Straniero il 33% dei detenuti, misure alternative per pochi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 gennaio 2019 La nazionalità più diffusa è la marocchina, seguita dai rumeni. Per i rimpatri è necessario rispettare la Convenzione di Strasburgo e la legge sul delitto di tortura, oltre alle difficoltà di trovare accordi con i paesi d’origine. Sono tanti gli stranieri ristretti nelle nostre carceri e, nel caso fosse vero, perché? Qualche tempo fa il Censis aveva fotografato, nel suo rapporto annuale, un’Italia in cui domina la paura: del futuro e del diverso. Secondo il 75% dei nostri connazionali infatti l’immigrazione farebbe aumentare la criminalità. Ma analizzando i dati rilasciati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si può notare che, al 31 novembre 2018, la presenza di detenuti stranieri nelle nostre carceri è di 20.306 unità. Questo significa che il 67% dei detenuti è di nazionalità italiana. Tra gli stranieri, che quindi compongono circa il 33% del totale, la nazionalità più diffusa è quella marocchina con il 18,3% dei detenuti. Al secondo posto in percentuale ci sono le persone detenute provenienti dalla Romania (12,7%), dall’Albania (12,7%), con la Tunisia a chiudere il cerchio delle percentuali a doppia cifra (10,3%). Il numero, quindi, non è altissimo da far creare inutili allarmismi, ma nemmeno irrilevante. Però ci sono da fare delle osservazioni. Innanzitutto, nei confronti degli stranieri si usa in misura maggiore la custodia cautelare, cioè il carcere prima della conclusione del processo. Tra i detenuti in attesa di giudizio - secondo l’ultimo rapporto di Antigone riferito a luglio scorso - gli stranieri sono il 37,7 per cento (3.640 individui), mentre tra quelli condannati in via definitiva la percentuale scende al 31,6 per cento. Chi è straniero ha insomma maggiore difficoltà ad accedere a misure alternative al carcere. Ma è possibile, come si propone da più parti, risolvere il “problema” rimandando i detenuti stranieri nei loro paesi di origine? La prima difficoltà è che la questione del trasferimento dei detenuti stranieri è regolamentata dalla Convenzione di Strasburgo del 1983, entrata in vigore in Italia sei anni più tardi 1989. All’articolo 3, la Convenzione - sottoscritta solo da alcuni Paesi - afferma che una persona può essere trasferita solo in specifiche condizioni. Per esempio, la sentenza di condanna deve essere per almeno sei mesi di reclusione e definitiva, e il condannato deve acconsentire al trasferimento. Inoltre, la legge sull’introduzione del delitto di tortura del 14 luglio 2017 impedisce di estradare una persona quando ci sono motivi fondati di ritenere che essa rischia di essere sottoposta a tortura. Come sottolineato dal rapporto dell’Associazione Antigone, “almeno 806 detenuti non dovrebbero essere trasferiti nei loro Paesi di origine e hanno diritto a restare in Italia. 217 vengono dalla Libia, 37 dal Sudan e 642 dall’Egitto”. La seconda difficoltà nei rimpatri riguarda la necessità di trovare accordi con i Paesi di origine e se un accordo si trova, non è detto che sia proficuo. Abbiamo l’esempio dell’accordo dell’Inghilterra sottoscritto nel 2014 con la Nigeria: a un impatto stimato di riduzione dell’ 1 per cento sulla popolazione carceraria straniera nel Regno Unito. Gli altri accordi britannici con Paesi extra- Ue non hanno dato esiti migliori: da inizio 2016 a settembre 2016, il totale dei detenuti trasferiti all’estero dal Regno Unito, ammontava a 18 individui. Di questi, diciassette sono stati rimandati in Albania e uno in Nigeria. I Sindaci e la via maestra della Consulta di Stefano Folli La Repubblica, 4 gennaio 2019 La ribellione dei Sindaci è durata ventiquattr’ore, almeno nella sua forma più esplicita e discutibile. Come dice il sindaco di Firenze Nardella, “non intendiamo violare la legge. Poniamo dei problemi in relazione al decreto Salvini e alla sua applicazione”. Il che cambia la prospettiva rispetto all’enfasi della prima ora. La disobbedienza civile ha senza dubbio un alto valore morale, se a metterla in pratica è un singolo individuo o un gruppo di uomini e donne privi di responsabilità pubbliche e alle prese con un potere dispotico. Ha tutt’altro significato, se a rivendicarla sono i sindaci, ossia dei funzionari eletti per applicare le leggi. E in Italia lo Stato rimane ovviamente democratico, al di là dei comportamenti talvolta deplorevoli di chi si trova a governare. È democratico perché esistono una Costituzione e un presidente della Repubblica che la garantisce. Così come esiste - e non fu semplice istituirla - una Corte costituzionale che valuta le leggi e le norme. I sindaci - dal palermitano Orlando al milanese Sala - hanno posto in forme diverse una questione che tocca le incongruenze del decreto Salvini, da poco controfirmato dal Quirinale. Hanno il diritto politico di farlo, mentre non hanno il diritto di ignorare la legge. E infatti il buonsenso si è affacciato, sia pure con un giorno di ritardo. Si è tradotto in una richiesta al ministro dell’Interno affinché ascolti le voci dei primi cittadini, coloro che sono chiamati a gestire gli immigrati sul territorio e a fronteggiare gli psicodrammi quotidiani. Il sindaco di Milano arriva a chiedere a Salvini di ritirare il decreto, il che è legittimo, ma altamente improbabile. Molto più realistico sarebbe creare le premesse per un ricorso alla Consulta. È la strada principale, subito indicata come tale da autorevoli giuristi: sarà la Corte a stabilire se la legge va stracciata in tutto o in parte ovvero se è compatibile con la Carta fondamentale. Ogni altra scorciatoia ha il sapore della manovra politica in sfregio alle istituzioni, quali che siano le buone intenzioni di partenza. Quelle buone intenzioni, meglio non dimenticarlo, che spesso lastricano la strada verso l’inferno: ossia producono risultati opposti a quelli immaginati. Non a caso Salvini ha di che rallegrarsi. L’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris, ha il sapore del populismo antico, precedente l’ondata giallo-verde. Sembra il tentativo di ricalcare i metodi di chi è al governo, ma in una chiave di sinistra radicale. Difficile credere che sia questo il sentiero giusto per restituire i consensi perduti a un centrosinistra riformista che deve imparare a misurarsi con la realtà. Semmai l’immagine dei sindaci pronti a disattendere la legge in polemica con il governo centrale offre nuove frecce all’arco della Lega, alla sua predicazione “legge e ordine”. Viene da pensare che certe mosse del ministro-poliziotto siano pensate non per promuovere la sicurezza dei cittadini, bensì per aizzare il riflesso condizionato degli avversari. I quali puntualmente cadono nella trappola. Certo, Orlando e de Magistris possono vincere la battaglia mediatica e accreditarsi presso un certo segmento di opinione pubblica. Tuttavia, creano un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che voglia risalire la china. Infatti, il Pd ha preso in parte le distanze, salvo alcuni esponenti della sinistra come Cuperlo che vedono soprattutto il valore della testimonianza morale. Ma la battaglia è politica e non sembra questo il modo migliore per tagliare le unghie a Salvini. Sulle spalle degli altri. Chi fa propaganda e chi porta i pesi di Diego Motta Avvenire, 4 gennaio 2019 È emersa una variabile inattesa, colpevolmente sottovalutata dagli uomini forti dell’esecutivo, nella protesta sollevata dai sindaci sull’applicazione del decreto sicurezza. Riguarda il rapporto tra atti di governo e conseguenze territoriali e rischia di far saltare il banco nel delicato equilibrio tra Stato centrale ed Enti locali. Si tratta di una novità importante, che per adesso l’esecutivo si limita a controllare, facendo rientrare le contestazioni dei primi cittadini nella normale dialettica centro-periferie, grazie alla sofisticata strategia di comunicazione seguita sin dall’inizio della legislatura e all’opera anche in questa vicenda. Lo schema consolidato è presto detto: a noi il consenso, agli altri attori istituzionali, sindaci compresi, il costo (alto) delle politiche anti-accoglienza regolata da attuare. A loro, i sindaci, gli oneri, a noi, vicepremier e ministri, gli onori. Tocca infatti ai primi cittadini applicare le norme restrittive decise dall’alto, senza consultare né il territorio né le realtà del Terzo settore impegnate da anni in queste attività. Ecco perché risulta provvidenziale, anche se tardivo, il segnale arrivato ieri dal presidente del Consiglio, che ha di fatto “convocato” i primi cittadini dicendosi disponibile a un confronto. Ancora una volta è Giuseppe Conte a doverci mettere una pezza, come già con l’Unione Europea. Il problema che andava affrontato per tempo, nei mesi scorsi, va oggi gestito con urgenza. E questo in concreto significa spiegare a migliaia di stranieri in fila all’anagrafe comunale delle città cos’è cambiato, chiudere diversi centri Sprar nei piccoli centri, smistare piccoli e grandi flussi di persone nei quartieri, saper dosare il bastone e la carota qualora dovessero esserci problemi di ordine pubblico. Abbandonati a se stessi, senza strumenti e alternative a disposizione, si è chiesto sinora ai sindaci di farsi carico nello stesso tempo di novità burocratiche dirompenti (il “no” alla residenza per i migranti chiude, solo per fare un esempio, le porte alla carta d’identità, ai servizi sanitari e ai centri per l’impiego) e di gestire, con intelligenza e umanità, le tensioni sociali legate al superamento dei vecchi luoghi e simboli dell’accoglienza. È difficile non riconoscere lo stato di “oggettiva difficoltà” evocato dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro. Si dirà, stando allo spirito dei tempi e al lessico salviniano: è il loro lavoro, sono stati eletti per questo, la “pacchia è finita”. Il punto è che siamo di fronte a un preciso piano dell’attuale maggioranza di governo, di cui è difficile non accorgersi. Non c’è solo il dossier migranti a preoccupare chi vive sul territorio. L’ultima legge di bilancio ha chiesto ai Comuni di far fronte a tagli di fondi per centinaia di milioni di euro: per capirci, una città come Milano riceverà 65 milioni in meno rispetto al previsto. Come far fronte a questi mancati trasferimenti? La via è obbligata: attraverso un innalzamento delle imposte locali oppure decidendo una riduzione dei servizi sociali per la popolazione. Chi ne risponderebbe politicamente? L’elenco potrebbe continuare, basti pensare ai fondi prima tolti e poi solo in parte reintegrati per il bando periferie, alla cosiddetta ‘tassa sulla bontà’ che ha conseguenze dirette per chi dal basso (e senza fini di lucro) assiste persone in difficoltà. Si dirà: anche in quest’ultimo caso, l’esecutivo ha promesso di metterci una pezza e lo farà. Proprio questo è il punto: perché si deve arrivare sempre a ultimatum, intese in extremis (anche con l’Europa) ripensamenti dell’ultim’ora? Soltanto a pensare all’elenco di cose da fare (e promesse da mantenere) nel mese di gennaio, chi si occupa dell’azione di governo ha davanti a sé un compito da far tremare le vene ai polsi: scrittura dei decreti su Reddito di cittadinanza e “quota 100”, abolizione della tassa sul non profit, adesso anche il tavolo con i Comuni sugli immigrati. Impegni che consiglierebbero di chiudersi nei rispettivi Ministeri e meditare misure precise, piuttosto che inondare la Rete di continue dirette social. Invece non cambierà nulla, probabilmente: è tutto così chiaro, nella strategia elettorale neo-centralista di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, è stato tutto così scientificamente pianificato a tavolino, da rendere la prospettiva indicata logica e comprensibile alla ‘pancia’ del Paese, l’unica che davvero conta. Comunicare ossessivamente e continuamente, riempire spazi nei palinsesti per accreditare un governo “del fare”, a fianco dei cittadini. Il lavoro sporco? Lo facciano gli altri, ovviamente, c’è altro a cui pensare. Ora però, con la protesta dei sindaci, è spuntata la variabile inattesa: scaricare il peso della responsabilità sui livelli più bassi (Enti locali, Terzo settore, sindacati: istituzioni e realtà che una volta si sarebbero chiamati “corpi intermedi”) non può pagare sempre, all’infinito. Prima o poi la coesione sociale e l’architettura istituzionale e sociale del Paese daranno segni di cedimento. È successo, sta succedendo, succederà ancora. Meglio pensare a un ravvedimento operoso in tempi brevi. Il Colle si smarca dal ministro. E sui dubbi deciderà la Consulta di Ugo Magri La Stampa, 4 gennaio 2019 Dal Quirinale ricordano come il provvedimento sia stato oggetto di continue “limature”. Alla fine Mattarella firmò ma non nascose le preoccupazioni per il rispetto dei diritti umani. Salvini che si nasconde dietro a Mattarella: chi l’avrebbe mai immaginato? Di certo, nessuno tra i frequentatori del Colle. Dove l’autodifesa del ministro (“Se c’è una legge firmata dal presidente della Repubblica si rispetta, troppo facile applaudire il discorso di fine anno e due giorni dopo sbattersene”) viene registrata con un certo stupore. Non in quanto Salvini si sia preso la libertà di tirare in ballo la massima carica dello Stato, abitudine quanto mai diffusa, ma perché le cose non sono andate esattamente come il vice-premier vuole far credere. In particolare, i giuristi di casa al Quirinale contestano che la firma al decreto sicurezza potesse valere come certificazione Doc, marchio di garanzia o addirittura quale condivisione di Mattarella nel merito del provvedimento. Niente di tutto ciò, sostengono, per un paio di ragioni. La prima, nota a chiunque sappia un po’ di diritto, è che il presidente non può né deve passare le leggi ai Raggi X. A ciò provvede la Consulta, nel caso in cui venga chiamata in causa. Il Capo dello Stato deve limitarsi a controllare che una legge o un decreto non siano in clamoroso contrasto con la Costituzione. Le prime versioni del famoso decreto facevano effettivamente a pugni con i principi fondamentali della nostra Carta, ed è la ragione per cui tra Quirinale e Viminale si registrò un andirivieni di testi, talmente fitto che a un certo punto s’era perfino smarrita la contabilità delle bozze. Questo tira-e-molla si trascinò per una dozzina di giorni, con Salvini che mordeva il freno, fremeva dall’impazienza, ma nello stesso tempo accettava una quantità di “limature” suggerite dai “giuristi del Colle” di cui le cronache diedero ampiamente conto. A forza di correzioni, finalmente il decreto entrò nel limbo delle leggi di dubbia costituzionalità, quelle che un domani la Consulta potrebbe bocciare (e probabilmente lo farà), ma nessuno può stabilirlo in anticipo con certezza, nemmeno un ex giudice costituzionale qual è il Capo dello Stato. Che dunque, a quel punto non poté esimersi dall’apporvi la propria firma pur senza condividere lo spirito del decreto e tantomeno il contenuto. Di questo si può stare assolutamente certi. La prova che si trattò di un atto tormentato (ma al tempo stesso dovuto) viene fornita dalla lettera al premier con cui Mattarella accompagnò la firma al decreto sicurezza: “Restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, scrisse il 5 ottobre scorso. Cioè nell’applicazione pratica si dovranno rispettare i principi di umanità che sono a fondamento della nostra Repubblica e dei trattati cui abbiamo aderito. Non è normale che un via libera venga accompagnato da preoccupazioni del genere, in cui quasi si prefigura la rivolta dei sindaci. Salvini alzò le spalle. “Sì, ma non vogliamo passare per fessi”, fu il suo commento seccato alla lettera presidenziale. Sono trascorsi appena tre mesi, e adesso quel braccio di ferro col Quirinale viene magicamente rovesciato nel suo contrario. Da controllore pignolo, Mattarella si trasforma in alleato prezioso. Se non fosse vissuto nel Settecento, il moralista La Rochefoucauld vi avrebbe trovato la prova definitiva della sua teoria: “L’ipocrisia”, sosteneva, “è il vizio che rende omaggio alla virtù”. L’affondo di Salvini: “i Sindaci traditori ora devono dimettersi” di Amedeo La Mattina La Stampa, 4 gennaio 2019 È scontro istituzionale sull’applicazione del decreto sicurezza, Di Maio si schiera con l’alleato. Conte prova a mediare con l’Anci. Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono convinti che l’iniziativa del sindaco di Palermo Leoluca Orlando contro il decreto sicurezza sia stato il primo colpo di pistola di un piano orchestrato dalla sinistra. Una manovra politica con l’obiettivo di tirare la volata per le Europee al loro esangue schieramento politico. E infatti il capo dei 5 Stelle accusa i sindaci “disobbedienti” (di Milano, Firenze, Napoli, Cagliari, Sassari, Nuoro, Bari, Pesaro) di pensare “solo alla campagna elettorale”. Per sentirsi “un po’ di sinistra - dice il vicepremier - fanno un po’ di rumore”. “Ma se vuoi sentirti di sinistra metti mano ai diritti sociali di questo Paese, quelli che la sinistra ha distrutto in questi anni. Pensate come stanno messi male”, sostiene Di Maio che parla come Salvini per non perdere terreno sul tema dell’immigrazione. Il vicepremier grillino sa, e tutti i sondaggi lo confermano, che la questione immigrazione è quel propulsore capace di espandere la Lega a macchia d’olio nel Sud dove i grillini il 4 marzo hanno fatto il botto. Marcare Matteo sul decreto sicurezza serve a Luigi per tenere alte le sue percentuali elettorali. In questa stessa chiave va letta la frenata del capo grillino sul reddito di cittadinanza ai migranti. I nemici del popolo - La risposta all’unisono dei due leader è finalizzata a neutralizzare una presunta operazione politica dei sindaci di sinistra. E i toni sono durissimi. “Amici dei clandestini, traditori degli italiani”, dice Salvini. Sindaci che minacciano di non applicare il decreto sicurezza ma che a suo giudizio sono “incapaci ad amministrare le loro città e quindi la buttano in caciara”. Ma per Salvini “dovranno risponderne ai loro elettori, ai loro concittadini che gli pagano lo stipendio”. Salvini consiglia di dimettersi se non intendono applicare una legge approvata dal Parlamento e firmata dal capo dello Stato. “Dimettetevi! Ragazzi siamo in democrazia e governano gli italiani. A quei poveretti di sindaci dico che è finita la pacchia. Se pensano di intimidirmi, dico che hanno trovato il ministro e il governo sbagliato. Io non mollo di un millimetro”. Salvini sfrutta l’occasione della polemica per rianimare quel cavallo di battaglia - la lotta dura agli immigrati - che gli assicura una continua linfa elettorale. Sa che buonismo, buoni sentimenti e accoglienza sono minoritari nell’opinione pubblica. Finto invito a discutere - Il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro chiede un incontro al governo per discutere delle ricadute della legge Salvini sui territori, sulle difficoltà di gestire alcuni aspetti del provvedimento. E a Salvini che ricorda agli amministratori oppositori della “pacchia è finita”, Decaro chiede di abbassare i toni e convocare l’Anci per correggere la normativa. “Se poi il ministro ritiene che il mestiere di sindaco sia una pacchia - avverte Decaro - siamo pronti a restituirgli, insieme alla fascia tricolore, tutti i problemi che quotidianamente siamo chiamati ad affrontare”. Il premier Giuseppe Conte allora fa sapere di essere disponibile all’incontro per segnalare eventuali difficoltà applicative della legge, precisando però che sono inaccettabili le posizioni di quei sindaci che hanno dichiarato che non intendono applicare una legge dello Stato. “Il nostro ordinamento giuridico - avverte il premier - non attribuisce loro il potere di operare un sindacato di costituzionalità delle leggi: disapplicare una legge che non piace equivale a violarla, con tutte le conseguenti responsabilità”. È una finta apertura dietro la quale si cela il tentativo di isolare gli amministratori “disobbedienti” e dare voce a quelli pro-decreto che sono stati sollecitati a uscire pubblicamente contro i loro colleghi dello schieramento d’opposizione. Sono una trentina di primi cittadini che chiedono a Decaro di convocare gli organi dell’associazione per evitare che l’Anci venga strumentalizzata. Che l’invito a discutere sia finto lo dimostra la bordata di Stefano Candiani, sottosegretario leghista all’Interno, che intima a Decaro di rappresentare tutti i sindaci, “non solo quelli di certa sinistra e del Pd ostili per partito preso al governo del cambiamento”, oppure di dimettersi. A Salvini di mettersi attorno a un tavolo per ridiscutere il suo decreto non gli passa per l’anticamera del cervello. “Lo abbiamo già discusso, limato per tre mesi e migliorato”. Anche perché si tratta di un decreto perfetto per mietere consensi in campagna elettorale. “La fine della prescrizione bloccherà la giustizia” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 gennaio 2019 Intervista alla presidente della Corte d’Appello di Venezia. La riforma della prescrizione si innesta su un sistema che non funziona. Con i numeri attuali non riusciremo ad incrementare il numero delle udienze. “Abbiamo un carico di lavoro che non ha eguali. Pur essendo virtuosissimi, per smaltire le pendenze servono almeno due anni e mezzo”, dichiara Ines Marini, presidente della Corte d’Appello di Venezia, all’indomani della presentazione del dossier della Cgia di Mestre che colloca gli uffici giudiziari veneti agli ultimi posti in Italia nel rapporto magistrati-abitanti. Presidente Marini, Roma vi considera poco? Il Veneto è sempre stato considerato terra di emigrazione quando invece è la terza realtà italiana per Pil. Ciò ha influito negli anni sulla composizione delle tabelle organiche. La conseguenza è che il numero dei magistrati attualmente in servizio non è assolutamente adeguato al numero dei procedimenti. I vostri organici sono sottodimensionati? Certamente. Non sono parametrati agli effettivi carichi di lavoro. Se facciamo un confronto con il numero delle sopravvenienze degli altri distretti, dovremmo avere 33 consiglieri in più rispetto a Milano e addirittura 77 rispetto a Trento. Noi magistrati siamo spesso portati a lamentarci, ma in questo caso il dato è oggettivo. A me piace ragionare con i numeri alla mano. E vorrei anche ricordare che abbiamo molti processi importati. Penso a quelli sulle banche, estremamente impegnativi e delicati, e di cui stiamo già gestendo i reclami in materia fallimentare. Cosa succederà quando fra un anno entrerà in vigore la riforma Bonafede che bloccherà la prescrizione dopo la sentenza di primo grado? Si fermerà tutto. È una riforma che si innesta su un sistema che non funziona. Con i numeri attuali non riusciremo ad incrementare il numero delle udienze in Corte. Può farci degli esempi? Oggi, 1.500 procedimenti si definiscono per prescrizione in udienza predibattimentale. La prescrizione funziona come una “scopa”. Ha la stessa funzione che aveva un tempo l’amnistia. Con il blocco della prescrizione tutti questi procedimenti dovranno essere definiti in dibattimento. La riforma Bonafede scatterà nel 2020, c’è tempo per fare aggiustamenti… I tempi della macchina della giustizia sono lenti. Bisogna partire subito. Il recente concorso per la Sezione lavoro è andato deserto. Perché nessun magistrato vuole venire in Veneto? La difficoltà di coprire i posti si spiega in diversi modi. I magistrati hanno anche una loro vita privata e, dovendo scegliere, preferiscono andare dove ci sono minori carichi di lavoro. Penso alle sedi di Brescia, Trento o Trieste. Un consigliere della Corte d’Appello di Venezia si trova sul ruolo 528 procedimenti su una media di altri uffici di circa 300. Questi numeri non rendono certamente appetibile la nostra sede. E poi c’è anche la difficoltà oggettiva di lavorare a Venezia. L’idea del trasporto su acqua spaventa? Sì, chi non è abituato. E poi c’è il costo della vita. Il sindaco di Venezia infatti metterà a breve a disposizione degli alloggi a canone concordato. Anche per il personale amministrativo? Certo. Il problema è particolarmente sentito proprio per il personale amministrativo. Occorrono concorsi regionali. Non è pensabile che un assistente sia retribuito a Venezia come in un paesino del Sud. Il costo della vita qui è altissimo. La tendenza è dunque quella di avvicinarsi a casa per chi non è Veneto. È comprensibile, soprattutto se si hanno figli piccoli. Se poi il dipendente ottiene un distacco rimane in pianta organica senza che lo si possa utilizzare. Scontate ancora gli effetti dell’abbassamento dell’età pensionabile per i magistrati voluto dal governo Renzi? È un problema di funzionalità della giustizia. La professionalità si acquista con gli anni. Non si risolve assumendo i giovani e basta. Serve un affiancamento. Soluzioni? Sincronizzazione degli ingressi e delle uscite. Adesso, invece, se un magistrato viene trasferito, il successore arriva dopo un anno. Ciò significa che il ruolo nel frattempo viene smembrato, con tutte le conseguenze del caso. L’ obiezione è che con questo sistema si lede il diritto del collega al trasferimento. Ma è sufficiente mettere regole chiare fin dall’inizio. Se il sistema non ti piace, non fai il concorso per magistrato. La giustizia è un fattore importantissimo per il Paese. Fare il presidente non è facile…. Il Csm ripete sempre che il capo dell’ufficio deve essere anche un manager. Ma il manager ha potere di spesa e di gestione effettiva delle risorse umane. Io non posso decidere nulla. Ed è difficile fare delle proiezioni efficaci se non si ha contezza effettiva di quante risorse si avranno a disposizione. Intercettazioni in tempi lunghi. La riforma slitta di quattro mesi al 1° agosto 2019 di Claudia Morelli Italia Oggi, 4 gennaio 2019 Intercettazioni, tempi lunghi per l’entrata in vigore della riforma “Orlando”, che slitta dal 31 marzo al 1° agosto 2019. Assunzioni di personale amministrativo nella giustizia e proroga della “vecchia” disciplina per la iscrizione di avvocati nell’Albo delle giurisdizioni superiori. Incremento del fondo per le vittime della violenza domestica. Sono i capitoli principali in materia di giustizia che sono toccati dalla legge di Bilancio 2019 (145/2018). Intercettazioni: riforma ad agosto 2019. Con una modifica introdotta con il maxi emendamento in Senato (articolo 1, comma 1139, lettera a), il Governo ha deciso di rimandare l’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni telefoniche disposta dal decreto legislativo n. 216 del 2017 in attuazione della cosiddetta riforma Orlando, la legge 103 del 2017 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario). La proroga riguarda pressoché tutte le novità della riforma eccezion fatta per l’inserimento nel codice penale del delitto di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente e per la semplificazione dei presupposti per disporre le intercettazioni nei procedimenti per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, quando tali reati siano puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a 5 anni. In questi casi si deroga ai presupposti dell’art. 267 c.p.p. e l’intercettazione può essere disposta in presenza di sufficienti indizi di reato e se necessaria (non assolutamente indispensabile). Le due disposizioni sono già in vigore dal 26 gennaio 2018. Per il resto, la riforma entrerà in vigore per le intercettazioni disposte a partire dal 1° agosto del 2019, ad iniziare dalla stretta sui contenuti pubblicabili nella ordinanza di custodia cautelare, che la riforma Orlando circoscrive ai soli “brani essenziali delle conversazioni intercettate” e “solo quando gli stessi siano necessari per esporre le esigenze cautelari o gli indizi”. E non solo. Oggetto della proroga sono gli articoli 2, 3,4, 5 e 7 della riforma. In estrema sintesi ricordiamo cosa prevedono: divieto di trascrizione anche sommaria delle comunicazioni dei difensori nei colloqui con l’assistito; divieto di trascrizione di comunicazioni non penalmente rilevanti o contenenti dati sensibili ma con obbligo di annotazione, anche sommaria, affinché il Pm possa, eventualmente, compiere valutazioni diverse; in relazione alla procedura di selezione delle intercettazioni, disciplina della fase del deposito dei verbali e delle registrazioni, con la possibilità offerta alle parti di prenderne cognizione, e la fase dell’acquisizione del materiale intercettato al fascicolo delle indagini; facoltà riconosciuta ai difensori di ottenere la trasposizione su supporto informatico delle registrazioni acquisite al fascicolo, e copia dei verbali delle operazioni; trascrizione delle intercettazioni effettuata all’apertura del dibattimento e non più al termine dell’udienza di stralcio, con conseguente facoltà delle parti di estrarre copia delle intercettazioni; conservazione nell’archivio riservato tenuto presso l’ufficio del Pm e copertura da segreto per le intercettazioni non acquisite al fascicolo e disciplina di accesso e ascolto; disposizioni in tema di contenuti della ordinanza cautelare; la nuova disciplina delle intercettazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili (c.d. trojan). Al riguardo si segnala che per questo specifico aspetto, la riforma è stata parzialmente modificata dalla legge spazza-corrotti che ha ampliato l’utilizzo dei trojan nei casi di reati contro la p.a. Efficienza della Giustizia. Gli interventi proposti nel settore della giustizia mirano nel complesso al miglioramento dell’efficienza dell’amministrazione giudiziaria e riguardano essenzialmente il personale, perseguendo l’obiettivo della copertura e dell’ampliamento delle piante organiche nonché della riqualificazione del personale in servizio. Con riferimento agli interventi sul personale, il Ministero della giustizia è, infatti, autorizzato ad assumere a tempo indeterminato, per il triennio 2019- 2021un numero massimo di 3.000 unità di personale amministrativo non dirigenziale, 35 dirigenti di istituto penitenziario, 7 direttori di istituti penitenziari minorili. Assunzioni nel 2019 anche di magistrati ordinari vincitori del concorso già bandito alla data di entrata in vigore della legge di Bilancio. L’organico della magistratura ordinaria viene aumentato di 600 unità e il Ministero della giustizia è, nel contempo, autorizzato a bandire annualmente, nel triennio 2019-2021, un concorso annuale per un massimo di 200 posti. Con particolare riguardo alla riqualificazione di personale dell’amministrazione giudiziaria, viene rideterminata l’autorizzazione di spesa destinata a sostenere tale processo, con risorse a valere sul fondo per l’efficientamento del sistema giudiziario È inoltre autorizzata l’assunzione per il triennio 2019-2021di Consiglieri di Stato e Referendari dei Tribunali amministrativi regionali (20 Referendari di Tar e di 12 Consiglieri di Stato), in aggiunta alle vigenti facoltà assunzionali nonché di un massimo di 26 unità di personale amministrativo nel triennio 2019-2021; di un contingente di personale amministrativo presso l’Avvocatura Generale dello Stato pari a 91 unità nonché l’ampliamento dell’organico di 10 unità, rispettivamente, degli Avvocati e dei Procuratori dello Stato. È inoltre autorizzato l’ampliamento delle dotazioni organiche dei referendari della Corte dei Conti, senza indicare il numero delle assunzioni ma fissando un tetto massimo di spesa. Inoltre, si segnala l’autorizzazione di specifiche assunzioni nel Corpo di Polizia penitenziaria, al fine di incrementare l’efficienza degli istituti penitenziari, nonché per le necessità di prevenzione e contrasto della diffusione dell’ideologia di matrice terroristica in ambito carcerario. Meno fondi per la riforma penale. Sono ampliate le finalità del Fondo per l’attuazione della riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario (istituito con la legge di Bilancio 2018). Tali finalità sono infatti estese agli interventi urgenti destinati alla funzionalità delle strutture e dei servizi penitenziari e minorili. Tale Fondo, in base ad un intervento nella Sez. II del Bilancio, risulta tuttavia, per il 2019, definanziato di 10 milioni di euro. Analogo definanziamento di 10 milioni di euro riguarda il 2010 e il 2021. Fondo per le vittime di violenza domestica. Modificata la disciplina dell’indennizzo in favore delle vittime dei reati intenzionali violenti. In particolare si incrementa il Fondo di 10 milioni annui a partire dal 2019. Inoltre sono apportate una serie di modifiche alla legge n. 122 del 2016, in merito alla disciplina del diritto all’indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti con particolare riguardo alla platea degli aventi diritto in caso di morte della vittima in conseguenza di reato; alle condizioni per l’accesso; alla riapertura e alla proroga, alla data del 30 settembre 2019, dei termini per la presentazione della domanda per la concessione dell’indennizzo. Nel corso dell’esame in Senato, la dotazione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti, nonché agli orfani per crimini domestici è stata incrementata di 5 milioni di euro, a decorrere dal 2019. La legge di Bilancio modifica la disciplina della legge 890 del 1982 sulla notificazione postale degli atti giudiziari (introdotta dalla legge di Bilancio dello scorso anno) dettando alcune disposizioni di semplificazione ed allungando alcuni termini. Proroghe e avvocati cassazionisti. Oltre a quella già esaminata, ricordiamo tra le altre quella di un ulteriore anno della disciplina transitoria che consente l’iscrizione all’albo per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori a coloro che siano in possesso dei requisiti previsti prima dell’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento professionale forense (legge 247/2012). In pratica, ancora fino al 2 febbraio 2020 sarà possibile iscriversi se in possesso dei “vecchi” requisiti: anzianità di iscrizione all’albo ordinario di 12 anni; oppure anzianità di iscrizione di 5 anni e superamento di un esame. In pratica, la disposizione proroga ulteriormente la vigenza della disciplina transitoria, fino al settimo anno successivo alla riforma forense. Cassazione, al 41bis i divieti devono essere motivati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 gennaio 2019 Accolto il ricorso contro il trattenimento di una lettera con un vaglia postale. Il pericolo del collegamento con la criminalità organizzata deve essere concreto per rigettare un reclamo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento con rinvio numero 4413 del 2018. A dire il vero è stata già la Corte Costituzionale che, con numerose decisioni, ha a suo tempo chiarito che il regime del 41bis non è costituzionalmente illegittimo solo nella misura in cui viene interpretato nella piena sindacabilità del Tribunale di Sorveglianza, adito con reclamo, e nella valutazione caso per caso. Sentenze che a suo tempo recepì per primo l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, quando decise - facendo, appunto, singole valutazioni - di non prorogare nel 1993 il 41bis a 334 detenuti. La Cassazione con questa pronuncia, accoglie il ricorso e rinvia al Tribunale di Sorveglianza per un riesame, ritenendo fondata la doglianza sull’assenza di motivazione. Scrive la Corte che il Tribunale dovrà provvedere “dando conto delle determinazioni assunte, con adeguata e specifica motivazione”. Ha infatti osservato che, il Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila - nel rigettare il reclamo contro il trattenimento della missiva contente un vaglia postale, indirizzato ad una detenuta in regime di 41bis ritenendo che la missiva agevolasse il pericolo del mantenimento del collegamento con l’organizzazione criminale esterna non aveva fornito alcuna motivazione in merito alla “concretezza del paventato pericolo”, mancando ad esempio di indicare la somma oggetto del vaglia e la specifica provenienza dello stesso, così che la prospettazione del pericolo rimanesse “una mera asserzione astratta”, priva dei necessari ancoraggi alla situazione posta in esame. Ancora una volta la Cassazione si impone al Giudice di merito, perché argomenti nel concreto la paventata sussistenza del collegamento con la criminalità organizzata, come motivo di rigetto alla fruizione dei diritti fondamentali. Solo la concretezza e attualità del collegamento per la Corte giustificano il rigetto: diversamente la Corte impone al Tribunale di motivare nel concreto le sue determinazioni. In effetti non esiste scritto nessun divieto in tal senso. La Circolare 3676/6126 del ministero della Giustizia del 2/10/2017 era intervenuta ordinando una disciplina di dettaglio con riferimento all’istituto del carcere duro ed in particolar modo al contenuto di tale istituto, con l’intento di uniformare le regole per tutti i penitenziari che ospitano le sezioni del 41bis. E tra le regole, c’è scritto nero su bianco che sono previste limitazioni a somme, beni ed oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno: è vietata la spedizione e ricezione di denaro e valori all’interno della corrispondenza ordinaria, però i detenuti possono ricevere denaro solo in occasione dei colloqui visivi o tramite, appunto, un vaglia postale. Ed è questo il motivo per il quale la detenuta al 41bis ha fatto ricorso. A proposito delle corrispondenze al 41bis giova però ricordare un’altra sentenza della Cassazione, quella n. 28309 del 5 aprile 2018, che aveva ritenuto legittimo il trattenimento di una missiva indirizzata dal detenuto ad una congiunta, precisando che “è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti”. Nel caso concreto “aveva chiesto a B. di inviare una somma di euro 200 al proprio legale per la iscrizione al Partito Radicale; in realtà era quasi certo che la somma fosse indirizzata a sostenere l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in aggiramento del divieto imposto da una circolare del Dap”. I supremi giudici avevano respinto il ricorso perché, come appunto ribadito, è “dettata da ragioni di sicurezza e di ordine nelle carceri in aderenza a quanto permesso dall’ordinamento penitenziario”. Per Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino si è trattata di una “sentenza inaudita e senza precedenti, che dice l’opposto di quel che siamo e che nega tutto ciò che abbiamo fatto in questi anni”. Le Authority fuori dal giusto processo di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2019 Cassazione, sentenza 4/2019. Le authority sono “organi giustiziali” - e non invece “organi di giustizia in senso proprio” - che non rispondono alle regole del giusto processo, prevedono un contraddittorio incapsulato nelle forma scritta, e dentro cui il diritto di difesa si limita alla possibilità di controdedurre. La Seconda sezione civile della Cassazione (sentenza 4/19, depositata ieri) torna ancora una volta a delimitare il campo delle sanzioni amministrative - in questo caso Consob - per tamponare l’effetto “Grande Stevens” sui procedimenti afflittivi non penali. Il caso riguarda l’ex amministratore delegato e vicepresidente di Adenium Sgr, a cui la Commissione di Borsa aveva inflitto 65.500 euro di sanzione pecuniaria per aver esposto la società a “rischi strategici, legali e reputazionali derivanti dal dissesto della società controllante Sopaf spa” (coinvolta a sua volta nell’inchiesta sulle truffe alla casse previdenziali). La Seconda civile ha respinto tutti i nove motivi del ricorso di Andrea Toschi, riaffermando ancora una volta le peculiarità del rito. Che non è penale né para/penale, che prevede sì una fase giurisdizionale ma solo come impugnazione piena e libera (scelta operata dal legislatore italiano, a differenza di altri paesi Ue), e che pertanto si muove su quel terreno spurio che “non è amministrazione attiva ma funzione ibrida d’alta verifica, controllo, vigilanza e indirizzo alla quale viene associata quella sanzionatoria”. Da qui segue il lungo corollario sul funzionamento dell’istruttoria, che ha in sostanza forma libera sia nei rapporti interni tra gli organi vigilanti e i vari servizi, sia nella motivazione finale del provvedimento - che deve solo essere coerente ed esaustiva, sviluppabile anche per relationem purché la parte interessata abbia accesso anche a tali documenti eventuali. Nella articolata motivazione la Corte torna ancora sul termine di adozione della decisione (240 giorni che però non tengono conto della notifica, che è una fase ulteriore) e sulla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (articolo 112 del Codice di procedura civile) che è soddisfatta, scrive il relatore, se il giudice mostra di aver preso in considerazione le deduzioni e risponda alle stesse” senza doverle affrontare analiticamente e in scaletta. Per non dire del lamentato difetto assoluto di motivazione, che la Cassazione ha invece punito, al contrario, con la condanna alle spese di giudizio dello stesso ricorrente. Ciclista ubriaco: reato per guida in stato d’ebbrezza ma niente sospensione della patente di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 3 dicembre 2018 n. 54032. I Giudici della quarta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 54032 del 3 dicembre 2018 hanno confermato la condanna a un ciclista per guida in stato di ebbrezza, ma ritengono che non vada applicata la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida. Il caso. Nella vicenda viene contestato a un ciclista la circolazione con una bicicletta mentre è in stato di ebbrezza. Avverso il verbale di contestazione il ciclista propone ricorso davanti al Tribunale di Brescia che, con sentenza di patteggiamento, gli applica la pena di giustizia per il reato di cui all’articolo 186, comma secondo, lettera b) e 2-bis del codice della strada e la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida per la durata di un anno. Anche avverso tale decisione il ciclista propone ricorso per cassazione lamentando violazione ed erronea applicazione di legge in relazione all’articolo 186, in quanto il giudicante avrebbe disposto l’applicazione della sanzione accessoria della sospensione della patente di guida nonostante la violazione fosse stata commessa alla guida di una bicicletta mezzo per la cui conduzione non è previsto il rilascio di alcuna abilitazione di guida. La decisione. Gli Ermellini ritengono il ricorso fondato e lo accolgono in quanto il reato di guida in stato di ebbrezza può concretizzarsi anche circolando in bicicletta, in considerazione della concreta idoneità del mezzo usato a interferire sulle generali condizioni di regolarità e di sicurezza della circolazione stradale. Tuttavia costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, applicabile in relazione a illeciti posti in essere con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, non possa essere disposta nei confronti di chi si sia posto alla guida di un veicolo per cui non è richiesta alcuna abilitazione, come una bicicletta. Nel caso de quo poiché il fatto è stato commesso alla guida di tale mezzo, per il quale non è richiesto alcun titolo abilitativo, il giudice del Tribunale ha erroneamente applicato la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida. Ergo provvedimento consequenziale all’accoglimento del ricorso è quello di annullare, senza rinvio, ex articolo 620, primo comma, lettera l) codice di procedura penale la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida che consente di adottare i provvedimenti necessari quando sia ritenuto superfluo il rinvio. Sequestro: deroga alla sospensione feriale vale anche per reati tributari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 3 gennaio 2019 n. 146. La deroga alla sospensione del periodo feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per criminalità organizzata, che riguarda anche le procedure incidentali sulle misure cautelari reali, si deve applicare anche ai sequestri per reati tributari se commessi nell’ambito previsto dalla norma. Partendo da questo principio la Cassazione (sentenza 146) dichiara l’inefficacia del sequestro preventivo disposto nei confronti dell’indagato per reati tributari, commessi però all’interno di un’associazione a delinquere nella quale svolgeva il ruolo di promotore. La Suprema corte accoglie il ricorso contro il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta dei beni delle società convolte fino a circa 15 milioni di euro, corrispondenti all’imposta evasa, e in caso di mancato reperimento o di provvista inferiore ai fini della confisca per equivalente nei confronti degli indagati. Un provvedimento che il ricorrente contesta per la mancata decisione del Tribunale nel termine perentorio dei 10 giorni dalla ricezione degli atti. Ad avviso della difesa il giudice pur riconoscendo il principio sulla deroga alla sospensione aveva ritenuto di non applicarlo nel caso specifico in cui, anche se il procedimento era relativo a un reato di criminalità organizzata, il sequestro era stato disposto solo ed esclusivamente per i reati tributari. Pertanto era lecita la sospensione feriale e la decisione perentoria. Di parere diverso la Cassazione che precisa il ruolo svolto dal ricorrente all’interno dell’associazione e sottolinea che lo stesso provvedimento impugnato qualifica gli illeciti tributari come reati-fine dell’associazione per delinquere. Non a caso il provvedimento di sequestro era unito all’ordinanza di custodia cautelare imposta all’indagato. Il decreto di sequestro non è dunque efficace perché non tempestivo Veneto: politica e magistratura si alleano “giustizia maltrattata, intervenite” di Martina Zambon Corriere del Veneto, 4 gennaio 2019 Caso organici: governatore, procuratore generale e presidente di Corte d’Appello chiamano Roma. Politica e magistratura alleate per ammonire lo Stato centrale: la giustizia veneta è trascurata da decenni, per dirla con Ines Maria Luisa Marini, presidente della Corte d’Appello di Venezia. Tutti i dati - Dati alla mano, il governatore Luca Zaia, la presidente Marini e il Procuratore generale del capoluogo lagunare, Antonio Mura, accendono i riflettori una volta di più sulla situazione insostenibile del “sistema giustizia” regionale. Lo fanno, però, supportati da un corposo studio. I “dati”, infatti, sono messi in fila dal Centro studi della Cgia di Mestre su richiesta della Regione e il quadro che ne esce è quanto meno preoccupante. Praticamente tutti gli indicatori corroborano la tesi di un drastico sottodimensionamento dell’organico della giustizia veneta. In breve: mancano magistrati, manca il personale amministrativo, manca persino un responsabile statistico, come ricorda Mura, perché il più vicino è a Brescia. Per citare un numero fra i tanti, la Corte d’appello di Venezia è quinta in Italia per numero di “pendenze”, di procedimenti in corso, ma è anche la prima fra le Corti del Nord per aumento di “sopravvenuti”, vale a dire per nuove cause. A fronte di tutto ciò, però, è letteralmente ultima in Italia per numero di magistrati in rapporto al numero di abitanti. Il dato, macroscopico, si spiega facilmente. “Le piante organiche risalgono a decenni fa, quando il Veneto era terra di emigrazione - spiega la dottoressa Marini - ora è una regione vivace, economicamente e turisticamente avanzata, completamente diversa”. Disparità di trattamento fra regioni - Nonostante la contenuta boccata d’ossigeno dei nuovi magistrati concessi un paio d’anni fa dal ministero della Giustizia, i conti ancora non tornano. In quell’occasione il Veneto se n’è visti riconoscere 5 e la Lombardia 3. Peccato che il Veneto, per “giocare ad armi pari” con la Lombardia dovrebbe ottenerne 33. Che c’entra palazzo Ferro Fini con i chiari di luna d’organico alla Cittadella della Giustizia di Piazzale Roma? Secondo Zaia c’entra eccome perché una giustizia “ingolfata” scoraggia l’economia, a partire dagli investimenti. E poi perché la lunga guerra di trincea dell’autonomia, su cui il governatore scommette tutto, procede anche secondo tanti piccoli tasselli concreti, puntuali secondo lo stile di Zaia. Commissionare uno studio che mette a nudo la patente disparità di trattamento del sistema giustizia regionale rispetto anche solo ad altre regioni del Nord è una mossa che pare adattarsi a pennello al pressing scientifico e insistito su quel governo amico che ancora nicchia. Certo, fra le 23 materie richieste dal Veneto la giustizia compare alla voce “giudici di pace” ma il governatore conferma: “Stiamo lavorando anche su questo fronte”. “Autonomia giudiziaria” - La fame di autonomia cresce, anche fra le toghe. O, quanto meno, si salda un asse inedito fra palazzi regionali e aule giudiziarie. “Adesso abbiamo la forza dei numeri - ringrazia Marini - ma anche quella del territorio. La nostra non è una protesta generica, sterile. Questo studio dà corpo e voce al nostro grido di dolore”. Che la situazione sia critica è confermato anche dal procuratore Mura che parla di “carico di lavoro schiacciante” e ricorda come Procura e Corte d’appello siano vasi comunicanti: sanare la carenza d’organico dell’uno senza farlo anche per l’altro, creerebbe un “collo di bottiglia”. Zaia, che a fine mese parteciperà all’inaugurazione dell’anno giudiziario spiega: “Il lavoro che abbiamo messo in campo non è contro nessuno ma per noi magistratura e tribunali che funzionano significano anche competitività. Questa è ancora trattata come periferia dell’impero, ci hanno maltrattato per anni, adesso però basta. Consegneremo lo studio a ministero, stakeholder e a tutti i parlamentari”. Veneto: ultima in Italia per magistrati e penultima per “amministrativi” di Martina Zambon Corriere del Veneto, 4 gennaio 2019 Tu chiamali, se vuoi, “arretrati”. Alla Corte d’appello di Venezia ogni magistrato del distretto si porta dietro, un fardello di 529 giudizi pendenti. Un dato che è fra i più elevati d’Italia e la media, infatti, è 439 ma a Trento, per dire, si inabissa a 67, record nazionale. La radiografia scattata dal Centro studi della Cgia è impietosa. Se l’annosa questione degli spazi è stata faticosamente risolta con la realizzazione della Cittadella della giustizia in piazzale Roma, tutte le altre voci riportano un segno negativo. Sotto organico somiglia a un eufemismo perché i “buchi” fra magistrati e personale amministrativo sono difficili da ignorare. Lo stato di sofferenza della giustizia in Veneto cresce del 3,6% (negli ultimi cinque anni) a fronte di un calo medio annuale stimato del -3,2% per il sistema Paese. Basterebbe già questo per dare la misura della difficoltà quotidiana di sopravvivere ai faldoni che si accumulano. Eppure la buona volontà e i sudatissimi risultati sono attestati dal calo di giudizi pendenti (i procedimenti chiusi sono stati più di 10.500 nel 2017), i “sopravvenuti” (nuovi procedimenti) crescono però troppo velocemente del 28%, praticamente il doppio del resto dell’Italia. La ricerca della Cgia si cimenta in un esercizio matematico: solo per smaltire l’arretrato la Corte dovrebbe lavorare per oltre due anni in assenza di nuovi procedimenti. L’aspetto forse più inedito del dossier, però, attiene alla sfera economica. Tutti gli indicatori, ormai, concordano nel dire che l’aspettativa di giustizia porta ad investire se questa funziona. Dai numeri emerge che la Corte d’appello di Venezia ha 1,1 magistrato ogni 100 mila abitanti, fanalino di coda in tutto il Paese. La “solita” Trento ne ha più del doppio (2,6) per arrivare all’estremo opposto dello Stivale: a Reggio Calabria ci sono 6,2 magistrati per lo stesso numero di abitanti. Eppure la Corte d’appello veneziana è la terza in Italia per popolazione di riferimento. I conti, riga dopo riga, non tornano. Men che meno alla voce “personale amministrativo”, categoria tutt’altro che accessoria per il funzionamento dei tribunali. Venezia è penultima con 2,4 persone ogni 100 mia abitanti. Anche qui Reggio Calabria con 16,9 è in cima alla classifica ma pure Trento si piazza bene con il 9,4. Ultimo posto anche nella classifica che mette in rapporto il numero di magistrati della Procura con gli abitanti. Qui la Cgia, però, ha ristretto il campo comparando la Procura lagunare con altre omogenee del Nord Italia. Il risultato, però, non cambia, insieme a Bologna è la più sottodimensionata. Infine, il Veneto appare pesantemente penalizzato anche considerando diversi indicatori: imprese, numero di occupati, valore aggiunto, export e presenze turistiche. Tutti elementi con valori molto alti in regione e che contribuiscono a far lievitare la “domanda di giustizia potenziale” a cui, però, corrisponde un divario eclatante sulla dotazione organica della giustizia. “Per poter uscire dall’emergenza - spiega la presidente della Corte d’appello di Venezia Ines Maria Luisa Marini - servirebbero almeno sette magistrati”. Nel dossier della Cgia si sottolinea che “i parametri considerati testimoniano l’elevata dinamicità socio-economica del Veneto (che corrisponde all’ambito d’azione della Corte d’appello di Venezia). Lo studio si conclude mettendo in relazione ogni indicatore con il numero di magistrati. E allora Trento (sempre Trento come osserva con un’alzata di sopracciglio il governatore Luca Zaia) più di 30 magistrati ogni 100 mila imprese attive, il Veneto ne ha 12, 0,8 magistrati per ogni miliardo di euro di valore aggiunto, il doppio del Veneto e 4,6 magistrati per ogni miliardo di export, il Veneto si ferma a 0,8. Per non parlare del turismo. Milano ha quasi 5 magistrati ogni milione di presenze turistiche, il Veneto, anche qui, è buon ultimo con 0,7. Aosta: rivolta nel carcere di Brissogne, detenuti barricati per ore di Andrea Chatrian La Stampa, 4 gennaio 2019 Per quasi sei ore un gruppo formato da una quindicina di detenuti stranieri ha tenuto in ostaggio l’intera sezione A al 2° piano del carcere di Brissogne. È iniziato tutto alle 11, quando un detenuto in attesa di essere espulso dall’Italia ha scoperto che avrebbe lasciato il Paese il 7 gennaio anziché il 6, come era previsto in un primo momento. La sua protesta è stata la scintilla che ha incendiato gli animi. Altri detenuti hanno così infilato nelle serrature dei due cancelli della sezione - quello d’ingresso e quello che porta ai passeggi - dei sacchetti di plastica. Poi, usando un accendino con cui hanno dato fuoco al gas di una bomboletta spray, li hanno fusi bloccando le serrature. E hanno intimato agli agenti di non provare a forzare il blocco. “Abbiamo lame e siamo pronti a fare esplodere le bombolette del gas” presenti nelle celle. Gli agenti - una cinquantina, considerati anche quelli che sono stati richiamati da servizi esterni - hanno presidiato la sezione mentre Giorgio Leggieri, direttore del carcere Morandi di Saluzzo inviato sul posto dal ministero (dal momento che Brissogne non ha nessuno al comando) cominciava una trattativa. Che si è conclusa intorno alle 17, quando i detenuti sono rientrati nelle celle e i pompieri hanno potuto sbloccare le serrature. “Era una cosa grossa, organizzata - dice un agente con lunga esperienza alle spalle -. La faccenda dell’espulsione secondo me è stata solo un pretesto. I detenuti sanno che lo Stato non c’è, che non abbiamo un direttore, e se ne approfittano. Negli ultimi tempi ci sono stati un po’ di casini, ma così no”. Per il sindacato Osapp “quest’ultimo episodio deve far riflettere il Governo sulle condizioni critiche e senza ritorno del sistema penitenziario” e in particolare del carcere di Brissogne “da anni privo di direttore e comandante”. Lucca: la figlia del detenuto morto “non c’è giustizia” luccaindiretta.it, 4 gennaio 2019 “Mi rattrista che un uomo malato solo perché ha commesso degli errori debba essere lasciato senza cure”. È uno sfogo doloroso quello che Michelle affida ad un toccante post su Facebook. La figlia di Massimo Tamagnini, il 55enne originario della Garfagnana ma che da tempo risiedeva a Lucca, morto dopo un malore nel carcere San Giorgio dove era detenuto, si dice “arrabbiatissima”. “Mi rattrista a 19 anni avere la consapevolezza che l’Italia non funziona, avere la consapevolezza che le ingiustizie non vengono pagate, avere la consapevolezza che il posto dove io sono nata non possa essere all’altezza delle mie aspettative - scrive la giovane su Facebook -. Mi rattrista che un uomo malato solo perché ha commesso degli errori debba essere lasciato senza cure, mi rattrista che io debba perdere a 19 anni mio padre e continuare la mia vita senza di lui sapendo che quando lui aveva bisogno di qualcuno che non c’è stato”. Michelle continua ad essere decisa a fare luce su quanto accaduto al padre. Un’inchiesta è stata aperta dalla procura: “Ma non sappiamo più niente”, ammette. “Sono arrabbiata - scrive ancora su Facebook. Anzi arrabbiatissima che qualcuno abbia dovuto rovinare la mia vita perché quel giorno o quegli anni non ha voluto fare il suo dovere. Mi rattrista che tutte le persone a cui io voglio bene adesso stiano male perché c’è stato portato via un pezzo della nostra vita. Mi rattrista che questo mondo debba essere così crudele e mi rattristerà quando vedrò che per mio papà non ci sarà stata giustizia perché sono sicura che chi ha più potere vincerà come è sempre successo. Sono sicura che a mio padre non verrà fatta nessuna giustizia. Sono sicura che a chiunque succederà quello che è successo a lui purtroppo non verrà dato indietro niente. Mi rattristerà quando vedrò che questa storia non sarà più considerata da nessuno”. Santa Maria Capua Vetere (Ce): denuncia dei Radicali “in carcere manca anche l’acqua” di Angelo Giuliani ottopagine.it, 4 gennaio 2019 Il 2019 dei Radicali per il Mezzogiorno europeo si è aperto il 3 gennaio con una visita nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere. Visita che ha concluso un ciclo aperto da quelle nelle carceri di Nisida (minorile) e di Arienzo il 21 e il 22 dicembre scorsi. Se nei primi due casi le luci superavano le ombre, a Santa Maria Capua Vetere i Radicali (delegazione guidata dall’avvocato Raffaele Minieri, promotore delle tre visite) hanno trovato una situazione ben diversa. Sia i detenuti che gli agenti penitenziari hanno rivelato diverse criticità, dalla mancanza di lavoro e di modi per passare il tempo in carcere fino alla cronica carenza d’acqua, la pianta organica della polizia penitenziaria e perfino recriminazioni sulla mancanza di divise invernali. Procedendo con ordine, partiamo dai numeri di Santa Maria Capua Vetere: i detenuti al momento sono 938 di cui 57 donne. La capienza regolamentare del penitenziario è di 880 detenuti, dunque al momento vige un leggero sovraffollamento. Sono presenti sia detenuti di alta sicurezza (tra cui tutte le 57 donne) che di media sicurezza, i cosiddetti “comuni”. Solo 14 detenuti sono in articolo 21 (lavoro esterno) e 19 sono i semiliberi. Gli stranieri sono circa il 10% della popolazione detenuta di Santa Maria. Tra i progetti attivi nella struttura, al momento figurano la sartoria che impiega dieci detenuti maschi per la produzione di pantaloni e camicie mentre altri sei o sette saranno implementati per la produzione di zaini. Anche nel reparto femminile è in funzione la sartoria per la produzione di borse e accessori, in collaborazione con la cooperativa Le Lazzarelle, la stessa che opera nel carcere femminile di Pozzuoli dove produce caffè. È inoltre partito un progetto legato al mondo della pasticceria ma in generale le occasioni di lavoro e di impiego costruttivo del tempo per i detenuti, sono ridotte all’osso. In particolare per i quasi mille maschi di cui solo una minima parte lavora, mentre va meglio per le donne che sono comunque in numero decisamente minore. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere è tristemente noto per la cronica carenza d’acqua. La direttrice, dottoressa Elisabetta Palmieri, ha spiegato alla delegazione radicale che è stato presentato il progetto per l’allaccio all’acquedotto comunale ma anche che occorrerà attendere almeno un altro anno prima che ciò avvenga. La Regione ha già stanziato due milioni di euro, fondi necessari affinché il Comune di Santa Maria Capua Vetere possa completare l’opera, attesa ormai da anni. Al momento il carcere è servito da autocisterne per le cucine, pozzi artesiani e acqua minerale che viene quotidianamente fornita ai detenuti. Questi hanno raccontato ai Radicali che perfino fare la doccia nel carcere di Santa Maria non basta per sentirsi puliti. L’acqua ha un colore strano, tra il marrone e l’arancione e secondo un detenuto sarebbe la causa di alcune macchie che ha mostrato all’altezza della caviglia mentre per altri genera pruriti e gli asciugamani andrebbero buttati via ogni volta che si utilizzano perché si macchiano con lo strano colore dell’acqua. Da un punto di vista sanitario, la struttura ospita diversi specialisti tra cui due dentisti, un cardiologo, un oculista, un diabetologo e altri medici al servizio dei detenuti ma tra questi non manca chi denuncia lunghe attese per una medicina, come un ristretto al reparto Tevere che attende da sette mesi un farmaco per la psoriasi. Dal carcere tuttavia lamentano la mancanza di un reparto ospedaliero presso il San Sebastiano di Caserta, sullo stile del padiglione Palermo del Cardarelli di Napoli, riservato ai detenuti. I vertici della struttura hanno spiegato ai radicali che una soluzione analoga sarebbe possibile già: all’ospedale San Sebastiano vi è infatti un piccolo reparto da sei posti con tanto di sbarre e pronto all’uso, lasciato all’abbandono. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in luogo dei piantonamenti nelle corsie, chiede che quel reparto detentivo sia aperto e messo a disposizione per accogliere i detenuti bisognosi di ricovero. Sul fronte istruzione, ai detenuti si eroga scuola elementare, scuola media, liceo artistico e tecnico professionale in una struttura che, tuttavia, vede operativi appena quattro educatori. Non va meglio sul versante della polizia penitenziaria che lamenta una pianta organica solo formalmente rispettata (496 agenti su 470 di pianta organica) ma che celerebbe un sotto numero di almeno cento unità. I turni sono di otto ore e in certi casi ci si trova a controllare più zone del carcere (per la mancanza di agenti) per un lavoro che diventa massacrante. In più, a Santa Maria Capua Vetere non sono mai arrivate le divise invernali della penitenziaria. Gli agenti indossano quella che utilizzano anche nei mesi estivi. A Santa Maria ci sono sia detenuti in via definitiva che in attesa di giudizio in quella che è una casa circondariale. Ci sono tre reparti di Alta Sicurezza, due maschili e il femminile, oltre a due di media sicurezza. Le celle sono da due fino a cinque detenuti ma il vice comandante Roberta Maietta, commissario che ha accompagnato la delegazione, ha precisato che la sentenza Torregiani è rispettata. Tuttavia la maggior parte delle celle è sprovvista di docce in camera e i detenuti sono costretti a farla in docce in comune situate nei corridoi, con tutte le difficoltà connesse all’acqua sopra spiegate. I colloqui coi familiari sono quattro al mese più i premiali. Tuttavia anche per i colloqui sono stati esposti problemi da alcuni detenuti. A Santa Maria, infatti, anche i bimbi fino a dieci anni di età sono conteggiati tra i quattro familiari ammessi al colloquio, col risultato che chi ha più figli non riesce a vederli tutti nel corso dell’incontro. Ogni sezione (o piano) ospita 70 detenuti. La delegazione ha iniziato la sua visita recandosi nel reparto Volturno (tre piani, 210 ristretti) dove a differenza che negli altri padiglioni vige il regime delle celle aperte dalle 8 alle 20. Il Volturno ospita detenuti “comuni” condannati in via definitiva. L’area adibità alla socialità è molto grande, completa di angolo cucina, calcio balilla e perfino una Play Station. Al reparto Tevere, che ospita detenuti di Alta Sicurezza, i ristretti hanno lamentato il freddo (la visita si è svolta col termometro non così distante dallo zero) e gli orari troppo esigui in cui funzionano i riscaldamenti. Molti detenuti indossavano i loro giacconi durante la visita, svolta nelle ore pomeridiane. Oltre al freddo, non manca chi lamenta l’eccessiva severità degli agenti che scrivono rapporti anche per motivi ritenuti futili, né chi denuncia la totale assenza di attività tranne passeggio e socialità. I detenuti, di fatto, trascorrono la maggior parte della loro giornata chiusi in cella. Un detenuto ha infine chiosato che “viviamo come gli animali”. I Radicali si sono infine recati nel reparto femminile e anche qui le detenute hanno parlato della mancanza d’acqua potabile e della difficile convivenza coi numerosi insetti che infestano la struttura. Anche nel reparto donne ci si lamenta per il freddo e per gli orari dei termosifoni ma nel complesso la vita risulta migliore rispetto a quanto riscontrato nei reparti maschili. Santa Maria Capua Vetere si conferma ancora una volta un carcere con ampi margini di miglioramento alla luce di una visita che ha palesato decisamente più ombre che luci, a partire dalla questione dell’acqua in una struttura dove perfino l’aria è resa pesante e talvolta irrespirabile dai miasmi provenienti dal sito di San Tammaro dove si lavorano i rifiuti. A Santa Maria, insomma, non ci si fa mancare niente. Cuneo: nelle quattro carceri della Granda disagi, criticità e sovraffollamento di Matteo Borgetto La Stampa, 4 gennaio 2019 La denuncia arriva dai garanti dei detenuti. Monitoraggio della situazione ad Alba, Cuneo, Fossano e Saluzzo. La Granda ha un primato anche per le case di reclusione. È l’unica provincia ad averne quattro e anche l’unica ad aver nominato altrettanti garanti dei diritti e doveri dei detenuti. Il primo giorno dell’anno Alessandro Prandi (garante ad Alba), Mario Tretola (Cuneo), Bruna Chiotti (Saluzzo) e Rosanna Degiovanni (Fossano), hanno visitato le carceri di Alba, Cuneo e Saluzzo, evidenziando situazioni di disagio, criticità e sovraffollamento. In particolare al “Giuseppe Montalto” di Alba, chiuso a fine 2016 per un caso di legionella e riaperto parzialmente nel giugno 2017, dove a fronte di una capienza regolamentare di 142 detenuti, i posti attualmente disponibili sono 33, ma le presenze 46 con un tasso di affollamento del 139,4%. “Incertezza totale sulla riapertura completa - dice il garante Prandi -, mentre il decreto Semplificazione potrebbe causare tagli alle risorse stanziate dal precedente Governo e ridurre gli interventi previsti. Negli spazi, molto ristretti, è difficile portare avanti le attività di formazione e socialità, dedicare aree specifiche ai colloqui, allo studio e alle attività spirituali”. “Tensione diffusa” - Non va meglio al “Cerialdo” di Cuneo (295 detenuti per 288 posti). “Si percepisce una tensione diffusa tra i reparti - spiega Mario Tretola -, dove convivono 4 persone in ogni cella. Scarse disponibilità di lavoro, pochi riescono a essere impegnati. Il resto del tempo passa nell’ozio. Alta presenza di stranieri con condanne molto brevi, la maggior parte non riceve (per motivi di distanza) visite di parenti”. E auspica l’intervento di mediatori culturali, che collaborando con gli agenti di polizia penitenziaria “potrebbero creare un ambiente più sereno”. A Saluzzo nessun problema di sovraffollamento, ma “criticità logistiche - sottolinea Bruna Chiotti, anche se sono state fatte migliorie (ad esempio una cucina interna più funzionale e il campo da calcio). La grave carenza di personale educativo di fatto impedisce misure alternative”. Pur non avendo visitato la casa di reclusione di Fossano, i garanti hanno ribadito che “permangono le criticità già rimarcate nel 2018, in particolare la scarsità di spazi per la socializzazione e le attività, necessarie nell’ottica di una corretta e funzionale applicazione del regime detentivo di “sorveglianza dinamica”. Catania: il Csve conferma l’impegno tra i detenuti anche per il 2019 vdj.it, 4 gennaio 2019 Proseguirà anche nel 2019 l’azione “volontariato nell’area penale” del Centro di servizio per il volontariato etneo, che conferma così la sua azione a sostegno delle organizzazioni che operano nell’area penale: non solo le iniziative nelle carceri, ma anche le collaborazioni con l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) e Ussm (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni). Il primo appuntamento del nuovo progetto annuale - informa una nota stampa - si è svolto ieri, mercoledì 2 gennaio, in virtù di un’iniziativa di solidarietà organizzata dal Csve all’interno dell’Istituto Penitenziario Minorile di Bicocca, che ha visto la partecipazione di volontari appartenenti alle associazioni Amici di Librino, Clown Senza Frontiere, Fondazione Cirino La Rosa, Mani Tese Sicilia, Metacometa, Mettiamoci in Gioco. Nel corso della mattinata, gli operatori del Csve hanno messo a disposizione della Direzione del Carcere due completini da calcio che potranno essere utilizzati dai giovani detenuti e dai volontari delle Associazioni che periodicamente organizzano le partite nella struttura. Dopo la consegna, volontari e detenuti hanno indossato i completini e giocato una partita inframmezzata delle divertenti “incursioni” dei Clown Senza Frontiere. L’incontro ha anche offerto l’occasione alle associazioni per concordare con la direttrice del carcere, Maria Randazzo, i prossimi appuntamenti, costituiti da partite di calcio, laboratori di educazione ambientale, attività di animazione per i figli dei detenuti e spettacoli teatrali. “La partita è un’occasione di incontro iniziale nell’ambito di un’iniziativa che rientra nel progetto annuale previsto in continuità con gli anni passati - commenta il presidente del Csve, Salvo Raffa - a supporto di quelle associazioni che di fatto operano all’interno delle strutture carcerarie: anche nella programmazione il centro continuerà a mettere a disposizione risorse e mantenere come ambito privilegiato di collaborazione le reti di supporto che operano nelle carceri, attraverso quelle convenzioni relative alle pene alternative quali la messa alla prova e l’esecuzione penale esterna. Si tratta così - prosegue - di dare ai detenuti una possibilità di riscatto e reinserimento che come mondo del volontariato vogliamo continuare ad assicurare tanto all’interno quanto all’esterno delle strutture carcerarie per proseguire nella strada della giustizia di comunità”. Spoleto (Pg): dedica speciale da nove detenuti, cantano per i figli giustizia.it, 4 gennaio 2019 Nove reclusi nella sezione di alta sicurezza del carcere di Maiano (Spoleto) hanno scritto il testo e interpretato una canzone per ringraziare chi, durante la loro permanenza in carcere, si sta occupando dei loro figli. Antonino, Carmine, Fortunato, Franco, Giuseppe, Lorenzo, Raffaele, Santo e Simone - questi i nomi dei detenuti-artisti - alla fine del progetto “La storia di papà” hanno realizzato un cd con una canzone dal titolo “Grazie a lei”. Il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - con una circolare aveva invitato le direzioni delle carceri italiane a sviluppare dei progetti per la tutela della genitorialità e, prendendo spunto da questo suggerimento, ha preso forma un laboratorio coordinato dall’artista Chiara Napolini e dalla psicologa Elisa Montelatici con la supervisione del funzionario giuridico pedagogico Sonja Tortora. Il corso, concluso a dicembre, ha avuto come obiettivo quello di approfondire gli aspetti della relazione tra genitore detenuto e figlio in età evolutiva (3-12 anni). La musica del singolo è opera del maestro Francesco Morettini e la copertina del cd è stata disegnata da Alessia Norgini di appena 13 anni. Durante questi incontri i reclusi hanno esternato emozioni parlando del rapporto con i propri figli e anche di quello con i genitori, trasformandole poi in parole e musica. “Grazie a lei” è il titolo e quel ringraziamento è rivolto a una “lei” in senso generico, può essere la madre, la moglie, la sorella del detenuto, comunque la figura che si occupa del piccolo in assenza del padre. Prima delle festività natalizie i papà, durante un commovente incontro con le loro famiglie, alla presenza del personale che ha contribuito alla realizzazione del progetto, hanno presentato la loro canzone. Santo e Antonino, due dei detenuti cantautori hanno commentato la loro esperienza a Tuttoggi, quotidiano online dell’Umbria: “È stato un progetto meraviglioso, che ci ha dato emozioni ineguagliabili - ha spiegato Santo - grazie di averci regalato questa opportunità, ero stonato ma mi sono messo in gioco, ho superato alcuni limiti”. Per Antonino “vivere questa emozione è una cosa straordinaria, lo è anche questo incontro con i nostri figli”. Napoli: parole in prigione di Massimiliano Coccia Il Foglio, 4 gennaio 2019 A Secondigliano i padri scrivono lettere, i figli stanno in fila con i pacchi, le madri creano castelli. Una lunga fila composta da madri e figli, fuori dal carcere di Secondigliano: hanno con sé enormi pacchi, appena qualche giorno dopo Natale. Le madri, come se fila gineceo, parlavano fitte tra di loro, in una fila ordinata e chiassosa. I figli disposti ordinatamente rumoreggiavano insolenti, feroci. Il dialetto diventava in quella fila una lingua nuova, non vezzo di appartenenza ma unico modo possibile di stare al mondo. Il mio giaccone blu e nessun taglio alla moicana hanno creato subito qualche sospetto nei miei compagni di fila. Il primo che mi ha rivolto la parola mi ha scambiato quasi sicuramente per un prete, perché da queste parti si parla solo con i preti e con gli avvocati. Il suo sguardo affilato si è fermato su di me e la sua bocca contornata da una barba precisa e geometrica mi ha parlato: “Non ce la faccio più ogni anno a fare questa fila, saranno dieci anni che sto in fila ci sono cresciuto qua dentro e Natale è pure il momento migliore”. Gli ho chiesto per quale motivo stesse in fila e lui togliendosi la sicumera dalla bocca mi ha detto che il padre anni fa ha commesso un omicidio, una vendetta non meglio specificata, e da quel momento è diventato lui il capo della famiglia. “Tu non sai - ha continuato indurendosi - quanto è stato difficile crescere con un padre in galera, non sai quanto è difficile quando conosci una ragazza dire che tuo padre ha ammazzato una persona. Però io a mio padre lo amo, ca’ ci pozzo fare, anche se è un assassino”. Continuavo ad osservarlo, mentre appoggiava il pacco a terra e si accendeva una sigaretta, gli ho chiesto cosa pensasse del fatto che il padre avesse reso orfano qualche altro figlio, lui mi ha squadrato e questa volta ha quasi urlato: “Chillu ‘nfam nun teneva figli si no a’ guerra nun fosse fernuta, magari sarei stato dentro con mio padre - e poi continuava - comunque avvoca’ la fila per voi non è questa, è quella più avanti, dove non ci sta nessuno”. Gli ho detto che non ero un avvocato, ma un giornalista di Radio Radicale ed ero lì per il pranzo di Natale della Comunità di Sant’Egidio, un po’ stupito mi ha salutato dicendo “infatti c’era qualcosa che non mi tornava, voi mica siete normali, vi fate le feste in mezzo a noi altri disperati, una volta ho pure scritto a Rita Bernardini e mi ha pure richiamato, ma per mio padre poco ci sta’ da fare però”. “Non ci sta amore senza perdono” Nell’ingresso di mia competenza non c’era nessuno davanti a me. In questo carcere ho qualche conoscenza figlia di precedenti visite e del lasciapassare che Radio Radicale ha in questi posti per merito di Marco Pannella e del Partito Radicale. L’appartenenza a queste due realtà crea un effetto famiglia e ogni volta vengo travolto da storie da custodire e divulgare. In carcere si può solo ascoltare, ogni parola pronunciata è vana, perché ogni timore, ogni opinione rimbomba dentro le mura, non prende leggerezza durante i momenti d’aria. Scrivere in carcere è importantissimo, come mi ha insegnato Gaetano, un padre di tre figli che mi ha raccontato velocemente che ai suoi figli preferisce scrivere: “Io sono un museo per loro, sono una specie di rappresentazione di quello che non devono diventare. Ci ho messo un sacco di tempo a capire che questo è l’unico modo per fare il padre, non posso mica mettermi a fare la morale, posso solo dire quello che ho sbagliato. Gli insegno che non ci sta amore senza perdono. Lo diceva Gesù Cristo e lo dico pure io. Però queste cose gliele scrivo perché la parola su carta è più forte, la voce mia invece non vale niente”. Osservo a lungo Gaetano man mano che si allontana con la sua fila per rientrare in cella alla fine del pranzo, e rimane ancora adesso dentro di me la sensazione che quell’uomo, più di qualsiasi accademico titolato, abbia saputo esprimere al meglio il concetto di paternità, di umanità e di letteratura. Le parole servono a curare. Come la fantasia, che per Ferdinando, Maria e Ciro svolge un ruolo decisivo ogni giorno. Ferdinando è un detenuto in semilibertà, Maria è sua moglie che quel giorno era vestita come una fidanzata al primo appuntamento, eccessiva pensavo per star fuori da un carcere, ma ben presto ho capito che per Ciro, il figlio di quattro anni, il padre non stava in carcere ma lavorava dentro il carcere per edificare un castello. “Saluta papà - ha detto Maria - che deve tornare in carcere a costruire il castello”. E con un bacio ordinato Ciro ha salutato suo padre. Maria mi ha detto sottovoce che quello era l’unico modo per proteggere suo figlio e con un sorriso mi ha detto anche che quello era l’unico modo che le avevano insegnato di fare la madre e la moglie, e poi comunque la felicità sarebbe arrivata a breve perché “manca poco a finire il castello”. Bologna: l’Istituto penale minorile in scena a teatro, recitare come via al reinserimento Corriere di Bologna, 4 gennaio 2019 Padri che fanno fatica a incrociare lo sguardo dei figli, che pure ne richiedono la presenza. Padri smarriti, che non hanno nulla da lasciare in eredità a figli che cercano di non scivolare su un ripido piano inclinato, segnato da microfoni sospesi dall’alto, troppo lontani per ritessere un dialogo tra generazioni. È questo lo scenario dello spettacolo “Eredi eretici”, dal 9 al 13 gennaio nella Sala Salmon dell’Arena del Sole. Ultimo frutto del lavoro che da ormai vent’anni il Teatro del Pratello, guidato da Paolo Billi, svolge con i suoi progetti di teatro carcere. In questo caso i protagonisti sono ragazzi in carico ai Servizi di Giustizia minorile, provenienti da Comunità educative disseminate nel territorio regionale. E se la compagnia prende il nome da via del Pratello, dove si trova l’Istituto Penale Minorile di Bologna all’interno del quale opera da fine anni 90, il lavoro di preparazione ha richiesto un’organizzazione non banale. Come ricorda Paola Ziccone del Centro Giustizia Minorile per l’Emilia Romagna e le Marche, “i ragazzi devono andare alle prove accompagnati da educatori e assistenti sociali, che li aiutano poi a rielaborare questa esperienza”. Il nuovo spettacolo s’inserisce nel progetto triennale “Padri e figli”, tematica comune a tutte le esperienze di teatro-carcere dell’Emilia Romagna. Tra i testi anche lettere di personaggi famosi che hanno avuto rapporto contrastati con i propri genitori, Kafka, Mozart e Marx. Sino a Leopardi, riproposto in versione napoletana grazie alla traduzione di uno dei ragazzi di origine campana. “Nel cast - segnala Billi - non ci sono ragazzi dell’Istituto Penale Minorile del Pratello, ma oltre alle attrici di Botteghe Molière ce n’è uno che ha iniziato con noi 6 anni fa e che dopo quella parentesi nella sua vita ha deciso di continuare a fare teatro. Anche la scenografia materialmente è stata costruita dentro l’Ipm del Pratello durante un laboratorio”. In una fase in cui al carcere si guarda solo in termini di sicurezza e con dati inquietanti, come l’aumentato numero di suicidi o i 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza, la Ziccone ribadisce che il progetto, che pure vanta una certa continuità, non possa essere dato per scontato. E sull’annosa questione della ristrutturazione dell’ex chiesa dell’Istituto di via del Pratello, usata in passato come palcoscenico, sottolinea che la questione finanziaria, trovare oltre 300.000 euro, non è l’unica. “Bisogna - conclude - che sia la città a esprimere la sua volontà di far incontrare detenuti e città. Noi abbiamo avuto incontri con le istituzioni locali ma restiamo ancora in attesa”. Verona: ai detenuti il libro del Parlamento della Legalità Internazionale di Giuseppe Longo gdmed.it, 4 gennaio 2019 Ai detenuti del carcere di Verona il libro del Parlamento della Legalità Internazionale. “È stato un incontro familiare e ricco di emozione quello tra la direttrice del carcere di Verona Maria Grazia Bregoli e Nicolò Mannino presidente del Parlamento della Legalità Internazionale. Motivo dell’incontro la consegna del libro curato a due mani (da Nicolò Mannino e Salvatore Sardisco) dal titolo: “Peccatori sì, Corrotti mai”. I detenuti riuniti nella grande cappella del carcere hanno accolto il dono e da oggi possono leggerlo poiché alcune copie sono state consegnate in biblioteca. Nel testo impreziosito dal messaggio anche di Papa Francesco, hanno trovato spazio anche lettere dei detenuti stessi di Verona i quali in diverse volte hanno avuto modo di confrontarsi e dialogare con gli amici del Parlamento della Legalità Internazionale durante diverse iniziative culturali nel Veneto. “È sempre un’emozione - dice Nicolò Mannino - incontrare sia la direttrice Maria Grazia Bregoli persona molto professionale e ricca di zelo, per il recupero dei detenuti che conosco da quando coordinava il carcere di Como, che i detenuti di questa casa circondariale veronese con i quali puntualmente ci confrontiamo sul senso della vita, della riscoperta dei valori come la famiglia, il rispetto delle regole e della convivenza per una educazione al servizio e al bene della collettività”. I detenuti, anche con questo incontro hanno toccato con mano la solidarietà e la vicinanza del Parlamento della Legalità Internazionale verso chi dietro le sbarre attende un abbraccio e una parola di conforto. Intanto il tour della presentazione del testo “Peccatori sì, Corrotti mai” si arricchisce di tappe in Puglia, Basilicata, Sicilia, Campania e Lombardia”. Messina: i detenuti spiegano la mostra “I Mecenati del Barocco” strettoweb.com, 4 gennaio 2019 Il progetto per la gestione del Complesso Musale del Barocco che coinvolge anche gli ospiti della Casa Circondariale di Noto è finito sulla home page dei siti internet con cui il Ministero della Giustizia veicola notizie da tutta Italia. L’intuizione del sindaco Corrado Bonfanti, portata avanti grazie alla collaborazione della cooperativa Tempora, fa parlare di sé ed è stata definita come una buona pratica che favorisce il reinserimento sociale. Ieri mattina l’ufficio stampa del Ministero della Giustizia, riprendendo un articolo pubblicato nei giorni scorsi dal Giornale di Sicilia, ha intervistato l’assessore al Turismo Giusi Solerte per poi raccontare da dove nasce e quali sono gli obiettivi di un progetto voluto dal sindaco Corrado Bonfanti, lanciato ad agosto 2018 e che è stato prorogato fino a novembre 2019. Sono due i detenuti coinvolti dopo l’ok del Giudice di Sorveglianza: vestono i panni di guide turistiche ed accolgono i visitatori, spiegando loro i segreti della mostra “I Mecenati del Barocco”. Decreto Salvini: 130 mila irregolari in più di Piero Sansonetti Il Dubbio, 4 gennaio 2019 L’Ispi (istituto per gli studi della politica internazionale) è uno dei più importanti centri italiani di studio. Esiste da quasi 90 anni. È prestigioso in tutto il mondo. Agisce sotto il controllo del ministero degli esteri e del ministero dell’economia e della Corte dei conti. Diciamo così: non è un centro sociale o un circolo di propaganda politica. L’Ispi ieri ha fornito le sue proiezioni sugli effetti che avrà il decreto Salvini sull’assetto dell’immigrazione in Italia. Beh, queste proiezioni lasciano senza parole: in due anni, 130 mila irregolari in più. Cioè un aumento di un quarto. Si passa da circa 500 mila a circa 630 mila immigrati irregolari (“clandestini”). Non è che ci vuole una volpe per capire che se una legge studiata per porre un freno alla clandestinità ha come effetto quello di moltiplicare la clandestinità, bisogna cambiare la legge. I filosofi chiamano questo fenomeno di rovesciamento tra scopo e risultati, l’eterogenesi dei fini. Lo studiò e lo spiegò bene Giambattista Vico, ai primi del 700. Anche se l’espressione “eterogenesi dei fini” fu coniata un paio di secoli dopo da un tedesco che si chiamava Wilhelm Wundt. Non pretendo che Salvini o Di Maio conoscano bene Vico, né tantomeno Wundt, però mi pare che se danno un’occhiata ai dati dell’Ispi si possono rendere conto con facilità che in quella legge qualcosa non va. La rivolta dei sindaci si spiega anche così. L’aumento del numero dei clandestini è un problema per chi deve governare e amministrare. Magari potrà far piacere ai “caporali” o agli imprenditori senza scrupoli, che in questo modo vedranno scendere ancora il costo del lavoro in nero. Ma un esercito di persone senza diritti e senza doveri, che vive solo per trovare il modo per sbarcare il lunario, che non gode dello stato sociale, dell’assistenza, delle strutture di accoglienza, che non può lavorare legalmente, che deve nascondersi, diventare invisibile, voi capite che è come un carico di dinamite sistemato per far saltare gli assetti sociali, aumentare l’illegalità e per radere al suolo qualunque politica di sicurezza. I sindaci, e in particolare il sindaco Orlando, probabilmente hanno contestato il decreto anche per altre ragioni. E cioè perché ritengono incostituzionali, oltre che inumane, alcune sue disposizioni. Come la fine dei permessi umanitari, la limitazione del diritto d’asilo, la sottrazione della cittadinanza. Probabilmente le obiezioni, diciamo così, etiche, non sono infondate. Ma sono qualcosa in più. Sono un problema di coscienza che si aggiunge a una grande questione di politica, o anche, addirittura, di logica formale. Perciò il governo, e in particolare il ministro Salvini, farebbero bene a prendere molto sul serio la rivolta dei sindaci. Non deve immaginare che in Italia tutti gli amministratori e tutti i politici si muovano avendo in testa solo e unicamente la campagna elettorale. E quindi vanno contrastati perché danneggiano la sua campagna elettorale. Non è così. C’è molta gente, a destra e a sinistra e anche tra i 5 Stelle, che prova a ragionare, a immaginare il futuro, a cercare soluzioni. Non solo voti. Del resto è molto difficile che scelte politiche a favore dei migranti e dei profughi possano portare voti. Non li portano. E questa considerazione è stata alla base, nella scorsa legislatura, della scelta del Pd di rinunciare alla legge - civilissima - dello Ius Soli. Dopodiché è bene evitare gli anatemi contro chi solleva dubbi morali su alcune scelte della maggioranza. Qualunque sia la maggioranza. Possibile che in Italia l’unica obiezione di coscienza ammessa e santificata sia quella contro l’aborto, che pure spesso lede il diritto delle donne all’interruzione della gravidanza? Io sono favorevolissimo alla legge sull’interruzione della gravidanza, che è una norma civilissima e che garantisce le donne e la loro libertà di scelta. Eppure non mi sognerei mai di mettere in discussione il diritto all’obiezione di coscienza per i medici cristiani, che pure spesso paralizza i reparti di ginecologia degli ospedali, e che credo - almeno talvolta non è proprio espressione di fede in Dio ma più probabilmente è un mezzo per evitare la parte meno esaltante del proprio lavoro. Capisco che il principio è giusto e basta. Anche se se ne abusa: se la mia coscienza mi vieta una certa azione lo Stato non può impormi di compierla. E se la mia coscienza mi vieta di perseguitare un povero profugo, e mi spinge invece a rispettare la Costituzione (articolo 10, per esempio) e la Carta dei diritti dell’uomo dell’Onu, perché mai lo Stato dovrebbe impormi di non farlo, e di rispettare la legge e di violare la Costituzione? Immigrati in attesa di giustizia. Per Soumaila di Alessia Candito Venerdì di Repubblica, 4 gennaio 2019 Reggio Calabria. Nella terra in cui l’omertà è regola e la denuncia eccezione, con le loro testimonianze hanno permesso di arrestare un assassino. Nel feudo dei clan più volte insanguinato dalle faide, hanno chiesto allo Stato di fare giustizia. Ma Drame Madiheri e Fofana Madoufoune sono stranieri. E per loro aiutare investigatori e inquirenti a individuare e processare l’assassino di Soumaila Sacko, il sindacalista ucciso nel giugno scorso nell’ex Fornace di San Calogero, tra la Piana di Gioia Tauro e il vibonese, è diventato un calvario. Tra burocrazia, rischi, trasferimenti, forzata inattività e il nuovo decreto Salvini che ha rischiato di rendere quasi impossibile la loro permanenza in Italia. “A volte ancora mi sveglio gridando. Sento gli spari, Soumaila cadere. Vedo il sangue, una pozza che si allarga”. Sono passati più di sette mesi da quel colpo di fucile, ma nella testa di Drame quei momenti sono ancora impressi. Perché lui quel 2 giugno c’era, era accanto a Soumaila. “Avrei potuto essere io e a volte” dice “penso che avrei dovuto essere io. Per questo oggi voglio testimoniare, voglio affrontare chi mi ha ammazzato un fratello”. Bracciante, delegato sindacale dell’Usb, Soumaila aveva approfittato di quel giorno di festa per aiutare Drame e Fofana, a costruire una baracca da chiamare “casa” nel ghetto di San Ferdinando. Insieme erano andati alla Fornace, ex fabbrica di mattoni sequestrata e abbandonata anni fa, da cui ì braccianti di tanto in tanto prelevano qualche vecchio pezzo di lamiera, magari non troppo compromesso. “Non servono a nessuno, stanno lì ad arrugginire” spiega Drame. “Per chi vive nel ghetto invece sono fondamentali per costruire un riparo”. Ma Antonio Pontoriero, 43enne di San Calogero, un pugno di case vicino all’ex Fornace, non la pensava cosi. Per lui quella fabbrica sequestrata era cosa sua. Nessuno doveva azzardarsi ad entrare. Per questo - hanno ricostruito i magistrati di Vibo Valentia - quel giorno ha sparato contro i neri. “Perché lo ha fatto?” si indigna ancora Drame. “Se pensava che non fosse giusto quello che stavamo facendo perché non ha chiamato la polizia? Non siamo animali da abbattere”. Anche Fofana si è salvato solo per miracolo. “Stavo trasportando delle lamiere sulla schiena e hanno deviato il proiettile che doveva colpirmi” racconta. È stato lui a correre per oltre dieci chilometri per raggiungere la stazione dei carabinieri e denunciare l’accaduto. “Ho pensato che solo loro ci potevano aiutare” dice. E nel reggino dove per molti “lo sbirro” è ancora il nemico, la sua sembra quasi una bestemmia. “Io invece” spiega Drame “mi sono avvicinato per vedere in faccia chi avesse sparato. Lui non mi ha riconosciuto, io sì”. Ha memorizzato il viso, i vestiti che indossava, il modello e parte della targa dell’auto su cui si è allontanato. E ha riferito tutto agli investigatori che poco dopo hanno bussato a casa Pontoriero. Conversazioni intercettate, tracce di polvere da sparo individuate sull’auto e sui vestiti hanno finito per inchiodare il 43enne, per il giudice “incline a non disdegnare il ricorso a sistemi oltremodo violenti, aggressivi e sbrigativi, onde tutelare i propri supposti interessi”. E su quella zona non solo lui, ma tutta la sua famiglia interessi ne avevano eccome. Da anni occupavano e sfruttavano i terreni e un casolare semidiroccato. Pontoriero ha sempre proclamato la propria innocenza, ma inquirenti e investigatori non hanno mai avuto dubbi. L’arma che ha sparato però non è stata trovata e contro di lui, la testimonianza dei due braccianti rimane la “prova regina”. Anche per questo, dopo il suo arresto, per Drame e Fofana sono sorti seri problemi di sicurezza. Più volte qualcuno si è presentato in baraccopoli, pretendendo di sapere dove fossero. Allontanati dal ghetto in fretta, per alcune settimane i due testimoni sono stati costretti a vivere in un rifugio d’emergenza. Sicuro ma precario. Poi, la prefettura ha deciso di farsi carico del problema. Ma per loro l’unica soluzione individuata è stato il trasferimento in un Cas, un centro di accoglienza straordinaria, dove prima della chiusura dei porti venivano ospitati i richiedenti asilo dopo lo sbarco. Un posto di transito, dove i più si limitavano ad aspettare il trasferimento in uno Sprar, destinato a fornire ai migranti gli strumenti necessari per integrarsi. Ma era luglio. Sull’accoglienza già si annunciava un pesante giro di vite. Le navi cariche di disperati soccorsi in mare erano costrette a mendicare un approdo e sulla terraferma ai progetti venivano tolte le risorse, i Cas chiusi. Dopo qualche mese anche quello in cui vivevano Drame e Fofana ha chiuso i battenti e loro sono stati spostati. Ma non sono cambiati i loro problemi. “Avevamo da mangiare e dove dormire, ma per mesi siamo stati costretti a non fare niente” racconta Fofana. “Nel centro non c’erano programmi di inserimento e per un sacco di tempo non abbiamo avuto neanche i documenti per poter cercare un impiego”. Entrambi richiedenti asilo, quando Soumaila è stato ucciso il loro destino era ancora in mano alla commissione territoriale. Drame si era visto rigettare la richiesta e aveva presentato ricorso, Fofana attendeva risposta. Da testimoni, la loro permanenza in Italia è diventata fondamentale per il processo. Secondo le vecchie norme, il loro sarebbe stato il caso da manuale per la “protezione umanitaria”. Poi è entrato in vigore il decreto Salvini e quel profilo è stato cancellato. Esiste un “permesso per motivi di giustizia” ma è valido solo per tre mesi, rinnovabile per il periodo necessario alla conclusione del processo o dell’inchiesta e difficilmente convertibile. Il sindacato ha fatto pressione, Questura e Prefettura ci hanno messo del loro, e dopo mesi di studio, carteggi, incontri, per Drame e Fofana è arrivato il permesso per “casi speciali”, di durata annuale, rinnovabile e convertibile in “permesso di lavoro”. Una speranza non solo per loro, ma anche per la compagna di Drame e due cugini di Soumaila. “Ma i problemi restano” dice Fofana mentre si guarda le mani. “Io queste le ho sempre usate per mantenermi, da mesi non so come impiegarle”. Da quando si sono dovuti allontanare dal ghetto e dal lavoro nei campi con cui si mantenevano, l’Usb ha provveduto ad aiutarli, anche economicamente. Ma la cosa non potrà durare all’infinito. Nonostante l’omicidio di Soumaila abbia suscitato un’ondata di solidarietà, nessuna fra le cooperative antimafia, le aziende del circuito solidale, si è fatta avanti per offrire loro un impiego. Nessuna proposta o soluzione è arrivata dalle istituzioni locali o regionali. “La prefettura” dicono “ci ha proposto il trasferimento in uno Sprar”, fra i pochi rimasti in attività dall’entrata in vigore del decreto Salvini che li ha cancellati. “Lì” aggiungono “dovrebbero esserci dei programmi di inserimento lavorativo”. Ma sono scettici perché al momento non c’è nulla di certo, e soprattutto, per la prima volta, dovranno dividersi. Drame andrà in uno Sprar per famiglie con la compagna, Fofana in uno per uomini. Dopo mesi di simbiosi, non potranno più guardarsi le spalle a vicenda. E forse anche per questo iniziano ad avere paura. Intervista a Carla Del Ponte: “Chiediamo giustizia per le vittime in Siria” di Riccardo Michelucci Left, 4 gennaio 2019 Lasciò polemicamente la Commissione d’inchiesta Onu. La magistrata Carla Del Ponte accusa il presidente Assad e i suoi gerarchi: “Avevamo le prove contro di loro”. E denuncia, “è mancata la volontà politica di creare un Tribunale penale internazionale”. Da almeno vent’anni Carla Del Ponte è il terrore dei governanti e dei capi di Stato chiamati a rispondere davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. La donna cioè, che ha portato alla sbarra Milosevic e Karadzic, nonché i principali responsabili del genocidio del Ruanda. Ma dopo aver trascorso gran parte della sua lunga carriera dando la caccia ai criminali di guerra, persino lei ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte ai massacri compiuti in Siria. Un anno fa la magistrata ticinese ha lasciato polemicamente la Commissione d’inchiesta Onu sui crimini siriani. Si è ritirata dalla scena lanciando un duro atto d’accusa nei confronti della comunità internazionale. “È una vergogna”, ci dice quando la raggiungiamo al telefono nella sua natia Svizzera. “Avevamo trovato prove a sufficienza per condannare Assad e i suoi gerarchi, ma anche i ribelli che si erano resi colpevoli di gravi crimini. Per cinque anni ho provato a convincere il Consiglio di sicurezza a istituire un tribunale per la Siria sulla falsariga di quelli per l’ex Jugoslavia e il Ruanda. Purtroppo è sempre mancata la volontà politica per farlo”. L’accusa di Del Ponte - circostanziata nel suo nuovo libro “Gli impuniti” (Sperling & Kupfer) - è rivolta in particolare nei confronti di Mosca per aver sempre esercitato il diritto di veto, bloccando le risoluzioni presentate al Consiglio di sicurezza che chiedevano la creazione di un tribunale ad hoc sul modello di quello da lei presieduto sull’ex Jugoslavia. Eppure all’inizio sembrava che ottenere giustizia per le vittime fosse un obiettivo ragionevolmente possibile… Nel 2011 il Consiglio per i diritti umani dell’Onu aveva istituito una commissione d’inchiesta sulla Siria e aveva chiamato la stessa Del Ponte a farne parte per accertare le violazioni, stabilire l’entità dei crimini e arrestare i responsabili. Un incarico che doveva durare pochi mesi e invece si è protratto per sei anni. Fino al 2017, quando Del Ponte ha deciso di andarsene sbattendo la porta. Quando si è accorta che mancava la volontà politica di fare giustizia in Siria? Molto presto. Ma non è nel mio carattere arrendermi facilmente e allora ho deciso di restare per cercare di cambiare le cose dall’interno. In tanti anni di attività non ho mai visto una ferocia simile in un conflitto. Bambini torturati e uccisi, raid aerei che colpivano gli ospedali, bombe lanciate sulle persone in fila per il pane. Un orrore indicibile e documentato. I crimini erano così tanti e così gravi che continuavo a sperare che i nostri rapporti avrebbero infine smosso la politica. Per quasi sei anni mi sono impegnata in questo senso, non è stato possibile e allora non potevo far altro che andarmene. Spero che altri riescano laddove io non sono riuscita. È ormai trascorso più di un anno dalle sue dimissioni dalla Commissione per la Siria. Da allora ha visto qualche cambiamento? No. Sotto il profilo della giustizia non è cambiato niente. Continua a non esserci la volontà politica di istituire un tribunale che si occupi di quei crimini. La Commissione esiste ancora ma non ha più alcuna efficacia. Rappresenta soltanto un alibi per la comunità internazionale, che attraverso di essa vuole far credere che sta facendo qualcosa. Ma in realtà non sta facendo niente. Gli sviluppi, in prospettiva, potrebbero esserci almeno dal punto di vista politico. È possibile che si arrivi finalmente alla pace, poiché il presidente Assad sta riconquistando tutto il territorio del Paese. Ma mi domando fino a quando durerà. E purtroppo sono certa che le vittime non otterranno alcuna giustizia. Una pace che non affronta il problema della giustizia sarà sempre una pace fragile. Molto fragile. Alcuni mesi fa però la Germania ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Jamil Hassan, una figura-chiave della repressione del regime, accusandolo di crimini contro l’umanità. Può essere il segnale che qualcosa sta finalmente cambiando? È stato senz’altro un fatto positivo. Almeno qualcuno cerca di fare qualcosa di concreto, ma purtroppo sappiamo già che Hassan non sarà mai né arrestato, né processato per l’iniziativa di un singolo stato straniero. Eppure i colpevoli hanno nomi e cognomi. La Commissione di cui lei ha fatto parte ha consegnato all’Alto Commissariato dell’Onu una lista che indica almeno un centinaio di criminali di guerra. Gli impuniti di cui parlo nel libro sono tantissimi, quella lista non pretende certo di essere esaustiva. Il maggior responsabile dei crimini è il presidente della Siria, Assad. Ma abbiamo riscontrato gravi e ripetute violazioni del diritto internazionale da entrambe le parti. Sia le forze governative che i ribelli hanno per esempio fatto uso di armi chimiche. I casi accertati sono almeno ventisette. Abbiamo fornito le prove ma non basta: ci vuole un ufficio del Procuratore che possa terminare le inchieste, che formuli le accuse e soprattutto alla fine emetta i mandati d’arresto internazionali. Perché nonostante tutto conclude il suo libro affermando che Assad verrà condannato all’ergastolo? Volevo chiuderlo con una speranza. Non posso assolutamente accettare di aver lavorato oltre otto anni, e con successo, nei tribunali internazionali e dovermi adesso convincere che è stato tutto invano. Che adesso si torna indietro. Allora resto dell’idea che un giorno o l’altro qualcuno dovrà rispondere dei gravissimi crimini commessi in Siria. Sono i passi avanti compiuti dal diritto internazionale a 70 anni dall’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti umani a fornirmi questa speranza. Il suo libro contiene un’accusa anche nei confronti dell’Ue per come ha gestito la questione dei profughi... Sì, ritengo vergognoso il fatto che l’Ue non sia mai riuscita a trovare un accordo tra gli Stati membri. Che ogni Stato abbia deciso cosa fare per conto suo. È vergognoso anche perché i profughi non resteranno per sempre dispersi in Europa ma al momento opportuno torneranno a casa loro. Tutti i siriani con i quali ho parlato non aspettano altro che il momento di fare ritorno nel loro Paese. Anche dopo il caso siriano la sua fiducia nei confronti dei meccanismi di giustizia internazionale resta immutata? Assolutamente sì. Riconosco che il momento sia delicato, poiché dopo i buoni risultati ottenuti con i tribunali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda adesso dobbiamo purtroppo registrare un passo indietro. Non solo in Siria, ma anche in Myanmar e in Yemen. Ma lo sapevamo fin dall’inizio: la giustizia internazionale funziona soltanto se sono gli Stati a volerlo. Turchia: i medici “soglia critica superata dagli scioperanti della fame nelle carceri” uikionlus.com, 4 gennaio 2019 Un gruppo di organizzazioni di medici e di ausiliari ha avvertito che la soglia critica è stata superata dagli scioperanti della fame in carcere. La Camera degli ausiliari di Mardin (Mto), la sezione di Mardin del sindacato dei lavoratori della sanità e del sociale (Ses), la Camera dei dentisti di Mardin (Mdho) e la Confederazione dei sindacati dei lavoratori pubblici (Kesk) di Mardin Branches hanno rilasciato una dichiarazione relativa agli scioperi della fame in corso. La dichiarazione, oltre a ricordare che Leyla Güven deputata di Hdp di Hakkari è in sciopero della fame da 56 giorni per chiedere la fine dell’isolamento imposto al leader del popolo curdo Abdullah Öcalan, ha anche richiamato l’attenzione sulla situazione di Kadir Karabak e di Esat Naci Yildirim, che sono al loro 108 ° giorno di fast death (morte veloce) nel carcere chiuso di tipo F Van. I rappresentanti delle istituzioni che hanno rilasciato la dichiarazione si sono riuniti nella conferenza stampa alla sede della Kesk di Mardin. Tuncay Gökçen, membro del consiglio direttivo dell’Mto, ha letto la dichiarazione a nome delle organizzazioni. Osservando che molti prigionieri proseguono con il loro sciopero della fame e che nuovi detenuti si uniscono all’iniziativa ogni settimana, Gökçen ha affermato: “Gli scioperi della fame, che tendono a diffondersi in tutte le prigioni, si sono avvicinati in alcuni luoghi alla soglia della morte. Questa è una questione delicata per i medici la cui priorità è la protezione della vita umana e della dignità. I detenuti e i condannati che hanno fatto lo sciopero della fame a tempo indeterminato hanno bisogno di spiegazioni sui i danni che la fame produce ai corpi e sulle misure da adottare. Abbiamo bisogno di avere il consenso informato da ciascuno di essi, sono necessari interventi supplementari e cure mediche giornaliere”. Non c’è tempo da perdere - Ricordando lo sciopero della fame e le death fast in carcere negli anni 1996 e 2000, Gökçen ha dichiarato: “I comitati indipendenti da formare nelle camere dei medici dovrebbero adottare le misure necessarie per monitorare gli scioperanti della fame e assicurare il minimo danno durante il loro digiuno. Le organizzazioni per i diritti umani dovrebbero essere consapevoli del fatto che vi possono essere morti in qualsiasi momento poiché la soglia critica è stata superata, noi crediamo, come professionisti della salute”. Gökçen ha spiegato che il percorso verso la morte negli scioperi della fame è di sofferenza e dolore: “Difficoltà nella respirazione, nausea e vomito, ipersensibilità, ipotensione, impossibilità di movimento, deterioramento rapido del corpo e la morte. Come operatori sanitari ricordiamo la sacralità del diritto alla vita e ci aspettiamo che le autorità, le istituzioni interessate e in particolare il governo intervengano”. Le richieste dei prigionieri dovrebbero essere garantite - Alla fine della dichiarazione, le organizzazioni hanno chiesto con urgenza che le richieste dei prigionieri fossero prese in considerazione dal Ministero della giustizia. È nostro dovere esigere i necessari negoziati per la fine di questo sciopero della fame condotto dai prigionieri, invitando coloro che sono sensibili all’umanità e alla vita umana, compresi i politici, a fare qualsiasi tentativo per porre fine allo sciopero della fame Abbiamo sottolineato che una delegazione di medici indipendenti dovrebbe essere istituita e dovrebbe essere autorizzata ad entrare nelle carceri il prima possibile. Dobbiamo sapere che la vita è la cosa più essenziale”. Israele. Palestinesi detenuti minacciano “intifada” nelle carceri tgcom24.mediaset.it, 4 gennaio 2019 Migliaia di palestinesi detenuti in Israele per reati “di sicurezza” hanno minacciato una “intifada” dopo che il ministro della Sicurezza interna, Gilad Erdan, ha annunciato un inasprimento delle loro condizioni di reclusione. Lo riferisce la tv statale israeliana, spiegando che per i detenuti le misure ordinate da Erdan equivalgono ad “una dichiarazione di guerra”. Arabia Saudita. Boia, misoginia e repressione: il Medioevo 2.0 di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 gennaio 2019 La petromonarchia, un mix di conservatorismo religioso e patriarcato misogino e razzista, resta interlocutore privilegiato di quella parte di mondo, l’Occidente, che si finge baluardo dei diritti umani. Il processo-farsa del secolo è iniziato ieri. Teatro della presa in giro è Riyadh. Sul banco degli imputati undici sauditi sospettati dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul lo scorso 2 ottobre. Ovviamente su quel banco non c’è il regime. Il regime è quello che processa gli autori del delitto che più di un attore internazionale (dalla Cia ai servizi turchi fino al Congresso degli Stati uniti) considera ordinato dalla casa regnante. Per cinque di loro, la procura di Stato intende chiedere la pena di morte, sfidando Ankara che vuole estradare responsabili perché vede nel processo appena aperto (e soprattutto nella pena capitale) il miglior modo per lavare - e far sparire - i panni sporchi in famiglia. Morti gli esecutori, il mandante è al sicuro. Mohammed bin Salman prova così a salvarsi in corner da una vicenda che ha messo in ginocchio la “credibilità” della petromonarchia. Perché va bene violare sistematicamente i diritti dei lavoratori stranieri e incarcerare gli attivisti per un tweet; va bene declassare le donne a cittadine di serie b non degne di diritti al pari dell’uomo; va bene reggere uno dei regimi più medievali al mondo, un mix di conservatorismo religioso e patriarcato misogino e razzista; va bene anche distruggere un paese, lo Yemen, a suon di bombe e finanziare gruppi islamisti radicali di mezzo mondo. Ma fare a pezzi un giornalista no. Eppure Khashoggi, il cui corpo ha tanto ottenuto da morto (inchieste contro MbS per “l’avventura” yemenita in Argentina e Tunisia, la sospensione della vendita di armi da parte di Germania, Finlandia e Danimarca, lo storico voto del Senato Usa contro il sostegno all’operazione in Yemen), non è ancora riuscito nell’impresa più difficile: fare della petromonarchia uno Stato pariah. Gli interessi sono tanti, troppi: sono politici e militari (vedi il ruolo nel conflitto a bassa intensità di Trump e Israele contro l’Iran) e sono economici. Nonostante le casse saudite piangano un po’, il paese resta un punto di riferimento energetico e il miglior acquirente di armi (terzo al mondo dopo Stati uniti e Cina, con una popolazione di 33 milioni di persone, un decimo di quella Usa e un quarantesimo di quella cinese) e la sua borsa finanzia compagnie di tutto il globo, nelle costruzioni, il turismo, l’high-tech, le infrastrutture e pure lo sport. L’Occidente finanzia la natura stessa del regime e arma il suo boia, quello che ogni anno decapita decine, centinaia di detenuti e che ora vuole fare altrettanto con i bracci armati di MbS.