Più agenti, nuove carceri e manutenzione immobili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 gennaio 2019 Le misure previste nella manovra per ridurre il sovraffollamento. Nei prossimi quattro anni si prevedono nuove assunzioni e il Dap potrà individuare edifici dello stato dismessi e idonei alla riconversione. Assunzione di nuovi agenti penitenziari e utilizzo del fondo - già stanziato dal governo precedente per la riforma dell’ordinamento penitenziario - per gli interventi sull’edilizia carceraria. Questi sono i punti della manovra finanziaria appena approvata per quanto riguarda il sistema penitenziario. All’articolo 33 del testo denominato “assunzioni straordinarie delle forze di polizia”, si legge che nell’anno 2020 saranno assunte 277 unità del corpo di polizia penitenziaria e altre 300 unità spalmate dal 2021 al 2023. Ma non solo. Si legge che “al fine di incrementare l’efficienza degli istituti penitenziari, nonché per le indifferibili necessità di prevenzione e contrasto della diffusione dell’ideologia di matrice terroristica in ambito carcerario”, sono autorizzate ulteriori assunzioni nel ruolo iniziale del corpo di polizia penitenziaria: 362 unità in aggiunta alle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente; 86 unità, quale anticipazione delle straordinarie facoltà assunzionali previste nel 2019; 200 unità, quale anticipazione previste per l’anno 2022 e altre 652 previste dall’articolo 66, comma 9 bis del decreto legge 25 giugno del 2008. Ma i lavori di manutenzione e ristrutturazione delle carceri? Si trovano nell’articolo 43 della manovra, dove vengono aggiunte all’articolo 1 comma 475 della legge del 27 dicembre del 2017, le seguenti parole “nonché per interventi urgenti destinati alla funzionalità delle strutture e dei servizi penitenziari e minorili”. Nella relazione tecnica si spiega che le risorse non utilizzate per la copertura dei decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario, “possano essere destinate ad interventi urgenti di edilizia penitenziaria e manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili dell’amministrazione penitenziaria e minorile”. In particolare, una quota delle risorse del Fondo, pari a circa 10.000.000 annui a decorrere dall’anno 2019, consentirà il finanziamento di interventi di manutenzione ordinaria sugli immobili dell’amministrazione penitenziaria e minorile. Quindi si tratta di utilizzare i soldi previsti dalla riforma originale. Per quanto riguarda la costruzione delle nuove carceri, che nell’intenzione del governo dovrebbe servire per far fronte al crescente sovraffollamento, bisogna andare a leggere il decreto semplificazione. Dal 1 gennaio 2019 e non oltre il 31 dicembre 2020, al fine di far fronte all’emergenza determinata dal progressivo sovraffollamento delle strutture carcerarie e per consentire una più celere attuazione del piano di edilizia penitenziaria in corso, il personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - si legge nel decreto - potrà inoltre individuare “immobili, nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali, dismessi e idonei alla riconversione, alla permuta, alla costituzione di diritti reali sugli immobili in favore di terzi al fine della loro valorizzazione per la realizzazione di strutture carcerarie”. Ricordiamo che l’iniziativa era stata già prevista dal decreto emergenza carceri del 2013, ma allora non si concretizzò. Polizia Penitenziaria, arrivano i rinforzi di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 3 gennaio 2019 La legge 145/2018 si preoccupa di regolamentare la gestione delle risorse pubbliche in materia di sicurezza e difesa, con la previsione di nuove assunzioni e di finanziamenti per fondi specifici. Al fine di rafforzare il settore della sicurezza, con l’aumento degli organici delle diverse forze di polizia, viene prevista una deroga al divieto di assunzioni attraverso l’espletamento di nuovi concorsi; in particolare il disco verde riguarda un aumento di 938 unità per la polizia penitenziaria, al fine di sopperirne le gravi carenze di organico, e di assicurare una sorveglianza più efficace dei detenuti presenti negli istituti di pena italiani. Dal punto di vista finanziario, le norme che prevedono interventi per le forze dell’ordine sono diverse. Tra queste si può segnalare quella che riguarda un incremento degli stanziamenti di poco superiore ai 19 milioni di euro ma anche la previsione di ulteriori somme a sostegno del fondo per il riordino normativo delle diverse forze di polizia. Nella legge spazio anche ad altre disposizioni relative al personale delle prefetture e a quello del corpo nazionale dei Vigili del fuoco, a proposito dei quali va registrata una dura presa di posizione sindacale. “Il governo Lega-M5S, nella manovra, contrariamente agli annunci, ha dileggiato i Vigili del Fuoco, stanziando 100 milioni di euro per il riordino delle carriere delle sole Forze armate e di Polizia dimenticando i Vigili del fuoco. E nemmeno un centesimo è stato stanziato per equiparare le retribuzioni dei Vigili del fuoco e quelle delle Forze di polizia. Esattamente il contrario di quanto scritto nel contratto di governo e promesso anche a parole dai vicepremier Salvini e Di Maio”, ha affermato Antonio Frizzi, segretario generale del sindacato autonomo Conapo. Per quel che riguarda le forze armate, spicca la diminuzione degli stanziamenti previsti per certi tipi di armi di tipo aeronautico o navale. Le assunzioni sono limitate a un contingente di personale specializzato di sole 294 unità, destinato ad operare in settori specifici. Stanziati infine fondi per alcuni settori specifici quali le missioni internazionali o la difesa cibernetica. Il telefono in cella per rompere l’isolamento di Domenico Russo La Repubblica, 3 gennaio 2019 Nelle celle delle carceri inglesi sarà installato un apparecchio telefonico e così i detenuti potranno comunicare con i propri familiari. Mi sembra un esperimento interessante, che ha lo scopo di ridurre l’isolamento e di rendere più vivibile la detenzione. In questo modo potranno diminuire le violenze e le illegalità all’interno delle prigionie nello stesso tempo sarà facilitato il recupero di chi ha commesso reati. Magari si potranno chiamare solo le utenze autorizzate, relative ai parenti più stretti, e nel caso di telefonate sospette il servizio potrà essere sospeso. In un tempo in cui in Italia il carcere sembra dimenticato e i per i detenuti si parla solo di chiuderli in cella e buttare la chiave, ecco una proposta innovativa che arriva dal sistema giuridico anglosassone. Qualcuno storcerà il naso, parlerà di “pacchia” anche per i detenuti, ma io credo che tenere i carcerati come lupi in gabbia non serva a niente, ma li renda peggiori. Favorire la socializzazione e non far perdere il contatto con gli affetti più cari può invece rappresentare una valvola di sfogo e la speranza di non essere dimenticati. Potrebbe essere un incentivo per non rassegnarsi ad una vita malavitosa e ai soliti discorsi sui reati che si fanno all’interno di quelle mura. Addormentarsi sapendo che il giorno dopo si potrà ascoltare la voce di una figlio o della moglie potrebbe orientare i propri pensieri ad altre prospettive. Se non si investe nella cultura del reinserimento come possiamo pensare che le persone cambino? D’altra parte un carcere senza speranza produce solo più recidiva. Lo dicono tutte le statistiche, ma sembra che questo non conti molto. Conta più parlare alla pancia della gente, speculare sulle insicurezze e sulle paure senza affrontare i veri problemi. Forse è più redditizio dal punto di vista elettorale, ma non aiuta a comprendere il complesso fenomeno della malavita e a cercare di risolvere cause endemiche. Costruire nuove carceri non basta. Credo che occorra responsabilizzare i detenuti e cercare nuove strategie e nuovi percorsi rieducativi. Magari provando ad attingere da esperienze che vengono applicate in altri Paesi. Perché, allora, non portare i telefoni in cella invia sperimentale anche in Italia? “Noi angeli custodi dei detenuti”. Intervista a Don Raffaele Grimaldi di Laura Bellomi credere.it, 3 gennaio 2019 “Nelle carceri ci sono povertà, emarginazione e depressione”, spiega l’ispettore generale dei cappellani penitenziari. “Tendiamo una mano a tutti per uscire dall’isolamento”. Alcuni gli chiedevano una parola di conforto, altri si mettevano a disposizione per organizzare la catechesi; altri ancora, una volta scarcerati, gli hanno chiesto di celebrare il matrimonio o di battezzare i figli. Con molti è rimasto in contatto, tutti li porta ancora nel cuore. Don Raffaele Grimaldi, oggi a capo dell’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane, ha messo piede in una prigione per la prima volta nel 1992, più di 25 anni fa. Don Grimaldi, come ha iniziato occuparsi di detenuti? “La mia avventura è iniziata nella casa circondariale di Secondigliano, a Napoli, nel 1992. Varcai la soglia perché dovevo sostituire il cappellano per alcune celebrazioni. A ben vedere, però, il mio ingresso in questo mondo non è stato “un caso”, intravedo un collegamento con le mie esperienze precedenti. Mi sono sempre interessato degli ultimi, prima in Africa - in particolare in Burundi, dove sono stato nel 1983, e dove ho avviato un gemellaggio diocesano che procede ancor oggi con collaborazioni e adozioni a distanza, poi attraverso i centri di accoglienza a Giugliano”. Cosa le è rimasto dei 23 anni con i detenuti di Secondigliano? “Custodisco nel cuore l’aspetto umano delle carceri. Con i volontari e i religiosi eravamo diventati una famiglia e abbiamo cercato di instaurare buoni rapporti anche con la polizia penitenziaria. Negli anni abbiamo promosso progetti a sostegno dei detenuti, come la coltivazione di ortaggi in serra con gli ergastolani. Abbiamo scommesso su di loro e oggi una cooperativa vende i prodotti all’esterno dell’istituto”. In che cosa consiste il lavoro del cappellano? “Il nostro compito è evangelizzare. Siamo impegnati nella catechesi, nelle celebrazioni e negli incontri personali. In generale diamo una mano tutti: il cappellano è una figura riconosciuta dallo Stato, affianchiamo le carceri anche nella promozione di iniziative e progetti”. L’ispettore, il “capo dei cappellani”, che ruolo ha? “Coordino l’attività pastorale dei diversi cappellani, che mi chiamano per confrontarsi e a volte mi coinvolgono in alcune celebrazioni. Ogni Regione ha un cappellano delegato: con loro ho incontri periodici. Nelle carceri serve pazienza, amore e anche coraggio: per questo, per quanto posso, sto loro vicino”. Come si è sentito quando è stato nominato ispettore? “Monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa, mi chiamò dicendo che ero nella rosa dei candidati Cei. Sarò sincero: anche se sono abituato all’obbedienza, non sapevo proprio cosa rispondere. Il mese precedente avevo festeggiato i 18 anni in parrocchia e avevo chiesto al vescovo di lasciare la chiesa di San Nicola per dedicarmi alle missioni e alle carceri. Infine gli ho detto di sì, anche se è stato un sì sofferto perché significava lasciare la città, la famiglia, la comunità. Inoltre cambiare radicalmente incarico a 60 anni non è facile... Nel giro di 15 giorni il vescovo mi ha richiamato comunicandomi che avevano scelto me. Ho accolto il mandato, in continuità con la mia vocazione. E poi ho affidato il mio incarico”. A chi l’ha affidato? “Ho una grande devozione per Madre Teresa. Appena giunto a Roma sono andato all’istituto delle Suore missionarie della carità, sul colle Celio, dove lei stessa soggiornava; sono stato un’ora nella sua stanza, affidandole il mio nuovo servizio. Non sapevo da dove iniziare, inoltre era una responsabilità nazionale e mi chiedevo se sarei stato in grado!”. Ha detto che i cappellani vanno sostenuti. Possiamo definire la vostra una pastorale di frontiera? “Sì, dentro le carceri c’è tanta povertà, tanta emarginazione! Noi cappellani siamo gli angeli custodi dei detenuti. Spesso sono immigrati, senza fissa dimora, persone senza famiglia”. Fra i detenuti ci sono anche credenti di altre confessioni e fedi. State vicino anche a loro? “Nelle carceri operano anche sacerdoti ortodossi, ma sono pochi e non riescono a raggiungere tutti i loro fedeli. Anche gli imam entrano sporadicamente. Per questo i cappellani sono richiesti da tutti, fedeli di altre confessioni e religioni compresi. Generalmente siamo ben accolti, i detenuti vedono in noi dei punti di riferimento spirituali, umani e materiali, preziosi anche per ricucire situazioni familiari complesse”. Le carceri e “il mondo esterno” spesso sono percepiti come due realtà separate. Lei, che è stato contemporaneamente parroco e cappellano, ha mai cercato di fare interagire “dentro” e “fuori”? “Certamente. Creare un ponte fra carceri e territorio è sempre stato un mio desiderio. Un passo dopo l’altro la parrocchia di San Nicola a Giugliano (dove è stato parroco per 18 anni, ndr) è diventata molto attenta ai problemi delle carceri. Abbiamo promosso diversi scambi e attività con le famiglie dei detenuti. Inoltre a Giugliano è sorta anche una Casa della misericordia per chi, in permesso speciale, non saprebbe dove andare”. Qual è la differenza fra l’essere impegnato in parrocchia e nelle carceri? “In parrocchia si sta molto con i gruppi e le persone, e le soddisfazioni pastorali - anche immediate - non mancano. Nelle carceri invece si semina nei solchi della vita, è raro godere dei frutti del proprio lavoro. Una volta scontata la pena perdiamo di vista la maggior parte dei detenuti, ma ci resta la gioia di aver seminato. La certezza cristiana è che il seme gettato prima o poi porterà frutto”. Oggi quali sono le urgenze dietro le sbarre? “La depressione, ahimè, è un problema conclamato. Tante situazioni di difficoltà si fanno largo perché nelle carceri c’è poco da fare. Ed è proprio per questo che i cappellani impostano progetti e si danno da fare: per aiutare i detenuti a uscire dall’isolamento”. Lei oggi gira per le carceri italiane. Quali ricchezze inaspettate vi trova? “Innanzitutto l’amore, a partire da quello dei detenuti per i loro cari. Poi alcune disponibilità inaspettate come chi chiede di essere catechizzato o di collaborare con noi nel far conoscere la Parola ai compagni di cella. A volte deleghiamo a loro anche gli incarichi di preghiera! A maggio, ad esempio, i detenuti si radunano per recitare il rosario, leggere il Vangelo o discutere di temi di fede e attualità: molti lo fanno senza cappellano”. Lei ha seminato tanto, ha già raccolto qualche soddisfazione? “Molto tempo fa un giovane di Secondigliano, dopo un profondo cammino di fede e un grande cambiamento di cuore, mi ha espresso il desiderio di diventare sacerdote! Per me, che allora ero alle prime armi, è stata una grande gioia: significava che aveva preso sul serio il contatto con la Parola. Scontata la pena ha fatto il catechista e oggi vive una vita cristiana!”. A 35 anni dalla sua ordinazione, come rilegge la chiamata al sacerdozio e alle carceri? “Non ho avuto una folgorazione eclatante come san Paolo, la mia è stata una vocazione semplice; fin dalla prima Comunione ho portato dentro di me il desiderio di incontrare Gesù. Poi negli anni la vocazione si è chiarita con l’aiuto dei padri spirituali e dell’esperienza che ho potuto fare. Per la mia consacrazione, il 20 ottobre 1984, scelsi la frase del buon pastore “e ho anche altre pecore che non sono di questo ovile, che io devo condurre”. Devo dire che è stata profetica: per me i detenuti rappresentano proprio quelle “altre pecore”“. Incontrasse papa Francesco, che cosa gli direbbe? “Gli direi grazie! Fin da subito ha preso a cuore i carcerati. Francesco richiama alla conversione con parole forti e quando parla di scomunica i detenuti recepiscono il messaggio con sofferenza. Le sue, però, sono le parole di un padre che vuole bene ai suoi figli. La Chiesa non calpesta chi ha vissuto l’esperienza del peccato, ma tende la mano! Per questo al Papa va il mio grazie, assieme a quello di tutti i cappellani”. I Cappellani. 250 in tutta Italia Oggi i cappellani penitenziari, 250, sono presenti in quasi tutte le carceri italiane, compresi gli istituti di pena minorile. Oltre ai sacerdoti sono attivi molti diaconi permanenti (circa 40), suore - “la loro presenza è fondamentale: i detenuti si confidano e vedono in loro delle madri accoglienti”, dice don Grimaldi - e religiosi. La maggior parte dei cappellani ha doppio incarico, in parrocchia e in carcere. “Succede perché le diocesi hanno molto bisogno anche sul territorio”, dice ancora il sacerdote. “Ma in fondo è un bene anche per il cappellano, che così può mantenere rapporti con famiglie, giovani e adulti non direttamente coinvolti con il mondo della detenzione”. Il convegno: chiesa riconciliata in carcere Dal 22 al 24 ottobre Montesilvano (Pescara) ospita il Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale penitenziaria dal titolo Chiesa riconciliata in carcere. L’operosità della fede, la fatica della carità, la fermezza della speranza (1 Ts 1,3). A dare avvio all’incontro con una lectio sarà fra Sabino Chialà della fraternità di Bose di Ostuni. A seguire, approfondimenti sulla mediazione penale dal punto di vista giuridico ed ecclesiale, e vari laboratori sulla vita in carcere, la giustizia riparativa e la pastorale penitenziaria. La celebrazione eucaristica d’apertura sarà presieduta da monsignor Giovanni d’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, mentre a celebrare la Messa conclusiva sarà il cardinale Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento. Il prossimo anno, dal 3 al 5 giugno 2019, a Roma ci sarà l’incontro mondiale dei cappellani organizzato dal Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione. Sindaci contro il decreto sicurezza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 gennaio 2019 La replica di Salvini: chi non lo applica ne risponderà. Il primo a scendere in campo contro le nuove misure introdotte del governo è stato Leoluca Orlando, ma in diversi lo hanno seguito. Duro il vicepremier: “La legge si applica”. Il sasso lo ha lanciato il sindaco Leoluca Orlando: lui quella parte del decreto sicurezza che sospende i diritti dei migranti richiedenti asilo non la applica a Palermo. Orlando ha impartito in modo netto ai suoi uffici “la disposizione di sospendere la legge 132 del 2018”. Dietro di lui si è già formata una fronda di sindaci, pronti a sfidare il decreto sicurezza, invocando la Carta Costituzionale. Ci sono il sindaco di Napoli Luigi de Magistris e quello di Firenze Dario Nardella, e mentre a Milano l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino esprime tutte le sue perplessità (che il sindaco Sala ha fatto sapere di condividere) verso il decreto di Salvini, a Parma il sindaco che fu del Movimento Cinque Stelle, Federico Pizzarotti, rompe gli argini e non esita a schierarsi contro quel decreto che lascia aperto “un vulnus” non certamente tollerabile. Il problema è questo: secondo il decreto sicurezza i migranti che richiedono asilo non potranno più essere iscritti all’anagrafe del comune e, di conseguenza, non potranno godere di diritti basilari. “Non possiamo permetterci di assistere a questo scempio umanitario”, dice Dario Nardella sindaco del Pd, e gli fa eco de Magistris: “Noi continueremo a concedere la residenza e non c’è bisogno di un ordine del sindaco o di una delibera perché in questa amministrazione c’è il valore condiviso di interpretare le leggi in maniera costituzionalmente orientata”. La prima reazione di Matteo Salvini è stata a caldo su Facebook: “Con tutti i problemi che ci sono a Palermo il sindaco sinistro pensa a fare disobbedienza sugli immigrati”. Poi il vicepremier e ministro degli Interni leghista è entrato nel merito legale della questione. Salvini è stato diretto: “I sindaci che si rifiuteranno di applicare il decreto sicurezza ne risponderanno personalmente, legalmente, penalmente e civilmente perché è una legge dello Stato che mette ordine e mette regole”. La questione rischia di allargarsi, la parte del decreto sicurezza che riguarda la sospensione dei diritti dei migranti non sembra convincere tutti i sindaci del Movimento Cinque Stelle, e dal Veneto, sempre in relazione all’immigrazione, rischia di arrivare un problema anche per il reddito di cittadinanza. È Gianantonio Da Re, segretario regionale della Lega in Veneto, a lanciare l’avvertimento: “Noi faremo le barriere, non permetteremo che al reddito di cittadinanza possano accedere anche gli immigrati. Noi siamo per “prima gli italiani”, per ogni cosa”. Secondo il segretario Da Re “questo reddito di cittadinanza così come è stato approvato va contro il decreto sicurezza voluto da Salvini”. E tornando appunto al decreto sicurezza l’Anci, l’associazione dei Comuni, ha voluto sollecitare il governo per una trattativa. Ha detto Antonio Decaro, presidente dell’Anci: “È evidente, a questo punto, l’esigenza di istituire un tavolo di confronto in sede ministeriale per definire le modalità di attuazione e i necessari correttivi a una norma che così come è non tutela i diritti delle persone Salvini minaccia i sindaci: “Ne risponderete legalmente” di Daniela Preziosi Il Manifesto, 3 gennaio 2019 Il fronte degli amministratori disobbedienti. Da De Magistris, a Pizzarotti e Nardella: scempio umanitario. Anci si appella al Viminale. I costituzionalisti si dividono: “Atto politico”, “Bene, così qualcuno solleverà la questione alla Corte”. “Da quando amministriamo Napoli abbiamo sempre interpretato le leggi ordinarie in maniera costituzionalmente orientata. Continueremo a concedere la residenza”. Il sindaco Luigi De Magistris, già vicino a Mimmo Lucano, il sindaco di Riace - il primo dei sindaci disobbedienti - si schiera con il collega Orlando che ha deciso di sospendere l’applicazione del decreto sicurezza per le parti sul diritto degli stranieri alla residenza anagrafica. Non è l’unico. In molti, da Reggio Calabria a Firenze e Parma, si dichiarano indisponibili ad applicare provvedimenti a rischio di incostituzionalità. Il Ministro Salvini in mattinata è sfottente: “Con tutti i problemi che ci sono a Palermo, il sindaco sinistro pensa a fare ‘disobbedienzà sugli immigrati”. Poi, in serata, quando l’ondata degli amministratori è diventata marea, attacca Orlando da Facebook: “Vuoi disubbidire? Disubbidisci, non ti mando l’esercito, la polizia e i carabinieri”. Ma avverte tutti i disobbedienti: “È gravissimo, evidentemente alcuni hanno mangiato pesante a Capodanno. I sindaci ne risponderanno personalmente, penalmente e civilmente, perché è una legge dello Stato che mette ordine e regole”. E non è da escludere che un giudizio sulla legge arrivi davvero, pur dopo la promulgazione del Quirinale (che Salvini sbandiera come prova definitiva della costituzionalità del testo). Per il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabilli la scelta di Orlando “è un atto politico. I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi”, ma conclude: “Se sorge un contenzioso potrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale”. E infatti, spiega il deputato Stefano Ceccanti (Pd): “Un qualsiasi operatore del diritto chiamato ad applicare una norma legale ma che reputi in coscienza illegittima dal punto di vista costituzionale ha il diritto-dovere di rifiutarsi di applicarla. Andrà incontro a denunce, ma di fronte al giudice chiederà il rinvio alla norma alla Corte”. Salvini intanto ha già organizzato una gita a Palermo: “Sono curioso di capire se rinunceranno anche ai poteri straordinari che tanti sindaci hanno apprezzato”, dice a Radio 1. Scherza con il fuoco, spiegano i sindaci, con una legge “criminogena e disumana”. Giuseppe Falcomatà, Reggio Calabria: “Nella nostra città mai applicheremo norme che vanno contro i principi costituzionali e di accoglienza”. Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente dell’associazione dei comuni, chiede un tavolo con il Viminale: “L’avevamo detto prima che il decreto fosse convertito in legge. I diritti umani non sono negoziabili”. Dario Nardella, di Firenze, è uno a cui in genere piace il pugno di ferro (indimenticabili le sue ordinanze antipanini, o le scale dei sagrati innaffiate per sfollare i turisti). Su questo però la pensa come Orlando: “Non possiamo assistere a questo scempio umanitario”. Ai sindaci Pd si unisce l’ex M5S Federico Pizzarotti, che pure non è convinto dello strumento: “Dal punto di vista politico non posso che condividere la volontà di affrontare un problema che il decreto sicurezza crea, ossia non poter dare riconoscimenti anagrafici a persone richiedenti asilo e straniere. Il modo in cui il problema si affronta è da capire”. La Sicilia è in maggioranza con Palermo. Il nuovo segretario Pd Faraone invita gli amministratori dem ad applicare “il modello Orlando” e lo storico “nemico” Micciché, presidente dell’assemblea regionale, propone “una giornata di dibattito”. In realtà il dissenso dei comuni sul decreto non nasce ieri. Da mesi i consigli comunali Torino, Bologna e Firenze hanno approvato mozioni per la sospensione degli effetti del decreto, soprattutto per il depotenziamento degli Sprar (l’efficace sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, coordinato dal Viminale e gestito dagli enti locali). La regione Lazio di Zingaretti a dicembre ha stanziato 600mila euro per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti vulnerabili, azzerata dal decreto. Parere negativo al decreto era arrivato anche dalla giunta capitolina. E da amministratori di destra come la sindaca di Savona Caprioglio, quello di Alessandria Cuttica e l’assessora genovese Fassio. A novembre in 60 amministratori pugliesi avevano firmato un documento bipartisan contro il decreto. Da destra, a difesa, ieri si sono segnalati in pochi: a parte il forzista moderato Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno, per il resto solo ultras: la sindaca di Monfalcone Anna Cisint, quella che ha vietato i quotidiani Avvenire e manifesto nella biblioteca comunale; e il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza, quello che ha ordinato di rimuovere dal municipio lo striscione “Verità per Giulio Regeni”. “La legittima difesa? Un deterrente contro i furti”. Intervista a Riccardo Marchetti (Lega) di Maria Elena Capitanio La Verità, 3 gennaio 2019 Il vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera, il leghista Riccardo Augusto Marchetti, ha incontrato La Verità per parlare della prossima battaglia del governo: l’approvazione della legge sulla legittima difesa. La legittima difesa presto sarà legge: perché è importante? “Per troppi anni lo Stato si è schierato dalla parte dei criminali. Basterebbe ascoltare le intercettazioni: nell’Est Europa tra loro si dicono: “Venite in Italia perché le persone non possono difendersi altrimenti vanno in galera”. Ora non accadrà più”. In che modo cambieranno le cose? “La ratio è quella di creare un deterrente. Chi viola una proprietà privata sa quello che rischia, sa che potrebbe anche essere ucciso”. Il testo introduce il patrocinio gratuito per chi agisce per legittima difesa. “Siccome le indagini dovranno comunque essere svolte, le spese legali saranno a carico dello Stato e non più del cittadino che oggi si trova spesso in una gogna giudiziaria che a volte porta a vendere la propria attività per pagare le spese legali”. Un certo storytelling della sinistra dipinge la legittima difesa come non rispettosa della dignità umana. Cosa ne pensa? “La legge che noi ci apprestiamo ad approvare è già così in tutti i Paesi occidentali civili: in Svizzera, Francia, Germania. Ogni ordinamento giuridico prevede che il patrimonio sia sacrosanto evada difeso. La sinistra ha una visione strana del mondo, ad esempio intende la reclusione più come una vacanza che come un’occasione di riflessione”. L’opposizione infatti sostiene che la Lega stia facendo dell’Italia il nuovo Far West. “Non è così. Le regole per il porto d’armi non cambieranno. Serviranno sempre esami sia psicologici sia fisici. Non è che la Lega abbia liberalizzato l’utilizzo della armi. La legittima difesa può avvenire anche con il mattarello”. Invece la norma attualmente in vigore che cosa dice? “Che se io mi sveglio di notte e in casa trovo un rapinatore mi devo fermare e chiedergli: “Chi sei? Non vorrai mica rubare?”. A quel punto se lui dice sì e nel frattempo tira fuori un’arma, allora posso reagire. Sempre se sono ancora vivo”. Passiamo al decreto sicurezza: in che modo cambia la qualità di vita degli italiani? “Intanto sono diminuiti gli sbarchi dell’80%. Poi c’è stato un taglio importante dei famosi 35 euro elargiti per ogni migrante, che sono scesi a 19 con un risparmio di 1 miliardo e 300.000 euro che verranno reinvestiti nell’assunzione di agenti di pubblica sicurezza”. Quanti nei prossimi anni? “Circa 8.000 nei prossimi due anni divisi tra carabinieri, polizia e Vigili del fuoco”. Poi che altre novità? “La possibilità di utilizzo del taser, cioè la pistola elettrica, anche per gli agenti di polizia municipale e in tutti i capoluoghi di provincia”. Avete anche rivisto il sistema Sprar, che riguarda la protezione di richiedenti asilo e rifugiati. “Ora lo Sprar è rivolto a chi ne ha veramente necessità, a chi scappa dalla guerra, quindi circa 1’8% degli immigrati, come a chi fugge da catastrofi naturali o da situazioni di violenze sessuali o familiari riscontrabili”. E i centri di accoglienza? “Ne abbiamo chiuso la maggior parte e quelli che restano saranno regolati dalla norma che prevede il prolungamento dei giorni di permanenza da 90 a 180 permettendo un controllo continuo ed evitando che la prima notte i soggetti scappino, come è successo fino a oggi. Il 60% dei richiedenti asilo scompare dal controllo dello Stato”. Su questa materia avete dato più poteri ai sindaci? “Nella precedente legislazione era il prefetto che si accordava con la cooperativa, ora invece sarà il sindaco che deciderà quanti soggetti devono essere collocati sul proprio territorio”. Due parole sulla prescrizione. Con l’approvazione dell’Anticorruzione dall’1 gennaio 2020 l’istituto verrà sospeso a partire dalla sentenza di primo grado: metterete mano all’intero processo penale prima di allora? “Per la Lega l’obiettivo è uno soltanto: tempi certi del processo, soprattutto per chi è innocente. Noi quindi vogliamo portare il processo penale italiano a essere uguale al resto d’Europa: in uno, due, massimo tre anni si deve avere la sentenza definitiva”. Arrivano 600 nuovi giudici. La proroga della pensione ora non ha più senso di Alberto Cisterna* Il Dubbio, 3 gennaio 2019 Gli organici della magistratura sono stati sempre una questione da maneggiare con molta cura. Si potrebbe scrivere un’intera storia dell’ordinamento giudiziario a partire dalle discussioni e dagli scontri sull’ampliamento dell’organico delle toghe o sulla collocazione della giurisdizione onoraria entro o fuori il circuito dei chierici o sull’età pensionabile dei giudici. Quest’ultima un vero e proprio jo-jo normativo (i più anziani ricorderanno il gioco). Uno jo-jo che, con il suo scendere e salire, ha misurato in un certo tempo la vicinanza o meno di una parte delle toghe al potere politico di turno. Prima 68, poi 75, poi 72, ancora 70, ma anche 72 per pochi. L’ultimo a metterci mano in modo deciso è stato il governo Renzi che, sulla scia di una rottamazione rimasta invero in mezzo al guado, aveva bruscamente collocato a 70 anni l’età pensionabile. Vige tuttora questo limite, anche se nell’aria da tempo si susseguivano voci di pressioni, sollecitazioni, richieste per dilatare nuovamente a 72 la fatidica soglia. Certo lo scontro tra il ministro dell’Interno e il procuratore di Torino, per una presunta fuga di notizie su un’operazione di polizia, non aveva avvantaggiato il partito della proroga. Anzi. Molti ricorderanno le brusche parole del ministro Salvini che ironizzava sull’imminente pensionamento dell’alto magistrato; che 15 giorni dopo ci potesse essere una proroga dell’età da pensione a 72 anni sarebbe suonato sconveniente e oltre modo ingiusto. Senza contare che la mossa poteva apparire in ingiustificabile controtendenza rispetto alla riforma della legge Fornero estesa anche agli statali. Finora la giustificazione di questo “tira e molla” sull’età in cui appendere al muro il laticlavio era stata l’horror vacui; il paventato timore che il brusco abbassamento a 70 anni stesse cagionando vuoti dirompenti nella magistratura italiana. In parte l’argomento aveva una sua dignità. Anche se, per altro verso, si deve prendere atto con soddisfazione dell’imponente turn-over che la riforma del 2014 ha imposto ai vertici della magistratura italiana con l’affacciarsi di dirigenze dinamiche e, diciamo pure, giovani (sui 55/ 60 anni sia chiaro mica veri giovani). La legge di bilancio 2019 ha definitivamente archiviato anche quest’ultimo argomento e il partito della proroga è rimasto, ora, davvero senza frecce al proprio arco. L’articolo 1, comma 379, della legge 145/ 2018 recita “il ruolo organico del personale della magistratura ordinaria è aumentato complessivamente di 600 unità. Il ministero della Giustizia, in aggiunta alle ordinarie facoltà assunzionali (testuale n. d. r.), è autorizzato a bandire, dall’anno 2019, procedure concorsuali e, conseguentemente, ad assumere un contingente massimo annuo di 200 magistrati ordinari per il triennio 2020- 2022”. Un aumento impressionante se si considera che l’intero organico della magistratura italiana conta 9.921 unità con 1.042 scoperture d’organico (fonte Csm), ma calcolate al lordo dei concorsi in fase di ultimazione o già banditi. Con 600 nuove unità la magistratura italiana arriverà a 10.521 toghe, un numero davvero cospicuo. Certo adesso si aprirà la partita della distribuzione di questi posti. La riforma della prescrizione - con decorrenza dal 2020 e salvo imprevisti - imporrà un significativo rafforzamento degli uffici penali di primo grado (dopo quella meta i reati saranno imprescrittibili). Ma anche dei successivi gradi di giudizio per i quali la prescrizione resta(va) un mezzo abbastanza diffuso per calmierare i carichi di lavoro. Di fatto il sistema penale italiano era già largamente depenalizzato per le contravvenzioni e i reati bagatellari che non arriva(va) no quasi mai a sentenza definitiva. Ora la prevedibile onda lunga del nuovo regime di prescrizione (gli effetti si vedranno dal 2025 e oltre) impone di attrezzare per tempo i tribunali penali in modo da consentire loro di non restare con “il cerino in mano” della prescrizione. E 600 nuovi giudici sono una bella risorsa, anzi davvero grande. Dicevamo della distribuzione dei posti. Argomento, anche questo, spinoso assai. Non si è ancora del tutto sopita l’eco della proposta dell’ex ministro Orlando e del procuratore Gratteri di ridurre in modo significativo il numero delle corti d’appello, accorpando quelle di piccole dimensioni. Allora si era levato un muro di proteste a sostegno delle micro- sedi, alcune comprensibili, altre molto meno e, soprattutto, con dentro oblique joint-venture tra magistrati, avvocati e politici locali, mossi da interessi più o meno commendevoli. Ora lo stesso comma 379 della legge di bilancio prevede che “con uno o più decreti del ministro della Giustizia, da emanare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentito il Consiglio superiore della magistratura, sono rideterminate le piante organiche degli uffici giudiziari”. L’alternativa ci pare secca. O il ministro, notte tempo e senza concedere grandi spazi a futili discussioni, mette mano al “governo del cambiamento” della giustizia in Italia, oppure avremo l’ennesima delega rimasta senza alcuna attuazione. La questione, in questa evenienza, sarebbe delicata perché non si saprebbe dove allocare i 600 giovani magistrati e tutto finirebbe con i soliti interventi a pioggia per non scontentare nessuno. Si badi bene la delega al ministro di via Arenula è molto ampia e generale (“sono rideterminate le piante organiche degli uffici giudiziari”) e, cosa importante, per nulla circoscritta all’aumento di cui si discute. Una grande e straordinaria occasione per il governo Conte che potrebbe mostrare nei fatti la volontà di svoltare pagina nel comatoso e paludoso mondo dell’organizzazione giudiziaria; compito che la Costituzione, come noto, riserva proprio al ministro della Giustizia (art. 110), ma che vede seduti al tavolo molti convitati di pietra e non tutti ben disposti a cedere appannaggi e privilegi *Magistrato Detenuto 41bis: legittimo non recapitargli vaglia postale? Da valutare caso per caso di Veronica Manca* quotidianogiuridico.it, 3 gennaio 2019 Cassazione penale, sezione I, sentenza 13 dicembre 2018, n. 56197. Con la sentenza in commento, la Prima Sezione della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema del trattenimento della corrispondenza in entrata per i detenuti sottoposti al regime del 41-bis O.P. (già in precedenza, v. Cass. pen., Sez. I, 19 giugno (ud. 5 aprile) 2018, n. 28309; Cass. pen., Sez. I, primo febbraio 2018, n. 4994). Oggetto del procedimento di sorveglianza riguardava il reclamo dinanzi al Tribunale di sorveglianza dell’Aquila da parte del detenuto avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza che aveva disposto il trattenimento della corrispondenza con riguardo ad un vaglia postale indirizzato al detenuto da persona terza (diversa dai familiari). Anche il Tribunale di sorveglianza confermava il provvedimento del Magistrato, asserendo che la ricezione di vaglia postali - ai detenuti in regime di cui al 41bis O.P. - sia consentito solo da parte di familiari e non da soggetti terzi. Avverso la decisione del Tribunale di sorveglianza, il detenuto propone, quindi, ricorso per cassazione, lamentando, in primo luogo, un difetto di motivazione, dato che in ordinanza non sarebbero rinvenibili argomentazioni in forza delle quali affermare che il Collegio avesse operato una valutazione in concreto della pericolosità intrinseca della missiva e un vaglio - sempre concreto e specifico - della posizione soggettiva del detenuto rispetto a collegamenti esterni con la criminalità organizzata da cui desumere la pericolosità anche estrinseca della missiva. Con il ricorso, il detenuto lamenta anche una violazione di legge, tenuto conto che la base normativa in virtù della quale il Tribunale di sorveglianza si era motivato per il rigetto sarebbe assente: nella circolare DAP del 3676/616 del 2 ottobre 2017, infatti, nulla viene disciplinato in materia di ricezione di vaglia postali. Data l’assenza di un preciso riferimento alla regolamentazione della ricezione di vaglia postali all’interno del testo normativo (comunque di rango inferiore) e nel silenzio della legge (di rango superiore) non si può dedurre un divieto di tale portata, rigido e generalmente applicabile, a prescindere dalla pericolosità intrinseca della missiva e dalla pericolosità estrinseca della stessa in relazione alla posizione personale del terzo rispetto al detenuto e ai suoi legami con il contesto criminale extra-murario. Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione - in conformità con i suoi precedenti - ribadisce la centralità di una valutazione ancorata alla situazione concreta. Nel caso di specie, infatti, il Tribunale di sorveglianza non aveva fornito adeguata e specifica motivazione in ordine al pericolo di sussistenza di legami con la criminalità organizzata del detenuto rispetto alla missiva ricevuta dal terzo tale da giustificare in concreto il trattenimento della corrispondenza - di fatto - e la conferma del provvedimento - in diritto - del Magistrato di sorveglianza. Per di più, sulla base della motivazione offerta dal Collegio, la Corte di Cassazione ritiene che tale valutazione sia rimasta solamente una considerazione astratta e non una valutazione nel merito, in concreto sulla situazione soggettiva del detenuto. Carenza di motivazione e inadeguata valutazione della situazione soggettiva del detenuto e del contenuto intrinseco della missiva non possono giustificare un provvedimento di trattenimento della corrispondenza epistolare per il detenuto, tanto più se al regime di cui al 41-bis O.P.; con riguardo, poi, più nello specifico, al tema del divieto della ricezione di denaro tramite vaglia postale l’assenza di motivazione non può supportare una prassi generalizzata di trattenimento, se non sulla base di concreti e adeguati riscontri fattuali (da rinvenirsi obbligatoriamente nella motivazione). Condivisibile la conclusione per cui ad una lettura attenta dell’ultima circolare Dap non paia esserci una preclusione assoluta di ricezione di vaglia postali da parte di terze persone. L’art. 7, punto 1 recita, quindi, che: “È vietata la spedizione e ricezione di denaro e valori all’interno della corrispondenza ordinaria. I detenuti/internati possono ricevere denaro solo in occasione dei colloqui visivi o tramite vaglia postale. L’invio di somme di denaro ai familiari da parte dei detenuti/internati interessati deve avvenire a mezzo vaglia postale. L’eventuale ricezione o invio di somme di denaro tra il detenuto/internato e terze persone, dovrà essere comunicata alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento”. La circolare, come, peraltro, risulta evidente dalla lettura del testo descrive il solo divieto di ricezione di denaro contenuto all’interno della posta ordinaria, a prescindere dalla provenienza del mittente, familiare o meno. Si prescrive, infatti, la regola per cui il denaro debba essere consegnato al detenuto solo in occasione di colloqui o, per il tramite, appunto di vaglia postali. Con riguardo, invece, allo scambio - in entrata ed in uscita - di somme di denaro da parte dei terzi si sancisce un unico obbligo di comunicazione alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento. Corretta, quindi, la decisione della Corte di Cassazione, che rimette al “mittente” l’obbligo di riesame della vicenda soggettiva in concreto sia con riguardo alla valutazione della pericolosità soggettiva del detenuto rispetto al mantenimento di legami con la criminalità organizzata sia con riguardo alla posizione del terzo rispetto al detenuto. *Avvocato in Trento e Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Trento No all’affidamento in prova se il precedente beneficio è stato revocato dopo i 18 anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 2 gennaio 2019 n. 31. No all’affidamento in prova al servizio sociale, a chi è già stato ammesso alla misura alternativa per reati commessi quando era minorenne, revocata in seguito ad un fatto rilevante avvenuto dopo i 18 anni. In tal caso scatta, infatti, il divieto di reiterazione dei benefici penitenziari per un periodo di tre anni previsto dall’articolo 58 quater dell’ordinamento penitenziario. La Cassazione, con la sentenza 31, respinge la tesi del ricorrente, che invocava l’applicazione della sentenza con la quale la Consulta(436/1999) ha dichiarato la parziale illegittimità della norma. I giudici della prima sezione penale chiariscono che il verdetto del giudice delle leggi non vale nel caso esaminato, perché riferito esclusivamente ai fatti commessi dal condannato prima del compimento della maggiore età. Nello specifico il Tribunale di sorveglianza aveva detto no all’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali perché al ricorrente, che aveva al suo attivo varie condanne e altrettante denunce, un precedente affidamento in prova disposto dal tribunale dei minori era già stato revocato, perché aveva interrotto l’attività lavorativa e si era reso irreperibile, sottraendosi all’esecuzione della pena per circa sei anni: quando era stato arrestato in flagranza di un altro reato. E l’esecuzione della pena era ripresa prima della scadenza dei i tre anni previsti dall’ordimento penitenziario. Ma ad avviso della difesa il parametro di riferimento per calcolare la dead line dei tre anni, doveva essere la data di emissione del provvedimento di revoca della misura alternativa. Affermazione non condivisa dai giudici, secondo i quali l’adesione alla lettura del legale si sarebbe tradotta in un irragionevole vantaggio per chi si era sottratto all’esecuzione. In più la marcia indietro sul beneficio c’era stata quando il soggetto era maggiorenne: circostanza che fa venire meno la possibilità di applicare la sentenza della Corte costituzionale. La Cassazione detta infatti un principio di diritto con il quale ribadisce che “il divieto di reiterazione dei benefici penitenziari per un periodo di tre anni, previsto dall’articolo 58 dell’Ordinamento penitenziario, opera anche con riferimento al condannato già ammesso alla misura alternativa per reati commessi in età minore, sempre che la revoca sia intervenuta in seguito alla commissione di un fatto rilevante successivo al compimento della maggiore età. Dovendosi ritenere che la sentenza costituzionale n.436 del 1999, dichiarativa della parziale illegittimità della disposizione predetta nella parte in cui si riferisce ai minorenni, sia applicabile esclusivamente ai fatti commessi dal condannato in età minore” Con la depenalizzazione dell’ingiuria non deve passare il concetto di impunibilità di Fabio Piccioni Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2019 La sentenza in commento è una tra le prime ad affrontare l’ex reato di ingiuria ora depenalizzato e a sottolineare le differenze in termini punitivi. La vicenda è finita sul tavolo del gip di Arezzo che si è espresso con la sentenza n. 686/18. Come noto, infatti, in attuazione della delega conferita con la legge 28 aprile 2014 n. 67, il Dlgs 15 gennaio 2016 n. 7, recante Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, ha definitivamente decriminalizzato il delitto di ingiuria, trasformandolo in un illecito civile - che integra un tertium genus di diritto punitivo, oltre a quello penale e amministrativo, che persegue, al pari degli altri, una finalità di prevenzione generale nello stadio della minaccia e di prevenzione speciale nello stadio della irrogazione. Il caso - Un Sindaco, ingiuriato durante il corso della seduta del Consiglio Comunale, ha intenta azione in sede civile davanti al Giudice di Pace, per il risarcimento del danno subito ex articolo 2043 del codice civile, ai sensi degli articoli 3 e 4, commi 1 lettera a) e 4 lettera f) del Dlgs 7/2016. La sentenza - Istruita la causa, con l’acquisizione del verbale di deregistrazione del Consiglio in cui sono riportate le espressioni lesive dell’onore dell’attore-persona offesa, ed escussa la prova testimoniale del presidente del Consiglio Comunale che ha confermato di aver udito le contumelie, il Giudice ha ritenuto fondata la domanda. Dopo aver pronunciato condanna al risarcimento del danno, ha anche applicato a carico del convenuto-autore della violazione la relativa sanzione civile pecuniaria. Conclusioni - La novità recata dal Dlgs 7/2016, consiste nell’idea di trasformare alcuni reati - previa rivalorizzazione del ruolo tradizionalmente compensativo della tutela sanzionatoria civile, quale alternativa a quella penale e/o amministrativa - in nuove figure di “illecito civile”, corrispondenti alla violazione di posizioni soggettive riconosciute dall’ordinamento civile, a presidio delle quali vengono istituite sanzioni pecuniarie civili. La finalità è quella di alleggerire il sistema penale senza indebolire la tutela e non smarrire la coerenza sistematica degli istituti, ne cives ad arma ruant. I nuovi “reati privatizzati” sottoposti a sanzioni pecuniarie afflittive - in analogia funzionale rispetto alla pena pubblica - svolgendo una funzione ultra-compensativa, sono chiamati a svolgere una finalità preventiva (deterrente) e repressiva (punitiva), in linea con il processo di crescente eticizzazione della responsabilità civile. La degradazione di reati in illeciti civili, sottoposti a sanzioni pecuniarie punitive, ulteriori rispetto al risarcimento, rappresenta una tecnica di depenalizzazione che non trova precedenti nell’ordinamento giuridico in sede di costruzione della disciplina sostanziale e processuale della nuova figura di poena privata. Le nuove “pene private” corrispondono a una direttrice politico-punitiva che conferma la crescente considerazione riservata dal legislatore - specialmente in ottica deflattiva - ai rapporti tra diritto penale e diritto civile. In conclusione, il nuovo istituto dischiude innovativi scenari per una politica-criminale orientata a una riduzione dell’area del diritto penale in cui il danneggiato ottiene il ristoro risarcitorio e la punizione dell’autore dell’offesa. Omesso versamento Iva: non c’è crisi di liquidità se si pagano prima i creditori di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2019 Nell’omesso versamento Iva non rileva quale causa di forza maggiore per il legale rappresentante di un’impresa lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione e la mancanza di risorse per fare fronte al debito con il Fisco. Il tutto nell’ipotesi in cui l’agente, subentrando nella carica, aveva la consapevolezza della crisi di liquidità e “non era nell’impossibilità a lui non ascrivibile di intraprendere alcuna iniziativa per fronteggiare tale situazione”. Ricorda a tal proposito la Cassazione - con la sentenza n. 9 del 2019 - che il reato infatti richiede il semplice dolo generico. La crisi di liquidità - La crisi di liquidità quindi quale fattore in grado di escludere la consapevolezza deve avere alla base non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica, ma anche la circostanza che “il dissesto” non poteva essere adeguatamente fronteggiato tramite il ricorso a idonee misure da valutarsi in concreto. Conclusioni - Una circostanza - precisano i giudici - che non è certamente ravvisabile nel caso concreto, in cui il soggetto si era interessato prima di saldare il debito con il Fisco a pagare i creditori. In questo caso il pagamento dei creditori in luogo dell’Erario, dimostra che l’omesso versamento è stato frutto di una scelta volontaria e deliberata. La sola omessa consegna delle scritture contabili non basta per la bancarotta fraudolenta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 2 gennaio 2019 n. 70. La semplice omessa consegna delle scritture contabili non basta a far scattare il reato di bancarotta fraudolenta documentale, nel quale può essere assorbito in caso di qualificazione multipla della condotta. La Corte di cassazione, con la sentenza 70, accoglie sul punto il ricorso contro l’ordinanza con la quale il Gip del Tribunale rigettava l’istanza di revoca degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, titolare di una Srl, per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale. Alla base delle accuse e della misura cautelare, una serie di “distrazioni”, di denaro e quote di partecipazione ad altra Srl dirette a svuotare la società poi dichiarata fallita. Per i giudici ai fini della bancarotta patrimoniale è ininfluente il nesso causale tra la distrazione e il fallimento, e i fatti sono rilevanti anche se la condotta è stata messa in atto quando l’impresa non era ancora in condizioni di insolvenza. La Cassazione considera invece fondato il motivo del ricorso relativo all’accusa di bancarotta fraudolenta documentale. Sia l’imputazione provvisoria sia l’ordinanza impugnata facevano, infatti, riferimento all’omesso deposito delle scritture contabili presso la cancelleria del tribunale fallimentare e di omessa consegna al curatore, oltre che al rinvenimento di parte della documentazione nel corso delle operazioni di perquisizione. Imputazione dalla quale non si capisce, sottolineano i giudici, se l’azione contestata riguardi la sottrazione o l’occultamento della contabilità, la tenuta in modo tale da non permettere la ricostruzione, o semplicemente la mancata consegna. Circostanza quest’ultima che può essere rilevante ai fini della legge fallimentare per il reato previsto dall’articolo 220 che punisce per chi non dichiara l’esistenza di alcuni beni, ma non basta per il fumus della bancarotta fraudolenta contestata. Misure cautelari disposte dal giudice incompetente. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2019 Giurisdizione e competenza - Misure cautelari - Disposte dal giudice incompetente - Nuovo provvedimento emesso dal giudice competente - Motivazioni - Rinvio alle valutazioni espresse dal precedente giudice - Ammissibilità. L’art. 27 c.p.p. impone al giudice competente di pronunciarsi entro 20 giorni dalla trasmissione degli atti da parte del giudice dichiaratosi incompetente in maniera autonoma su tutti i presupposti per l’adozione del titolo restrittivo, ma gli consente di motivare “per relationem”, ossia facendo riferimento alle motivazioni già espresse dal precedente giudice, salvo non sia mutata la contestazione in diritto o la rappresentazione degli elementi di fatto nella richiesta del p.m. • Corte di cassazione, sezione VI penale, 14 dicembre 2018 n. 56455. Misure cautelari personali - Provvedimenti - Interrogatorio - In genere - Misura cautelare disposta da giudice incompetente - Rinnovazione a opera del giudice competente - Nuovo interrogatorio di garanzia - Necessità - Esclusione - Mancata convalida del fermo - Rilevanza - Esclusione. Qualora la misura cautelare disposta da giudice incompetente sia rinnovata ad opera di giudice competente non è necessario procedere a un nuovo interrogatorio di garanzia, conservando piena efficacia quello effettuato, ai sensi dell’art. 294 cod. proc. pen., dal giudice che ha disposto la misura e ciò neanche nel caso in cui il provvedimento di fermo di indiziato di delitto, cui la misura si ricolleghi, non sia stato convalidato. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 novembre 2016 n. 48246. Competenza - Dichiarazione di incompetenza - Misure cautelari disposte - Ordinanza emessa dal giudice competente ex art. 27 cod. proc. pen. - Motivazione “per relationem” - Legittimità - Condizioni. In tema di misure cautelari emesse ex art. 27 cod. proc. pen., il giudice competente ben può motivare “per relationem” con riferimento all’ordinanza emessa dal giudice dichiaratosi incompetente, purché la motivazione di quest’ultima risulti congrua rispetto alle esigenze giustificative del nuovo provvedimento, che deve dar conto, in motivazione, della predetta congruità. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 18 marzo 2016 n. 11460. Competenza - Dichiarazione di incompetenza - Misure cautelari disposte - Ordinanza emessa dal giudice competente ex art. 27 cod. proc. pen. - Motivazione “per relationem” - Legittimità - Condizioni. È legittima la motivazione “per relationem” dell’ordinanza applicativa della misura cautelare disposta dal giudice competente ai sensi dell’art. 27 cod. proc. pen., purché il rinvio alle valutazioni già espresse dal primo giudice risulti consapevole e consenta il controllo dell’iter logico-giuridico alla base dell’adozione del titolo restrittivo. • Corte di cassazione, sezione III penale, ordinanza 19 maggio 2015 n. 20568. Abruzzo: carceri verso il collasso per i troppi detenuti rpiunews.it, 3 gennaio 2019 Quella della questione penitenziaria abruzzese sta seguendo purtroppo il passo drammatico delle realtà nazionali. Il numero dei detenuti presenti nelle carceri della Regione dei Parchi sta sempre più aumentando e con essa gli innumerevoli problemi legati alla loro gestione. Seppur in un contesto di sperequata distribuzione annuale, laddove ci ritroviamo a dover fare i conti con relativi miglioramenti della condizione numerica, fa da contraltare un vertiginoso aumento dei numeri in diverse altre realtà. Non è da meno la questione dei penitenziari aquilani. Facciamo ora il punto della situazione di questi ultimi vagliando l’identità numerica e la condizione degli agenti presenti nei 3 istituti penitenziari di Avezzano, L’Aquila e Sulmona: Avezzano si ritrova ad avere ben 10 detenuti in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ciò lo ha fatto entrare in territorio negativo, relativamente alla capienza regolamentare, di ben 4 unità. Può sembrare un dato esiguo ma se si pensa che il personale di polizia penitenziaria vive la drammatica situazione del sempre più drammatico sottorganico (di notte si opera con non più di tre persone e certe volte le traduzioni da un posto all’altro vengono effettuate con non più di 2 persone), all’età che avanza (molti operatori hanno superato anche di molto i 50 anni di età) e la mancanza di una caserma agenti in grado di ospitare eventuali unità di personale in missione, si capisce bene che la condizione che si vive ad Avezzano non è affatto bella. Ad Avezzano si sono stravolte le regole in tema di tipologia di detenuti da assegnare. Sulla carta la casa circondariale di Avezzano dovrebbe ospitare detenuti c.d. a custodia attenuata e da qui la tipologia di regime applicato che potrebbe anche giustificare la poca attenzione offerta dall’Amministrazione per quanto attiene il numero di operatori posti in pianta organica. Tuttavia sono tantissimi i detenuti presenti arrestati e sottoposti a custodia cautelare in carcere e per di più senza aver maturato quel percorso trattamentale in grado di giustificare la loro presenza in istituti. Spesso i detenuti in essa accompagnati vivono la drammatica esperienza della prima volta in carcere per la quale il protocollo impone il regime delle sorveglianza a vista in grado di compromettere in maniera ancor più marcata l’attribuzione del diritto soggettivo all’agente di turno. Il dato dell’Aquila non deve trarre in inganno visto che 160 dei 235 posti regolamentari sono occupati da detenuti sottoposti al regime speciale del 41bis. Va da se che quando parliamo di questa tipologia di soggetti facciamo riferimento a quei detenuti tra i più pericolosi al mondo per i quali il trattamento loro riservato è di molto differenziato rispetto alla restante popolazione detenuta. Anche qui la situazione sta divenendo sempre più drammatica visto che si viaggia per incrementi di circa 10 detenuti ex 41bis annuali. A l’Aquila la gestione dei detenuti mafiosi e dei terroristi in essa presenti è affidata per lo più a gente inviata in missione e facente capo ad un contingente specializzato di polizia penitenziaria. Proprio per questo non ci si può esimere dall’avere una caserma agenti attrezzata e soprattutto degna di ospitarli. Allo stato attuale, così come denunciato qualche tempo fa, la caserma versa in condizioni pietose e per nulla rispondenti alle caratteristiche proprie di una Nazione civile come dovrebbe essere l’Italia. L’aumento del numero di detenuti ex 41 bis influisce negativamente anche sulla questione dei collegamenti a distanza in occasione delle udienze con i giudici. Il sistema delle multi video conferenze seppur ha di molto, anche se relativamente visto che non ci si sposta solo per questo, snellito il lavoro del locale Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, sta rendendo ancor più difficilissimo il compito agli addetti ai lavori e ai pochissimi sottufficiali presenti in loco, unici deputati a vestire i panni di ausiliari del giudice durante i collegamenti. L’Andamento non è assolutamente bello e se non si farà presto qualcosa abbiamo paura che il sistema possa andare in default. La Casa di reclusione di Sulmona potrebbe far vivere a l’Aquila una migliore condizione se solo potesse concorrere allo sfollamento dei boss in essa presenti attraverso l’implementazione anche in essa di un reparto per 41bis. Ovviamente ciò non potrà accadere se non attraverso la contestuale soppressione di quello riservato ai collaboratori di giustizia i cui detenuti in essi ristretti sono assolutamente incompatibile con il resto della popolazione carceraria. A tal proposito la UIL ha inviato una missiva ai massimi vertici dell’Amministrazione penitenziaria della quale non è ancora dato conoscerne le determinazioni assunte. Qualora dovesse essere accettata l’idea partorita dalla UIL sul nuovo padiglione, il quale viaggia spedito nella sua costruzione, potrebbe facilitare anche il la risoluzione di quello riferito della grave carenza di organico. A Sulmona, fortunatamente, la caserma agenti offre molti posti e tutti di qualità eccellente. L’arrivo di nuovo personale, anche in missione come quello del Gruppo Operativo Mobile, sarebbe accolto in maniera sicuramente migliore rispetto a quanto viene fatto negli spazi indecorosi messi a disposizione in quel dell’Aquila. Far nascere un presidio pro regime speciale sarebbe di molto facilitato anche dalla presenza di una delle scuole di formazione per la polizia penitenziaria che dal carcere dista non più di 3 chilometri. Ci sarebbe solo da potenziare il reparto riservato alla videoconferenze il che potrebbe avvenire convertendo gli spazi riservati ai collaboratori di giustizia destinandoli a decine di salette riservate ai collegamenti a distanza con i tribunali di tutta Italia. Non si può non rimarcare la necessità che ha il carcere peligno di doversi dotare della più alta gerarchia facendolo elevandare ad Istituto di primo livello. Da quest’anno il carcere di Sulmona sarà dotato anche di uno dei più avveniristici reparti penitenziari di pertinenza ospedaliera. Grazie alla UIL e solo ad essa si è riusciti nel compito di far chiudere il vecchio repartino, che altro non rappresentava che una trappola per topi ed un indegno posto dove far scontare una pena seppur in regime di ricovero ospedaliero, facendone costruire uno nuovo di zecca e di pregevolissima fattura. Potenza: suicidi in carcere, Asp e Casa circondariale di Melfi stipulano accordo quotidianosanita.it, 3 gennaio 2019 Si punta a mettere in campo ogni azione possibile per la prevenzione del suicidio, anche attraverso procedure di screening sistematico dei detenuti sia all’ingresso che durante la detenzione, per identificare gli individui con un rischio elevato. L’Azienda Sanitaria Locale di Potenza ha stipulato un protocollo d’intesa con la Casa Circondariale di Melfi, avente come oggetto la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei soggetti adulti negli istituti penitenziari. Il protocollo fa seguito alla Dgr n°347 del 30/04/2018 con cui la Regione Basilicata ha provveduto ad approvare le “Linee di indirizzo per la Prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei soggetti adulti negli istituti penitenziari” redatte del Gruppo di lavoro della sanità penitenziaria, il quale ha stabilito che ciascuna azienda sanitaria debba stipulare i protocolli operativi locali con l’Istituto penitenziario di riferimento e con il Prap (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria). “Tre i principali pilastri a sostegno di questa importante misura adottata dall’ASP”, spiega l’azienda in una nota. “Il documento redatto nel 2007 dal Department of Mental Health and Substance Abuse dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che riassume le raccomandazioni sulla “Prevenzione del suicidio nelle carceri” ed è rivolto al personale sanitario e penitenziario responsabile della salute e della sicurezza dei detenuti; il Dpcm 1° aprile 2008, emanato in attuazione dell’art. 2, comma 283 della Legge 24 dicembre 2007 n°244 (Finanziaria 2008) recante: “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”; il documento “Il suicidio in carcere. Orientamenti bioetici2 elaborato dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 25 giugno 2010”. “Con questo Protocollo d’Intesa - dichiara il Commissario Asp Giovanni B. Chiarelli - si intende mettere in campo ogni azione possibile per la prevenzione del suicidio, sulla base delle linee guida già esistenti del documento dell’OMS del 2007, il quale prevede che nel programma di prevenzione siano inserite procedure di screening sistematico dei detenuti sia all’ingresso che durante la detenzione per identificare gli individui con un rischio elevato, e del parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 25 giugno 2010”. Roma: i carcerati salveranno la città dalle buche di Beatrice Nencha Libero, 3 gennaio 2019 Dopo che i militari dell’Esercito hanno dato buca, saranno invece i detenuti a occuparsi delle migliaia di buche che affliggono la vita dei romani. L’ostilità espressa dai vertici della Difesa, a partire dalla ministra Elisabetta Trenta, già aveva lasciato intuire che i soldati non avrebbero sposato così facilmente l’idea del Campidoglio di “degradarli” a tappa-buche. A mettere una pietra tombale sulle speranze della sindaca Raggi si è espresso, garbatamente ma senza possibilità di appello, persino il presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Così da metà gennaio, al posto delle divise militari, lungo le vie di Roma più afflitte da problematiche di sicurezza stradale, interverranno una quindicina di reclusi, provenienti dai penitenziari di Regina Coeli e Rebibbia. Selezionati dopo un’attenta valutazione sia in base al loro profilo personale che alla formazione conseguita attraverso corsi, altamente specializzati, avviati per poter accedere al progetto. le strade. Si pensa a loro anche per la raccolta rifiuti Il protocollo sarà della durata di almeno un armo ed è stato firmato da Roma Capitale, dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e da Autostrade per l’Italia, che fornirà i mezzi tecnici necessari agli interventi. Che andranno dalla manutenzione delle buche, al rifacimento del manto stradale, passando per la pulizia delle caditoie e dei tombini. Tutte quelle attività di manutenzione ordinaria che, nella Capitale, non si effettuano più in maniera sistematica da tempi immemori. Ma quale sarà l’identikit dei detenuti promossi a manutentori del dissestato asfalto capitolino? “I quindici reclusi formati per lavorare alla manutenzione stradale sono stati selezionati in base ai requisiti previsti dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario e alle caratteristiche che consentono di accedere al lavoro in semilibertà fuori dal carcere: non devono presentare profili di pericolosità sociale e devono essersi comportati bene durante la detenzione” spiega Giovanni Battista de Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, il maggiore sindacato della polizia penitenziaria. Il protocollo sottoscritto dall’Amministrazione, che coinvolgerà direttamente gli Uffici tecnici dei Municipi romani, è il primo nel suo genere in Italia. Dopo che i detenuti sono stati già utilizzati con successo nella Capitale, da oltre un anno, per la riqualificazione di alcuni parchi urbani e persino di aree archeologiche di pregio. A seguirli da vicino, sotto il profilo della sicurezza, sarà una task-force composta da quindici agenti della polizia penitenziaria, coordinati dal sostituto commissario Claudio Iacobelli, a cui si aggiungeranno ulteriori agenti fino ad arrivare a quaranta supervisori quando il progetto sarà a regime. “Nessun detenuto ha interesse ad evadere, visto che in questo modo possono lavorare all’aperto e partecipare a un progetto concreto di riqualificazione professionale. Non a caso, come già per la pulizia del verde, i detenuti si sono tutti offerti volontari” aggiunge ancora il sindacalista. Nel caso della manutenzione dei giardini, almeno inizialmente non era prevista retribuzione. Mentre per la manutenzione stradale, l’Amministrazione penitenziaria avrebbe a disposizione dei fondi per coprire il costo del lavoro dei detenuti, oltre a tutte le normali tutele contro gli infortuni. Ma c’è un altro settore nevralgico dove i detenuti potrebbero essere impiegati come risorse preziose. Anche Ama, l’azienda municipalizzata dei rifiuti urbani, ha appena sottoscritto con il Dap un protocollo di intesa, che prevede l’utilizzo di cento reclusi. Il progetto è ancora in fase di elaborazione ma i neo operatori ecologici provenienti dalle carceri cittadine verranno suddivisi in due turni e impiegati per migliorare il decoro dell’Urbe. Oltre al problema dei rifiuti, come ha reso noto Ama anche ieri, c’è il pericoloso fenomeno dei roghi dei cassonetti: sono circa 50 quelli danneggiati in questi giorni in modo irreparabile. Ma forse, per presidiare cassonetti e impianti che prendono fuoco, servirebbe davvero l’esercito. Palermo: progetto per impiegare i detenuti semiliberi in servizi socialmente utili palermotoday.it, 3 gennaio 2019 Un progetto ambizioso, quello approvato dalla settima circoscrizione nell’ultimo giorno dello scorso anno. La mozione è stata proposta dal vicepresidente di Forza Italia, Fabio Costantino, e dai consiglieri Natale Puma e Pietro Gottuso. Utilizzare i detenuti in semilibertà per il progetto “Emergenza periferie Palermo”. Un progetto ambizioso, quello approvato dalla settima circoscrizione nell’ultimo giorno dello scorso anno, con una mozione proposta dal vicepresidente di Forza Italia, Fabio Costantino, e dai consiglieri Natale Puma e Pietro Gottuso. “Una scelta maturata per insufficienza di personale che si occupi di garantire l’igiene, la sicurezza e il decoro del territorio”, dichiara il vicepresidente Costantino. “Sono detenuti socialmente non pericolosi - continua il giovane azzurro - condannati per reati veniali. La legge tra l’altro, consente il loro impiego per lo svolgimento di progetti di pubblica utilità, secondo il principio della rieducazione e reinserimento in società”. “La proposta congiunta a mia firma e dei due colleghi del consiglio di Circoscrizione - conclude Costantino - mira a porre rimedio alle condizioni emergenziali in cui versano i quartieri periferici della città, mediante l’utilizzo di un progetto che sensibilizza alla concessione di una seconda possibilità a soggetti che possono ancora essere utili alla collettività”. Catania: i detenuti dell’Icatt di Giarre faranno lavori socialmente utili a Taormina blogtaormina.it, 3 gennaio 2019 Il Comune di Taormina ha stipulato un protocollo d’intesa con la Casa Circondariale Icatt (Istituto a Custodia Attenuata) di Giarre, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Catania e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Messina. La casa municipale intende “promuovere nell’ambito del proprio territorio l’esecuzione di lavori socialmente utili o di pubblica utilità” e in questo contesto ha dato la propria disponibilità ad offrire opportunità lavorative ai detenuti. La Giunta viole “promuovere la partecipazione di detenuti ed internati in iniziative di pulizia, manutenzione e conservazione del verde pubblico e siti di interesse pubblico”. Il protocollo d’intesa. L’iniziativa è a cura dell’assessore ai Servizi Sociali, Francesca Gullotta. Le parti hanno perciò assunto, con validità per 3 anni, i relativi impegni sottoscritti ora con un apposito protocollo d’intesa. La casa Circondariale Icatt di Giarre avrà la possibilità di “individuare tra la popolazione attualmente reclusa un numero di soggetti, preferibilmente residenti nelle province di Messina e Catania per i quali sussistano le condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, ai permessi o alle licenze”. Custodia attenuata. L’Icatt di Giarre è l’unica struttura in Sicilia ad avere anche una sezione a custodia attenuata “per soggetti tossicodipendenti, per reati a bassa soglia di pericolosità sociale” e verrà in tal ambito data la possibilità di effettuare “lavori di pubblica utilità”, nel caso in cui i detenuti abbiano espresso la volontà di espletare l’attività a titolo volontario e gratuito. I termini operativi. Il Comune dovrà ora predisporre con la direzione dell’Istituto, il programma di lavoro, individuare il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, luogo ed orario per l’eventuale fruizione del pasto presso esercizi commerciali convenzionati. I referenti del progetto, mensilmente, si faranno carico di verificare il buon andamento dello stesso e di risolvere eventuali problematiche. Il piano di trattamento relativo a ciascun detenuto verrà inviato al Magistrato di Sorveglianza Delegato per l’istituto per l’approvazione. Forlì: Forza Italia chiede una procedura d’urgenza per il nuovo carcere romagnanoi.it, 3 gennaio 2019 “A fondi (giustamente) stanziati, chiediamo adesso che si proceda in modo più snello e veloce nell’ appalto per il completamento dei lavori del nuovo carcere di Forlì nella frazione del Quattro, e si inserisca l’opera nelle priorità del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e della stazione appaltante così da permettere al personale della Polizia penitenziaria ed agli stessi detenuti di liberare l’attuale sito della Rocca di Ravaldino, consentendone il recupero. Al netto degli imprevisti e delle previsioni più ottimistiche, si parla di un trasferimento alla nuova struttura non prima del 2025, ovvero fra 6, al massimo, 7 anni. Davvero troppo per un’opera rimasta ferma già da più 15 anni. Si riapra il cantiere e si lavori giorno e notte per completare la costruzione della nuova casa”: a chiedere la procedura d’urgenza è Fabrizio Ragni, capogruppo comunale e coordinatore cittadino di Forza Italia. “Non intendiamo attendere passivamente la conclusione di una vicenda che, tra ordigni bellici, reperti archeologici e il fallimento di una ditta, ha creato nel corso di un decennio disagi non soltanto agli operatori ed ai carcerati, ma anche alla stessa città che ancora non può godere di un complesso di elevato valore storico architettonico, come la Rocca di Caterina Sforza luogo simbolo e centrale nel Rinascimento italiano”: aggiunge Ragni. “Tecnicamente, le opere che rientrano nel primo di tre distinti interventi previsti a progetto (la recinzione, parte degli alloggi di servizio, la centrale tecnologica e l’ingresso principale) sono state ultimate: “Ma c’è da porre rimedio al degrado in cui versano le mura ed ai danni arrecati alla struttura dai ladri e dai balordi che hanno saccheggiato in tutti questi anni il manufatto. Poi si dovranno realizzare le opere bloccate dalla risoluzione del contratto con l’impresa appaltatrice e quelle previste nel secondo stralcio, sospese dopo il ritrovamento di un ordigno bellico. L’intera situazione di abbandono, perché a tutti gli effetti il nuovo carcere del Quattro è la più grande “incompiuta” forlivese, prevede un pressing istituzionale incessante e un’attenzione al tema che, dobbiamo dirlo, non ravvisiamo nell’attuale giunta comunale del Pd, con Drei in uscita e che non si ricandiderà, ormai in fase di totale e palese disimpegno politico. Una motivazione in più per cambiare registro alle elezioni amministrative del maggio 2019”: conclude il capogruppo comunale e coordinatore cittadino di Forza Italia, Fabrizio Ragni. Roma: morte in carcere di Simone La Penna, “sottovalutate le condizioni di salute” tusciaweb.eu, 3 gennaio 2019 È stata pubblicata il 28 dicembre la sentenza con cui la cassazione ha posto la parola fine alla lunga e tormentata vicenda giudiziaria scaturita dal decesso nel carcere romano di Regina Coeli, la notte tra il 26 e il 26 novembre 2009, del detenuto viterbese 32enne. La suprema corte ha annullato senza rinvio “per non aver commesso il fatto”, la sentenza di condanna nei confronti del dirigente del centro clinico del penitenziario, Andrea Franceschini, 69 anni, difeso dall’avvocato Davide Mauceri. La cassazione non ha invece ritenuto di poter prosciogliere con formula più favorevole il medico incaricato Andrea Silvano, difeso dall’avvocato Massimo Amoroso. Per Silvano quindi è stato sancito l’annullamento senza rinvio, “per essere il reato estinto per prescrizione”, della sentenza impugnata agli effetti penali, con la conferma degli effetti civili, ovvero il risarcimento dei danni ai familiari della vittima. Con Silvano, dovrà risarcire i danni alle parti civili anche l’allora Asl RmA, responsabile civile, assistita da Ilaria Barsanti. Ai familiari era stata riconosciuta in primo grado una provvisionale di 30mila euro. Sono Massimo La Penna, Cinzia Faraoni e Martina La Penna assistiti dall’avvocato Sergio Maglio; Anna Petrillo e Aurora La Penna, parti civili con l’avvocato Roberto Randazzo. Nel dicembre 2014 i due medici erano stati condannati in primo grado a un anno ciascuno per omicidio colposo, nonché a una provvisionale di 30mila euro ai familiari, assieme alla Asl, responsabile civile, assistita dalla legale Ilaria Barsanti. Sentenza confermata in appello, il 22 febbraio 2017, contro la quale hanno presentato ricorso sia i medici, sia l’azienda sanitaria. Secondo la cassazione, i profili di colpa omissiva non attengono tanto alla inadeguatezza in sé del trattamento terapeutico adottato nei confronti del paziente all’interno del centro diagnostico carcerario, quanto alla “negligente ed imprudente sottovalutazione delle condizioni di salute del La Penna in relazione al persistente giudizio di compatibilità delle stesse con il regime detentivo”. La Penna, affetto da anoressia, è deceduto il 26 novembre 2009 a Regina Coeli dove era stato trasferito da Mammagialla. Il giovane stava scontando due anni e 4 mesi per droga quando morì, dopo aver perso oltre trenta chili. Il 21 gennaio 2009, al suo ingresso a Mammagialla, pesava 79 chili: 54 chili quando a giugno fu trasferito a Roma. Tra luglio e agosto ci fu un lieve miglioramento, ma il 28 settembre pesava poco più di 47 chili. Giudicato stazionario, il 9 novembre venne attestata la sua compatibilità col regime detentivo. Fu trovato morto in cella alle 8,10 del mattino del 26 novembre 2009. Ci sarebbe stata una sottovalutazione delle condizioni cliniche del paziente, indicate come “stazionarie” mentre “il mancato miglioramento doveva ritenersi di per sé una situazione critica ed un fattore di rischio”, nonché l’omissione di “interventi volti ad evitare ulteriori aggravamenti, come il trasferimento presso una struttura sanitaria esterna”. Anche per la cassazione “il trasferimento presso una struttura non penitenziaria avrebbe consentito l’immediato miglioramento delle condizioni del paziente e quindi probabilmente il recupero”. La Penna, inoltre, cinque mesi prima del decesso, “aveva subito un celere trasferimento dal carcere di Viterbo al centro diagnostico di Regina Coeli per stato anoressico, calo ponderale e squilibrio elettrolitico, con segnalazione di inidoneità al regime penitenziario ordinario”. “Il decesso - viene sottolineato - è stato causato da un’aritmia ventricolare, insorta a seguito di un episodio di ipokalemia. In altri termini, le continue e marcate variazioni dei valori del potassio ematico hanno determinato un’aritmia cardiaca, di gravità tale da risultare fatale per le sue precarie condizioni di salute”. “Ciò - spiegano i giudici della suprema corte - ha trovato drammatica conferma nelle conclusioni che erano state rassegnate dai consulenti nominati dalla parte civile nella relazione del 2 novembre 2009, appena tre settimane prima, secondo cui il La Penna, nonostante le terapie praticate, continuava a presentare livelli di kaliemia notevolmente al di sotto della norma, tali da essere associati ad un rischio elevato di aritmie cardiache, condizione che, se non adeguatamente trattata in idoneo ambiente di tipo clinico, porrà con ogni probabilità La Penna a serissimi rischi per la sua salute, come peraltro già verificatosi”. In questo contesto, la cassazione ha ritenuto fondato il ricorso di Andrea Franceschini. “Pur potendo in astratto individuarsi una posizione di garanzia del Franceschini quale dirigente sanitario, occorre che nel caso concreto sia provata una sua diretta ingerenza sia nel trattamento sanitario del paziente, sia nella valutazione della compatibilità delle condizioni di salute del detenuto rispetto al regime carcerario. Nulla di tutto questo risulta evidenziato nella sentenza impugnata”, scrivono i giudici. E ancora: “L’attività prevalentemente amministrativa e gestionale svolta dal Franceschini, posto a capo di una struttura complessa articolata in otto ambulatori, in diversi reparti di degenza ed in altre strutture in cui all’epoca lavoravano ben 176 operatori sanitari, è stata riconosciuta anche dal giudice di primo grado”. “Impossibile prosciogliere Andrea Silvano con formula più favorevole. Si impone nei confronti di Silvano - si legge - l’annullamento senza rinvio della sentenza, agli effetti penali, per l’intervenuta prescrizione del reato. Per il resto deve essere rigettato il ricorso di Andrea Silvano agli effetti civili e rigettato, altresì, il ricorso del responsabile civile Asl RM1”, dice la cassazione. Milano: sedici anni nella Nave di San Vittore, scatti per riflettere giustizia.it, 3 gennaio 2019 Oltre un mese di eventi (dal 13 dicembre 2018 fino al 20 gennaio prossimo) fra mostre, incontri con operatori, magistrati ed esperti, a vario titolo, di pena e detenzione, per raccontare sedici anni di vita del reparto “La nave” di San Vittore, un modello nel trattamento avanzato delle tossicodipendenze in carcere. Nata da un’iniziativa congiunta dell’Associazione Amici della Nave, del Provveditorato Regionale, dell’ASST Santi Paolo e Carlo e della Triennale di Milano, Ti Porto in Prigione, illustra una realtà che negli anni ha dato risultati importanti dal punto di vista clinico, sociale e di reinserimento “nella convinzione - sostengono gli organizzatori - che il “modello Nave” possa essere replicato”. Inaugurato il 13 dicembre scorso dai due ideatori del reparto - Luigi Pagano, all’epoca direttore del carcere, e Graziella Bertelli, psicologa, tuttora responsabile del progetto -, il ciclo di eventi si svolge in parallelo in due luoghi di Milano: le sale della Triennale e la Rotonda di San Vittore. Il programma si articola in diverse iniziative e linee tematiche. Finalità della pena, architettura dei luoghi della sua esecuzione, sicurezza sociale sono alcuni degli argomenti approfonditi nel corso d’incontri con gli esperti. Tra questi Gherardo Colombo, ex magistrato e oggi volontario a San Vittore, Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte Costituzionale e Stefano Boeri, architetto e urbanista. Le testimonianze dei detenuti vengono invece raccolte dalla giornalista Daria Bignardi che, in Ora Daria, conversa con persone che vivono o hanno vissuto l’esperienza del carcere. Il racconto del lato umano degli “inquilini” della Nave è affidato anche alla potenza evocativa di sessanta scatti in bianco e nero di Nanni Fontana che, nella mostra In transito. Un porto a San Vittore, parlano di speranze, ostacoli e ritrovata libertà, dalla schiavitù delle dipendenze. Il successo dell’esposizione sembra smentire lo scarso appeal che il carcere esercita in genere sulla “società libera”: con oltre trecento visitatori al giorno, la mostra è la più visitata tra quelle attualmente presenti nel Palazzo della Triennale dove è esposta anche un’opera di Marco Petrus (“San Vittore” 2018 - olio su carta, 210×195) che l’artista ha realizzato appositamente per Ti Porto in Prigione. Numerose anche le richieste di accesso all’istituto di Piazza Filangieri per assistere agli incontri in programma o per visitare l’esposizione Gianni Maimeri: la musica dipinta allestita in occasione della “prima” della Scala e la proiezione di “Attila” nella Rotonda centrale dell’istituto. Avellino: Luca Pugliese “una tournée a mie spese nelle carceri italiane” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 3 gennaio 2019 Un’ora d’aria colorata per difendere i diritti dei detenuti. L’iniziativa è di Luca Pugliese. “Organizzo una tournée a mie spese nelle carceri italiane”: questa la promessa fatta da Luca Pugliese dopo la toccante esibizione del 19 gennaio 2013 presso il carcere di Secondigliano, prima tappa di un epico viaggio musicale per le carceri d’Italia mai finito. Una coraggiosa iniziativa solidale, che punta il dito sullo stato dei nostri istituti penitenziari e chiama provocatoriamente in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. Sono in tutto sedici i concerti finora tenuti dal frontman dei Fluido Ligneo con la sua tournée “Un’ora d’aria colorata” in nove carceri italiane (Rebibbia, Regina Coeli, Opera, San Vittore, Secondigliano, Poggioreale, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, Ariano Irpino. Prossima tappa, giovedì 3 gennaio 2019, il concerto pre-epifania presso la casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, che porta a quattro il numero dei concerti tenuti da Luca Pugliese presso l’istituto di detenzione irpino. Protagonista unico di questa performance, come dell’intera tournée, un rocambolesco Luca Pugliese one man band, tra le note delle sue canzoni, tarantelle, classici della partenopea, perle del patrimonio cantautorale italiano e del repertorio musicale latino. “La dignità dell’uomo è un diritto universale che non ammette deroghe, e l’arte è un diritto di tutti” dichiara Pugliese. “La musica è aria dipinta. Portare un po’ di musica in luoghi dove tutto è troppo poco e troppo stretto mi ha reso vivo e mi ha fatto sentire utile al mondo.... Sono più che mai convinto che se vogliamo migliorare il nostro paese, dobbiamo cominciare dal basso, recuperando e riabilitando chi ha sbagliato, e che ciò non è solo doveroso, ma è anche possibile”. E oggi, mentre piovono parole e polemiche sul penoso sovraffollamento delle nostre carceri, questa iniziativa solidale suona ancora più provocatoria e di drammatica attualità: “L’effetto ristoratore e “liberatorio” che l’arte riesce ad avere in luoghi come il carcere, insegna che spesso basta poco per fare del bene a chi sta male”. E ancora: “Trascendo dalle problematiche strettamente politiche legate al problema carcerario, ma le testimonianze che ho raccolto nel mio tour non sono certo positive. Io ho messo gratuitamente a disposizione una mia competenza, e se tutti dessero qualcosa gratis per alleviare la sofferenza altrui, sicuramente il mondo starebbe più in armonia con sé stesso”. L’inverno dei matti da legare e la sfida della “Primavera 180” di Isaia Sales Il Mattino, 3 gennaio 2019 A 40 anni dalla legge 180 che mise fine ai manicomi, un libro di Teresa Capacchione (“Primavera 180”, edizione Sensibili alle foglie) ci aiuta a ricordare un periodo storico in cui il malato di mente e le sue condizioni divennero l’emblema di tutto ciò che si poteva considerare inumano. Certo, oggi è difficile ricordarsi quali erano le condizioni nei manicomi di Nocera Inferiore, di Materdomini, di Aversa, o al Frullone e al Bianchi di Napoli. La Campania era una vera e propria “industria di manicomi”, ne contava ben cinque civili e tre giudiziari (sui sei complessivi in Italia), oltre a quelli privati. In questi lager veniva praticata la contenzione fisica, vale a dire la legatura sistematica, (talora per mesi e anni) dei ricoverati; erano quotidiani i maltrattamenti, le battiture, le “strozzine” (avvolgimento al collo di un panno arrotolato per far perdere subito la coscienza); i malati di mente vivevano ammassati in casermoni senza una minima intimità, giravano nei padiglioni senza biancheria intima, spesso nudi, nella più totale inattività, e ancora più spesso si rotolavano nei loro escrementi; alcuni pazienti erano utilizzati per le pulizie e i trasporti interni, con ricompense irrisorie (una sigaretta, cento lire) o - più semplicemente come per gli schiavi - con la minaccia della scopa del sorvegliante; si praticavano loro terapie di “annichilimento”; elettroshock, lobotomia frontale, dosi massicce di psicofarmaci; il distacco dalle famiglie e lo sradicamento dall’ambiente di origine era considerato “normale” (e spesso a vita) e non si tentava nessuna opera di avvicinamento. Il malato di mente era una nullità, privato di ogni segno umano, una cosa, un oggetto da chiudere al mondo e a se stesso. Era l’escluso, un vero e proprio “dannato” della terra. In base alla legge allora vigente un matto solitamente dolce, non aggressivo, con buone capacità di rapporto, se aveva una crisi veniva subito rinchiuso perché “pericoloso per sé e per gli altri”, ma poi aveva grandi difficoltà ad uscire perché in genere i familiari non lo riprendevano e in quelle strutture accentuava tutti i suoi problemi. Insomma, i manicomi erano carceri della mente e non ospedali per i malati di mente. La guarigione non era contemplata, né tanto meno l’attenuazione della malattia al punto da renderla compatibile con un minimo di vita sociale. La battaglia per chiudere i manicomi, e per considerare i matti come malati che sì andavano curati ma non esclusi dal consorzio umano, fu lunga, difficile, e alla fine vinta perché (e il libro lo dimostra) accanto ai protagonisti delle teorie e delle pratiche psichiatriche alternative ci fu il sostegno di una parte della stampa nazionale e locale (tra cui spicca il ruolo del Mattino con i suoi giornalisti Ciro Paglia e Luciano Grasso) che coinvolse una vasta opinione pubblica a sostegno della chiusura e convinse il mondo politico più conservatore a “osare” una scelta legislativa rivoluzionaria per l’epoca. Certo, altre testate “progressiste” sostennero a spada tratta la riforma-rivoluzione, e tra le firme che si segnalarono la Capacchione ricorda quelle di Nora Puntillo e Felice Piemontese. Ma senza il sostegno della stampa “moderata” la battaglia sarebbe stata sicuramente più lunga e l’esito più incerto. Sicuramente la legge 180 e quelle sul divorzio e sull’aborto furono il prodotto legislativo più significativo dello spirito libertario che le lotte studentesche del Sessantotto apportarono al costume e alla concezione dell’uomo in Italia. In Campania il protagonista indiscusso di quel lungo percorso di liberazione dal manicomio fu sicuramente Sergio Piro, psichiatra tra i più importanti del Novecento, uno dei pochi intellettuali napoletani dallo spirito pratico, capace cioè di unire teoria e prassi e di somigliare alle cose per cui si batte. A lui si unirono medici, studenti, operatori, volontari (dando vita a Psichiatria Democratica) e poi via via giornalisti ed esponenti del mondo politico, in particolare delle Province (che all’epoca gestivano i manicomi) e della neonata Regione Campania, che si caratterizzò per una notevole sintonia tra forze di governo e di opposizione nel varare una delle leggi di recepimento più avanzate della ISO, che poi è restata inapplicata e in gran parte elusa. Tra di essi vanno ricordati sicuramente gli assessori Silvio Pavia e Armando De Rosa e la leader dell’opposizione Monica Tavernini. Sergio Piro, contrariamente a quello che si è scritto di lui, non era un “antipsichiatra” (e lo dimostra molto bene il figlio Francesco nella prefazione al libro) nel senso caricaturale che il termine ha assunto, cioè di chi nega la malattia mentale e sostiene il rapporto meccanico tra chiusura dei manicomi e fine della sofferenza psichica. Al contrario Piro non aveva cessato di indagare quella che chiamava la “sofferenza oscura” e di offrire una prassi terapeutica all’altezza, preparando adeguatamente i giovani con una didattica incessante. Perciò aveva sperimentato proprio al manicomio di Materdomini una comunità alternativa assieme ai pazienti, affiancandosi all’esperienza che Franco Basaglia portava avanti nel manicomio di Trieste, e coinvolgendo artisti, fotografi, attori, volontari di ogni tipo uniti nel considerare il matto un malato recuperabile. E proprio il Mattino del 7 gennaio 1978 ad ospitare uno degli articoli più belli di Sergio Piro: “Irrecuperabile significa poco in medicina e niente in psichiatria. Certo esistono persone con gravi menomazioni psichiche o lesioni cerebrali che avranno sempre un peculiare comportamento e una limitazione del loro essere sociale. Tuttavia proprio in questo punto si differenziano due opposti modi di porsi di fronte all’uomo, due diverse pratiche sociali, due concezioni del mondo. Anche un cervello malato e gravemente menomato ha una storia e questa storia può promuovere lo sviluppo di alcune capacità. Dire che qualcuno è irrecuperabile significa condannarlo ad un’ulteriore menomazione. Riabilitare e recuperare significa restituire la vita per quanto si può. Altrimenti la menomazione è di tutti”. E proprio durante l’esperienza comunitaria al manicomio di Materdomini che Ciro Paglia incontra Piro e si appassiona alle sue battaglie. Il giornalista era stato inviato lì a fare un pezzo di “colore” sul direttore che “slegava i matti, a rischio di farli fuggire”. Egli così ne scrive anni dopo: “Il mio interesse per Materdomini era nato dalla ovvia esigenza di scrivere un servizio interessante, ma è subito divenuto un grande impegno per la singola vicenda che lì si svolgeva. Venni a conoscenza di un’intera realtà che prima mi era ignota: la realtà della sofferenza umana, dell’avvilimento di esseri umani ridotti ad oggetto. E contro tutto ciò mi parve doveroso iniziare una battaglia di mobilitazione delle coscienze”. Bei tempi, in cui si incontravano lungo la lotta ai luoghi delle sofferenze persone di diverso sentire politico e culturale, accomunati dal rifiuto di essere disumani. Ricatti, pedopornografia, hate speech. Crescono minori vittime di reati online Redattore Sociale, 3 gennaio 2019 Il Report 2018 della Polizia postale e delle comunicazioni. In aumento il numero di adolescenti vittime di reati contro la persona via web: dai 104 casi del 2016 si è passati ai 202 trattati nel 2018. La prevenzione dei rischi connessi a Internet ha coinvolto 15 mila scuole in 250 città. Diffamazioni, ricatti, pedopornografia, hate speech, stupri virtuali. Sono alcuni dei casi segnalati dalla Polizia postale e delle comunicazioni come risulta dal resoconto delle attività del 2018. Dal Report emerge l’aumento del numero di minorenni vittime di reati contro la persona tutte di età compresa tra i 14 e i 17 anni: dai 104 casi del 2016 si è passati a 177 nel 2017 e 202 nel 2018. Sono 43 gli arresti eseguiti nell’ambito delle attività di contrasto alla pedopornografia online e 532 le persone denunciate, oltre 33 mila i siti Internet monitorati (di cui 2.182 inseriti in black list), 13 le persone arrestate per adescamento di minori on line e 136 gli indagati. In crescita il fenomeno del ricatto on line: sono 940 i casi trattati dall’inizio dell’anno, 20 le persone denunciate e 2 arrestate in Italia. Da gennaio sono state denunciate 955 persone e 8 arrestate per aver commesso estorsioni a sfondo sessuale, stalking, molestie sui social network, minacce e trattamento illecito di dati personali. Tra i reati contro la persona sono in aumento le diffamazioni on line soprattutto ai danni di chi ricopre incarichi istituzionali o persone note: sono state denunciate 685 persone nel 2018. “Si registra inoltre una continua evoluzione nella tipologia dei reati commessi - si legge nel Report - L’ultima modalità di violenza contro le donne è lo “stupro virtuale” in cui all’interno di gruppi chiusi i partecipanti di sesso maschile condividono foto, cercate sui social o copiate di contatti su Whatsapp, di donne ignare, ritratte nella loro vita quotidiana, dando sfogo a fantasie violente e comportamenti offensivi”. Sono oltre 5 mila gli spazi virtuali monitorati nel 2018 per condotte discriminatorie di genere, antisemite, xenofobe e di estrema destra. In crescita anche le truffe on line: nel 2018 sono state denunciate 3.355 persone, ne sono state arrestate 39, sequestrati oltre 22 mila spazi virtuali, ricevute e trattate circa 160 mila segnalazioni di truffe o tentate truffe. Sensibilizzazione e prevenzione dei rischi connessi all’uso di Internet. La campagna itinerante della Polizia postale e delle comunicazioni “Una vita da social” ha permesso di incontrare oltre 1,7 milioni di studenti, 180 mila genitori, 100 mila insegnanti per un totale di 15 mila scuole in 250 città. “Il progetto è innovativo e decisamente al passo con i tempi e si avvicina alle nuove generazioni evidenziando sia le opportunità del web sia i rischi di cadere nelle tante trappole dei predatori della Rete, confezionando un ‘manuale d’uso’ finalizzato a evitare il dilagante fenomeno del cyberbullismo e tutte quelle forme di uso distorto della Rete in generale e dei social network”. La campagna #cuoriconnessi ha coinvolto 30 mila studenti attraverso la proiezione di un docufilm e le testimonianze dirette dei minori vittime di prevaricazioni, vessazioni e violenze on line. Nel corso del 2018 sono stati realizzati incontri educativi sul territorio nazionale raggiungendo oltre 30 mila studenti e circa 3 mila istituti scolastici. Cyber terrorismo. Sono stati monitorati circa 36 mila spazi web e rimossi 250 contenuti. È cresciuta l’azione di rimozione di contenuti illeciti presenti sulle proprie piattaforme da parte di Facebook, Google, Twitter e i maggiori fornitori di servizi Internet. Ma, “si è rilevato un passaggio dei fenomeni di diffusione e divulgazione dei contenuti riconducibili al radicalismo islamico su piattaforme social ritenute più sicure (Telegram, Whatsapp) in quanto garantiscono maggiore riservatezza. Inoltre, fornendo ai propri utenti un grado di anonimato più elevato finiscono per attrarre la quasi totalità delle attività di diffusione di contenuti illeciti o comunque di propaganda, poste in essere da soggetti contigui ad ambienti filo-jihadisti e agli stessi membri delle organizzazioni terroristiche”. La Polizia postale e delle comunicazione si avvale per l’attività di contrasto di profili sotto copertura creati ad hoc e gestiti dagli operatori, con l’affiancamento di mediatori linguistici e culturali. Tra i risultati: l’operazione Ansar ha portato all’individuazione di un minore italiano di origine algerina che attraverso Telegram svolgeva una campagna di proselitismo di matrice jihadista, istigando altri utenti a commettere reati di terrorismo; l’operazione Lupi del deserto ha portato all’arresto di un cittadino egiziano di 22 anni per associazione con finalità di terrorismo internazionale e istigazione e apologia per delitti di terrorismo. Emergenza freddo, rafforzati i servizi per i senza dimora Redattore Sociale, 3 gennaio 2019 Repentino abbassamento delle temperature. A Palermo il comune sta rafforzando i servizi già attivi di ospitalità notturne. Appello della Caritas di Roma per la raccolta di coperte. Stazioni aperte di notte a Napoli, mentre a Bologna volontari pronti a scendere in strada. Considerato il repentino abbassamento delle temperature e alla vigilia di una nuova ondata di gelo associazioni e comuni rafforzano le proprie attività di sostegno a chi vive in strada e in situazioni di disagio. A Bologna secondo Arpae, a partire dal 3 gennaio, si registrano in pianura temperature minime a -3 e massime intorno ai 6 gradi. E i volontari che ogni giorno escono per portare assistenza a chi è in strada sono pronti. “L’allerta meteo del Comune arriva in caso di neve o temperature che scendono a -5 e in quel caso cambia l’assetto con cui usciamo - racconta Francesca Spinato del Servizio mobile di Piazza Grande: tutte le unità di strada, noi, quella per le dipendenze e quella per Rom, Sinti e Caminanti, escono insieme, dividendosi le fasce orarie tra le 5 del mattino e le 3 di notte del giorno dopo”. In caso di allerta della Protezione civile per neve o freddo intenso, è garantita anche l’accoglienza nelle ore diurne nelle stesse strutture. Un riparo diurno ad accesso libero (dalle 10 alle 18) è possibile presso il Laboratorio di comunità E-20 (via Sarti 20 dal lunedì al venerdì) e presso il Laboratorio di comunità Belle Trame (via don Paolo Serra Zanetti 2 sabato, domenica e festivi). A Palermo, l’assessorato alla Cittadinanza sociale, di concerto con le associazioni che operano sul territorio, ricorda che “è attivo il Piano Operativo Emergenza Freddo”. Per contrastare l’ondata di gelo di queste ore, il Comune di Palermo sta rafforzando i servizi già attivi di ospitalità notturne per tutti coloro senza fissa dimora che decideranno di chiedere accoglienza e il relativo trasporto dalla strada ai posti al chiuso, in collaborazione con gli enti del terzo settore che gestiscono i servizi di emergenza sociale per conto dell’amministrazione (dormitorio, assistenza notturna e diurna su strada, ricoveri di urgenza, mensa) e gli enti di volontariato che si occupano dei senza dimora. Gli enti e i volontari accreditati con il Comune sono: Angeli della Notte, Sant’Egidio, Triscele, Le Ali, Frate Allegra, Rotary, City Angels, Cristo nei poveri, Croce Rossa Italiana, Cammino d’amore, S. Elisabetta, Missione Speranza e Anirbas. I volontari, inoltre, avranno cura di fornire le coperte messe a disposizione dalla protezione civile a tutti coloro che non volessero usufruire del servizio dormitorio. Da Palazzo delle Aquile si ricorda poi che “per contattare la centrale operativa della Polizia municipale relativamente alle segnalazioni per l’emergenza freddo in città il numero telefonico attivo è il seguente: 091.6733432”. I cittadini potranno effettuare le segnalazioni a partire dalle 19,30 e, per consentire un’adeguata presa in carico, possibilmente entro le 22,00. La polizia municipale attiverà i servizi diretti dell’amministrazione o valuterà la necessità di altri interventi. A Roma appello della Caritas per le coperte. anche nella Capitale si susseguono le iniziative rivolte ai senzatetto. Il Piano Freddo della Caritas di Roma lancia un appello a cittadini e comunità parrocchiali, invitandoli a donare coperte e sacchi a pelo che i volontari poi distribuiranno nel corso del Servizio Notturno Itinerante. Il materiale (non si accetta vestiario), può essere consegnato tutti i giorni, dalle ore 8 alle ore 20, nei seguenti centri: Ostello “Don Luigi Di Liegro”, via Marsala 109, Casa “Santa Giacinta”, presso la Cittadella della Carità in via Casilina vecchia 19 e la Mensa “Gabriele Castiglion” a Ostia, Lungomare Toscanelli 176. A Napoli stazioni aperte di notte per senzatetto. Per l’ondata di freddo prevista in città, il Comune di Napoli ha deciso di prorogare l’apertura notturna delle stazioni Museo e Municipio della metropolitana linea 1 dell’Anm. L’obiettivo è ospitare le persone senza fissa dimora all’interno delle stazioni. “Un gesto di cura e di attenzione - commenta l’assessore ai Diritti di Cittadinanza e Coesione Sociale, Laura Marmorale - per cercare di offrire un riparo, seppur di fortuna, alle persone che ne hanno bisogno per proteggersi dal freddo della notte”. A partire da questa sera verrà intensificata anche la distribuzioni di coperte e bevande calde. Verranno inoltre potenziati di circa 40 i posti in accoglienza per senzatetto nel dormitorio comunale. Scozia. Sigarette elettroniche per i detenuti, stanziate 150.000 sterline svapo.it, 3 gennaio 2019 Programma di cessazione del fumo nelle carceri scozzesi. Sono state spese più di 150.00 sterline per l’acquisto di kit vaping rivolti ai detenuti della carceri scozzesi. È quello che emerge dalla distribuzione di ben 7.500 kit gratuiti ai detenuti da fine novembre dello scorso anno. Rispondendo alle richieste di informazioni sul progetto l’SPS (Scottish Prison Service) ha affermato che il costo, anche se alcuni lo definiscono elevato, sarà di circa 14 sterline per kit corredato da un hardware, un caricatore e un pacchetto con tre liquidi aromatizzati “È un passo molto positivo per il benessere delle persone a noi affidate e delle persone che lavorano per noi”, ha affermato il portavoce di SPS, Tom Fox. “Penso che i soldi siano ben spesi, i benefici per la salute del nostro personale e di quelli a noi più importanti superano di gran lunga qualsiasi costo iniziale che abbiamo introdotto nel programma”. Salvaguardando sia l’aria all’interno delle carceri che i detenuti e il personale che ci lavora l’SPS ha fatto sapere che il progetto sta dando i suoi buoni frutti a fronte del divieto di fumo promosso lo scorso anno (a novembre) in tutte le carceri. Secondo diverse interviste effettuate nelle carceri alcuni detenuti sono entusiasti dei kit ma insoddisfatti dei costi mentre alcuni non sono del tutto contenti perché viene limitata la loro libertà di scelta in quanto vorrebbero la creazione di aree esterne dove poter fumare le sigarette convenzionali. I kit attualmente gratuiti diventeranno a pagamento ad aprile 2019. Turchia. Tre migranti morti in un naufragio sull’Egeo: la procura chiederà l’ergastolo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 gennaio 2019 Richiesta storica contro i trafficanti: per il procuratore si è trattato di omicidio. Intanto Human Rights Watch pubblica il suo ultimo rapporto sul confine turco-greco: Atene sotto accusa per abusi e deportazioni coatte. Tre ergastoli a testa, uno per ogni migrante affogato: è la pena, storica, che il procuratore di Bodrum, città turca sul Mar Egeo, intende chiedere per 14 persone accusate dell’omicidio di tre migranti, riporta il quotidiano turco Hurriyet. Il naufragio risale al 17 settembre scorso: una piccola imbarcazione su cui viaggiavano 18 persone, iracheni e siriani di cui otto bambini, era partita dalle coste di Bodrum, diretta verso l’isola greca di Kos. Subito dopo la partenza ha cominciato a imbarcare acqua. La guardia costiera turca è intervenuta, riuscendo a salvare 15 migranti. Degli altri tre sono stati recuperati i corpi senza vita: i cadaveri di due donne galleggiavano, la terza vittima - un uomo - era rimasta bloccata nella barca. La procura di Bodrum ha incriminato 14 turchi, accusati di traffico di esseri umani e “omicidio colposo volontario”: “Sapevano che la barca poteva affondare, ma l’hanno ignorato”, spiega il procuratore capo. La barca, aggiunge, aveva una falla e poteva portare un massimo di sette persone: ce ne hanno fatte entrare 18. Tra gli indagati (di cui, secondo Haber Turk, 8 sono agli arresti) ci sono il proprietario dell’imbarcazione e il suo “equipaggio”, i trafficanti che hanno gestito la partenza e il proprietario dell’albergo dove erano tenuti in vista del viaggio. Comunque vada, si tratta di un processo storico che potrebbe segnare un precedente importante, alla luce della pena sul tavolo: tre ergastoli l’uno. Un processo che ruota intorno ai confini tra Turchia e Grecia, oggetto di un accordo fortemente voluto dalla Ue per impedire l’arrivo di rifugiati sulla rotta balcanica. Dalle coste turche al cuore dell’Europa. Un mese fa i corpi di tre migranti erano stati trovati in tre diverse cittadine turche, nella provincia nord-ovest di Edirne, al confine con la Grecia. Morti di freddo, dopo essere stati rimpatriati, come ha raccontato alla stampa un afghano, Jamaluddin Malangi: era stato deportato con loro, su un nave che ha attraversato il fiume di frontiera Evros, tra i principali punti di passaggio dei migranti diretti in Grecia dal territorio turco. Nel 2018, secondo Atene, sono entrati illegalmente in Grecia 14mila migranti, contro i 5.500 del 2017. Pochissimi se si pensa ai numeri del 2015: oltre un milione di persone in fuga. Un crollo imputabile all’accordo Ue con Ankara: sei miliardi di euro per tenersi migranti e richiedenti asilo. Ma c’è chi sfugge agli occhi turchi. Per finire nelle mani greche. È del 18 dicembre il rapporto di Human Rights Watch che accusa la polizia ellenica di violenze sui migranti e deportazioni coatte in violazione del diritto internazionale. Di numeri precisi non ce ne sono: Hrw è riuscito a documentare 24 casi di deportazioni collettive lungo il fiume Evros, dalle 60 alle 80 persone alla volta costrette a imbarcarsi in direzione contraria dopo essere state picchiate e spesso derubate dei propri, pochi, averi. In tutti i casi il percorso è lo stesso: i migranti vengono arrestati dalla polizia locale, detenuti e poi portati via da uomini con il volto coperto, una sorta di commando paramilitare di frontiera non identificato. Tutti rispediti in Turchia, senza che ne sia poi seguito il destino: Ankara, lo scorso giugno, ha unilateralmente sospeso l’accordo con la Grecia per la gestione bilaterale dei rimpatri. Un atto di rappresaglia per la mancata consegna di otto soldati turchi accusati di aver preso parte al tentato golpe del luglio 2016. Medio Oriente. Vende una casa palestinese ai coloni: fine pena mai di Michele Giorgio Il Manifesto, 3 gennaio 2019 L’Anp ha condannato all’ergastolo e ai lavori forzati un palestinese con cittadinanza Usa che vendeva proprietà arabe ad agenzie “immobiliari” degli ultranazionalisti israeliani. Usa furiosi: è antisemitismo. David Friedman, ambasciatore Usa in Israele e amico dei coloni, a novembre, usando toni minacciosi, credeva di aver fermato l’Anp. E altrettanto pensavano di aver fatto le autorità israeliane arrestando Adnan Gheith, il governatore palestinese di Gerusalemme. Invece non è servito. L’americano-palestinese Issam Akel, arrestato dall’Anp perché accusato di aver venduto ai coloni israeliani proprietà arabe nella città vecchia di Gerusalemme, è stato condannato da un tribunale dell’Anp e dovrà scontare una condanna all’ergastolo e ai lavori forzati. La pesante sentenza è anche figlia del clima di guerra tra l’Anp e l’Amministrazione americana che va avanti da quando il 6 dicembre 2017 Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. “Gerusalemme non è in vendita, non lo accetteremo mai”, ha ribadito appena qualche giorno fa il presidente dell’Anp Abu Mazen. Il caso di Issam Akel ha avuto inizio lo scorso 10 ottobre, giorno dell’arresto a Ramallah, in Cisgiordania, del palestinese che è cittadino statunitense. L’uomo, che di solito abita a Betlemme, avrebbe ricevuto 25.000 dollari per aver favorito la vendita di una casa nel quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme, di proprietà di una anziana vedova e finita nelle mani di una “agenzia immobiliare”, la Elad, legata al movimento dei coloni della Ataret Cohanim, ufficialmente un istituto religioso ebraico, di fatto un’organizzazione di coloni di estrema destra impegnati a “conquistare” il quartiere musulmano, in particolare la parte adiacente alla Spianata delle moschee, il sito religioso considerato dalla tradizione ebraica il Monte del Tempio, il luogo dove sorgeva il biblico Tempio. La vicenda è parecchio ingarbugliata. La famiglia Joudeh, proprietaria della casa passata ai coloni, sostiene di aver ceduto la casa a Khaled al Atari, un uomo d’affari vicino al capo dell’intelligence dell’Anp Majd Faraj, dopo aver rifiutato l’offerta fatta da Fadi Elsalameen, un palestinese vicino a Mohammed Dahlan, l’agguerrito rivale di Abu Mazen. Come poi la proprietà della casa sia passata da al Atari ai coloni via Akel non è chiaro. Fatto sta che lo stesso giorno della vendita, l’abitazione è stata acquistata da una società estera denominata Daho Holdings Limited, legata ai coloni di Ataret Cohanim. Sarebbe stato Akel, secondo i giudici dell’Anp, a fare da intermediario nella vendita in cambio di una generosa commissione. Qualche giorno dopo l’arresto di Akel a Ramallah, Israele per mettere sotto pressione l’Anp ha arrestato il governatore palestinese di Gerusalemme. L’ambasciatore statunitense Friedman da parte sua ha più volte chiesto la liberazione del cittadino americano. “L’incarcerazione di Akel è antitetica ai valori degli Stati Uniti” ha scritto Friedman su Twitter. A suo dire l’arresto di Akel a Ramallah sarebbe figlio di sentimenti antisemiti e del divieto di “vendere terre agli ebrei”. Come lui gridano all’antisemitismo anche coloni ed esponenti dell’estrema destra cercando di generare negli Usa e in Europa reazioni di condanna dei palestinesi. In questa storia però l’antisemitismo non c’entra nulla. La contesa è puramente politica. Le agenzie “immobiliari” dei coloni, offrendo ai proprietari somme da capogiro, provano a comprare case nel settore arabo della città vecchia per riportarlo al pieno controllo ebraico, non mancando, denunciano i palestinesi, di falsificare i documenti. Qualche settimana fa una corte israeliana, dopo una battaglia legale durata 20 anni, ha stabilito che la famiglia Siyam, nel quartiere strategico di Silwan, ai piedi della città vecchia, deve lasciare la sua abitazione a beneficio dei coloni. “I coloni riescono a prendere il controllo delle proprietà palestinesi a Gerusalemme Est combinando manipolazioni, denaro, documenti falsi e aiuti significativi dalle autorità israeliane” spiega un portavoce del gruppo pacifista israeliano “Peace Now”. I palestinesi invocano punizioni durissime per chi vende proprietà immobiliari arabe ai coloni e danneggia il progetto di Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina. Non mancano le violenze. Il mese scorso un palestinese con passaporto israeliano è stato ucciso perché accusato di aver favorito la cessione di proprietà arabe ad organizzazioni della destra israeliana. Etiopia. Natale ortodosso, il governo concede l’amnistia a 530 detenuti Nova, 3 gennaio 2019 Il governo dell’Etiopia ha concesso l’amnistia a 530 detenuti in vista del Natale ortodosso, che si festeggerà il prossimo 7 gennaio. Lo ha annunciato oggi in conferenza stampa Zinabu Tunu, responsabile per le pubbliche relazioni dell’ufficio del procuratore federale, precisando che è stata data priorità alle donne con figli. Lo scorso 20 luglio il parlamento etiope ha approvato una legge di amnistia nei confronti degli individui e delle organizzazioni indagati o condannati per tradimento, crimine contro l’ordine costituzionale e lotta armata. Dalla sua entrata in carica, nell’aprile scorso, il governo del premier Abiy Ahmed ha disposto il rilascio di migliaia di prigionieri, inclusi esponenti politici e giornalisti, e ha avviato una serie di riforme politiche ed economiche volte a imprimere una svolta al paese, tra cui la storica dichiarazione di pace con l’Eritrea e la parziale liberalizzazione dell’economia. Brasile. Bolsonaro toglie competenze alla Fondazione per gli Indigeni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 3 gennaio 2019 È una delle prime decisioni che ha preso il presidente brasiliano Jair Bolsonaro dopo l’insediamento quella di togliere alla Fondazione Nazionale per gli Indigeni (Funai) una delle sue funzioni più importanti e significative: l’identificazione e demarcazione dei territori delle diverse popolazioni indigene del Paese. Le competenze ora passano al ministero dell’Agricoltura dicastero che ha affidato a Teresa Cristina, una delle due donne del suo gabinetto, leader del gruppo parlamentare ruralista che difende gli interessi dei grandi proprietari agricoli, frequentemente in conflitto con gli indigeni per lo sfruttamento dei loro territori. Il neo presidente mantiene così la promessa fatta in campagna elettorale di non dare “nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios” e di favorire gli interessi dei produttori (nel Congresso di Brasilia ci sono almeno 200 parlamentari, di tutti i partiti, che fanno parte della lobby). Per le organizzazioni che sostengono la causa indigena, il trasferimento di competenze sulla demarcazione delle terre servirà per consegnare all’agro-business territori sinora protetti. Durante la sua campagna elettorale, Bolsonaro aveva promesso anche che la stessa Funai passerà dalla sfera del ministero della Giustizia - ora parte del super-ministero della Sicurezza affidato al magistrato anticorruzione Sergio Moro - a quella del ministero per i Diritti Umani, che sarà gestito da Damares Alvares, avvocata e pastore evangelista.