Un carcere centralizzato e militarizzato di Franco Corleone L’Espresso, 5 gennaio 2019 Il 2018 si è chiuso con il fallimento della speranza di una grande riforma. Il lavoro prodotto dai tavoli tematici degli Stati Generali è stato sotterrato e la delusione nelle carceri è assai forte. In alcuni casi drammatici si trasforma in disperazione. Il 2019 si preannuncia come un anno terribile. Sono state diffuse recentemente dal vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria delle cosiddette Linee programmatiche che disegnano una vera controriforma. Proprio nel momento in cui il sovraffollamento sta prendendo corpo, si immagina la cancellazione di ogni esperienza di buone prassi presenti sul territorio a favore di un regime standardizzato e uniforme, calato e imposto dall’alto, o meglio dal centro. Si preannuncia una sorveglianza verso i detenuti con la caratteristica dell’utilizzo degli strumenti di punizione arcaici come i trasferimenti. Si abbandona l’idea di un carcere trasparente organizzando una informazione controllata dal vertice. Addirittura si ipotizza l’inquadramento dei direttori e dei provveditori nei ruoli della polizia penitenziaria. Si propone di tornare alle celle chiuse venti ore al giorno con però la disponibilità di molti canali televisivi. Infine si vuole organizzare lavoro gratuito da parte dei detenuti come misura trattamentale, una riedizione del carcere come fabbrica. Sandro Margara aveva compreso per tempo la deriva che si stava imboccando. L’8 e 9 febbraio a Firenze si parlerà di “Carcere e Costituzione” proprio ripartendo dal suo pensiero. Sarà una occasione per organizzare la resistenza in nome del diritto, dei diritti e dello Stato di diritto. Soprattutto per imporre una discussione pubblica contro silenzio e omertà. Suicidi, sovraffollamenti, pseudo-riforma. L’Annus Horribilis nelle carceri italiane di Valter Vecellio lindro.it, 5 gennaio 2019 È un record per nulla lusinghiero: il 30 novembre scorso l’Italia ha superato la soglia delle 60 mila presenze nei 206 istituti di pena italiani. Non accadeva dal 2013: quell’anno la Corte europea con la sentenza sul caso di Mino Torreggiani condanna l’Italia perché stipa i detenuti violando il principio della dignità umana, e impone il varo di provvedimenti urgenti contro il sovraffollamento. Tanti reclusi ottengono risarcimenti dallo Stato per essere stati detenuti in celle di un paio di due metri quadri. Le statistiche del Ministero della Giustizia informano che il 30 novembre in carcere si contavano 60.002 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare (3 metri quadrati per singolo detenuto) di 50.583. Dunque, ci sono circa diecimila detenuti oltre la capienza regolamentare; un tasso di affollamento del 118,6 per cento. La regione più affollata è la Puglia: 161 per cento; segue la Lombardia (137 per cento). Negli istituti penitenziari di Taranto, Brescia e Como, si supera la soglia del 200 per cento. “L’indirizzo dell’attuale governo”, a giudizio di Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone che da sempre si occupa di queste problematiche, “sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. Ciò significa che ad oggi servirebbero circa 40 nuovi istituti di medie dimensioni per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti dal 2014 ad oggi ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo”. Risorse a parte (che non ci sono), non è possibile attendere tutto questo tempo. Che fare, dunque? “Quello che si potrebbe fare subito è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34 per cento dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente”. Aumentati i detenuti che nel 2018 si sono tolti la vita: 63. Il primo il 14 gennaio nel carcere di Cagliari; l’ultimo il 22 dicembre in quello di Trento. Era dal 2011 che non se ne registravano così tanti. Antigone ha promosso una proposta di legge per prevenire i suicidi in carcere. Si articola in tre punti: maggiore accesso alle telefonate, maggiore possibilità di passare momenti con i propri famigliari, inclusa l’opportunità di avere rapporti sessuali con le proprie compagne o con i propri compagni, una notevole diminuzione dell’utilizzo dell’isolamento. “La prevenzione dei suicidi”, dice Gonnella, “ha a che fare con la qualità della vita interna, con la condizione di solitudine, con l’isolamento e con i legami affettivi all’esterno. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo. Abbiamo inviato questa proposta ai parlamentari e a gennaio incontreremo alcuni di loro affinché arrivi presto in Parlamento”. La cosiddetta riforma dell’ordinamento penitenziario - Il precedente Governo aveva convocato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale; vi hanno partecipato “addetti ai lavori” ed esperti che hanno dato significativi e positivi contributi. Gran parte delle indicazioni uscite da quella consultazione sono state disattese, in particolare proprio sulle misure alternative alla detenzione. Nel corso del 2018 sono state effettuate, da esponenti del Partito Radicale e da associazioni che si occupano della tutela dei diritti civili e umani, centinaia di “ispezioni” negli istituti penitenziari. In almeno il 20 per cento dei casi si è rilevato che nelle celle i detenuti hanno a disposizione meno di tre metri quadrati ciascuno previsti dalla legge. Il 36 per cento degli istituti visitati risultano privi di acqua calda; il 56 per cento è privo di doccia. Si continua a registrare carenza di personale - Negli istituti visitati c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti. In alcune realtà si arriva a 3,8 detenuti per ogni agente (Reggio Calabria “Arghillà”); a 206 detenuti per ogni educatore (Taranto). Tra i pochissimi politici che si occupano con sistematicità e competenza delle questioni relative al carcere e alla mala-giustizia, l’esponente radicale Rita Bernardini. Anche quest’anno, come da anni, ha trascorso il Natale e il Capodanno in carcere, assieme a detenuti, agenti di custodia, volontari. Quest’anno in particolare, dice, “con l’animo di chi sa che va in visita ad una comunità ferita che rischia di perdere definitivamente la speranza nella Costituzione. Gli indicatori più espliciti di questa sofferenza sono le morti e i suicidi che si verificano in carcere. Quest’anno abbiamo raggiunto i livelli di dieci anni fa. Anche fra gli agenti l’esasperazione è tanta: in 73 si sono suicidati negli ultimi dieci anni, per lo più con l’arma di ordinanza”. Bernardini fa sapere che il Partito Radicale invierà a breve, al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, un dossier tradotto, aggiornato e firmato, oltre che dal Partito Radicale, anche dall’Unione delle Camere Penali. Un lavoro che il professor Glauco Giostra definisce “un documento rigoroso ed eloquentissimo (per chi vuol capire)”; e confortato dal giudizio del professor Tullio Padovani: “Ho letto il dossier, che rappresenta un ulteriore esempio di ciò che per i Radicali significa agire politico: concreto, rigoroso, documentato, incalzante. La vergogna denudata, resa vera senza scampo. Vedremo se e come cercheranno di sottrarsi alla forza delle cose. Battersi incessantemente affinché i diritti (almeno quelli elementari!) siano rispettati, credo anch’io sia l’unico modo non solo per evidenziare pragmaticamente le contraddizioni strutturali dell’istituzione, ma soprattutto per alleviare la crudeltà efferata di una pena abominevole”. Suicidi in carcere: morire dietro i cancelli dell’oblio di Chiara Formica 2duerighe.com, 5 gennaio 2019 Il 2018 ha registrato un’importante aumento dei suicidi in carcere. Morire suicidi all’interno di una struttura penitenziaria significa morire nell’isolamento, nell’oblio degli affetti, nell’oblio di una vita che è stata e che non è più. Nell’oblio di se stessi. Lontani dalla vita sociale esterna, inseriti nella socialità ripetitiva e monotona della quotidianità carceraria, i detenuti dimenticano una parte di se stessi, spesso il potenziale di se stessi. È una tendenza automatica, quasi fisiologica. È un istinto di difesa contro l’aridità dell’anima, ma ognuno lo fa a modo suo, scegliendo di far cadere nell’oblio una parte di sé. Chi lo fa vivendo di leggerezza, spezzando i pensieri negativi e logoranti che toglierebbero il respiro; chi fa della detenzione un motivo di riscatto e un momento di emancipazione. Chi si crogiola nel vezzo criminale dell’ambiente carcerario e chi infine soccombe all’angustia della vita monca a cui è costretto. Nel 2018 si sono suicidate 67 persone, stando ai dati raccolti da Ristretti Orizzonti, che si occupa anche di registrare i dati anagrafici dei detenuti che muoiono in carcere. Si è superato così il numero del 2011, quando morirono 66 persone suicidandosi. Il 2017 registrava 53 suicidi, il 2016 45 e il 2015 43. Nel 2018 “ogni 900 detenuti presenti, uno ha deciso di togliersi la vita, venti volte di più che nella vita libera”. “Venti volte di più che nella vita libera” - Questo è il nodo della questione. La verità che tradisce l’inciviltà di un sistema penitenziario che dimentica la persona, privandola della sua normalità. È di fronte a questa sproporzione che si deve ripensare l’organizzazione e la condotta della quotidianità intramuraria dei reclusi. L’Associazione Antigone ha proposto una serie di provvedimenti atti a riformare le modalità dell’esecuzione penale, cercando di intervenire nei punti più critici della detenzione. Non a caso, l’affettività è il primo ambito che necessita di essere riformato. “Per prevenire i suicidi in carcere bisogna togliere la volontà di ammazzarsi e non limitarsi a privare i detenuti degli oggetti con cui suicidarsi. La prevenzione dei suicidi ha a che fare con la qualità della vita interna, con la condizione di solitudine, con l’isolamento e con i legami affettivi all’esterno. Abbiamo messo a disposizione di senatori e deputati una proposta che contiene norme dirette a ridurre l’isolamento affettivo, sociale e sensoriale dei detenuti. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo”, spiega il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. La proposta di Antigone al Parlamento: una detenzione vicina alla “vita normale” - La proposta di Antigone si articola in tre punti centrali: maggiore accesso alle telefonate, maggiore possibilità di passare momenti con i propri famigliari, inclusa l’opportunità di avere rapporti sessuali con le proprie compagne o con i propri compagni, e una notevole diminuzione dell’utilizzo dell’isolamento. La limitazione dell’isolamento è indispensabile perché è proprio nelle celle di isolamento che avviene il maggior numero di suicidi e la copertura di abusi e violenze. La proposta è stata inviata a tutti i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. L’obiettivo della proposta è sicuramente quello di avvicinare, per quanto possibile, la vita detentiva alla “vita normale”, tentando di garantire quel residuo di libertà decisionale imprescindibile per la persona. Mantenere più vivi i rapporti con gli affetti esterni al carcere ha un’importanza duplice: da un lato diminuisce drasticamente il senso di solitudine e confinamento provato dai detenuti, scongiurando gesti estremi come il suicidio, dall’altro lato conservare un ponte di collegamento con la realtà esterna fa si che i detenuti non si identifichino in tutto e per tutto con la realtà criminale in cui sono inseriti, contribuendo così ad abbattere la soglia della recidiva. Sovraffollamento: aumenta la popolazione carceraria ma non la prevenzione al crimine - 118,6% è il tasso di sovraffollamento attuale nel sistema penitenziario italiano. A fine novembre 2018 i detenuti sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. La capienza complessiva regolare del sistema penitenziario italiano è di circa 50.500 posti, dunque attualmente circa 10.000 persone occupano posti irregolari. Come sottolinea Patrizio Gonnella: “L’indirizzo dell’attuale governo sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. Ciò significa che ad oggi servirebbero circa 40 nuovi istituti di medie dimensioni per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti dal 2014 ad oggi ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo. Quello che si potrebbe fare subito è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente”. Ciò significa che anziché punire attraverso condanne detentive, sarebbe opportuno investire sulla prevenzione al crimine, specialmente riguardo ai reati in materia di droga. Le stesse misure alternative sono da considerarsi insieme punitive e preventive, sicuramente ampiamente più socializzative rispetto al carcere. Non tutte le strutture penitenziarie soffrono lo stesso livello di sovraffollamento: al momento la regione più affollata è la Puglia, che registra un tasso di sovraffollamento pari al 161%, poi la Lombardia con il 137%. Nei singoli istituti di Taranto, Brescia e Como è stata superata la soglia del 200%. Nel corso dei sopralluoghi effettuati da Antigone durante il 2018, su 86 istituti visitati almeno nel 20% dei casi sono presenti celle di dimensioni inferiori ai 3mq. Il 36% delle celle invece è sprovvista di acqua calda e il 56% delle docce. Inoltre circa il 29% degli istituti non ha a disposizione un’area verde in cui poter incontrare i famigliari, luogo fondamentale per poter incontrare i figli minori così da evitare loro i luoghi angusti delle sale colloqui interne. Continua a mancare anche il personale: in media è presente un educatore ogni 80 detenuti e un agente di polizia ogni 1,8 detenuti. Sport e lavoro in carcere per prevenire il jihadismo di Marco Birolini Avvenire, 5 gennaio 2019 C’è una via italiana nella prevenzione del jihadismo. Parte dalle carceri, humus ideale per l’arruolamento di nuovi “soldati”, e segue quasi con ostinazione l’unica finalità possibile della pena: rieducare il detenuto, chiunque sia, rispettandone i diritti. Solo così è possibile mostrare che un’altra vita è possibile. Ed evitare che, tornato in libertà, un piccolo delinquente sfoghi la rabbia accumulata aggredendo il primo che passa nel nome di Allah. Premessa. Lo scenario estremista è profondamente mutato negli ultimi anni. Con cinica sintesi lo rivela una battuta circolata in un recente convegno sul radicalismo islamico, organizzato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto: “Non ci sono più i terroristi di una volta”. Dal “duro” di al Qaeda, fedele alla causa al Punto da rifiutare ogni contatto con il personale in divisa, si è passati al jihadista artigianale. Uno che si lascia sedurre dai sermoni incendiari di improbabili imam e dagli stregoni digitali del Daesh, trasformandosi in integralista da tastiera pericolosamente in bilico tra parole e azione. Più improvvisato, certo, ma anche più imprevedibile. E che una volta in carcere può definitivamente perdere la bussola. Il vertice del Triveneto (vi hanno partecipato investigatori, magistrati ed esperti internazionali) ha letto il termometro della febbre islamista nei penitenziari italiani. E ha colto sintomi da non sottovalutare. Secondo l’ultimo “censimento” i radicalizzati in cella sono circa 600, in aumento costante. Due anni fa erano meno di 400. Si tratta in buona parte soggetti appesantiti da un passato difficile, consumato di solito tra spaccio, risse, rapine, alcol e droga. Quando si ritrovano dietro le sbarre, cercano nell’islam estremo una scorciatoia per “mondare” una vita segnata dal peccato e dal fallimento. Un identikit che ricalca in modo inquietante i profili di Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo, e di Anis Amri, il tunisino che lanciò un tir contro il mercatino di Berlino. Ma anche di Mohammed Bohuel, l’uomo che compì l’orrenda strage di Nizza. Tutti ex detenuti trasformatisi in “lupi solitari”. Il fatto poi che gli attentati siano in diminuzione e che in Italia non sia finora accaduto nulla non deve illudere perché, specificano le fonti, “il tempo che viviamo potrebbe essere considerato quale stato di incubazione e maturazione di peggiori sviluppi”. Ecco perché l’attenzione resta altissima. In carcere i piccoli criminali possono incontrare cattivi maestri che offrono un’ala protettiva e una possibilità di riscatto attraverso la “guerra santa”. La diagnosi dell’intelligence italiana parla di contagio da “virus jihadista”, che trova “fertile terreno di coltura” proprio nei penitenziari, “diffuso da estremisti in stato di detenzione”. Di fronte ai primi segnali allarmanti-la barba che comincia ad allungarsi, le ore dedicate alla preghiera e il callo sulla fronte (segno evidente di ripetuta prostrazione a terra), la tendenza ad assumere un ruolo guida trai compagni di cella - il monitoraggio è immediato. La polizia penitenziaria, insieme agli altri operatori, osserva e annota. E scatta il piano di prevenzione i soggetti considerati “caldi” vengono inseriti in programmi trattamentali che mettono sotto la lente la personalità, sfruttando anche i momenti formativi, culturali o sportivi. Un corso di falegnameria o una partita di pallone possono raffreddare il fanatismo e mostrare alternative esistenziali. È l’approccio morbido, magari bollato come “buonista”, che però finora ha contribuito a tenere sotto controllo la grande minaccia. Un metodo che fa sgranare gli occhi al resto d’Europa, dove sono abituati a buttare la chiave dopo l’arresto. Ma trattare i radicalizzati come qualsiasi altro detenuto sta pagando, anche sotto il profilo investigativo: se il “pesce” resta nel mare, puoi vedere dove nuota, a chi si avvicina. E capire se è solo una sardina smarrita, oppure se rischia di diventare uno squalo. Il “modello italiano” trova consensi crescenti anche all’estero: attraverso un programma europeo si stanno condividendo prassi che vedono all’avanguardia proprio il Dipartimento del Triveneto, che nei suoi istituti conta il 60% di detenuti stranieri, in buona parte provenienti dal mondo islamico. A Padova un laboratorio interdisciplinare sperimenterà metodi di mediazione penale per promuovere una revisione critica dei comportamenti devianti e perfezionerà le abilità investigative nel contesto carcerario. Accanto a questo percorso, come impone la Costituzione, si garantisce una effettiva libertà di culto. Spazi di preghiera, ma anche guide spirituali legittime e riconosciute, grazie a un accordo con l’Ucoii (Unione comunità islamiche in Italia). Basta con gli imam fai date, che raccontano il Corano a modo loro. A proposito di protocolli, l’idea è replicare quello che sta dando buoni frutti con i figli dei boss della ‘ndrangheta: si toglie il minore da un ambiente familiare violento e gli si offre un futuro. Un’opzione da mettere in campo quando (e se) torneranno in patria figli e mogli dei foreign fighters. E l’intelligence si è accorta che bambini e donne sono ormai al centro della propaganda del Daesh (o di ciò che resta), alla disperata ricerca di nuove leve. La battaglia, oggi più che mai, si combatte con le armi della cultura e dell’educazione. Sicurezza e parole di troppo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 gennaio 2019 Chi guida le amministrazioni locali non può non applicare le leggi che non piacciono. Ma il ministro dell’Interno deve rispettare l’incarico che ricopre. Il duello a distanza tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini sulla sorte dei profughi imbarcati sulla Sea Watch dimostra quanto delicato sia il tema legato ai migranti. E quanto possa influire sugli equilibri interni al governo. Anche perché si inserisce nel clima di alta tensione provocato dalla sortita dei sindaci contro il decreto sicurezza che vieta l’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo. Il rischio di un cortocircuito è molto elevato e per questo è indispensabile che ognuno faccia la propria parte senza esasperare i toni. Ci sono dei confini che nessun esponente politico, e soprattutto istituzionale, dovrebbe mai superare. E uno di questi riguarda il rispetto della legge. Non importa se le norme piacciano o no, è indispensabile applicarle e se si ritiene che violino i diritti dei cittadini - siano essi italiani o stranieri - contestarle nelle sedi appropriate. I sindaci non possono fare ricorso diretto alla Consulta, ma esistono soggetti titolati a presentarlo. Nell’attesa chi guida le amministrazioni locali deve però rimanere nella legalità., perché sarebbe davvero pericoloso far passare il principio che si può disobbedire contro ciò che non ci sembra giusto, fornendo alibi a chi delinque per mestiere o anche solo occasionalmente. Tra i confini che non devono essere superati ce n’è però un altro altrettanto importante, anzi fondamentale. E riguarda il rispetto dell’incarico che si ricopre. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini si è rivolto ai sindaci che minacciano la non applicazione del decreto, definendoli “traditori”, li ha bollati come “amici degli stranieri irregolari”. Li ha avvisati che “la pacchia è finita”, utilizzando lo stesso linguaggio fin qui usato contro i criminali. Sempre più spesso il titolare del Viminale e vicepresidente del Consiglio, non tiene in conto la delicatezza del proprio ruolo. Evidentemente il consenso fin qui accumulato lo ha convinto che ciò lo porterà a vincere le Europee. Persuaso forse dal fatto che il malumore crescente all’interno dei 5 Stelle e le critiche aspre nei confronti del suo atteggiamento e delle sue proposte legislative, lo aiuti a raggiungere questo risultato. E forse non è un caso che Di Maio lo abbia sfidato proprio sul tema del divieto di sbarco per i migranti. Salvini dovrebbe però sapere che chi guida un ministero strategico come quello dell’Interno deve seguire un registro preciso perché tratta questioni estremamente delicate, si occupa della sicurezza dei cittadini e dunque non può in alcun modo alzare i toni se non vuole correre il rischio di fomentare la rabbia e l’intolleranza. Non può additare gli “avversari” come continua a fare sui social o durante i comizi. Soprattutto dovrebbe porsi il problema di rispettare i diritti costituzionali quando presenta un provvedimento. Finora il Paese ha reagito in maniera composta e responsabile alle sue esternazioni. Ora però è indispensabile cambiare registro, rientrare nei ranghi istituzionali. E dunque aprirsi al confronto con chi ritiene che alcune scelte di questo governo siano sbagliate o dannose. Se si agisce senza pregiudizi, si può anche tenere ferma la posizione e rifiutare le proposte di cambiamento. Ma bisogna farlo al termine di un percorso che tenga nel conto le ragioni di tutti. Riforma delle intercettazioni, nuovo stop di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2019 Dalla proroga dell’entrata in vigore del nuovo regime delle intercettazioni a quella per l’utilizzo dei colloqui con i detenuti per terrorismo, fino all’ulteriore estensione dell’iscrizione agevolata all’albo dei cassazionisti. E ancora assunzioni di magistrati, giustizia sportiva (Tar e campionati di calcio), esecuzione penale e tanto altro. La legge di Bilancio, tradizionale contenitore omnibus di fine anno, dedica qua e là una ventina di disposizioni anche in materia di giustizia sostanziale, procedurale e ovviamente pure alla logistica. Se era atteso, più volte annunciato, lo slittamento della riforma Orlando delle intercettazioni (da marzo all’1 agosto, ma rischia di essere solo un ulteriore passaggio provvisorio) nella legge di finanza pubblica è scivolata anche la proroga antiterrorismo sui colloqui carcerari “eccezionali” a fini di prevenzione, attività consentite ai servizi di informazione. Proseguendo nel maxiemendamento finale del Senato (n° 1139) spunta un anno in più per gli avvocati per diventare “sul campo” patrocinanti nelle giurisdizioni superiori - “cassazionisti” - ancora con il regime pre-riforma (datata 6 anni fa). Piccoli ma significativi cambiamenti per la gestione dei palazzi di giustizia, dove da quest’anno personale del Comune (di solito proprietario dei muri) potrà essere destinato a servizi di manutenzione. Intanto vengono anche semplificate le notifiche postali degli atti giudiziari (commi 813 e 814) e vengono sbloccate le assunzioni del comparto giustizia per il triennio 2019-21: 3000 nuovi dipendenti, una piccola parte da destinare al settore minorile. Per quanto riguarda la fase esecutiva delle pene, via libera a 35 assunzioni di dirigenti penitenziari fino al 2021 e a sette nuovi posti di dirigenti degli istituti penali per i minorenni. Intanto l’esecuzione penale esterna (al carcere) potrà essere ancora diretta e controllata da dirigenti di istituto penitenziario. In questo scenario di “efficientamento” del comparto viene ritoccato verso il basso il fondo per la riqualificazione del personale dell’amministrazione giudiziaria (destinato però a ripartire dal 2024). Significativi innesti nella giustizia amministrativa: assunzioni a tempo indeterminato di 85 dipendenti e 6 dirigenti per l’Avvocatura dello Stato, e ampliamento della dotazione organica in modo da avere altri  posti di avvocati e procuratori. Autorizzate anche assunzioni di magistrati per il Consiglio di Stato e referendari per i Tar in deroga alle cessazioni ed entro il tetto di 4,9 milioni per il 2019 e fino a 7 milioni a partire dal 2024. Tanta generosità, forse, per gestire in via esclusiva i nuovi contenziosi sportivi: la legge di Bilancio sancisce infatti la giurisdizione esclusiva del Tar Lazio sulle “controversie, anche in corso, aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni”. Al Tar Lazio di Roma dovranno rivolgersi quindi senza indugio tutte le società sportive professionistiche disciplinate dalla legge 91/1981. Assunzioni in vista comunque anche per la magistratura ordinaria (600 nuove toghe a concorso nel triennio 2020-22), mentre il Fondo per l’attuazione della riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario si allarga un po’: vengono ampliate le finalità dello stanziamento che si estendono agli interventi urgenti per la funzionalità delle strutture e ai servizi penitenziari anche minorili. Un comma infine per le vittime di reati intenzionali, con il ritocco al catalogo dei reati per cui è previsto l’indennizzo dalla legge 122/2016. Giulia Bongiorno giura: “niente prescrizione senza riforma penale” di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 gennaio 2019 La prescrizione verrà sospesa dal 1 gennaio 2020. Anzi no, stando alle parole della ministra della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno. La nota avvocata penalista (di cui Matteo Salvini si fida ciecamente per quanto riguarda i provvedimenti in materia di giustizia) era intervenuta nettamente sulla norma già al momento della sua approvazione all’interno del ddl spazza-corrotti, introducendo il comma sulla sua entrata in vigore “posticipata” di un anno, in attesa che il governo provvedesse ad una organica riforma della giustizia penale. Ieri, incalzata in un’intervista di Libero, la ministra è tornata sull’argomento. “Con l’attuale situazione dei processi penali, bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado dilaterebbe i tempi dei procedimenti stessi e farebbe saltare l’intero sistema”, ha spiegato Bongiorno, in linea con le critiche al provvedimento mosse da magistratura e avvocatura. “Abbiamo raggiunto una mediazione: il blocco della prescrizione si può fare solo assieme alla riforma del processo penale”, ha aggiunto, spiegando il senso di quella previsione così “atipica”, con una norma che entra il vigore a un anno esatto dalla sua approvazione in Aula. Eppure, le sue parole suonano diverse da quelle del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Anche perché - le fa notare l’intervistatore - tra un anno il blocco della prescrizione entrerà in vigore in ogni caso, a prescindere dal fatto che sia stata o meno approvata una riforma complessiva del sistema penale. Su questo punto le parole della ministra Bongiorno aggiungono un tassello importante all’intricata vicenda, che evidentemente non può dirsi conclusa, nemmeno dopo l’approvazione della norma. “Mi impegno personalmente: non c’è alcuna possibilità che quella norma entri in vigore se prima il processo penale non sarà stato profondamente riformato”. Parole impegnative, che la chiamano in causa direttamente. La ministra leghista aggiunge un ulteriore dato significativo: “Abbiamo chiesto e ottenuto garanzie: a novembre, se la riforma del processo non sarà stata fatta, chiederemo che il blocco della prescrizione sia differito”. Insomma, c’è un accordo tra gentiluomini tra Lega e Movimento 5 Stelle che lega davvero indissolubilmente la riforma (già approvata) della prescrizione con la riforma (ancora da scrivere) del processo penale. Se non verrà fatta la seconda, anche la prima subirà un’ulteriore differimento di un anno, con l’obiettivo evidente di far sì che le due riforme inizino ad avere efficacia contemporaneamente, in modo da non squilibrare il sistema e ingenerare le conseguenze negative che la stessa Bongiorno ha indicato nella “dilatazione dei tempi dei procedimenti”. La partita, tuttavia, è delicata: scegliere una via così tortuosa per armonizzare il sistema penale impone di presumere che il governo gialloverde duri, come minimo, un altro anno. Altrimenti, nel caso di una crisi di governo, la prescrizione entrerebbe comunque in vigore come previsto dal ddl spazza-corrotti, a prescindere dall’eventuale riforma complessiva del sistema, e spetterebbe ad un eventuale nuovo governo in carica mettere mano al pasticcio. Eppure, su questo, Bongiorno non ha dubbi: “Confido che continueremo ad avere la maggioranza. Certo, la Lega è compatta: spero che riescano ad esserlo anche i nostri alleati”. La ministra interviene anche in materia di legittima difesa, legge bandiera della Lega e che dovrebbe incassare il nullaosta pentastellato nelle prossime settimane. E ne detta i tempi: “Manca solo il passaggio parlamentare alla Camera e sul testo siamo tutti d’accordo, non ho dubbi che avremo la nuova legge entro febbraio. Finalmente si affermerà il principio per cui tra l’aggredito e l’aggressore lo Stato sta dalla parte dell’aggredito”. Infine, la ministra interviene duramente contro l’iniziativa dei sindaci di boicottare il decreto Sicurezza: “Se ciascuno di noi decide di applicare la legge solo quando la ritiene valida e giusta, è il caos totale” : è l’avvertimento. “Dicono che il Far West è quello che vogliamo fare noi della Lega con la legittima difesa, ma il vero Far West è il loro: non pago il conto al ristorante perchè lo ritengo troppo caro, schiaffeggio chi credo mi abbia fatto un torto per strada, non applico la legge che non mi piace”. Lotta alla mafia: se i pentiti vengono rottamati di Attilio Bolzoni La Repubblica, 5 gennaio 2019 È come se nessuno avesse più bisogno di loro. Quello che dovevano fare l’hanno fatto, una stagione giudiziaria è finita per sempre e anche i collaboratori di giustizia adesso possono chiudere bottega. Non servono più, il loro apporto alle indagini è trascurabile, i nuovi metodi investigativi li hanno scavalcati, la tecnologia (microspie, localizzatori satellitari, virus informatici) li ha resi praticamente quasi inutili. Ma è proprio così? Davvero i pentiti delle nostre mafie sono diventati solo un “problema” per lo Stato? L’omicidio nel giorno di Natale a Pesaro di Marcello Bruzzese, fratello di un ‘ndranghetista che ha saltato il fosso, illumina una questione delicatissima e complicata che negli ultimi anni è rimasta sotto traccia. Cosa se ne fa e, soprattutto, cosa ci guadagna lo Stato a mantenerli ancora? E poi: li tutela come dovrebbe, oppure si è allentata nel Paese una “tensione” che ha portato a considerarli solo un peso? In questo inizio di 2019 sono 1277 i criminali che hanno scelto di cambiare vita inseriti nel programma di protezione del ministero dell’Interno, accompagnati da cinquemila familiari, un esercito invisibile, un’umanità “clandestinizzata” per legge e che sopravvive sotto falso nome in località segrete. Se appena un quarto di secolo fa venivano coccolati e qualcuno di loro persino riverito, oggi sono ritenuti un fastidio che lo Stato eviterebbe volentieri. Non si chiamano più Buscetta o Contorno o Calderone, non sono più capi carismatici di organizzazioni come Cosa Nostra che con le loro “cantate” potevano disarticolare intere Cupole ma sono “incagliacani” (accalappiacani), gente di poco conto che si pente in massa come i Lo Russo, quelli del “clan dei Capitoni” di Secondigliano che riferiscono all’autorità giudiziaria fatti che vengono superati dalla cronaca nel giro di poche settimane se non addirittura di giorni. Il primo problema dei pentiti sono proprio loro: i pentiti. La “qualità” dei collaboratori di giustizia è più scarsa, sono meno rilevanti rispetto al passato. Svelano vicende che gli investigatori, spesso, sono ormai in grado di ricostruire senza di loro. E pentiti di politica e grandi affari neanche l’ombra. Il secondo problema è il “servizio di protezione”. Depotenziato, asciugato. Negli anni ‘90 era un’eccellenza dell’apparato statale, oggi è un organismo burocratico - privato di mezzi e risorse - che gestisce un inferno. Qualche tempo fa il nostro collega Enrico Bellavia ricevette minacce per un’intervista al pentito Francesco Di Carlo, che a sua volta fu destinatario delle stesse minacce. Ma il pentito non fu mai informato per via ufficiale. Un collaboratore di giustizia sotto grave intimidazione che non sapeva niente di quello che gli stava accadendo. Semplicemente assurdo. Falle del sistema, una macchina che non funziona più per come era stata ideata sul modello americano, con i Marshall schierati a difendere i “testimoni di giustizia”. Il servizio di protezione oggi è quello che un tempo si sarebbe definito un “carrozzone”. Siamo entrati in una stagione incerta di lotta al crimine. Dove gli “schemi” utilizzati subito dopo le stragi non hanno più senso ed efficacia. È cambiato tutto. E quei pentiti che un po’ di anni fa erano ritenuti “indispensabili”, oggi solo raramente riescono ad offrire un contributo prezioso alle indagini. Poi, la magistratura giudicante per una condanna non si accontenta più delle loro “chiamate”, anche se sono due o anche tre. Ecco perché i collaboratori di giustizia sono caduti in disgrazia e perché lo Stato, in sostanza, non ci crede più. Lecce: arrestato perché il Comune non rinnova la convenzione su lavori di pubblica utilità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2019 Accolto il ricorso di un uomo che non ha potuto svolgere lavori di pubblica utilità. La Corte di Appello ha spiegato che è lo stato a dover procurare l’ente all’imputato al quale viene comminata la misura alternativa per guida in stato di ebbrezza. La convenzione comunale con l’ente non era più attiva, l’uomo non ha potuto svolgere il lavoro di pubblica utilità e quindi gli è toccato varcare la soglia della prigione. La Corte di Appello, in seguito, ha accolto il ricorso dell’imputato, spiegando che è lo Stato a dovergli procurare l’ente. Una sentenza di rilievo perché non di rado accade che se l’imputato non riesce a reperire con i suoi mezzi un ente convenzionato, è costretto a espiare la pena in carcere. Il caso riguarda un uomo di Trepuzzi (provincia di Lecce) fermato nel 2010 alla guida in stato di ebrezza e con un elevato tasso alcolemico, condannato in primo grado ad un anno di arresto e 5.500 euro di ammenda. In secondo grado la Corte di Appello concede la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità per 1 anno e 20 giorni. Il ragazzo si presenta al comune di Surbo per effettuare il lavoro di pubblica utilità. Dopo aver preso contatti, dovendo ritornare per sottoscrivere il programma, si sente dire dagli uffici del comune che nel frattempo la convenzione non è più attiva e lui quindi non può più lavorare. Il Servizio Socio Assistenziale del comune di Surbo comunica alla Procura Generale presso la Corte di Appello che il giovane non ha effettuato i lavori di pubblica attività. A questo punto viene chiesta la revoca del provvedimento e il giovane viene arrestato. L’avvocato difensore Spalluto è riuscito a dimostrare però che non tocca al suo assistito trovare un altro ente convenzionato, ma all’autorità giudiziaria. Gli atti cioè vanno restituiti al Tribunale competente perché esegua la misura con le modalità di legge, reperendo a suo onere e cura un Ente convenzionato. I lavori socialmente utili sono una misura alternativa creata ad hoc per questo tipo di reato e secondo gli ultimi dati del Dap, al 30 novembre risultano essere 6.959 le persone che hanno fatto ricorso a questa misura. Anche a seguito alle recenti riforme del codice della strada, crescono in tutta Italia le convenzioni tra tribunali, enti locali e associazioni per la sostituzione della pena per guida in stato di ebbrezza con lavori socialmente utili. Questa possibilità è stata introdotta nel 2010 con la norma dell’articolo 186 comma 9bis del Codice della Strada. La norma prevede la possibilità di sostituire una pena detentiva e pecuniaria, con lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. I lavori socialmente utili per guida in stato di ebbrezza sono stati individuati dalla giurisprudenza come l’iter preferenziale e processualmente favorito anche in considerazione della circostanza che danno al reo la possibilità di estinguere il reato. Le pronunce hanno avuto modo di sancire come in mancanza di opposizione del reo, l’applicazione di questa misura sostitutiva debba essere considerata la sanzione preferenziale da applicarsi in suddetta fattispecie anche nel caso dell’emissione di un decreto penale di condanna. Così è anche chiarito nell’articolo 186 comma 9- bis del Codice della Strada, che, testualmente stabilisce: “Al di fuori dei casi previsti dal comma 2- bis del presente articolo, la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze”. Sono diverse le province e i comuni che hanno predisposto progetti riservati all’inserimento dei lavoratori di pubblica utilità. Gli enti variano di tribunale in tribunale. È spesso possibile concordare con l’ente convenzionato gli orari e le giornate in cui espletare il lavoro di pubblica utilità in questione. Ora la sentenza della corte d’appello stabilisce anche l’obbligo da parte dei tribunali competenti di reperire l’ente convenzionato all’imputato. Milano: suicidio in carcere, la Gip archivia ma il caso potrebbe riaprirsi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2019 È il caso di Alessandro Gallelli e di una nuova consulenza medico legale. Secondo i familiari si tratterebbe di omicidio e il Tribunale Civile ha già condannato, in primo grado, il ministero della giustizia al risarcimento. La Gip archivia, ma apre alla possibilità di far riaprire le indagini grazie all’elemento di novità offerta dai consulenti. Parliamo del caso della morte di Alessandro Gallelli, un 21enne che più di sei anni fa, nel febbraio 2012, si sarebbe suicidato nella cella singola numero situata al centro di osservazione neuro psichiatrica del carcere milanese di San Vittore. Una morte che risultò fin da subito misteriosa, ma sicuramente evitabile come ha stabilito, nel 2016, il tribunale Civile di Milano che ha condannato in primo grado il ministero della Giustizia a risarcire la famiglia del ragazzo. Secondo il giudice civile, infatti, è apparso “poco chiaro” come il detenuto (sottoposto a sorveglianza a vista) potesse essere riuscito a portare a termine “l’ingegnoso e laborioso suicidio” in meno di mezz’ora, nell’intervallo fra un controllo e l’altro da parte dell’agente della penitenziaria. In quella cella, secondo il giudice, il 21enne avrebbe dovuto essere controllato 24 ore su 24, ma non fu fatto. Alessandro era un ragazzo che aveva commesso diverse bravate e aveva una personalità difficile da gestire. L’arresto è scattato quando alla fermata dell’autobus ha palpeggiato il sedere di una ragazza di 16 anni: finisce in carcere con l’accusa di violenza sessuale. Un reato che lo porta alla sezione protetta dei “sex offender”, dove ci sono pedofili o violentatori, ma anche transessuali. Una sezione che serve proprio per proteggerli dalle violenze degli altri detenuti. Alessandro va in escandescenza, rifiuta gli psicofarmaci e quindi viene messo sotto osservazione nella sezione di neuro psichiatria. Completamente isolato, con il passar del tempo si sente vittima di un ingiusto abuso. Lo ha detto anche ai genitori quando sono andati a trovarlo. Il pomeriggio del 18 febbraio si sarebbe impiccato da solo. Non era una cella normale, ma di vera e propria contenzione e già oggetto di un’ispezione nel 2008 da parte del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Il sospetto che sia stata una cella punitiva troverebbe conferma anche dai genitori del ragazzo quando riferirono un inquietante episodio: “Dopo la morte di Ale, ci sono stati riconsegnati i suoi vestiti in un sacchetto. Erano completamente bagnati. Quando abbiamo chiesto il perché, alcuni operatori ci hanno spiegato che in carcere, in inverno, a volte i detenuti vengono bagnati per punizione con un getto di acqua gelata”. Rimane dubbio anche l’impiccagione: sarebbe riuscito a far passare attraverso piccole aperture delimitate dai fili di ferro una felpa e poi agganciarla alle sbarre per poi farla rientrare dentro e infine usarla come cappio. La Procura del capoluogo lombardo chiede l’archiviazione del caso come suicidio, ma i familiari del giovane davanti alla Gip Mara Cristina Mannocci hanno chiesto che si effettuino nuove indagini, con l’ipotesi di reato di omicidio volontario. Per i consulenti della famiglia, quella morte “non è compatibile con l’ipotesi suicidaria”, ma è “riconducibile a un omicidio mediante strozzamento”, con successiva “manipolazione volontaria della scena del crimine”. La Gip ha archiviato, ma ha anche spiegato che la nuova denuncia da parte dei familiari per omicidio volontario o preterintenzionale, basata su una recente consulenza medico legale, sarebbe utile per indagare ancora sulla morte di Alessandro. Avellino: “sanità negata al carcere di Bellizzi”, l’sos di Ciambriello di Paola Iandolo ottopagine.it, 5 gennaio 2019 La visita del Garante dei detenuti al penitenziario di Avellino. Il suo appello all’Asl. “Nella mia visita di oggi nel carcere di Avellino ho verificato ancora una volta, ascoltando diversi detenuti, che al centro delle criticità vi sono spesso i medesimi temi: la sanità negata e la rigidità, i tempi lunghi nelle decisioni del Tribunale di Sorveglianza. Mancano gli infermieri, medici specialisti, gli psichiatri ed il medico del reparto per i tossicodipendenti. Chiedo ai Dirigenti dell’Asl di intervenire; alcune volte i detenuti attendono mesi per visite specialistiche e ricoveri ospedalieri”. Così la denuncia del Garante Campano dei Detenuti, Samuele Ciambriello. Oggi presso la sala teatro del carcere di Avellino si è tenuta la rappresentazione teatrale “i conti sbagliati” organizzata dalla Associazione il Faro, il cui presidente è Anna Ansalone, nell’ambito del progetto “far-musica”. Tale rappresentazione ha visto partecipi la compagnia “La Fermata” e 12 detenuti dello stesso istituto. Erano presenti, oltre al Garante Regionale dei detenuti, il Direttore dell’istituto Paolo Pastena, il comandante Attilio Napolitano e la responsabile dell’area educativa Angela Ranucci. Ha assistito alla rappresentazione teatrale una delegazione di Detenuti del nuovo padiglione. Subito dopo il Garante Ciambriello si è recato presso la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere per partecipare all’annuale pranzo Natalizio promosso dalla comunità di Sant’Egidio. Verbania: l’allarme dal carcere “mancano educatori da oltre un anno” di Beatrice Archesso La Stampa, 5 gennaio 2019 La Garante dei detenuti Silvia Magistrini spiega: “Difficile operare senza queste figure”. “Senza un educatore il carcere di Verbania è bloccato”. Parola della garante dei detenuti Silvia Magistrini. È dal settembre 2017 che manca la figura dell’educatore nella casa circondariale di Pallanza. Un’assenza che blocca azioni per le quali è indispensabile il professionista. Il disagio è vissuto in primo luogo dai detenuti, che qualche settimana fa non volevano rientrare in cella dopo l’ora d’aria e hanno raccolto firme affinché venga riconosciuto il loro diritto. “Il ruolo dell’educatore è fondamentale - spiega Magistrini. Il detenuto infatti è sottoposto a misure di sicurezza con la polizia penitenziaria e a trattamenti che fanno capo alla direzione del carcere che si affida a educatori e psicologi. Senza queste figure non si è in condizioni di operare al meglio”. Lo stallo dura da oltre un anno in un carcere che ha 64 detenuti, una decina più della capienza ideale. La direttrice da ottobre è Antonella Giordano, mentre il magistrato di sorveglianza è Monica Cali, che all’occorrenza sale da Novara. Il carcere è diviso in tre circuiti: reati comuni (cui sono stati uniti gli stalker, prima separati), ex forze dell’ordine e omosessuali. La dinamica è di “celle aperte”, con due volte i giri di controllo durante i quali i detenuti devono rientrare nelle stanze. Per i pasti non c’è mensa ma la distribuzione tra le celle. Quattro le ore d’aria: 9-11 e 13-15. “Ci sono due cortili per le ore d’aria ai quali accedono i detenuti in un’alternanza dei circuiti - spiega Magistrini. Manca invece uno spazio sportivo, che sarebbe stimolante. C’è un progetto per il recupero del terzo cortile da trasformare in campo da calcetto: la Cassa ammende pare averlo accettato, che sarebbe un toccasana perché il carcere è claustrofobico”. Il vero nodo comunque è sul personale e si ripercuote sui detenuti (permessi, colloqui, pratiche). “Sono sotto organico anche gli agenti di polizia penitenziaria, che tuttavia svolgono un lavoro eccellente - dice Magistrini. Non c’è un ragioniere nell’ufficio corrispondente, né lo psicologo, che viene a Verbania una volta al mese e segue solo i condannati in via definitiva. All’ingresso in carcere, ad esempio, lo psicologo sarebbe essenziale considerato che ci sono uomini alla prima detenzione che dovrebbero essere seguiti”. Biella: la Garante “si chiuda immediatamente la sezione Casa di Lavoro” di Susanna Peraldo ilbiellese.it, 5 gennaio 2019 “Si rinnova con forza la richiesta di chiudere immediatamente la “Casa di Lavoro” dentro l’Istituto. Come già segnalato gli anni scorsi, e nonostante gli sforzi di gestione, questa presenza a Biella si configura come una mera sezione penitenziaria ordinaria, senza nessuna possibilità di una diversa e specifica progettualità”. A segnalare l’urgenza è Sonia Caronni, garante dei diritti delle persone ristrette nella libertà, nella casa circondariale di Biella. Criticità evidenziate anche dal Coordinamento piemontese dei garanti delle persone detenute. “Si tratta di questioni che riteniamo basilari per impostare un’esecuzione penale diversa, più giusta e più efficace” ha dichiarato il garante regionale Bruno Mellano, che ha aggiunto: “nella maggior parte dei casi abbiamo registrato un’insufficienza di spazi dedicati alla socialità, all’incontro fra i detenuti e le loro famiglie, a locali per attività scolastiche, formative e lavorative. A questa grave mancanza strutturale sarebbe possibile far fronte, almeno in parte, attraverso il recupero di spazi inutilizzati, presenti in quasi tutti gli istituti, utilizzando la mano d’opera degli stessi detenuti per adeguarli in tempi rapidi, a costi bassi e assolutamente sostenibili”. Per quanto riguarda Biella, nella struttura che ospita la Sezione Semiliberi, “si rilevano infiltrazioni d’acqua consistenti nei locali doccia che risultano quindi in condizioni non consone all’utilizzo. Si richiede quindi un intervento di ristrutturazione del tetto”. Nei passeggi vecchio Padiglione “si rende necessario il rifacimento della pavimentazione nonché una copertura e delle sedute”, mentre nei passeggi nuovo Padiglione sarebbe “necessario creare punti di copertura e sedute”. Ed ancora, nella Sala Polivalente Centrale, rileva Caronni “sono presenti rilevanti problemi di infiltrazione d’acqua dal tetto”. Per il nuovo padiglione detentivo, progettato per una capienza diversa rispetto a quella attuale, si richiedono lavori di adeguamento all’impiantistica e manutenzione ordinaria allo stabile. Per la Sezione ex art.32 O.P., ubicata presso il reparto isolamento, affinché goda delle caratteristiche proprie - fa rilevare la garante - “occorre definire gli spazi (cancello di accesso) creare zone passeggi e salette per i momenti di condivisione e comunità; oltre alle docce almeno all’interno della sezione se non nelle camere di pernottamento”. Problematiche e criticità a Biella come nelle altre carceri del Piemonte, che i garanti ritengono “debbano essere almeno affrontate - se non risolte - dall’Amministrazione Penitenziaria nel 2019, anche a fronte delle preannunciate nuove e più consistenti risorse per la manutenzione ordinaria e straordinaria e della previsione di investimenti per nuove strutture detentive”. Secondo i garanti, prima di investire nella costruzione di nuovi edifici occorre ristrutturare l’esistente per poterlo utilizzare appieno. Si tratta di un obiettivo che il Coordinamento dei garanti ha voluto rinnovare e rilanciare come “sfida” per i prossimi dodici mesi”. Alla conferenza hanno partecipato oltre al garante regionale, i garanti dei Comuni di Alba, Biella e Ivrea. Il Piemonte, unica regione in Italia, ne ha designato uno per ciascuna città sede di carcere. Siena: i detenuti saranno impiegati per lavori socialmente utili Corriere di Siena, 5 gennaio 2019 I detenuti della casa circondariale di Siena potranno svolgere attività lavorative extra murarie per la protezione ambientale e per il recupero del decoro di aree verdi e spazi pubblici nonché attività inerenti la raccolta dei rifiuti, la protezione civile compreso il piano neve. Lo prevede la bozza di convenzione tra il Comune di Siena e il Ministero di Giustizia approvata il 3 gennaio, dalla giunta comunale su proposta del sindaco Luigi De Mossi. Il programma, in fase sperimentale, prevede che i soggetti in stato di detenzione con specifiche caratteristiche possano scegliere anche lavori di pubblica utilità. Alla base dell’accordo, il fatto che “il Comune di Siena intende svolgere un ruolo attivo e di supporto per l’attuazione delle politiche volte al reinserimento dei detenuti” per offrire “opportunità lavorative, gratuite, per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per i quali sussistano le condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, ai permessi o licenze”, si legge nella delibera. Un obiettivo che verrà formalizzato dal Comune di Siena e dal Ministero di Giustizia e con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e con il Tribunale di Sorveglianza competente per territorio, con il protocollo di intesa in cui si stabilisce che le finalità dell’accordo sono, tra le altre, quelle di incrementare le opportunità di lavoro e formazione tra detenuti e internati, anche in forma di volontariato, per la tutela dell’ambiente ed il recupero del decoro di spazi pubblici e aree verdi; favorire e stimolare l’avvio di progetti che coinvolgano la popolazione carceraria nella corretta gestione dei rifiuti; favorire l’attività di protezione civile, compreso il piano neve. Il protocollo, una volta sottoscritto da tutte le parti, avrà una durata triennale. San Gimignano (Si): bus navetta gratuito per detenuti e familiari da e per il carcere agenziaimpress.it, 5 gennaio 2019 Un bus navetta da e per il carcere di Ranza al servizio dei familiari in visita e dei detenuti in permesso o in misura alternativa. Al via dal 7 gennaio il progetto sperimentale di trasporto sociale frutto dell’accordo tra Comune di San Gimignano, Arciconfraternita di Misericordia di Poggibonsi e Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa con il contributo della Regione Toscana oltre che della stessa amministrazione comunale sangimignanese. Dal lunedì al sabato una navetta gratuita da 8 posti su prenotazione con partenza alle 9.40 dalla stazione ferroviaria di Poggibonsi, fermata alla porta di San Giovanni a San Gimignano alle ore 10 ed arrivo al carcere di Ranza alle 10.10 per poi ripartire alla volta di Poggibonsi Stazione con arrivo previsto alle 10.40 (fermata a Porta San Giovanni a San Gimignano alle ore 10.20). Solo nel periodo estivo quando le scuole sono chiuse dal lunedì al sabato altra corsa con partenza alle 7 dalla stazione ferroviaria di Poggibonsi, fermata alla porta di San Giovanni a San Gimignano alle ore 7.20 ed arrivo al carcere di Ranza alle 7.30 per poi ripartire alla volta di Poggibonsi Stazione con arrivo previsto alle 8 (fermata a Porta San Giovanni a San Gimignano alle ore 7.40). Il sabato, inoltre, prevista una corsa pomeridiana con partenza alle 16 dalla stazione ferroviaria di Poggibonsi, fermata alla porta di San Giovanni a San Gimignano alle ore 16.20 ed arrivo al carcere di Ranza alle 16.30 per poi ripartire alla volta di Poggibonsi Stazione con arrivo previsto alle 17 (fermata a Porta San Giovanni a San Gimignano alle ore 16.40). La prenotazione dovrà essere effettuata dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle ore 11 ai numeri di telefono 3511670190 o 3511669595. Questione d’integrazione sociale “Un progetto sperimentale che si pone l’obiettivo di abbattere le condizioni di isolamento del carcere di Ranza in favore dell’integrazione sociale non solo dei detenuti e delle loro famiglie ma anche di tutti i soggetti che operano all’interno del carcere - spiega l’assessore alle politiche sociali del Comune di San Gimignano, Ilaria Garosi. Una finalità che si inserisce a pieno titolo nell’intesa raggiunta tra amministrazione comunale e Regione Toscana nel luglio scorso con il Consiglio Comunale aperto, in accordo anche alla direzione penitenziaria e all’associazionismo locale. Non solo - conclude Garosi -, il bus navetta gratuito andrà ad integrare le corse urbane e ed extraurbane previste dal trasporto pubblico locale già esistenti ed effettuate da Tiemme”. Servizio urbano ed extraurbano - Solo nel periodo scolastico sono infatti previste corse da Porta San Giovanni a Castel San Gimignano con fermata a Ranza e ritorno, mentre tutto l’anno sono disponibili le corse extraurbane dalla stazione di Poggibonsi a San Gimignano e ritorno Taranto: se i detenuti stanno in cucina con i migranti di Francesco Petruzzelli Corriere del Mezzogiorno, 5 gennaio 2019 Si chiama Articolo 21, è sorto a Taranto vicino all’ex Gambero, ed è un ristorante “sociale” che dà lavoro agli immigrati ma anche ai detenuti. Il progetto a sfondo solidale sta riscuotendo un grosso successo. Tanto che dopo il varo già sette lavoratori sono stati assunti in pianta stabile. Roma: teatro-carcere, “Famiglia” con Marcello Fonte e i detenuti-attori Il Messaggero, 5 gennaio 2019 Dal 16 al 20 gennaio al Teatro India va in scena lo spettacolo “Famiglia” della regista Valentina Esposito, fondatrice della factory Fort Apache Cinema Teatro, un progetto teatrale rivolto a detenuti ed ex detenuti per il loro inserimento nel sistema spettacolo. Dal 2014 la Fact fornisce agli aspiranti attori gli strumenti per intraprendere una strada nel mondo del professionismo teatrale e cinematografico, attivando collaborazioni con registi come Francesca Comencini, Claudio Caligari, Stefano Sollima, Sidney Sibilia, Daniele Luchetti, Valerio Mastandrea, Marco Ponti e Matteo Garrone (che ha trovato nel volto di Marcello Fonte quello del suo Dogman). Insieme a Fonte, sono tanti gli attori (ex detenuti e non) che danno vita all’esperienza di Fact: Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi e Cristina Vagnoli, tutti interpreti sul palcoscenico del Teatro India di uno spettacolo che prova a scandagliare l’anima di uomini che nei lunghi anni di reclusione hanno sofferto per gli affetti lontani per gli amori perduti, e si trovano ora a tentare una ricostruzione emotiva tra rivendicazioni e ribellioni. Nella pièce della Esposito, il matrimonio dell’ultima e unica figlia femmina di una numerosa famiglia tutta al maschile, diventa pretesto per riunire tre generazioni di persone legate da antichi dolori e irrisolte incomprensioni. Napoli: “Liberi di Informare”, nasce un giornale nel carcere di Poggioreale Il Mattino, 5 gennaio 2019 Un giornale per informare ma anche per raccontare storie e trasmettere testimonianze di speranza: la diocesi di Napoli promuove, in diffusione gratuita, “Liberi di Informare”, periodico mensile dell’Associazione Liberi di Volare che fa volontariato nel penitenziario. Il progetto è nato su iniziativa della pastorale carceraria della diocesi di Napoli, guidata da don Franco Esposito, cappellano della Casa Circondariale di Poggioreale. Diretto da Emanuela Scotti, si presenta “con la voglia di rappresentare un ponte da fuori a dentro il carcere e viceversa”, spiegano i promotori. La vita del carcere, i racconti, le notizie e il sostegno alla vita carceraria: “Liberi di informar” non è solo un giornale da leggere ma sarà anche un mezzo, sul quale poter scrivere ed esprimere il proprio pensiero; è prevista, infatti, una finestra dedicata alle lettere scritte dai detenuti. Il primo numero è stato pubblicato il 1 gennaio 2019, ed è gratuitamente distribuito ai detenuti dei penitenziari, in particolar modo a quelli della casa circondariale di Poggioreale. La prima copia del periodico è stata donata nei giorni scorsi al cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo metropolita di Napoli, in occasione della tradizionale celebrazione eucaristica, alla fine dell’anno, in carcere. Il direttore Emanuela Scotti spiega: “L’idea nasce dalla volontà di portare comunicazione positiva, attraverso le pagine di un giornale, in un luogo che ad essa, idealmente, si oppone: il carcere”. Don Franco Esposito sottolinea: “Questo giornale non vuole trasmettere notizie ma comunicare sentimenti, bisogni, testimonianze, storie di vita, attese di speranza, voglia di redenzione” Perugia: una voce dal carcere, le poesie dei detenuti di Capanne di Bruno Mohorovich umbriaecultura.it, 5 gennaio 2019 Le festività natalizie sono appena trascorse nella loro commistione di sacro e profano; siamo entrati nel nuovo anno con il solito bagaglio di buoni propositi - che, come da tradizione, saranno presto disattesi - e ci accingiamo a vivere un nuovo futuro con il suo carico di speranze ed aspettative. Ma, in ogni caso, ciascuno di noi, si porta dentro sempre un qualcosa di questi giorni, nel bene e nel male. Chi scrive, ha vissuto per qualche ora un momento intenso: sono stato in carcere. No, non fraintendete per favore. Sono un docente del Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione per gli adulti) e si pone come finalità l’alfabetizzazione culturale e funzionale, il consolidamento e la promozione culturale, la motivazione e l’orientamento degli adulti. Tra i suoi obiettivi si pone di contrastare l’analfabetismo di ritorno e funzionale, arricchire e rafforzare le competenze di base e le nuove abilità che possono favorire una partecipazione attiva alla vita sociale. E la sua attività si svolge anche fra le mura del carcere, nella fattispecie nella Casa Circondariale Capanne (Perugia). E come ogni anno, in occasione delle festività, unitamente ai docenti che svolgono attività fra quelle mura, ci si unisce ai colleghi per portare ai detenuti l’augurio di buone feste. Ora, descrivere l’atmosfera che vi si respira all’interno non è cosa semplice; soprattutto per chi viene da fuori e si trova catapultato in una realtà altra, è un qualcosa di straniante, che - trascorsi pochi minuti - porta chi la vive a riflettere e a meditare su quelle esistenze che vivono la loro quotidianità, pur con le diverse opportunità che vengono loro offerte, sempre uguale, sempre quella. Eppure, ci si trova di fronte a uomini di varia cultura ed estrazione sociale, che sì hanno commesso dei reati, ma che manifestano la loro umanità, esprimono il loro sentire con un sorriso, un gesto, qualche parola. Un presepe, una tavola imbandita di ogni ben di Dio, sono i segni non solo di un’ospitalità - magari circostanziata - ma di un desiderio di normalità, di far cogliere agli “esterni” che anche loro vivono e, per quello che gli è concesso, sanno come vivere, a dimostrazione che anche loro, hanno avuto una vita, dei sentimenti che perpetuano anche “solo” per continuare a vivere o sopravvivere. Ed è così che un detenuto porge i suoi auguri con un paio di poesie, riempiendo una pagina bianca che gli concede - e non solo a lui - la possibilità di liberare la sua anima, di lasciar volare i suoi pensieri in spazi che mai saranno chiusi, imprigionati. E fa ancora più male, se non rabbia, pensare che individui che hanno e sviluppano certe loro potenzialità, si siano perduti imboccando una strada che non hanno saputo o potuto percorrere. Migranti. La soluzione che l’Europa non riesce a trovare di Luigi Manconi Corriere della Sera, 5 gennaio 2019 Se l’Unione adottasse una politica condivisa e di medio-lungo periodo, quei migranti non solo potrebbe accoglierli, ma ne verificherebbe l’irrinunciabile necessità. I dati essenziali sono questi: da quindici giorni, una nave dell’Ong Sea Watch, dopo aver raccolto dalle acque del Mediterraneo 32 migranti e profughi - tra cui 7 minori e 4 donne - chiede che un porto europeo possa accoglierli. I naufraghi provengono da undici diverse nazioni africane. Tutti Paesi dove si verificano condizioni di massima insicurezza, o a causa del dominio di regimi totalitari o a motivo di uno stato di estrema povertà; o perché dilaniati da conflitti bellici e guerre civili o perché teatro di attività terroristiche e di persecuzioni di natura etnica, religiosa e sessuale. Nella stessa situazione si trova la nave dell’Ong Sea Eye, che il 29 dicembre ha salvato 17 persone. La lunga permanenza in mare e il peggioramento delle condizioni climatiche producono conseguenze che dai medici di bordo sono così riassunte: “per persone malnutrite e in condizioni di salute molto precarie la disidratazione come causa del mal di mare è un pericolo molto grave, soprattutto se associata all’ipotermia”. Di fronte a tale situazione, c’è chi ha scritto con scandalo di: “poveri cristi salvati dal mare e sballottati tra le tempeste delle acque maltesi, una trentina di persone umane a cinquanta miglia dai porti chiusi di un Paese di sessanta milioni di abitanti con reddito di cittadinanza e quota cento”. Non sono le parole del sindaco (sospeso) Mimmo Lucano o del missionario comboniano Alex Zanotelli, bensì di un giornale flemmatico e poco incline all’emotività come Il Foglio. Ed è difficile sottrarsi alla tentazione di comparare la vulnerabilità di quelle 49 persone spossessate di tutto alla robusta cifra di oltre 500 milioni di cittadini europei. La replica è inevitabile: accogliendo quelle 49 persone si rischia di alimentare un flusso che può farsi imponente e compromettere la stabilità economico-sociale di Paesi che, in maggioranza, non godono di ottima salute. Non si vuole qui rispondere con la ragionevolezza, documentata da mille ricerche, che giungono a una conclusione pressoché unanime: se l’Europa adottasse una politica condivisa e di medio-lungo periodo, quei migranti non solo potrebbe accoglierli, ma ne verificherebbe l’irrinunciabile necessità. Consideriamo, piuttosto, la circostanza attuale che si configura come un vero stato di emergenza; e che richiama l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Qui si legge che “nessuno può essere sottoposto” a “trattamenti inumani o degradanti”. La condizione fisica e psicologica di quei 49 configura o no un “trattamento inumano”? E come negare che si tratti proprio di questo, dal momento che un simile stato di esposizione al pericolo ha ormai raggiunto, per la gran parte di loro, le due settimane? Il nodo giuridico, prima ancora che umanitario e politico, è questo: e su questo sembra che, nelle ultime ore, qualcosa infine si muova grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei. Vi viene la curiosità di sapere se, tra questi, si trovi la nostra Italia, terra notoriamente dotata di “un cuore grande così”? Beh, tranquillizziamoci: non c’è. Viene in mente una vecchia storia: nel 1939, la nave St. Louis salpò da Amburgo con a bordo 937 ebrei tedeschi alla ricerca di un porto sicuro, che non trovò a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada. Dopo parecchie settimane, fu costretta a tornare in Europa: una parte dei profughi fu accolta dall’Inghilterra, altri dalla Francia, dal Belgio, dai Paesi Bassi. Molti tra essi qualche anno dopo finiranno nei lager nazisti. Per carità, nessuna comparazione è possibile tra le due epoche storiche, le due tragedie e le diverse responsabilità. Ma, come hanno affermato Piero Terracina e Liliana Segre, sopravvissuti ad Auschwitz, un fattore avvicina le due vicende: l’indifferenza dell’Europa. Ora, uno spiraglio sembra aprirsi: quanto ampio, chissà. Migranti. Il giornale dei profughi di Mahdia Hosseini di Paolo Lepri Corriere della Sera, 5 gennaio 2019 In fuga dall’Afghanistan, è la direttrice del giornale Migratory Birds, fondato insieme ad altre ragazze dopo l’arrivo in Grecia: è diffuso in 13.000 copie tra i profughi e le organizzazioni umanitarie. Dal campo profughi di Schisto, nei pressi di Atene, Mahdia Hosseini ha scritto a “un uomo afghano” quello che non ha mai potuto dire prima di prendere la strada della fuga. La lettera non è stata spedita per posta, anche perché sarebbe stato impossibile recapitarla ad un destinatario senza nome. È diventata un articolo del giornale Migratory Birds che quindici ragazze come lei hanno fondato nel 2017 tra le tende e i prefabbricati in cui hanno vissuto dopo il loro arrivo in Grecia. “Nel mio Paese - si legge - una donna non può decidere come vestirsi o chi sposare. È proibito indicare il suo nome sugli inviti di matrimonio. Perfino quando muore, nessuno saprà come si chiama: negli annunci funebri il solo riferimento è al marito o ai figli”. Migratory Birds è ormai arrivato al suo undicesimo numero e qualche mese fa ha festeggiato il suo primo anniversario. È scritto in cinque lingue: farsi, greco, inglese, arabo, urdu. Tutti i contributi vengono tradotti in inglese on-line. Il progetto è sostenuto dalla Ong Network for Chldren’s Rights e dall’Unicef grazie ad un finanziamento della Commissione europea. Non è più un giornale tutto al femminile perché a collaborare sono anche molti ragazzi. “Abbiamo deciso di diventare reporter per essere la voce dei rifugiati”, ha detto Mahdia a Deutsche Welle. Lei è la direttrice del giornale, diffuso in 13.000 copie tra i profughi e le organizzazioni umanitarie. La scelta compiuta a Schisto è stata il tentativo di abbattere le “barriere” che hanno limitato l’esistenza di questa giovane donna. In Iran, dove ha vissuto dopo aver lasciato l’Afghanistan, ricorda di aver combattuto “una battaglia permanente, psicologica e intellettuale”. La sua storia - legata alla doppia emergenza di cui sono vittime i “dannati della terra”, tra oppressione e accoglimento - è anche una storia di maturazione personale. Lo capiamo scorrendo un altro testo, A new personality, in cui osserva che la vita nel campo le ha fatto dimenticare la parola “voglio”. Ma le barriere si possono rialzare. L’estate scorsa è stata mandata via, “perché afghana”, quando si è offerta di donare il sangue per le persone coinvolte negli incendi che hanno devastato la Grecia. “Uscendo dall’ospedale - racconta - quelle fiamme mi bruciavano nelle vene”. Egitto: Al Sisi alla Cbs: non ci sono prigionieri politici di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 gennaio 2019 L’Egitto ha chiesto all’emittente Cbs di non trasmettere un’intervista al presidente Abdel Fatah al-Sisi, in cui lui nega l’esistenza di prigionieri politici nel suo Paese. Sul sito web della rete statunitense si trovano alcuni estratti del colloquio che andrà in onda domenica prossima sul programma 60 minutes: “Non abbiamo alcun prigioniero politico o prigioniero d’opinione. Stiamo tentando di contrastare gli estremisti che impongono la loro ideologia alle persone”. Il presidente ha smentito il rapporto di Human Rights Watch secondo cui le autorità egiziane “hanno arrestato o incriminato probabilmente almeno 60mila persone” dal colpo militare del 2013, in cui fu destituito l’islamista, Mohammed Morsi. “Non so dove abbiano preso quel dato, ho detto che in Egitto non ci sono prigionieri politici”, ha aggiunto al-Sisi. Quest’ultimo è arrivato al potere nel 2014, un anno dopo aver destituito Morsi a seguito di proteste di massa contro il regime islamista. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano che l’ex capo della Sicurezza abbia da allora ha creato un regime repressivo e autoritario. La collaborazione con Israele - Nell’intervista Al Sisi ammette la collaborazione del suo Paese con Israele contro i combattenti jihadisti nel Sinai. “Al-Sisi ha incontrato Scott Pelley per dare notizie a 60 Minutes e lo ha fatto, confermando che il suo esercito sta lavorando con Israele contro i terroristi nel Sinai del Nord”, si legge. Quando gli è stato domandato se la collaborazione sia la più stretta mai avvenuta, al-Sisi ha detto, secondo Cbs: “Questo è corretto. Abbiamo un ampio raggio di collaborazione con gli israeliani”. In seguito l’ambasciatore egiziano negli Usa ha contattato i responsabili della trasmissione, dicendo loro che “l’intervista non può essere trasmessa”, ha riferito l’emittente. La quale, tuttavia, ha fatto sapere la diffonderà domenica. Nonostante interessi economici legati al gas e il ruolo pionieristico nella distensione araba con Israele concretizzatosi nell’accordo di pace del 1979, la retorica anti-sionista in Egitto è sempre molto forte (un deputato, ad esempio, è stato cacciato dal parlamento per aver incontrato l’ambasciatore israeliano). A febbraio il Nyt, citando sette funzionari americani e britannici, aveva riferito che nei precedenti due anni Israele ha compiuto oltre 100 raid aerei in Egitto, in media uno alla settimana, con il beneplacito di Sisi. Già in precedenza il sito Ynet aveva rivelato che aerei da guerra egiziani sono entrati “per brevi momenti” nello spazio aereo israeliano per bombardare postazioni dell’Isis nei pressi del confine nord del Sinai. Questi voli “senza precedenti” sarebbero stati effettuati in “apparente coordinamento” con l’esercito israeliano e si sono svolti soprattutto nel triangolo al confine tra Egitto, Israele e il sud della Striscia di Gaza. Egitto. “Mi hanno torturato, rinchiuso e costretto a strisciare sulla sabbia bollente” tpi.it, 5 gennaio 2019 Islam Khalil è rinchiuso da 5 anni nelle prigioni egiziane, senza sapere perché: in una lettera pubblicata da TPI racconta le torture subite. “Lo scorso 15 agosto ho compiuto 29 anni. Sono purtroppo anni appassiti come fiori. Per mia sfortuna gli anni della mia gioventù hanno coinciso con l’inverno della mia patria. I fiori della mia età appassiscono a causa delle mie molteplici disgrazie, portando alla distruzione dei miei sogni e delle mie speranze. Sulla soglia dei miei anni compiuti c’è ingiustizia e oppressione”. Con queste parole si apre la lettera di Islam Khalil, adesso 29enne, prigioniero nel carcere egiziano e pubblicata in esclusiva da TPI. “I giorni della prigionia si assomigliano e si alternano in una sequenza di disperazione e frustrazione. Ho passato tanti giorni della mia gioventù in prigione, durante i quali sono stato sottoposto a molte violazioni e ho assaporato ogni tipo di tortura. Ci sono giorni che sono impressi nella mia memoria e non possono essere cancellati. I giorni più rilevanti sono quelli del mio compleanno che hanno coinciso sempre, purtroppo, con la mia reclusione. Il mio primo compleanno in prigione è stato quando ho compiuto 22 anni, all’interno del carcere militare di Ahmed Galal. Ho trascorso il giorno costretto a strisciare a pancia in giù sulla sabbia rovente come punizione imposta a tutti i detenuti del carcere. Poi ho passato tutta la giornata in piedi sotto il sole cocente. Tutt’ora non conosco il motivo per cui ci è stata imposta tale punizione. Chi si lamentava o si opponeva veniva obbligato a strisciare nuovamente sulla sabbia. Ho terminato la giornata rinchiuso in una cella stretta e soffocato dalla puzza di urina e feci che fuoriusciva dal secchio e dalle bottiglie dove facevamo i nostri bisogni. Ho trascorso così il mio ventiduesimo compleanno. Uno dei giorni più malinconici e miserabili che ho trascorso dentro la prigione. Il mio ventitreesimo compleanno l’ho passato dentro la prigione di Banha dove sono stato privato e denudato dei miei vestiti, ad eccezione delle mie mutande. Sono stato rinchiuso in una cella larga un metro e alta due, come se stessi all’interno di una trappola per topi o come fossi una scarafaggio rinchiuso in una scatola di fiammiferi messa in verticale. Questa era la cella della mia rieducazione. Il mio cibo era un pezzo di pane e un piccolo pezzo di formaggio da farmi bastare per tutto il giorno, una bottiglia d’acqua e una bottiglia dove fare i miei bisogni. Gli odori letali, la cella stretta e l’assenza di fori da cui far fuoriuscire l’aria l’hanno resa una vera tomba. Ho passato il tempo cantando ad alta voce tutte le canzoni che conosco a memoria, sorridendo falsamente nella speranza che fosse l’ultimo giorno che avrei trascorso dentro la prigione. Il mio ventiseiesimo compleanno è stato forse il peggiore. Quel giorno ero stato rinchiuso segretamente all’interno della sede dei servizi segreti. Avevo gli occhi bendati con una spessa benda nera e le mani legate dietro la schiena con una catena. Ero costretto a rimanere seduto per terra senza poter parlare o muovermi. In questo luogo non esistono nomi ma numeri con i quali vieni chiamato. Devi dimenticare il tuo nome e memorizzare bene solo il numero che ti è stato assegnato. Se dimentichi il tuo numero dovrai subire le peggiori torture. Sono rimasto in queste condizioni tre mesi senza potermi lavare. I segni di tortura sul mio corpo e sui corpi degli altri detenuti erano ben visibili. I nostri vestiti erano macchiati di sangue. Vivevamo in condizioni disumane, tra la puzza emanata dal sudore e dall’odore emanato dalle nostre ferite causate dalle torture che subivamo da mesi sui nostri corpi. Ognuno di noi attendeva il suo turno per essere torturato. Quel momento poteva arrivare in qualsiasi momento. Tutti aspettavamo il momento in cui saremmo morti. La morte era sicuramente meglio di tutto ciò che stavamo subendo. Un giorno come punizione sono stato appeso per le mani per un’intera giornata per aver fatto una battuta ad un poliziotto. Il mio intento era far sorridere anche se per un secondo gli altri detenuti. Venni appeso dalle mani per un’intera giornata. Sentivo dolore in ogni parte del mio corpo ma la sensazione di aver violato una regola del carcere mi appagava. Il ventisettesimo compleanno ero dentro il carcere di Borg el Arab. Quel giorno c’era una protesta da parte dei detenuti e avevamo cominciato uno sciopero della fame. Venni portato nella cella della rieducazione, larga quattro metri e lunga quattordici con all’interno altri quattordici detenuti, con addosso solo una mutanda e un unico secchio dove fare i nostri bisogni. Dissi agli altri detenuti che quel giorno era il mio compleanno e chiesi ridendo se chi conosceva una canzone a memoria poteva cantarmela.