, danneggiata enormemente dalle innumerevoli cricche locali, più o meno stabili nel tempo o che si aggregano di volta in volta per raggiungere lo scopo prefissato: procurarsi un ingiusto vantaggio personale, lucrando sulle risorse di tutti, giovani e meno giovani. I pirati in doppiopetto, i colletti bianchi della corruzione, considerano il territorio alla stregua di una preda da scarnificare. L’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone dal 2014 al 2018 ha esaminato 171 ordinanze di arresto in cui erano presenti reati contro la pubblica amministrazione. L’accusa di corruzione è presente quasi ovunque. E solo l’anno scorso l’ufficio diretto da Cantone ha proposto 19 commissariamenti di appalti pubblici, tutti macchiati da vicende di corruzione. La Commissione europea nel 2017 ha svolto un’indagine sulla percezione della corruzione nei singoli paesi membri dell’Unione. Il risultato più significativo è che in Italia il 15 per cento delle imprese ha risposto di aver ricevuto richieste di favori o di mazzette per almeno uno dei sei servizi rivolto alle aziende: permessi di costruire e commerciali, cambio d’uso dei terreni, permessi ambientali, aiuti di Stato e fondi strutturali. La differenza con la Spagna è enorme. Qui solo l’1 per cento ha rivelato di aver subito richieste di questo tipo. In generale il dato italiano è superiore dieci punti la media dell’Unione Europea. Di corruzione e non solo abbiamo parlato con il comandante generale della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi. Nel numero in edicola da domenica, L’Espresso pubblicherà l’intervista al generale delle Fiamme Gialle. Al centro del colloquio evasione, nuova legge anti corrotti, riciclaggio e traffico di droga. “L’evasione fiscale “consapevole”, ossia da mancata o sotto-dichiarazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, è pari a circa 74,6 miliardi di euro”, ha spiegato Toschi all’Espresso. Che sull’uso degli agenti sotto copertura nelle inchiesta sulla pubblica amministrazione ha risposto: “La Guardia di Finanza ha avuto modo di esprimere le proprie valutazioni nel corso dell’iter parlamentare del disegno di legge. Pertanto, l’estensione di tale strumento ai reati contro la Pubblica Amministrazione la valutiamo positivamente. La figura dell’operatore sotto copertura è sempre distinta da quella, non prevista dal nostro codice, dell’agente “provocatore”, la cui condotta è orientata a istigare o a suscitare la commissione di un reato altrimenti non realizzabile”. Sicilia: Figuccia (Udc) “assicurata la continuità dell’assistenza sanitaria ai detenuti” L’Opinione, 6 gennaio 2018 Il deputato regionale dell’Udc Vincenzo Figuccia ha espresso soddisfazione in una nota per l’inserimento nel testo della finanziaria di una norma atta ad “assicurare la continuità dell’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta in Sicilia attraverso il mantenimento e il potenziamento dei rapporti in convenzione instaurati dalle strutture penitenziarie con il Servizio sanitario regionale”. Figuccia ha affermato: “Sono soddisfatto che il governo, nella persona dell’assessore alla Sanità Ruggero Razza, mi abbia dato garanzie sul fatto che la Regione fornirà un supporto maggiore alle attività svolte dal personale sanitario che svolge attività medico-infermieristica all’interno degli istituti penitenziari, dove purtroppo sono ancora alti i tassi di mortalità per patologie, sovente cagionate da condizioni igienico-sanitarie precarie”. “Come ho sempre sostenuto - ha concluso Figuccia - il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri e dei detenuti. Ai detenuti va il mio pensiero in questa fase di inizio anno in cui il freddo raggiunge anche le carceri dove spesso il gelo è una condizione non solo dei luoghi ma anche nell’anima, una condizione che va combattuta non solo attraverso la solidarietà e gli appelli ma anche pianificando azioni concrete come questa che arriverà in finanziaria sulla base della mia proposta fatta all’assessore Razza”. Milano: agente di Polizia penitenziaria in servizio a San Vittore si toglie la vita unionesarda.it, 6 gennaio 2018 Aveva 41 anni ed era originario di Cagliari l’assistente capo della Polizia penitenziaria in servizio al carcere di San Vittore che si è tolto la vita ieri a Milano con un colpo partito dalla sua pistola d’ordinanza. Una tragedia senza fine, “un male che caratterizza in particolare gli appartenenti alla Penitenziaria, corpo composto da 34mila unità distribuite in 196 strutture carcerarie con un’utenza che ha raggiunto i 60mila detenuti”, ha spiegato il Cosp, coordinamento sindacale penitenziario, il quale ricorda anche da nel 2018 sono stati 14 i casi di suicidi tra gli appartenenti alle forze dell’ordine. “Non sappiamo - ha aggiunto il segretario nazionale Domenico Mastrulli - se in quest’ultimo caso era percepibile il disagio che viveva il collega. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari, governo e amministrazione penitenziaria sono in colpevole ritardo. Per questo chiediamo un incontro urgente al fine di attivare una serie di iniziative di contrasto al disagio dei poliziotti penitenziari”. Aosta: qualche telefonata in più, lavoro e cure, così è stata spenta la rivolta nel carcere di Andrea Chatrian La Stampa, 6 gennaio 2018 Gli agenti, in tenuta anti sommossa, per ore sono stati pronti a usare la forza per riprendere il controllo della sezione A del 2° piano del carcere di Brissogne dopo che una quindicina di detenuti giovedì mattina per protesta aveva bloccato i cancelli d’ingresso fondendo plastica nelle serrature. Ma, alla fine di una giornata nervosa che avrebbe potuto prendere una brutta piega, non c’è stato bisogno di fare irruzione: la trattativa condotta da Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Saluzzo ed ex responsabile di Brissogne, è andata bene. A incendiare gli animi era stata la protesta di un detenuto magrebino che aveva chiesto e ottenuto dal giudice - come alternativa a una pena detentiva leggera - di essere espulso dall’Italia per tornare dalla madre in fin di vita. Non vedendo sbloccarsi la situazione, ha dato di matto. “In carriera - racconta Leggieri - ho visto situazioni più crude. Non ci sono stati danneggiamenti, violenza o aggressioni. Certo, poteva degenerare e il personale ha dato prova di grande prontezza nel saper smorzare la tensione”. Non appena arrivato da Saluzzo, Leggieri assieme a un sovrintendente dell’Ufficio immigrazione della questura ha parlato con chi aveva scatenato la rivolta. “Quando ha avuto rassicurazioni si è calmato. A quel punto anche gli altri detenuti (la sezione ne ospita 36, ndr), che comunque erano indifferenti o poco interessati, hanno voluto parlare delle loro situazioni. E io li ho ascoltati tutti”. In particolare hanno chiesto la possibilità di fare qualche telefonata in più ai parenti all’estero, di lavorare in carcere (“lavoro c’è ma non per tutti” dice Leggieri) e un migliore servizio sanitario. “Si tratta di detenuti in condizione di povertà assoluta e stranieri - dice il direttore - che vengono mandati a Brissogne dalle carceri metropolitane. Si sono sfogati”. Tutte le istanze saranno sottoposte alla direzione, che prenderà anche provvedimenti amministrativi per punire i rivoltosi. Una relazione sull’accaduto è stata inviata alla Procura. “I periodi festivi - dice ancora Leggieri - sono i più “caldi” perché i detenuti, soprattutto se poveri e stranieri, patiscono un maggior senso di abbandono”. Roma: la Commissione diritti umani del Senato in visita a Rebibbia Adnkronos, 6 gennaio 2018 “Sono decine, in Italia, i bambini che ogni anno entrano in carcere con le proprie madri. Io penso che l’impegno della politica e delle istituzioni debba essere quello di farli uscire. L’incontro che come commissione Diritti abbiamo promosso per domani sarà un momento di condivisione con le mamme e con le bimbe e i bimbi della struttura ma dovrà soprattutto essere un’occasione per stimolare l’attenzione sulle condizioni delle madri detenute e dei bambini che, è fondamentale sottolinearlo, vivono in carcere ma non sono detenuti e non devono essere trattati come tali”. Lo afferma la senatrice Valeria Fedeli, capogruppo Pd in commissione Diritti umani, alla vigilia della visita presso la sezione Nido della casa circondariale di Rebibbia. “Quanto accaduto nel settembre scorso proprio a Rebibbia, dove una donna ha scaraventato dalle scale i suoi figlioletti, è un drammatico segnale d’allarme - aggiunge - sulle condizioni di esclusione, discriminazione e ingiustizia che ancora troppe donne e bambini soffrono sulla propria pelle. Abbiamo il dovere di rimuovere ogni ostacolo normativo al superamento di queste condizioni. Impegnare il Parlamento durante questa legislatura a intervenire per mettere in campo strumenti di contrasto alla spersonalizzazione, al senso di abbandono, alla sofferenza soprattutto dei più piccoli e per ampliare la presenza delle strutture alternative al carcere su tutto il territorio italiano. Nostro dovere -conclude Fedeli- è garantire a tutte le bambine e i bambini figli di detenuti il diritto a vivere da non reclusi”. Modena: prosegue “Sognalib(e)ro”, premio letterario nelle carceri comune.modena.it, 6 gennaio 2018 Chiusa la fase di voto dei detenuti e raccolti 26 inediti. In giuria Elena Ferrante, Antonio Manzini, Walter Siti, Antonio Franchini, Bruno Ventavoli. Finale a Modena l’8 febbraio. Sono stati 96 i detenuti dei gruppi di lettura in carcere che hanno partecipato alle due sezioni del premio: una di votazione di libri italiani, e una di scrittura di inediti. Ventisei gli scritti inediti presentati dai carcerati e otto gli istituti penitenziari aderenti (Modena, Milano - Opera, Trapani - Cerulli, Torino - Lorusso e Cutugno, Brindisi, e le tre femminili di Pisa, Pozzuoli e Roma Rebibbia -Stefanini). Si è chiuso il “primo tempo”, la finale sarà a Modena l’8 febbraio, del premio “Sognalib(e)ro” per detenuti di carceri italiane, promosso dal Comune di Modena con Direzione generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e con il sostegno di Bper Banca. Ora tocca alla giuria, che già aveva scelto i libri editi da far leggere e votare nei laboratori in carcere, valutare gli scritti inediti presentati dai detenuti. È una giuria composta da scrittori di primissimo piano presieduta da Giordano Bruno Ventavoli, responsabile dell’inserto Tuttolibri del quotidiano La Stampa. Ne fanno parte Elena Ferrante, autrice di “L’Amica geniale” (Edizioni e/o), Walter Siti, premio Strega 2013 con “Resistere non serve a niente” (Rizzoli) e Antonio Manzini, sceneggiatore e scrittore, autore delle storie del vicequestore Rocco Schiavone (Sellerio), con Antonio Franchini, scrittore e direttore editoriale della Casa editrice Giunti. Il premio “Sognalib(e)ro”, ideato e progettato insieme da Bruno Ventavoli e assessorato alla Cultura del Comune di Modena, consiste in un concorso letterario con l’assegnazione di due premi: uno a un libro votato dai carcerati partecipanti, l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà essere pubblicato da Giunti “se di adeguato valore”, oppure edito in e-book. Obiettivo è “aprire” uno spaccato sulle carceri, mondo che per i comuni cittadini è oscuro, circondato da sospetti e pregiudizi. E dimostrare che lettura e scrittura possono essere importante strumento di riabilitazione del detenuto (principio sancito dalla Costituzione). “Leggere e scrivere - sottolinea Gianpietro Cavazza, assessore alla Cultura di Modena - come atti di libertà, che possono attraversare i muri in due direzioni, mettendo in comunicazione il dentro e fuori dal carcere, attraverso un progetto di grande valore umano, culturale e sociale promosso dal Comune attraverso le sue biblioteche civiche”. Anche alcuni membri della giuria hanno affidato a un loro pensiero la stima del valore del progetto / premio. “Sarebbe facile scherzarci sopra parlando di letteratura d’evasione - dice Walter Siti - invece favorire la lettura (e la riflessione sulla lettura) in carcere è una cosa molto seria. In una vita che deve necessariamente aggrapparsi ai gesti quotidiani, e dove il sogno rischia di diventare autolesionismo, i romanzi aiutano a tenere insieme la realtà e la fantasia”. Per Antonio Franchini “la scrittura è, da alcuni punti di vista, un atto di libertà suprema e la via migliore per guardarsi dentro. Non voglio dire che è la via più tranquilla per la redenzione, anzi, è aspra e difficile. Però è una delle poche che serve a qualcosa”. In un discorso più articolato, Antonio Manzini conclude che “il posto migliore per un libro è un carcere. Lì come in nessun’altra parte del mondo c’è bisogno di ricordare che lo spirito è libero, resta libero, e bisogna farlo correre altrimenti i suoi muscoli si atrofizzano. A questo servono i libri, tapis roulant dell’anima”. Il Premio Sognalib(e)ro si articola in due sezioni. Nella prima, una giuria composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri attribuisce il premio, valutando il migliore in una rosa di tre romanzi italiani recenti, scelti dalla giuria di scrittori. In concorso c’erano “L’Arminuta” di Donatella di Pietrantonio (Einaudi), vincitrice del Campiello 2017; “Una storia nera” di Antonella Lattanzi (Mondadori) e “Perduto in paradiso” di Umberto Pasti (Bompiani). Grazie alla generosità degli editori il Comune ha inviato ai gruppi di lettura in carcere copie di ciascun libro. Il premio consiste nell’invio a tutti gli istituti partecipanti, dei “libri della vita” scelti dall’autore decretato vincitore dai gruppi di lettura interni. Nella stessa sezione rientra il Premio BPER Banca, un riconoscimento speciale allo scrittore vincitore, atteso a Modena per la serata conclusiva l’8 febbraio. La seconda sezione del premio è quella degli inediti. La giuria di esperti attribuisce il premio a un’opera scritta da un detenuto/a (romanzo, racconto, antologia di racconti e/o poesie) che potrà essere pubblicata da Giunti a stampa e/o in formato ebook. Il premio consisterà, inoltre, nella donazione da parte della casa editrice Giunti di una dotazione di libri alla biblioteca del carcere del vincitore, anch’egli atteso alla serata dell’8 febbraio a Modena. Il percorso di avvicinamento all’appuntamento conclusivo prevede una ulteriore iniziativa organizzata da BPER Banca in collaborazione con Comune di Modena e Casa circondariale di Sant’Anna. Dentro l’istituto penitenziario, venerdì 18 gennaio, si svolgerà un incontro con Helena Janeczek, la scrittrice vincitrice del Premio Strega 2018 con “La ragazza con la Leica” (Guanda). Roma: “Semi di Libertà Onlus”, le birre del riscatto e della legalità di Luca Malgeri greenplanetnews.it, 6 gennaio 2018 I detenuti del carcere di Rebibbia lavorano ad un birrificio situato all’interno dell’Istituto Tecnico Agrario Emilio Sereni di Roma. Così si produce birra di qualità e si mettono a confronto studenti e detenuti sui temi della legalità, del consumo alcolico consapevole, dell’accoglienza e dell’inclusione. Le birre del riscatto e della legalità. Già solo leggendo i nomi delle birre si resta piacevolmente ed allegramente sorpresi: “Fa er bravo”, “a Gatta Buia”, “A piede libero”, “Sentite Libbero”, “Stamo ‘n blanche”, “Chiave de Cioccolata”, “Gnente Grane”, per chiudere con un benaugurante “Er fine pena”. Stiamo parlando del birrificio Vale La Pena che nasce da un progetto di inclusione cofinanziato dal Ministero dell’Università e Ricerca e dal Ministero della Giustizia e realizzato da Semi di Libertà Onlus, che lavora alla formazione ed all’inserimento professionale di lavoratori svantaggiati. Tutto nasce dall’attività di detenuti ammessi al lavoro esterno, provenienti dal Carcere romano di Rebibbia, che vengono formati ed avviati all’inclusione professionale nella filiera della birra. Il fine è contrastarne le recidive, al 70% tra chi non gode di misure alternative, ed al 2% tra coloro che vengono inseriti in progetti produttivi come questo. Come amano ripetere i responsabili di Semi di Libertà, si tratta di birre che sprigionano profumi e persone, un prodotto di qualità e valori. Il birrificio è stato inaugurato il 15 Settembre 2014 dall’allora Ministro dell’Università e Ricerca Stefania Giannini. L’impianto è situato nei locali dell’Istituto Tecnico Agrario Emilio Sereni di Roma, i cui studenti partecipano con i detenuti alle attività formative, ricevono lezioni di legalità e consumo alcolico consapevole, e vengono allenati ai valori dell’accoglienza e dell’inclusione. Proprio il rapporto tra studenti e detenuti è uno degli aspetti più formativi del progetto. La volontà è quella di far divenire la scuola un luogo privilegiato di educazione dei giovani ai valori dell’accoglienza e della legalità, un contesto dove, stimolando la capacità del riconoscimento e del rispetto delle regole, offrire agli studenti una possibilità di riflessione sulla devianza, sulle condotte antisociali, sul pregiudizio, l’emarginazione, la tolleranza, la solidarietà e sulla possibilità di riscatto sociale di coloro che hanno commesso reati. L’etichettatura delle bottiglie ed il packaging vengono realizzati in team con i ragazzi autistici di L’Emozione Non Ha Voce Onlus. La produzione di birra provvede a sostenere il progetto ed a renderne stabile il carattere formativo ed inclusivo. Attratti dall’alto valore sociale dell’iniziativa, partecipano come formatori alcuni tra i più grandi Birrai Italiani, tra i quali Valter Loverier (Loverbeer), Agostino Arioli (Birrificio Italiano), e molti altri. Oltre che nella formazione, molti grandi birrai si sono alternati nell’impianto assieme al nostro birraio, firmando delle ricette uniche. Questo incide positivamente sul concetto di “inclusione”, e garantisce un’altissima qualità del prodotto. Santa Maria Capua Vetere (Ce): il Garante chiede l’adeguamento del sistema idrico Biagio Salvati Il Mattino, 6 gennaio 2018 “Hanno costruito un carcere chiamando i reparti con i nomi dei fiumi, Nilo e Tevere e poi da anni si aspetta l’allacciamento di una condotta idrica cittadina a questo penitenziario”. Ha esordito così il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello - ricordando i tempi lunghi della procedura dopo anni in fase dell’aggiudicazione della gara - a conclusione del tradizionale “Pranzo di Natale” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere con 100 detenuti privi di sostegni familiari e mezzi economici. Il tutto organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, guidata dal suo animatore Antonio Mattone, che organizza nel periodo delle festività diversi eventi in tutti i penitenziari italiani. E così anche i reclusi più bisognosi del carcere, tra i quali molti che non che ricevono visite, hanno potuto assaporare un momento di vicinanza e “libertà” pranzando tutti assieme nel teatro della Casa circondariale guidata dalla direttrice Elisabetta Palmieri ed assistendo ad uno spettacolo del cabarettista Lino D’Angiò. Sul palco, anche i Giudici di Sorveglianza Marco Puglia e Filomena Ca-passo oltre all’onorevole Gianfranco Di Sarno della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. “Prendere parte al pranzo in qualità di rappresentante delle istituzioni - ha affermato il deputato del M5S - è stata un occasione importante per trasmettere speranza a chi vive recluso, ed a non sentirsi abbandonato. È sempre possibile cambiare e affacciarsi ad una nuova vita. Noi abbiamo il dovere di creare le condizioni necessarie affinché i penitenziari siano luoghi dove il principio costituzionale della riabilitazione del detenuto si concretizzi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): Sant’Egidio offre pranzo in carcere per 100 detenuti Il Mattino, 6 gennaio 2018 I passi risuonano nel vuoto mentre, dall’ala dell’accoglienza, s’attraversa il lungo corridoio che taglia in due il penitenziario Uccella. Sulla destra e sulla sinistra ci sono i reparti che portano i nomi dei fiumi, corsi d’acqua che, qui dentro, non comunicano. Sono isolati dal lungo corridoio che porta a un androne, dietro l’ennesima inferriata verde, dove si spalanca un breve, stonato ma intenso arcobaleno di colori. Alle porte del teatro sono esposti i lavori dei detenuti, sembrano enormi origami e molti riproducono uccelli. Impossibile non pensare alle ali, simbolo della libertà, intagliate col cartone, minuziosamente, su quegli animali di carta da chi ha il mondo chiuso in cella, e vede fuori solo la sagoma squadrata dello Stir. Oltre l’esposizione, c’è l’area destinata ai dieci detenuti che aderiscono al progetto “Epoché”, scuola di teatro animata tra gli altri dal magistrato di Sorveglianza Marco Puglia. Energico e giovane, Puglia ieri era seduto in mezzo ai cento detenuti che hanno preso parte al pranzo di inizio anno dentro le mura del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Le loro storie, quelle dei detenuti ammessi al banchetto organizzato per il sesto anno dalla Comunità di Sant’Egidio, si sono intrecciate intorno ai piatti dorati con l’antipasto tipico della tradizione napoletana: l’insalata di rinforzo. Per molti di loro è una pietanza esotica. Sono molti gli stranieri che siedono alle tavole imbandite. Gli altri sono italiani particolarmente indigenti. Quasi tutti non usufruiscono del col- loquio perché, seppur hanno dei familiari, si trovano all’estero o non hanno denaro a sufficienza per raggiungere il carcere, fuori mano anche per chi vive in Campania. Il pranzo è l’occasione per consentire ai detenuti “ultimi” tra gli ultimi di trascorrere qualche ora di svago. Di socializzare. Quasi tutti hanno commesso reati minori e sono detenuti modello. Non ci sono persone accusate di reati di mafia o di crimini violenti. Della compagnia fa parte, ad esempio, Matteo (il nome è di fantasia), che in carcere ci è finito sette anni fa dopo essere diventato una sorta di Lupin napoletano. Rapinava banche, ne ha svaligiate a decine, e lo ha fatto disarmato. Entrava nell’ufficio del direttore vestito con un uomo d’affari con una valigetta. “Nella ventiquattrore ho una pistola, fuori i soldi”. Era convincente al punto che nessuno ha mai pensato che la borsa fosse vuota. “Poi sperai che mi catturassero - racconta a chi lo conosce.- Ero sul corso Secondigliano a Napoli e mi augurai di essere arrestato, che qualcuno mi fermasse”. Nel 2012 lo hanno preso. È in carcere da sei anni e dovrà scontarne altri quattro. Al pranzo sorride agli altri. Sembra sereno. Ma su molti volti c’è smarrimento. D’altronde molti detenuti soffrono para-patologie dovute alla mancanza di spazio. Danni alla vista o perdita di equilibrio. “Un detenuto mi raccontò di aver rinunciato a un permesso premio tanto erano forti i capogiri che lo colsero dopo aver messo piede fuori dal carcere”, racconta Puglia. In carcere sono diversi i percorsi di recupero e di avviamento al lavoro. Proprio a Santa Maria era detenuta fino a qualche tempo fa la sorella di Gemma Donnarumma, temibile moglie del capoclan Valentino Gionta di Torre Annunziata. “Si appassionò al cucito, diventò una sarta provetta”, spiegano dal penitenziario. Oltre ai volontari, con lo storico portavoce Antonio Mattone della comunità Sant’Egidio, al pranzo hanno preso parte il garante per i detenuti, Samuele Ciambriello, il parlamentare Gianfranco Di Sarno, della commissione giustizia. A fare gli onori di casa, il direttore Elisabetta Palmieri. Accanto ai progetti di recupero e inserimento dei detenuti, tiene banco il problema idrico che affligge la struttura. Questione che andrà affrontata con il Comune prima dell’arrivo dell’estate e del ripresentarsi degli ennesimi disagi che colpiscono tanto i detenuti quanto il personale dell’Uccella. “Evasioni”, a cura di Emanuela Savio. Restituire un senso alla pena detentiva recensione di Piergiacomo Oderda vocepinerolese.it, 6 gennaio 2018 Pennellate di giallo impreziosiscono le fotografie di Davide Dutto che ritraggono i detenuti della Casa Circondariale “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. Le cimette di cavolfiore nel bollitore vigilato da Luciano, l’andamento della strada alle spalle di Marco, gli spazi tra le porte delle celle nel corridoio dietro Rachid. Singolare anche il progetto grafico a cura di Alessandro Rivoira, talvolta il testo finisce di lato, pagina 35 sembra un errore di impaginazione, quasi a simboleggiare i passi falsi che i detenuti raccontano nelle 47 storie che sostanziano il libro “Evasioni” (edizioni Cibele, 2017), a cura di Emanuela Savio. Alcune foto mostrano attività legate alla scuola. Carmine ha una matita in mano e dei fumetti di fronte, Marcello tiene sulle ginocchia un libro aperto sul capitolo della rivoluzione francese; a lettere cubitali, a fianco di Ahmad, si legge: “Ouvir une école c’est fermer une prison”. Sempre Marcello esalta i benefici della lettura, “un libro è una finestra aperta sul mondo reale interiore di una persona… suggerisco di mettere dei premi come alle fiere paesane per spingere alla lettura”. Guido scrive una lettera a Luca, “io, fino a cinque anni fa, non sapevo né leggere, né scrivere… ho incontrato una ragazza, un’insegnante, un’amica”. Francesco esplicita l’art. 27, citato in tante storie, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per Giuseppe è “lettera morta: il detenuto è solo e lasciato solo con se stesso e senza contatto con il mondo che diventa sempre più lontano fino a perdersi e sfumarsi nei suoi contorni”. Si fa riprendere dall’obiettivo di Dutto con un volume dedicato agli albori della letteratura italiana, in giallo due cartine geografiche di sfondo. “Il carcere è sempre il frutto di un albero: è la nostra società che lo produce e dopo averlo prodotto lo giudica, lo condanna e lo rinchiude, pensando che la struttura carceraria lo possa cambiare”. Massimiliano, nel suo avvincente racconto intitolato “Il morso del lupo”, individua due modalità per sopravvivere alla detenzione. “In carcere, se non ti crei uno spazio in cui coltivare qualche hobby, attività fisica, lettura, studio ecc., finisce che vieni appiattito dalla monotonia perché in galera le giornate sono come fotocopie in cui trascorri la tua vita. L’unico modo per non farti stritolare il cervello è crearti degli interessi”. La seconda riguarda la convivenza con il compagno di cella. “Nonostante la vita dura e mille privazioni, trovare un compagno di detenzione, andarci d’accordo, avere cura e rispetto come lui ce l’ha per te, ti fa sentire vivo, ti fa capire che non sei solo. Piano piano ci si lega l’uno all’altro come fratelli, è un legame affettivo che dura per tutta la vita. È come un fiore che nasce in mezzo a una distesa di ghiaccio”. Per Luciano, “i rapporti con il mondo esterno sono fondamentali. Saper che un amico, un parente o una qualsiasi persona ti pensano, si ricordano di te, ti vogliono bene, ti dà una carica incredibile, una gioia immensa”. “Quello che in carcere ti uccide sono i pensieri. Pensi, pensi e ancora pensi, si pensa tutto il giorno ed è così che si impazzisce. Ecco perché bisogna mantenere sempre rapporti epistolari, avere sempre contatti con le persone, non chiudersi mai in se stessi e socializzare con i compagni”. Marco sostiene degli incontri “faccia a faccia con gli studenti”: “per l’ennesima volta mi sono messo in discussione, ho affrontato le mie emozioni, ho tolto la maschera e ci ho messo la faccia, lo faccio perché credo nel mio percorso, nel mio progetto e nei miei sogni, l’ho fatto per restituire qualcosa alla società, l’ho fatto per riscatto, l’ho fatto per aiutare i ragazzi a capire che a chiunque può capitare di essere il Marco, il Luciano, l’Alessandro, il Johnny o il John di turno”. Rachid si cimenta in una prova letteraria: “sono come il vento, leggero e gioioso che vola accarezzando alberi e fiori e che si ferma ai confini di questo mondo per ammirare la nascita di un nuovo giorno”. “Ad accompagnarmi è la volontà, che spesso si stanca ma a braccetto riusciamo a fare passi in avanti, recuperando terreno, segnando nuove orme”. Johnny lo Zingaro sceglie la poesia: “Sognare è stupendo, sognare in due è realtà./Sii con me e io sarò ovunque per te./Se una tempesta ti volesse spazzare via, diverrei la tua ancora, se la pioggia ti dovesse bagnare, il tuo ombrello”. Si fa ritrarre da Dutto su una scala metallica, con le ringhiere che tendono verso l’alto rigorosamente gialle. Carmine, 64 anni, lancia un invito. “Tante persone che prima di entrare in un carcere la viveva come una realtà sconosciuta, quando vengono per un incontro con i detenuti si ricredono su tutto quello che si mormorava prima e questo per noi è una vittoria soprattutto quando vogliono portare la vera realtà di noi carcerati e noi li ringraziamo dal profondo del nostro cuore a tutti coloro che si mettono in prima persona”. Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, scrive in prefazione che l’obiettivo del libro consiste “nell’arruolare sempre più rappresentanti dell’opinione pubblica e del mondo del volontariato nella quotidiana battaglia per restituire un senso alla pena detentiva”. Migranti. La lite tra i vicepremier blocca lo sbarco di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 gennaio 2018 La Germania: “Pronti ad accogliere, ma non da soli”. Fico sta con Di Maio che chiama in causa Bruxelles: “Prema su Malta”. Sono dieci persone, dieci donne e bambini, dieci vite sulle quali si giocano partite politiche nazionali ed europee, posizionamenti in vista delle prossime elezioni, giochi di potere tra i soci del governo italiano. Ad aprire i porti per tutti i 49 migranti della Sea Watch e della Sea Eye non ci pensa nessuno: troppo rischioso in termini di consensi elettorali. Molto più sicuro cercare di salvare l’immagine agli occhi di una parte della propria base, come fa Luigi Di Maio, insistendo perché vengano accolti quelle donne e quei bambini che in realtà non vogliono affatto essere separati dal resto delle loro famiglie. Molto più comodo trincerarsi, come fa la Germania, dietro l’attesa di “una ampia soluzione di suddivisione europea”, per accogliere i profughi delle due navi. Finché non la si trova, i 49 migranti possono continuare a ondeggiare di fronte a Malta. M5S, con tutti e due gli occhi spalancati sugli equilibri di maggioranza travestiti da posizione umanitaria, insiste. Di Maio ieri è tornato alla carica: “Non arretriamo sulla politica migratoria ma quando si tratta di donne e bambini siamo pronti a dare una lezione a tutta l’Europa e ad accoglierli. Ma se Malta non li fa sbarcare noi non possiamo prendere neppure quelli, quindi chiedo alla Ue di dare l’input a Malta”. Il problema è che alla Valletta stanno probabilmente aspettando che il governo gialloverde si metta d’accordo e che Salvini smetta di puntare i piedi. Roberto Fico, il rivale per modo di dire di Di Maio, stavolta lo appoggia: “La sua iniziativa è un segnale importante. Non possiamo permettere che vengano lasciati in condizioni inaccettabili esseri umani che fuggono da dolore, morte e sofferenza”. Furbetto, il presidente della Camera glissa su quegli “esseri umani”, i maschi adulti, che Di Maio intende invece lasciare in dette inaccettabili condizioni. Donne, uomini e bambini contano in realtà ben poco. Di Maio, in vista di elezioni europee che potrebbero certificare l’arretramento secco del suo Movimento, ha bisogno di smarcarsi un po’ da Salvini, di scrollarsi di dosso l’immagine del sodale obbediente, di piantare una bandierina per riconquistare la parte meno xenofoba dell’elettorato. Roberto Fico deve dimostrare di avere qualche voce in capitolo, e sinora non gli è mai riuscito. Quelle dieci vite tornano utilissime. Anche Matteo Salvini fa i suoi conti, con la stessa logica. È o non è l’”uomo forte” d’Italia? Dunque punta i piedi: “Non cediamo ai ricatti”. E a monsignor Di Tora, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni che aveva puntato il dito affermando che “chi si tira indietro non ha la coscienza a posto”, replica con il solito slogan: “Abbiamo già dato. Prima gli italiani”. Ma il capo leghista, per ora, non ha alcuna intenzione di rompere con un alleato che si è rivelato il migliore che potesse immaginare. “Devo riconoscere ai miei compagni di viaggio a livello nazionale - concede - serietà e coerenza. Da solo non sarei riuscito a fare sull’immigrazione quel che stiamo facendo insieme. A livello regionale è un’altra roba”. L’allusione velenosa è anche alla crescente solidarietà che arriva proprio dall’interno dei 5S alla rivolta dei sindaci e dei governatori contro il decreto sicurezza. In questo caso la faccenda è più seria del cinico gioco delle parti che i vertici stanno giocando sulla testa dei passeggeri delle due navi. Qui a muoversi è l’ossatura del Movimento, i quadri intermedi, e il disagio a cui danno voce è reale. Quella tensione, sommata a molte altre, allo scontro sui vertici dell’Inps, alla introduzione dei referendum propositivi, che i 5S vorrebbero senza quorum e i leghisti con almeno il 33% di quorum, e presto, prevedibilmente, a quella su quota 100 e soprattutto reddito di cittadinanza, fa scricchiolare la maggioranza ancora prima che l’anno politico sia davvero iniziato. Il mastice per tenere insieme una coalizione già scollata è naturalmente la critica contro l’Europa. “L’Italia c’è e tende una mano a chi ha bisogno”, tuona Luigi Di Maio a cui la faccia tosta non difetta. “Ma l’Italia non deve più essere lasciata sola da qualche euroburocrate”, aggiunge. L’Europa, peraltro, rende ai due soci il gioco facile. Lo spiraglio aperto ieri dalla Germania è un passetto avanti, ma condizionato com’è a una “soluzione europea” che non figura a portata di mano, è tardivo e insufficiente. Se l’Europa non è peggiore del governo italiano, in questo frangente certo non è migliore. Francia: ristrutturato il carcere di Parigi, c’è il telefono fisso in ogni cella ilfogliettone.it, 6 gennaio 2018 Dopo una ristrutturazione totale, durata quattro anni, il carcere de La Santè, a Parigi, tornerà a “ospitare” detenuti. Le celle completamente rinnovate sono state equipaggiate, per la prima volta in Francia, con telefoni fissi e jammer per bloccare i segnali dei cellulari. Lunedì faranno il loro ingresso i primi 80 detenuti, che dovranno ripulire tutta la struttura e renderla agibile per accogliere, da metà gennaio, tutti gli altri. La presenza dei telefoni fissi nelle celle, e dei jammer, è una vera e propria rivoluzione. Una scelta dettata dall’inefficienza dei jammer attuali e la proliferazione dei telefoni cellulari tra le mura di detenzione. Nel 2017 è stato infranto un nuovo record: 40.067 telefoni e accessori sono stati sequestrati nelle 180 prigioni francesi che hanno ospitato circa 70 mila detenuti. Ma non solo: “L’accesso al telefono fisso nella cella è un elemento di pacificazione della detenzione”, ha spiegato la direttrice dell’istituto, Christelle Rotach. “I detenuti saranno in grado, senza limitazioni, di chiamare le loro famiglie, senza aver bisogno di chiedere ai supervisori che saranno in grado di dedicarsi ad altri compiti”. L’innovazione contribuirà, secondo le speranze della direzione dell’amministrazione penitenziaria, anche alla prevenzione dei suicidi e a un reinserimento migliore. I prigionieri potranno chiamare solo numeri che sono stati convalidati in anticipo. Nessun telefono verrà installato in celle di isolamento o disciplinari. Il costo di una chiamata nazionale verso un numero fisso sarà di 8 centesimi al minuto e 18 verso cellulare, circa dieci volte inferiore a quello attuale. L’istituto, da 2,8 ettari nel cuore del 14esimo arrondissement della capitale, ha una capacità iniziale di 808 posti, di cui circa 100 in settori di semi-libertà, e potrebbe raggiungere un tasso di occupazione del 150% entro la fine del 2019. In questa prospettiva, la maggior parte delle celle è già stata equipaggiata con due letti. Inaugurata nel 1867, la prigione da cui passarono anche il capitano Alfred Dreyfus e Carlos “lo sciacallo”, non era mai stata rinnovata totalmente. Nel corso degli anni era diventata un simbolo della rovina delle prigioni francesi. I lavori, svolti in una partnership pubblico-privato, sono costati 210 milioni di euro. Spagna. Junqueras: “rinchiuso in cella, ma non rinuncio alla Catalogna libera” di Francesco Olivo La Stampa, 6 gennaio 2018 Il regista del referendum per l’indipendenza parla alla vigilia del processo: “Il tribunale spagnolo mi condannerà sicuramente. In aula parlerò appellandomi ai valori europei”. Il sogno della repubblica catalana è finito, almeno per ora, dentro le mura altissime e vigilate del centro penitenziario di Lledoners, sulle colline alle spalle di Barcellona, nella comarca del Bages. Impossibile perdersi: il cammino che conduce alle porte della prigione è segnato, per molti chilometri, da migliaia di lacci gialli disegnati sull’asfalto, il simbolo del sostegno ai “prigionieri politici”, segno di una mobilitazione che coinvolge tutta la regione che sogna di diventare nazione. La cella numero 64 - Oriol Junqueras spunta al termine di un lungo percorso, dopo un tunnel con le finestre oscurate, un cortile deserto dal quale si intravede in lontananza una bandiera indipendentista. L’ex vice di Puigdemont è uscito dalla sua cella, la numero 64, ed è seduto in una cabina adibita ai colloqui. Quando scopre che ci sono visite, sorride e appoggia la mano al vetro che separa i carcerati dal resto del mondo, un gesto al quale, suo malgrado, sembra essersi abituato. Le sorti della politica spagnola, per paradossale che possa sembrare, passano da questo signore, che in maniche di camicia divide lo spazio con altri 750 detenuti. Le condizioni estreme alla quali deve far fronte non lo hanno cambiato, il leader repubblicano scandisce il suo pensiero, ripetendo tre parole quasi ossessivamente: “Dialogo”; “Rispetto”; “Federalismo europeo”. Chi si aspetta, però, qualche passo indietro, o almeno un’autocritica sul naufragio del tentativo repubblicano, resterà deluso. Troppo vicino il processo per ammettere ripensamenti. Junqueras è in prigione preventiva dal 2 novembre del 2017, oltre 8 mesi trascorsi nel carcere di Extremera, vicino a Madrid e altri 7 nella propria terra, grazie a un trasferimento deciso dal governo socialista la scorsa estate, aprendo una stagione di dialogo, finora senza molti risultati. Per il detenuto Junqueras e per gli altri 8 leader catalani in carcere sono ore frenetiche. Fra poche settimane comincerà, infatti, il processo che li vede imputati, a diverso titolo, di reati come la ribellione violenta, sedizione e malversazione di denaro pubblico, per aver organizzato il referendum sull’indipendenza della Catalogna il 1° ottobre del 2017, una sorta di colpo di Stato, secondo la tesi della procura generale spagnola, che ha chiesto una pena di 25 anni per Junqueras. “In fondo sono contento - dice, parlando con una cornetta - mi hanno ridotto al silenzio con la forza, chiudendomi dietro a queste sbarre, e ora finalmente avrò l’opportunità di spiegare agli spagnoli e agli europei, che non abbiamo commesso nessun reato, che organizzare un referendum non è punito dal codice penale. Chi ha ragione, non vede l’ora di parlare. Ci difenderemo politicamente, ma giuridicamente in nome dei valori europei”. Eppure Junqueras non si fa illusioni sulla possibilità di una sentenza positiva: “Finora niente è stato giusto, tanto che i tribunali di mezza Europa hanno riconosciuto che non è esistita la violenza in Catalogna”. L’Europa è l’orizzonte ideale e anche giuridico che torna nella sua strategia: “I prossimi anni della mia vita non saranno facili, ma il mio scopo resta una Catalogna indipendente in un’Europa federale, con istituzioni più forti”. L’Ue, però, significa anche il tribunale di Strasburgo, che, nella speranza dei “presos politicos”, dimostrerà la loro innocenza. Junqueras ci tiene a non mostrare cedimenti e fisicamente appare in forma: “Il mio animo è forte, la prigione è la prova di quanto siamo stati coerenti”. La sua vera preoccupazione è la famiglia, costretta a trasferte continue per le visite, che diventeranno viaggi molto più lunghi, quando tra qualche giorno i detenuti verranno trasferiti a Madrid per l’inizio del processo. Oriol ha scritto una serie di racconti per i suoi bambini di 6 e 3 anni, alcuni ambientati a Roma, “non li posso mettere a letto e cerco così di essere presente”, dice nell’unico momento di commozione. Il presidente di Esquerra Republicana, nella sua condizione, può leggere i giornali e ha accesso a radio e tv, riceve poi visite frequenti dai membri del governo catalano. Sa quindi perfettamente che l’estrema destra ha l’ambizione di vincere le Europee (alla quali lui si presenta come capolista): “Mi spaventa questa ascesa e vedere che si lascino affogare le persone in mare, mi spinge a proseguire la battaglia europeista”. Il fenomeno ora riguarda anche la Spagna, con Vox che sta guadagnando posizioni, anche grazie a un discorso molto aggressivo contro gli indipendentisti. Alcuni sondaggi indicano una possibile maggioranza di un’alleanza (non così ipotetica) di conservatori e ultra nazionalisti. Junqueras, in qualche modo, sente la pressione di tutti quelli che gli ricordano che un argine a questo scenario (catastrofico in ottica indipendentista) può metterlo lui stesso. Frenare l’estrema destra I voti di Esquerra, infatti, sono decisivi nel parlamento spagnolo per approvare la Manovra dando ossigeno e slancio al governo socialista che ha optato per il dialogo in Catalogna. Per ora gli indipendentisti sono orientati a votare no, “almeno che Sánchez faccia qualche proposta. Apprezzo gli sforzi ed è ovvio che preferisco lui a un governo diverso”. Alcuni secessionisti mettono così la questione: appoggio alla Finanziaria, solo se si liberano i “prigionieri politici”. Junqueras rifiuta l’automatismo, però aspetta qualche offerta. Non può non sapere, inoltre, che una parte dell’indipendentismo accusa il suo partito di voler frenare eccessivamente: “Nessuno ha più fretta di me, si capisce, no? Però io devo fare in modo che, quello che voglio per la mia gente, si possa effettivamente realizzare”. Una chiamata al realismo che lo distanzia, non solo fisicamente, da Puigdemont, il quale dal suo esilio belga insiste per nuove accelerazioni, “ma nel fondo siamo d’accordo, vogliamo un referendum accordato con lo Stato spagnolo”. Dopo un’ora di colloquio, un agente penitenziario fa un cenno. È ora di tornare in cella. La mano torna ad appoggiarsi sul vetro, con un messaggio finale: “È dura, certo, ma ne vale la pena”. Russia. Superpotenza fragile: armi ed energia ma le condizioni di vita peggiorano di Federico Fubini Corriere della Sera, 6 gennaio 2018 Le sanzioni dell’Occidente possono aver accelerato l’impoverimento, ma pesa di più la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi. Il torpore delle vacanze d’inverno è stato interrotto giorni fa da un annuncio di Vladimir Putin. Il presidente russo l’ha definito “un bellissimo regalo al Paese per l’anno nuovo”: un missile che può trasportare testate nucleari, viaggia a venti volte la velocità del suono, è in grado di eseguire manovre in volo e in un test ha centrato un bersaglio a 6.400 chilometri. Sono performance da grande potenza, quale la Russia è. Ha un arsenale atomico in grado di annientare qualunque nemico, è il primo fornitore di gas all’Europa, ha un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ciò che è sempre meno chiaro è però quanto sia permanente il modello putiniano, basato sulla proiezione della forza all’estero, la soppressione del dissenso interno, l’arricchimento di pochi fedelissimi e l’interferenza digitale nelle democrazie occidentali. Sulla stabilità di un sistema del genere, non esistono certezze. Solo dubbi crescenti. Poco prima dell’annuncio sulla nuova arma, sui media russi aveva trovato meno spazio l’ultimo sondaggio Levada: quasi due terzi dei russi ritengono Putin responsabile dei problemi del Paese; è il dato peggiore da quando nel 2008 è partita questa serie di sondaggi. La causa prossima resta la riforma delle pensioni, in stile Elsa Fornero, che il Cremlino ha cercato di far passare un po’ alla chetichella in piena euforia popolare per i Mondiali di calcio in Russia. Per capire quali siano i problemi per l’opinione pubblica e quanto rischi di allargarsi l’incrinatura fra Putin e i suoi elettori, quella riforma va vista però nel contesto che l’ha resa inevitabile. La Russia oggi è un caso a sé: una superpotenza temuta nel mondo e in condizioni terribili nei suoi confini. E non solo perché la produttività del lavoro stia crollando dal 2014. O perché sia in calo costante dal 2013 anche il prodotto interno lordo per abitante stimato dal centro studi Ocse in parità di potere d’acquisto, cioè per quanto ciascuno in media può permettersi grazie alla ricchezza generata nel Paese. Anche indizi più granulari rivelano come il ventennio di Putin abbia tradito la speranza per cui i russi avevano accettato il ritiro incruento dalle loro colonie europee. Le maggioranze non hanno avuto più benessere personale in cambio di meno potere imperiale, non nella misura che sarebbe stata possibile. Lo Human Mortality Database mostra per esempio che la longevità dei russi è cresciuta in trent’anni di appena 17 mesi (a 70,9 anni), quella dei polacchi di sette anni: due popoli in condizioni simili e con la stessa speranza di vita una generazione fa oggi mostrano strutture profondamente diverse. E gli anni di Putin spiegano almeno parte di questa divaricazione dei destini. È noto per esempio che l’Hiv sta dilagando in Russia in controtendenza con il resto del mondo: le nuove infezioni erano 25 mila all’anno quando Putin si insediò al Cremlino, sono quasi 40 mila oggi. Potrebbe essere la spia di condizioni di salute pubblica in peggioramento evidenti anche in altre dimensioni. Dal Duemila la popolazione è calata di due milioni di abitanti. Il tasso di suicidi è fra i più alti al mondo. La mortalità infantile in Russia è ormai quasi tripla rispetto all’Estonia, benché entrambe le Repubbliche fossero parte dell’Unione sovietica e dunque in condizioni simili trent’anni fa. Conta senz’altro anche l’impoverimento generale della popolazione, testimoniato da un crollo del consumo di proteine di qualità da carne di manzo o vitello: secondo l’Ocse, ciascun russo ne mangiava in media 14 chili l’anno dieci anni fa ma 10,7 chili nel 2017. Le sanzioni dell’Occidente contro Mosca potrebbero aver accelerato il declino, ma pesa probabilmente di più un fattore interno al Paese: la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi tipica di una cleptocrazia; un 1% di privilegiati controllava un terzo della ricchezza dieci anni fa, quasi la metà oggi. Sembra invece chiaro che l’arretramento sociale della Russia di Putin sia collegato a quanto si trova dietro quel missile “regalato” al Paese per l’anno nuovo. Con un’economia dell’ordine di grandezza di Belgio e Olanda messi insieme, giusto due terzi di quella italiana, tredici volte più piccola degli Stati Uniti o dell’Unione europea, Putin è costretto a dissanguare il bilancio pubblico e gli investimenti civili per mantenere livelli di spesa militare che gli permettano di proiettare nel mondo un’immagine di forza. Investe in difesa, in proporzione al reddito, più del doppio dei Paesi europei o della Cina e il 50% più degli Usa. Anche così Mosca ha un bilancio militare di meno della metà di Francia, Italia e Germania insieme, un terzo della Cina, un decimo rispetto ai 610 miliardi di dollari annui degli Stati Uniti. Ogni anno, il sogno di grandezza globale di Putin impoverisce i russi. Se il Cremlino è un modello, resta da capire per quanto tempo ancora. Corea del Sud. L’invenzione del carcere antistress di Giovanni Barra glistatigenerali.com, 6 gennaio 2018 A due ore da Seul, nella contea di Hongcheon, si tende a prendere sul serio lo stress, molto sul serio, anche troppo sul serio, ci si stressa nel bonificare lo stress. Da quelle parti, le palline da strizzare, gli attrezzi ginnici destinati alla polvere, le conversioni religiose ad interim, il gangnam style o altri rimedi arrugginiti, non godono più di una buona reputazione. L’approccio terapeutico vuole rinnovarsi, dimostrarsi all’altezza del compito. Un compito gravoso, considerando lo stressatissimo contesto socio-culturale coreano, assuefatto a una ritmica lavorativa serrata e concimato dallo spirito di competizione. Un compito che, tuttavia, da qualche mese, può fare affidamento sull’intuito di due coniugi sensibili al tema e ideatori di una soluzione piuttosto fantasiosa, per non dire bizzarra: l’incarcerazione volontaria. L’iniziativa, intitolata “Prison Inside Me”, permette, a chiunque voglia usufruirne, un’esperienza di prigionia “realistica” all’interno di un carcere finto: isolamento, dieta frugale, divieto di qualsiasi contatto con l’esterno e con gli altri detenuti, celle da sei metri quadri munite esclusivamente di tappetino da yoga, bollitore e taccuino. Ottanta euro a notte. Un osservatore poco pratico di sovraffaticamento psicologico e ostile agli stratagemmi controintuitivi, insomma, un pacato rompipalle, tenderebbe a pensare che la toppa, sebbene sbalorditiva, sia peggio del buco. Il passare dal punto A (l’urgenza di quiete) al punto Z (la reclusione autoindotta) gli sembrerebbe un azzardo, essendoci un intero alfabeto di mezzo. Eppure, il carcere antistress, almeno in termini di adesioni e recensioni, sta funzionando. Forse, proseguirebbe il rompipalle sulla via del pentimento, perché non ci si rende conto di quanto siano stressati i coreani: fondata eventualità che darebbe credito allo sfortunato detto “stressato come un coreano”. O, forse, perché il giocare al carcerato per qualche giorno, anche a parità superficiale di condizioni, non si avvicina affatto all’esserlo: per la serie, la galera è figa, ma non ci vivrei. Viene da chiedersi, a questo punto, se per lo stressato cronico il giusto grado di isolamento sia ottenibile solo ficcandosi in una situazione ai limiti dell’aberrante, se siano davvero indispensabili dei sorveglianti in carne e ossa affinché questi riesca a conferire durata e consistenza alla propria tranquillità. D’altronde, la morsa quotidiana delle pressioni lavorative e della sindrome da iperconnessione non molla la presa facilmente. Circostanza che, a veder bene, renderebbe i guardiani della quiete e della solitudine figure professionali imprescindibili nel percorso di disintossicazione, e non meri espedienti folkloristici per dare credibilità all’ambiente. Sloterdijk, ad esempio, sottolinea la forte interdipendenza tra stress e libertà. Una linea di pensiero in base alla quale il consegnarsi a un’autorità superiore, il rinunciare all’autonomia, il non essere costretti a compiere delle scelte, il deresponsabilizzarsi, il distacco dal mondo esterno, potrebbero favorire senz’altro l’avvento del relax nel breve periodo. Anche Rousseau, nella sua “Quinta passeggiata”, abbraccia un’idea di tranquillità in termini di “estasi” solitaria radicalmente post-mistica, come fuga individuale da ogni campo di stress sociogenico. E i pareri autorevoli “a sostegno” non finirebbero qui. Ciononostante, questa versione per claustromani della “vacanza dalla vacanza”, questo eremitaggio carcerario, trattandosi di un’esperienza provvisoria, artificiosa ed eterodiretta, non sembra spostare granché sotto il profilo terapeutico. Uno stop and go non corrisponde a un rallentamento, non cambia le sorti della disumanità. Almeno così sentenzierebbe il rompipalle, una volta tornato su piazza in gran forma.