Colloqui detenuti-familiari attraverso Skype di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 31 gennaio 2019 Videochiamate tramite Skype per facilitare le relazioni familiari dei detenuti e garantire le loro esigenze affettive. È quanto prevede una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che, dopo aver valutato l’esperienza dei progetti-pilota avviati in alcuni istituti, ha deciso di estendere su larga scala l’installazione e l’utilizzo della piattaforma di telecomunicazioni. Come prevede la normativa non tutti i detenuti potranno beneficiare di questa possibilità. Accanto alla finalità affettiva risulta fondamentale, infatti, che tutto si svolga nella massima sicurezza. Grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche e di Internet, i detenuti potranno avere contatti più agevoli con figli, genitori o coniugi, alleggerendo il peso di spostamenti, attese e incontri all’interno delle strutture penitenziarie. A beneficiarne saranno, in particolare, i bambini che hanno genitori in carcere, con i quali potranno avere contatti audio-visivi rimanendo in casa. Dal punto di vista giuridico, la videochiamata viene equiparata ai colloqui, anche per quanto riguarda autorizzazioni, durata e controlli. I detenuti, in linea generale, potranno fare fino a sei video-colloqui al mese per la durata massima di un’ora. Per quelli in attesa di giudizio sarà necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Prima di essere ammessi a effettuare le videochiamate ai familiari, i detenuti devono presentare richiesta indicando l’indirizzo mail da contattare e allegando copia del certificato che attesta la relazione di convivenza o il grado di parentela. Il familiare o il convivente destinatario della chiamata deve, invece, assicurare (tramite autocertificazione) che parteciperanno al collegamento esclusivamente i soggetti indicati nella richiesta e autorizzati. Per il collegamento i detenuti verranno accompagnati in appositi locali degli istituti dove avranno a disposizione postazioni informatiche abilitate. Per assicurare, accanto alla riservatezza, anche condizioni di completa sicurezza, i colloqui si svolgeranno sempre sotto il controllo visivo del personale della Polizia Penitenziaria che da postazione remota potrà visualizzare le immagini che appaiono sul monitor del computer in dotazione al detenuto. Nel caso di comportamenti non corretti del detenuto o dei familiari, il video collegamento verrà interrotto immediatamente con conseguente preclusione del servizio. Radio Radicale da Papa Francesco consegna le firme dei detenuti Il Messaggero, 31 gennaio 2019 Questa mattina una delegazione di Radio radicale composta dal direttore Alessio Falconio, da Rita Bernardini della presidenza del Partito radicale e dal giornalista Massimiliano Coccia ha incontrato Papa Francesco al termine dell’udienza pubblica del mercoledì. “Finalmente -dice Rita Bernardini- abbiamo potuto consegnare a Papa Francesco il librone contenente le lettere e le firme dei 19.056 detenuti che fecero due giorni di sciopero della fame per aderire alla Marcia per l’Amnistia che il Partito radicale organizzò in occasione del giubileo dei carcerati il 6 novembre del 2016”. “Papa Francesco - racconta ancora Bernardini - con il suo modo di fare naturale, che mette immediatamente a suo agio chi lo incontra, di fronte alla mole del libro, ha subito scherzato esclamando: “tascabile!”, soffermandosi sulla vignetta del compianto Vincino che disegnò il manifesto a colori della marcia ritraendo un massiccio Pannella che cammina portando sulle spalle un sorridente Bergoglio il quale, a sua volta, innalza il cartello ‘Amnistia!’“. “Proprio della condizione drammatica dei detenuti abbiamo parlato con Papa Francesco -dice ancora Bernardini- convenendo sulla necessità immediata di proseguire la lotta contro il sovraffollamento tanto voluta da Marco Pannella. A questo proposito, il Papa ha ricordato la telefonata che fece a Pannella ricoverato al Gemelli a seguito di un lungo sciopero della fame e della sete. “Poi ha bevuto”, ha ricordato con piacere il Papa”. “Nel corso del cordiale colloquio è stata ricordata la messa in onda da parte di Radio radicale dello storico incontro che il Papa fece nel 2014 con i giuristi cattolici definendo efficacemente l’ergastolo come “una pena di morte nascosta”. Altra conquista da perseguire che vede uniti Radio radicale, il Partito radicale nonviolento transnazionale traspartito e il Pontefice”. “Il colloquio - conclude Bernardini - si è concluso con la richiesta, subito accolta dal Papa, di un ravvicinato incontro con il giornalista di Radio radicale Enrico Rufi che ha perso la giovanissima figlia Susanna a causa di meningite fulminante subito dopo aver preso parte alla Giornata mondiale della gioventù del 2016 tenutasi a Cracovia. “L’Alleluja di Susanna” è il libro che Rufi donerà a Papa Francesco non appena lo incontrerà di persona”. Se le Procure bloccano la giustizia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 gennaio 2019 La denuncia viene da un magistrato. Anzi dal Presidente di un tribunale. Non un piccolo tribunale, quello di Torino. E la denuncia è clamorosa. Abbiamo pubblicato ieri uno stralcio ampio del discorso pronunciato dal dottor Massimo Terzi all’apertura dell’anno giudiziario. Pochi commenti e molte cifre: la conclusione è che la giustizia italiana è una giustizia spazzatura, che non funziona, che è ingolfata e non certo per colpa delle prescrizioni ma per il modo nel quale lavorano i magistrati. L’uso del termine spazzatura non è una mia faziosa forzatura: il dottor Terzi ha paragonato la nostra giustizia ai “titoli spazzatura” in borsa, cioè ai titoli a valore zero. Vediamo prima le cifre essenziali presentate dal Presidente del Tribunale di Torino: 150 mila persone ogni anno vengono assolte in primo grado dopo almeno 4 anni tra indagini preliminari e processo. 150 mila è una cifra spaventosa, rappresenta il 50 per cento delle persone contro le quali è stato avviato un procedimento giudiziario. A questi si devono aggiungere coloro che vanno in prescrizione prima della conclusione del processo di primo grado, che sono altre decine di migliaia, e quelli che saranno poi assolti in secondo grado o in Cassazione. Diciamo - con approssimazione generosa che i tre quarti di coloro che vengono mandati a giudizio e tenuti sulla graticola per quattro o sette o quindici anni, sono innocenti. E che molte migliaia di loro sono passati per il carcere preventivo o per i domiciliari. E che la conseguenza di questa mole spaventosa di processi avviati dai Pm è che ci sono quasi 600.000 processi pendenti, e che il numero è in aumento, e che si può già calcolare che se non cambia qualcosa entro 15 anni supereranno il milione. Tutto questo non è il contenuto della denuncia di un avvocato troppo polemico ma di un magistrato mite, che di queste cose se ne intende perché per professione si occupa esattamente di questo: organizzare la giustizia nella quinta più grande città italiana. Quali sono le cause di questo gran pasticcio? È sempre il dottor Terzi a spiegarcele: i pubblici ministeri esercitano l’azione penale con grande leggerezza, mentre - a giudizio di Terzi - dovrebbero esercitarla solo in presenza di fonti di prova certe. Le cause di questa abitudine sono da una parte l’obbligatorietà dell’azione penale (che da tempo è diventato un tabù per un settore ampio e soprattutto molto rumoroso della magistratura) e dall’altra, evidentemente, una insufficienza nella professionalità dei magistrati. Terzi dice che questo è il problema principale. Il numero abnorme di assoluzioni è dovuto all’abitudine di avviare le indagini e di chiedere comunque il rinvio a giudizio per una specie di automatismo burocratico: senza avere in mano nessuna prova di colpevolezza o nessuna speranza che questa prova possa formarsi in giudizio. La denuncia di Terzi, peraltro, ha coinciso con un nuovo episodio di cronaca che ieri era su tutti i giornali: la furia dei parenti di una vittima che non hanno accettato una sentenza di una Corte d’appello che ha modificato una sentenza di condanna per omicidio volontario trasformandola in condanna per omicidio colposo. Nelle ultime settimane è successo diverse volte che i parenti delle vittime (ma non solo loro, anche moltissimi giornali, molti politici, persino qualche ministro) hanno identificato una sentenza di assoluzione, o una riduzione di una condanna (come in questo caso), con il sommo della giustizia negata. Tra il discorso di Terzi e queste forme di rabbia popolare giustizialista c’è un contrasto molto evidente. Terzi non dice che l’assoluzione è una sconfitta della giustizia (l’assoluzione, in genere, è invece la massima espressione di giustizia) dice più semplicemente che una percentuale così grande di assoluzioni dimostra che c’è qualcosa che non va nelle indagini e nel processo. E questo qualcosa non è certo un eccesso di garantismo. Al contrario: è un eccesso di giustizialismo. La convinzione che la società sia fondamentalmente costituita da delinquenti e che dunque la massima espressione della modernità sia processare più gente possibile (diciamo: il davighismo) è la ragione fondamentale del cattivo funzionamento della giustizia. C’è da sperare che il governo, che ha promesso di riformare il processo entro un anno, tenga conto di queste osservazioni di un magistrato. Che sono molto, molto difficili da smontare. Le periferie, i migranti e il bisogno di sicurezza di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 31 gennaio 2019 Il 2018 è stato l’anno che ha sancito il divorzio della sinistra dalla sua vecchia base elettorale (la separazione era già in atto da molto tempo) e il suo radicamento elettorale - simile a una ridotta - nei quartieri della borghesia agiata. È un anno in questi giorni. L’Italia ha girato una pagina della sua storia fra il 30 gennaio e il 3 febbraio 2018: tra la morte della diciottenne Pamela Mastropietro e il raid razzista di Luca Traini, che pensò di vendicarla sparando a casaccio contro sei migranti nelle strade di Macerata. Solo a freddo, però, è possibile capire quanto, con quella pagina, sia stato spazzato via del lessico politico e popolare degli italiani, di equilibri e limiti consolidati in settant’anni della nostra vicenda repubblicana. Per prima è caduta un’illusione: il mito (un po’ fasullo) degli “italiani brava gente”, rimpiazzato con la realtà degli “italiani incattiviti” di cui parla il Censis. Pochi l’avevano capito: il consenso trasversale a Traini svelò un Paese negletto nel quale analisti e centrosinistra a trazione Pd derubricavano in “percezioni” (magari gonfiate ad arte) questa ostilità montante. Il giorno dopo la scorribanda del killer suprematista, con sei ragazzi neri feriti in ospedale, raccogliemmo la frase di un bottegaio del centro di Macerata che, nella sua feroce ingenuità, rendeva come pochi il sentimento popolare: “Ce l’ho un po’ con quel ragazzo! E che, se spara così? Poteva piglià qualcuno!”. Non vedevamo che, persino in una provincia come Macerata, gli effetti di un’accoglienza fallimentare stavano consegnando pezzi di città a disperati fuorusciti dagli Sprar come Innocent Oseghale (ora a processo per l’assassinio di Pamela) e agli spacciatori nigeriani che dominavano i Giardini Diaz. Molte periferie delle città metropolitane stavano ben peggio: la paura non era un’invenzione della destra sovranista. Così il 2018 è stato l’anno che ha sancito il divorzio della sinistra dalla sua vecchia base elettorale (la separazione era già in atto da molto tempo) e il suo radicamento elettorale - simile a una ridotta - nei quartieri della borghesia agiata: tendenza planetaria, che in Italia stiamo interpretando in modo del tutto originale avendo al governo contemporaneamente due forze populiste spesso con idee contrastanti. È stato l’anno del tiro sui migranti (letteralmente: mai così tanti gli episodi di violenza su chi ha la pelle scura, con l’omicidio del giovane sindacalista Soumaila Sacko in cima alla lista). Ma è stato anche l’anno dell’omicidio in fotocopia di Desirée Mariottini, a ottobre, nel quartiere romano di San Lorenzo: così simile a quello di Pamela Mastropietro da mostrare come i ghetti urbani possano aprirsi anche in quartieri centrali che presumevamo gentrificati e quanto la questione dei clandestini (erano tutti irregolari in Italia gli aguzzini della ragazzina) continui a produrre errori ed orrori: ai seicentomila invisibili in giro se ne aggiungeranno 130 mila nei prossimi due anni secondo l’Ispi, quasi un’eterogenesi dei fini nella legge Salvini sulla sicurezza. È stato naturalmente l’anno di Matteo Salvini, che ha incarnato il disagio di quell’Italia e ne ha tratto massimo consenso, rovesciando i rapporti di forza con Berlusconi anche (o forse proprio) per paradossale effetto dei fatti di Macerata (Traini era stato candidato leghista alle comunali 2017 nel vicino paese di Corridonia). Uomo forte del governo gialloverde, Salvini è ora inseguito da problemi non risolvibili con uno slogan: gli stessi che hanno flagellato il centrosinistra. I rimpatri presuppongono vaste operazioni di polizia e poi accordi internazionali, i nuovi e più ampi Cie (ora Cpr) implicano l’intesa con gli enti locali, il rischio di buttare per strada torme di sbandati è sotto i nostri occhi. E tuttavia l’anno incattivito di Pamela e Desirée ci dimostra che non sarà possibile tornare a parlare di solidarietà agli italiani senza massicce iniezioni di sicurezza. E di quattrini. Le periferie hanno bisogno di soldi e in questo senso aver sottratto loro un miliardo e 600 milioni del vecchio bando voluto da Gentiloni congelandoli per tre anni (traduzione: sine die) appare un’idea contraddittoria per un governo che nelle periferie ha la sua constituency. Viene in mente Michel Rocard e il suo “discorso del pianerottolo” del 1988. Sentendo il malessere sociale che montava in Francia e prevedendo la rivolta delle banlieue, da premier socialista immaginò di ripartire dal porta a porta: piccole riparazioni fisiche e sociali, la cassetta delle lettere rotta, la lampadina sul pianerottolo fulminata, sognando una Francia in cui la gente tornasse a parlare al proprio vicino. Lo presero in giro: signor primo ministro, non sogni, governi... Molti anni dopo, e in una situazione di disordine globale, quel sogno sembra una lezione di realismo. Lattanzi (Consulta): “la nostra Costituzione è uno scudo per i più deboli, italiani o stranieri” di Liana Milella La Repubblica, 31 gennaio 2019 La Costituzione è uno scudo prezioso, soprattutto per i più deboli, proprio perché sono questi ad avere più bisogno di protezione”. “Essa vale per tutte le persone che si trovano in Italia, cittadini o stranieri che siano”. La Carta “non è solo la nostra legge fondamentale, ma anche e soprattutto un’idea di società democratica, pluralista, aperta e tollerante”. Con Repubblica parla Giorgio Lattanzi, il presidente della Consulta, convinto che non servano “cambiamenti radicali della Costituzione”. Il 2018 si è chiuso con l’immagine dei giudici costituzionali che escono dal Palazzo e si tuffano letteralmente nel Paese reale. I due viaggi, nelle scuole e nelle carceri, continueranno anche quest’anno. Che cosa vi ha spinto a proseguire ben oltre le celebrazioni della Costituzione? “All’inizio abbiamo avvertito l’esigenza di uscire dal Palazzo, di farci conoscere e al tempo stesso di conoscere i cittadini, di incontrare il Paese reale. Strada facendo però il Viaggio si è rivelato qualcosa di più di uno strumento di conoscenza: un’occasione importante di ascolto reciproco. Perciò abbiamo deciso dì proseguire. 117 febbraio presenteremo, con il Ministro dell’Istruzione Bussetti, il Viaggio nelle scuole nel 2019-2020. Ma la mia idea è che continueremmo anche dopo perché sentiamo la responsabilità di mantenere vivi nelle coscienze dei cittadini i valori della Costituzione”. Mai come adesso i diritti degli ultimi sono protagonisti delle cronache. La Corte, quasi anticipando i tempi, sin da maggio 2018 ha puntato i riflettori sulle realtà più marginali del Paese, ricordando che “la Costituzione è di tutti e non conosce muri”. Ritiene che su questo terreno ci sia uno scarto tra il sentimento del Paese reale e il dettato costituzionale? “Forse sì, uno scarto c’è. Però, se devo giudicare il Paese dalle persone che ho incontrato durante il Viaggio, non ho avuto l’impressione che quello scarto sia così generalizzato”. Nel corso dei Viaggi lei ha definito la Costituzione come uno “scudo per i più deboli”. Osservando però quello che ci accade intorno - penso ai migranti per giorni in balia del mare - non si ha questa impressione... “Ovviamente non posso fare riferimento a vicende specifiche. Quello che posso dire è che la Costituzione è una legge suprema, che le altre leggi devono essere conformi ad essa e che spetta ai giudici verificare se sono state applicate o meno. In questo senso si può parlare di uno scudo. Al centro della Costituzione c’è la persona, con la sua dignità. La Costituzione è stata costruita partendo dalla persona, senza distinzioni di colore della pelle, di etnia, di religione. Aggiungo che uguaglianza e solidarietà sono principi costituzionali fondamentali. Quindi, anche sotto questo aspetto, a me pare che la nostra Carta rappresenti una forte protezione per la persona. Ho parlato di scudo per i più deboli appunto perché sono questi ad avere più bisogno di protezione”. Se uno studente o un detenuto oggi le dovesse chiedere se la Costituzione vale anche per un migrante alla deriva lei cosa risponderebbe? “La Costituzione vale per tutte le persone che si trovano in Italia, cittadini o stranieri che siano”. C’è un momento o un incontro, fatto durante il vostro Viaggio, che l’ha colpita più di altri? “Nel Viaggio nelle scuole mi hanno colpito l’attenzione e l’interesse mostrati dai ragazzi. Mi sono convinto che sono meglio di come vengono descritti. Siamo noi a non saperli ascoltare e a non dare loro le risposte di cui hanno bisogno. Durante il Viaggio nelle carceri ci sono stati momenti che mi hanno commosso: i detenuti di Rebibbia che cantano l’inno di Mameli con la mano sul cuore; le loro strette di mano alla fine dell’incontro; la detenuta romena addetta alla biblioteca che mi prende da parte e mi dice: “Grazie a lei ho capito che abbiamo uno scudo, ma non sapevamo di averlo”. A guardare il sito della Corte si resta subito colpiti dalla foto della Costituzione ben in evidenza in alto sulla destra. Lei, a Rebibbia, l’ha definita “bella e giusta”. Ma si susseguono i tentativi per cambiarla. Pensa sia un rischio? “Dico subito che secondo me la Costituzione non richiede quei cambiamenti radicali di cui si parla da più di trent’anni. È dall’epoca del decalogo Spadolini che si susseguono iniziative di vario genere, come se la Costituzione avesse bisogno di una profonda revisione. Sono state proposte le più diverse modifiche della seconda parte e dubito che oggi sarebbero ancora condivise dalle forze politiche che a suo tempo le avevano sostenute. Sono state approvate due importanti leggi che hanno modificato la Costituzione ed entrambe sono state respinte con i referendum del 2006 e 2016. Penso che questo dimostri un attaccamento degli italiani alla Costituzione e la consapevolezza della sua perdurante attualità”. Ritiene che neppure la seconda parte possa essere modificata? “Qualche revisione marginale è possibile, però la Costituzione è un congegno complesso sicché anche un intervento su parti limitate rischia di alterarne il funzionamento complessivo. Aggiungo che la Costituzione non è solo la nostra legge fondamentale, ma è anche soprattutto l’idea di una società democratica, pluralista, aperta e tollerante, in cui le ragioni dell’autorità si confrontano con quelle della persona, con i suoi diritti e le sue tutele. Un’idea, dunque, che si contrappone a visioni stato-centriche, autoritarie, illiberali e autoreferenziali”. Però detenuti e studenti vi hanno incalzato sul fatto che molti principi costituzionali non trovano riscontro nella realtà. Questo vi ha spiazzato? “Era prevedibile. Però abbiamo spiegato che l’attuazione della Carta è in continuo divenire. I lavori sono sempre in corso. In alcuni momenti si fermano, ci sono delle pause, forse anche degli arretramenti. È compito di tutti far sì che questi lavori riprendano e l’attuazione venga portata avanti”. Ha scritto Zagrebelsky su Repubblica: “Un dato culturale assai significativo è che si discute oggi sempre meno di Costituzione e sempre più di fascismo. Restano per ora i “custodi”, il presidente della Repubblica e la Consulta. Ma fino a che punto potranno resistere alla forza materiale che spinge all’omologazione?”. Che ne pensa? “La Corte deve conoscere le idee, i sentimenti, gli umori che si agitano ed eventualmente dominano nel Paese, e anche per questo non deve rimanere chiusa nel Palazzo. Però non deve neppure farsene guidare. Nel senso che le sue direttrici la Corte non può che trarle dalla Costituzione, riaffermando le regole fondamentali della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà. In altre parole, la Corte non può seguire e non segue gli umori del Paese se non coincidono con quelli della Costituzione”. “Non ci faremo processare nelle piazze”. Quella frase di Aldo Moro sulla giustizia di Stefano Folli La Repubblica, 31 gennaio 2019 La prima certezza è che lo stillicidio politico intorno al caso Salvini-Diciotti durerà a lungo, circa un paio di mesi, e farà da contrappunto alla campagna elettorale per il voto europeo, ne scandirà tempi e contenuti. La seconda certezza è che il ministro dell’Interno alla fine non sarà consegnato ai tribunali per subire un processo. Per una serie di ragioni su cui molto è stato scritto, la maggioranza non vorrà suicidarsi e sceglierà di tenere in piedi il governo Conte. Come ciò avverrà, attraverso quali astuzie di procedura parlamentare, lo vedremo. La terza certezza riguarda la frattura che si è prodotta nel tessuto civile del Paese ed è destinata ad approfondirsi. La questione dei migranti, dalla Diciotti ieri alla Sea Watch oggi alla prossima nave domani, ripropone un conflitto tra politica e magistratura non nuovo nella storia recente del Paese, ma che in questi termini è devastante. Da un lato, una classe politica approssimativa in un Parlamento che negli anni ha perso credibilità; un ministro dell’Interno che con freddezza forza le norme e un governo che in maniera goffa rivendica una sorta di responsabilità collegiale fino a suggerire un grottesco “allora arrestateci tutti”. Dall’altro lato, una magistratura che tende inevitabilmente a surrogare la politica, sovrapponendosi ad essa per ridurne i margini di manovra (e senza essere coesa, al punto che il procuratore di Catania aveva chiesto il proscioglimento di Salvini dalle stesse ipotesi di reato per le quali il responsabile del Viminale ora rischia l’incriminazione). Viene alla mente il discorso di Aldo Moro sullo scandalo Lockheed, un anno prima della tragica morte. In quell’occasione Moro pronunciò la famosa frase: “Noi non ci faremo processare nelle piazze”, quasi ad anticipare la condanna del clima di giustizialismo barbaro che negli anni a seguire provocherà i noti danni. Tuttavia lo statista democristiano, a bilanciare una frase che poteva suonare quasi arrogante, chiese di porre fine ai privilegi di cui godevano i membri del governo di fronte alla giustizia. In base al principio che nessuno è al di sopra della legge e il Parlamento difende, sì, i suoi membri: ma l’immunità non è uno scudo per marcare una distanza incolmabile dal comune cittadino. Quarantadue anni dopo non ci sono più, è ovvio, quegli uomini e quel Parlamento. Gli interpreti attuali del dibattito pubblico riflettono le inquietudini di un Paese sfilacciato. E lo scontro sui migranti nasconde un vuoto di proposte, di idee e forse anche legislativo che si traduce in una sfida all’Ok Corral tra politici in campagna elettorale e una magistratura, o parte di essa, fin troppo protagonista. Se le cose stanno così, la gestione dei migranti rimane un rebus in un vicolo cieco; l’autorizzazione a procedere contro Salvini (sì, no, forse) è un teatro da cui ognuno spera di ricavare un dividendo elettorale il prossimo 26 maggio; e le convulsioni dei Cinque Stelle, il loro tentativo di non perdere la faccia nel momento in cui tradiscono le proprie radici giustizialiste per sostenere l’alleato leghista, costituiscono la pennellata decisamente meno interessante del quadro. Conviene piuttosto guardare alla possibilità - che sarà di certo vanificata - di trasformare la seduta del Senato in cui si deciderà (a scrutinio segreto) la sorte di Salvini in un’occasione per individuare una strategia volta ad affrontare l’immigrazione nel Mediterraneo con spirito nuovo. Un Paese lacerato avrebbe bisogno di un momento di lavoro comune e di rispetto reciproco tra maggioranza e opposizione. La democrazia giudiziaria, Travaglio e l’assurdo “processo” a Salvini di Francesco Damato Il Dubbio, 31 gennaio 2019 Sentite questa perla di democrazia giudiziaria, come la chiamerebbe Angelo Panebianco, se ve la siete persa in diretta godendovi, si fa per dire, la puntata del salotto televisivo di Lilli Gruber dedicata l’altra sera al processo in cantiere contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini per l’affare Diciotti. Che è il nome del pattugliatore della Guardia Costiera italiana dove nella scorsa estate, per quanto ancorata nel porto di Catania, per ordine del Viminale rimasero bloccati un bel po’ di migranti, doverosamente soccorsi in mare ma in attesa di essere presi in carico, diciamo così, da più paesi disposti, in ambito europeo, ad accoglierli su sollecitazione del governo italiano. La vicenda si concluse con la partecipazione della Chiesa alla distribuzione degli aspiranti profughi, ma era destinata a sviluppi giudiziari, l’ultimo dei quali è costituto dalla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania al Senato, nonostante l’archiviazione proposta dalla Procura, di autorizzare il processo a Salvini per sequestro aggravato di persone e abuso d’ufficio. Di fronte alla possibilità riconosciuta dall’articolo 96 della Costituzione, e da una legge costituzionale di attuazione, che il Senato a maggioranza assoluta neghi l’autorizzazione ravvisando nell’azione del ministro Salvini il perseguimento di un superiore interesse pubblico, prevalente anche sulla contestazione di reati da parte dal tribunale dei ministri, Marco Travaglio ha sostenuto che in tal caso l’Italia subirebbe - sentite, sentite - un danno gravissimo di delegittimazione internazionale. In particolare, pur riconoscendo il carattere singolare di un processo da cui Salvini avrebbe ragione a reclamare di essere assolto - e ciò sia per la natura chiaramente ministeriale e non personale o corruttivo dei reati contestatigli, specie dopo la corresponsabilità proclamata, anzi rivendicata dall’intero governo, ora anche con una dichiarazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte - il direttore del Fatto Quotidiano ha sostenuto che il Senato debba rinunciare al diritto riconosciutogli dalla Costituzione di impedire la prosecuzione dell’azione penale. Solo un’assoluzione di Salvini con sentenza giudiziaria, e con i tre gradi previsti ancora dal nostro sistema, dimostrerebbe al mondo intero, e persino agli scafisti, che potrebbero trarne finalmente le conseguenze desistendo dai loro odiosi traffici umani, o destinando altrove le loro vittime, la legittimità della linea della fermezza adottata sugli sbarchi dal governo gialloverde. Complementare a questo ragionamento di Travaglio - non meno curioso del processo in cantiere contro Salvini - è il fastidio da lui espresso visivamente e verbalmente, collegato con lo studio televisivo dal suo ufficio di redazione, per le aperture implicite o esplicite ad un voto del Senato contro la richiesta della magistratura ravvisate, a torto o a ragione, nelle dichiarazioni persino di un grillino barricadiero come Alessandro Di Battista sulla responsabilità collettiva del governo nell’affare Diciotti. Come una trentina d’anni fa contro l’immunità parlamentare, disciplinata dall’articolo 68 della Costituzione e picconata sin quasi alla demolizione per facilitare e accelerare la fine giudiziaria, prima ancora che politica, della cosiddetta prima Repubblica, che già di suo - bisogna riconoscerlo non se la passava molto bene, così ora è cominciata un’operazione oggettivamente politico- giudiziaria contro l’immunità governativa disciplinata dal 1989 dall’articolo 96, sempre della Costituzione. Che fu modificato quell’anno rispetto al testo originario per far passare i reati ministeriali dalla originaria e straordinaria competenza della Corte Costituzionale a quella della magistratura ordinaria. Questa volta è in gioco, sull’altare del ‘ cambiamento’, che è la parola d’ordine dei grillini non meno gridata di quella “dell’onestà”, la sorte della pur incipiente terza Repubblica. Della seconda non parliamo neppure perché forse non ci siamo neppure accorti di viverla, tanto poco è durata, e tanto confusa è stata. Ormai si cerca di marciare a tappe forzate verso un passaggio di sistema davvero, in cui la democrazia non è vera se non è giudiziaria, per tornare a Panebianco. Che forse è troppo generoso a parlare ancora di democrazia, e non di Repubblica giudiziaria e basta. Nel nuovo sistema, che francamente non so neppure se destinato a rivelarsi compatibile con la democrazia diretta o digitale perseguita dagli stessi grillini, con o senza il corollario della riforma dell’istituto referendario già all’esame della Camera, il giudice non è più la voce ma la fonte stessa, e unica, del diritto. A dare man forte alla visione di Travaglio della politica e dei suoi rapporti ancellari con la magistratura, a dispetto della lettera e dello spirito della Costituzione, è stata nello studio tele visivo de La 7 Irene Tinagli, angosciata dall’idea che i grillini possano perdere chissà quanti altri voti ancora in caso di soccorso a Salvini per sottrarsi al processo. O per rispettare, direi invece, le competenze e prerogative assegnate dalla Costituzione al Parlamento in caso di reati così ampiamente riconosciuti, peraltro, come ministeriali, non dettati da interessi, affari e quant’altro di carattere personale dell’imputato, parlamentare o non che sia. Eppure, della Tinagli è appena stato pubblicato un libro sulla, anzi contro “la grande ignoranza”, che è il titolo del volume - incombente da tempo su quanti maneggiano il nostro Paese. Beh, con l’idea che ha mostrato di avere dei rapporti fra politica e magistratura, preoccupandosi più delle sorti elettorali di un partito che del rispetto degli equilibri garantiti dalla Costituzione fra i poteri, spero che la signora tratti meglio la sua materia. Che è l’economia. Ermini (Csm): “Toghe in manette? È la prova che i magistrati non si autoassolvono” di Errico Novi Il Dubbio, 31 gennaio 2019 il vicepresidente del Csm, torna sulla questione morale: “un rigore che rassicura”. David Ermini ha colto l’occasione di una visita a Bari per rispondere anche sulla cosiddetta “questione morale dei magistrati”. Ha potuto così compiere una constatazione: “Questa storia che le toghe si autoassolvono non esiste, nel senso che i magistrati sono molto severi, e fanno bene, nei confronti di eventuali colleghi che sbagliano”. Quindi, se si è avuto persino “l’arresto di alcuni magistrati”, da una parte si può provare “amarezza”, dall’altra c’è “soddisfazione nel vedere che, quando ci sono delle cose che non funzionano, si interviene”. E in effetti sono state fin troppo numerose, negli ultimi mesi, le aperture di fascicoli, e le applicazioni di misure cautelari, per giudici e pm in diverse parti d’Italia. “Non solo qui in Puglia”, ha fatto notare il vicepresidente del Csm, due giorni fa, ai cronisti che lo hanno interpellato sul punto durante la sua missione nel capoluogo. Ermini aveva messo in conto di affrontare, con quella trasferta, innanzitutto l’emergenza dell’edilizia giudiziaria, che a sua volta il sindaco Antonio Decaro ha riproposto con una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In proposito, Ermini da una parte ha trovato una situazione migliorata rispetto a quella che aveva preoccupato il suo predecessore, Giovanni Legnini, oltre che il guardasigilli: c’è un “palagiustizia temporaneo” la cui utilizzazione tende ormai a completarsi, anche se per ora restano ben 8 le sedi tra le quali devono dividersi gli operatori del settore penale. Ma Bari è anche la grande città italiana in cui l’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata segnata da una assai amara denuncia del presidente della Corte d’Appello Franco Cassano: quella appunto di una “questione morale interna alla magistratura nel distretto”, riproposta in particolare dall’arresto di due magistrati che erano stati in servizio a Trani: Michele Nardi e Antonio Savasta. Così martedì scorso Ermini è sì intervenuto sulla “questione morale”, ma non ha accettato di limitare l’allarme al solo capoluogo pugliese. Non ha potuto prescindere dal fatto che nell’ultimo anno sono stati contestati fatti di rilievo penale a diverse toghe in tante altre sedi, da Oristano a Catania, per non dire dall’ultima incredibile maxi-indagine avviata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che ha sconvolto tra molte polemiche l’intera giustizia calabrese. A confermare l’aumento degli illeciti ipotizzati a carico delle toghe era stato, pochi giorni prima, anche il procuratore generale Riccardo Fuzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione: “Suscita allarme la gravità e la frequenza degli episodi che di recente hanno visto coinvolti vari magistrati: ciò determina”, aveva detto, “un indebolimento della fiducia dei cittadini nell’indipendenza ed imparzialità della funzione giurisdizionale”. Naturalmente, come chiarito da Fuzio, i casi disciplinari in senso stretto, legati per lo più all’efficienza, vanno distinti dai procedimenti iscritti in seguito a notizie di reato. Non a caso Piercamillo Davigo, ora togato al Csm, è intervenuto alla cerimonia inaugurale di Torino per sostenere che “i magistrati italiani hanno 15 volte più sanzioni dei colleghi francesi” e che però, “nella maggior parte dei casi”, i ritardi nei depositi dei provvedimenti “riguardano chi lavora più degli altri e che si ritrova per questo esposto a procedimenti disciplinari”. Il discorso cambia con l’accresciuto numero di indagini penali avviate dai pm nei confronti di loro colleghi. È a quello, che si riferiscono sia Fuzio sia Ermini. Il fenomeno può essere letto secondo entrambe le sfumature evocate dal vicepresidente del Csm. Nel senso che, come denuncia pure il pg di Bari, esisterebbe una “questione morale”, ma anche nel senso che forse oggi la magistratura italiana ha sviluppato una maggiore vigilanza interna anche come meccanismo difensivo. Potrebbe trattarsi del riflesso di quel clima giustizialista che al pm di Mani pulite potrebbe non dispiacere. Se cioè un numero così folto di Procure si concentra sui possibili illeciti di altri magistrati è anche perché la magistratura stessa è già assediata da troppe pressioni esterne e non può permettersi di concedere “alibi” ai contestatori. A tenere le toghe in allarme sono gli attacchi e le minacce sempre più ricorrenti nei confronti dei giudici che emettono sentenze o ordinanze ritenute blande. Il caso della pena ridotta ad Antonio Ciontoli nel processo per la morte del suo giovane genero Marco Vannini è di poche ore fa. Le minacce al giudice Luigi Buono che ha definito il giudizio sulla strage del bus ad Avellino ha spinto il Csm, due settimane addietro, a un passo clamoroso: la richiesta di una pratica a tutela di tutti i magistrati rispetto agli attacchi subiti sempre più spesso nei palazzi di giustizia. In un clima del genere, non c’è da meravigliarsi se l’ordine giudiziario reagisce con uno sforzo di “repressione” interna ancora più intenso che in passato. Le toghe avvertono ormai come prioritario il tema della delegittimazione pubblica, del ludibrio forcaiolo un tempo riservato ai politici e che ora non risparmia neppure le toghe. Come si legge nel documento di Palazzo dei Marescialli, ne va dell’ “indipendente esercizio della funzione giurisdizionale”. E una magistratura che si sente oppressa da simili insidie non può permettersi, evidentemente, di lasciare che pochi suoi esponenti peggiorino le cose. Non può consentire che condotte illecite danneggino una fiducia già non più solida. Il repulisti interno è una risposta autodifensiva, dunque. Legittima, bisognosa come qualsiasi vicenda penale di essere sottoposta a ogni possibile vaglio, ma ulteriormente indicativa di un clima completamente mutato rispetto all’epopea a cui diede inizio Mani pulite. Trattamento carcerario: la giurisprudenza sullo “spazio minimo vitale” di Sabrina Caporale responsabilecivile.it, 31 gennaio 2019 La Corte di appello di Roma aveva respinto la richiesta di consegna di un detenuto di nazionalità rumena da parte delle autorità giudiziarie del suo Stato di cittadinanza con mandato di arresto Europeo, per presunto trattamento carcerario “degradante”. Dalle informazioni fornite, in ordine al regime carcerario riservato allo straniero, lo Stato richiedente aveva ravvisato il concreto rischio di un trattamento inumano, stante la sua destinazione in regime “chiuso” in una cella con uno spazio di tre metri quadri comprensivi di letto e mobilio, dunque al di sotto del minimo indicato dalla Corte Edu. Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma che denunciava la violazione dei principi giurisprudenziali in materia di trattamento carcerario e spazio minimo vitale del detenuto. Il riferimento è il criterio dello spazio minimo di tre mq. che va calcolato tenendo in considerazione la possibilità del detenuto di muoversi liberamente tra i mobili. E, in ogni caso, anche seguendo il più rigoroso orientamento di legittimità in relazione ai casi nazionali, il dato spaziale non è l’unico da prendere in considerazione, dovendosi valutare il complessivo trattamento del detenuto. Nella specie, il trattamento riservato al detenuto rumeno prevedeva il regime chiuso solo per un periodo iniziale, con l’ammissione dopo un anno al regime semiaperto; nel regime chiuso in ogni caso sarebbe stato assicurato il diritto di movimento del detenuto all’interno di spazi comuni con attività ricreative e educative per un periodo minimo di tempo. La parola alla Corte di Cassazione - I giudici del Supremo Collegio, nell’accogliere il ricorso del Procuratore Generale, hanno innanzitutto ricordato che la giurisprudenza di legittimità, in tema di compatibilità degli spazi carcerari con i principi espressi nell’art. 3 della CEDU, ha elaborato “non criteri rigidi ma opzioni interpretative connotate da quella necessaria elasticità al fine di consentire una globale valutazione delle condizioni generali di detenzione”. I criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sul regime carcerario - In particolare, la predetta giurisprudenza si è assestata sull’opzione interpretativa che individua la superficie di tre metri quadrati come c.d. “spazio individuale minimo” di disponibilità del singolo detenuto in cella collettiva. Tale soluzione lungi dall’essere un rigido criterio imperativo, deve essere considerato quale semplice indice di riferimento da cui partire per effettuare ogni altra valutazione necessaria all’accertamento della lesione dei diritti del detenuto. Peraltro, sullo specifico tema della compatibilità degli spazi carcerai con l’art. 3 della Convenzione Edu, anche la Grande Camera, ha ribadito che, “in caso di sovraffollamento grave, la mancanza di spazio in cella costituisce l’elemento centrale di cui tenere conto per stabilire se tali condizioni siano “degradanti”. Ma ha, al tempo stesso, affermato che “una superficie calpestabile di tre metri quadrati per ogni detenuto in una cella collettiva” deve rimanere la soglia minima pertinente ai fini della suddetta valutazione, al di sotto della quale sorge una “presunzione” di violazione della disposizione di cui all’art. 3, confutabile, tuttavia, con la dimostrazione della sussistenza di altri aspetti del regime restrittivo che, alla luce delle globali condizioni della detenzione e della sua durata, siano in grado di compensare, in maniera adeguata, la mancanza di spazio personale, come, ad esempio, il grado di libertà di circolazione del ristretto e l’offerta di attività all’esterno della cella nonché le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti”. (si veda anche la pronuncia del 15 dicembre 2016, Khalifa e altri c. Italia). I criteri per l’individuazione dello spazio minimo individuale - Dunque, il riferimento dei tre metri quadrati è relativo alla superficie calpestabile e dunque lo spazio minimo in cella collettiva deve essere inteso quale spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi (Grande Camera, 20 ottobre 2016, Mursic c. Croazia). Fatte queste premesse, la Corte di legittimità, ha riferito anche riguardo all’ipotesi di celle con letto a castello. Quest’ultimo, come è noto, è per prassi utilizzato per consentire l’alloggio di più detenuti nella stessa camera. Ma esso, tuttavia, presenta un peso tale da non poter essere spostato ed è quindi idoneo a restringere, al pari degli armadi appoggiati o infissi stabilmente al suolo, lo spazio all’interno della camera detentiva e a rappresentare un ingombro. Ciò impone che, in questi casi, la porzione di spazio individuale minimo sia calcolata in riferimento alla superficie effettivamente funzionale alla libertà di movimento del recluso; con esclusione cioè, dello spazio occupato da tale tipo di letto (di norma non compatibile neanche con una seduta eretta). Il principio di diritto - Cosicché è stato affermato il seguente principio di diritto: “ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 Cedu, devono essere detratte dalla superficie lorda della cella, l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e struttura “a castello”, e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente spostabili”. Il caso del detenuto rumeno - Nel caso in esame era evidente la violazione di detti principi; né erano ravvisabili quegli ulteriori fattori compensativi, idonei a fornire una diversa giustificazione. Doveroso, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale affinché, se del caso acquisendo ulteriori informazioni, esami nuovamente il trattamento carcerario riservato al cittadino rumeno. Niente estradizione per il ladro, “carcere disumano in Romania” di Carlo Baroni La Nazione La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del legale dopo che la Corte d’appello aveva dato il via libera. La Cassazione ha fermato l’estradizione di C.S, 37anni, rumeno che da tempo vive in Italia e nella nostra zona. L’uomo ha rischiato di finire nelle patrie galere sull’accoglimento - da parte della Corte d’appello di Firenze, della richiesta del governo della Repubblica della Romania, paese dove il 37enne è stato giudizio responsabile di plurimi reati di furto. Gli ermellini hanno accolto però la tesi difensiva dell’avvocato Nicola Giribaldi incentrata sulla valutazione del profilo della possibile sottoposizione degli estradandi a trattamenti contrari alla dignità umana dello Stato richiedente e la mancanza dei requisiti minimi previsti dalla legge italiana in materia di detenzione carceraria. In buona sostanza. il carcere rumeno, con i suoi spazi da tre metri quadrati per detenuto, non offre garanzie accettabili specie alla luce di quanto più volte, e anche recentemente, affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Anche perché quei tre metri - nota il legale nel ricorso accorto dalla Corte di legittimità - sono virtuali: “la superficie netta disponibile, sottratta a quella lorda lo spazio per il letto ed un armadietto, risulta essere inferiore ad un metro quadrato pro capite, Inoltre dalle informazioni attinte i detenuti non hanno acqua calda salvo che per un breve periodo in tre giorni alla settimana”. E le informazioni, prima delle eventuale consegna alle carceri rumene, dovevano avere anche un approfondimento supplementare per verificare il rispetto dei diritti fondamentali dell’interessato e la palese violazione dei diritti “doveva essere tenuta di conto nella decisione”. Integrazione indispensabile che a quanto pare è mancata. Un ricorso tutto in punta di diritto, quello dell’avvocato Giribaldi, che ha richiamato i doveri fondamentali, stabiliti dalla Corte di giustizia, secondo i quali lo Stato membro di esecuzione è tenuto ad accertare concretamente “in relazione alla persona richiesta in consegna l’esistenza di un rischio collegato al divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti. E una volta accertata la sussistenza di un rischio concreto, sempre lo Stato estradante deve “svolgere un’indagine mirata, volta a stabilire se, nel caso concreto, l’interessato sarà sottoposto a questi trattamenti”. “Tale rischio non solo non risulta escluso - ha concluso nel ricorso il legale chiedendo l’annullamento della sentenza - ma addirittura confermato dalle informazioni delle autorità rumene”. La Cassazione ha accolto queste argomentazioni. E ha annullato la sentenza. Il ladro rumeno non lascerà l’Italia. San Severo (Fg): detenuto 49enne gravemente ammalato muore in carcere Ristretti Orizzonti, 31 gennaio 2019 Pasquale Ciliberti di 49 anni e già gravemente ammalato, muore nella cella n. 7 della Terza Sezione del carcere San Severo di Foggia. Da quanto si è appreso pare che l’uomo si sia sentito male verso le 6 del pomeriggio e che sia stato portato a braccia da altri detenuti in infermeria. Infermeria dove Pasquale è morto dopo poco. La notizia è stata raccolta da Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere . Radio Radicale. Pordenone: 29enne si ammala in cella e muore, processo al via dopo tre anni Il Gazzettino, 31 gennaio 2019 Al medico del carcere si contesta di non aver tutelato la salute del giovane. “Dopo tre anni e mezzo speriamo che sia l’inizio di un percorso che possa far luce su tanti dubbi”. Sono le amare parole di Laura Gottai, la madre di Stefano Borriello, il 29enne di Portogruaro deceduto il 7 agosto 2015, mentre era ristretto in misura cautelare nel carcere di Pordenone. Ieri mattina, con le questioni preliminari, è cominciato il procedimento contro Giovanni Capovilla, 65 anni, medico della casa circondariale a cui si contesta di non aver tutelato la salute del detenuto. L’ipotesi è omicidio colposo. In aula si tornerà il 10 maggio per sentire i testimoni del pm: compagni di cella di Stefano e personale sanitario. Il giudice monocratico Piera Binotto ieri ha ammesso tutte le liste testimoniali (la difesa si era battuta per escludere don Andrea Ruzza, il parroco che era andato a far visita a Borriello un paio di giorni prima del decesso). Accanto alla parte civile, costituita con l’avvocato Daniela Lizzi, siederà anche l’associazione Antigone, rappresentata dall’avvocato Simona Filippi. Gli avvocati Manlio Contento e Nicoletta Sette ne avevano chiesto l’inammissibilità, ma il giudice ha ritenuto la costituzione fosse in linea con gli obiettivi perseguiti dall’associazione in materia di tutela dei diritti dei detenuti, compreso quello alla salute. Quella di Capovilla è un’imputazione coatta. Per due volte la Procura aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo e per due volte la parte civile si era opposta. In seguito all’imputazione coatta firmata dal gup Rodolfo Piccin, il caso era tornato in udienza preliminare. Il capo di imputazione distingue le condotte del medico e individua dei momenti precisi. A cominciare dal 6 agosto, quando non fu diagnosticata a Borriello un’infezione polmonare. Secondo l’accusa, il medico non avrebbe rilevato i parametri vitali ed eseguito l’esame clinico toracico che avrebbe potuto far emergere i sintomi che si associano alle polmoniti. A causa della mancata diagnosi, al giovane non furono somministrati antibiotici e le sue condizioni peggiorarono. L’indomani il quadro clinico si aggravò e, dopo un malore, verso sera fu ricoverato. Morì un’ora dopo all’ospedale di Pordenone. Secondo l’imputazione, se la polmonite fosse stata individuata tempestivamente, il 29enne non sarebbe deceduto. L’autopsia aveva individuato una polmonite batterica aggravata da una endomiocardite. Belluno: la sezione psichiatrica del carcere di Baldenich verrà chiusa Il Gazzettino, 31 gennaio 2019 La direzione della casa circondariale sta sondando la disponibilità di altre strutture ad ospitare i detenuti con disturbi psichici. Ma le tempistiche del trasloco non sono note. Ci sono stati contatti con il carcere di Padova e con altri del Veneto. Nel frattempo, nei giorni scorsi un nuovo detenuto è arrivato a Baldenich, portando a 6 gli ospiti della sezione. Uno per cella. Pare dunque che la direzione imboccata sia quella auspicata dalla Cisl Fns che, dopo l’ultima aggressione ad una guardia avvenuta sabato, ha ripreso a chiedere a gran voce la chiusura del servizio e il trasferimento dei detenuti in una struttura più consona. Non dà torto alla sigla l’Usl 1 Dolomiti. L’azienda sanitaria entra in carcere con uno psichiatra presente 7 ore a settimana, uno psicologo per 5 e l’infermiere per altre 5 ogni giorno. “Sono pazienti non facili da gestire spiega Marco Cristofoletti, responsabile della sanità penitenziaria, noi abbiamo manifestato i nostri dubbi in merito alla struttura e alla sua idoneità ad ospitare questo tipo di detenuti fin dall’inizio”. La sezione psichiatrica è attiva da circa 5 anni a Baldenich, aperta dopo la chiusura dei manicomi criminali e il conseguente spostamento degli utenti nelle carceri di tutta Italia. Il problema di Belluno è che la casa circondariale è troppo piccola per avere un medico h24, come invece richiederebbero le esigenze di questo tipo di ospiti. “Il servizio e la locazione non sono funzionali prosegue Cristofoletti , hanno una cella ciascuno, ma poi gli spazi comuni sono angusti e così anche il cortile. Credo sia giusto cercare un luogo più idoneo dove prendersi cura di queste 6 persone e aiutarle meglio”. L’aggressione di sabato è solo l’ultima di una serie. È avvenuta ai danni di un poliziotto di turno, intervenuto per calmare le ire di un detenuto contro un compagno; l’agente è stato colpito e ha riportato contusioni con prognosi di sette giorni. La vicenda ha riaperto la protesta degli stessi poliziotti, pronti a scendere in piazza se non avverrà presto il trasloco. Campobasso: calci e pistola alla testa ad un detenuto che tenta l’evasione La Repubblica, 31 gennaio 2019 L’episodio di violenza finisce in rete e scatta la denuncia del Dap: “Come trasformare un’ottima notizia in una situazione deplorevole e inaccettabile”. Ma il sindacato della polizia penitenziaria: “Colpa dello stress”. Lo bloccano in tre, due hanno la pistola, uno, dopo avergli tirato uno schiaffo, gli punta l’arma alla fronte e successivamente gli tira un calcio mentre era a terra. È accaduto in centro a Campobasso tra un detenuto 37enne, che si era dato alla fuga dopo una visita medica all’ospedale, e gli agenti di Polizia Penitenziaria che lo hanno rincorso per alcuni metri per poi raggiungerlo e fermarlo. “Siamo contro ogni forma di violenza. Questo è un episodio che va stigmatizzato - afferma il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo - ma che evidentemente è riconducibile allo stress a cui vanno incontro gli agenti. Sarà l’amministrazione penitenziaria a valutare eventuali iniziative, che andremo sicuramente a contrastare in quanto tutti i giorni all’interno delle carceri siamo costretti a subire violenze inaudite. Tutto questo - aggiunge - senza voler giustificare altre violenze”. Il tentativo di fuga è iniziato quando il 37enne è sceso dall’automezzo della Polizia penitenziaria che lo aveva riportato in carcere, dopo una visita medica all’ospedale. Il detenuto a quel punto è riuscito a divincolarsi e a eludere il controllo degli agenti per poi fuggire in strada mentre il cancello di accesso alla struttura si stava chiudendo. Il 37enne, originario della provincia di Roma, recluso nella struttura penitenziaria per rapina e furto, a seguito di una patologia era anche stato autorizzato all’uso delle stampelle che pare abbia gettato proprio nel momento della fuga. L’episodio è stato ripreso in un video, poi postato in esclusiva sulla pagina Facebook della tv locale Trsp, dove si vede la sequenza in cui il detenuto è bloccato con le spalle a un muro in posizione di resa e poi viene fatto sedere a terra. Si vede anche uno dei tre agenti che si oppone alle modalità messe in atto dal collega con la pistola. “Come trasformare un’ottima notizia in una situazione deplorevole e inaccettabile”. Così il capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, stigmatizza le immagini del video, “probabilmente girato da un passante”, che riprendono i momenti immediatamente successivi alla cattura di un detenuto che aveva tentato di darsi alla fuga dopo l’uscita dall’ospedale di Campobasso, dove era stato condotto per una visita. “Non sono assolutamente ammissibili atteggiamenti di quel tipo, soprattutto perché - prosegue il capo del Dap - il soggetto in questione, una volta arresosi, era ormai nella piena disponibilità dei tre agenti ritratti nel video, pronti a immobilizzarlo con le manette”. “Ringrazio l’agente che è intervenuto con determinazione e fermezza per riprendere l’atteggiamento deplorevole del suo collega”, ha concluso Basentini. “Nei confronti di quest’ultimo, svolti gli accertamenti necessari, saranno immediatamente presi i provvedimenti del caso”. Quintieri (Radicali): denunciato l’agente che ha usato violenza contro il detenuto L’esposto è stato inviato a Procura, Dap, Garante nazionale dei detenuti ed al deputato Magi. Quanto accaduto ieri a Campobasso - ai danni di un detenuto che aveva tentato di evadere - ad opera di un Agente di Polizia Penitenziaria, è di una gravità inaudita ed occorre che siano intrapresi immediati provvedimenti. Per tale ragione, questa mattina, ho presentato un esposto denuncia alla Procura della Repubblica di Campobasso e, per quanto di competenza, al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed all’On. Riccardo Magi, Deputato di +Europa contro uno degli Agenti Penitenziari per i reati di abuso di autorità e dei mezzi di disciplina e minaccia grave, fatti aggravati perché commessi da un Pubblico Ufficiale contro una persona detenuta affidata alla sua vigilanza e custodia. Lo afferma Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Regione Calabria. Non è assolutamente tollerabile che un Agente Penitenziario si comporti in quel modo; il detenuto, senza motivo, è stato ripetutamente percosso con schiaffi, pugni e calci, nonché minacciato utilizzando la pistola d’ordinanza, che, dopo essere stata estratta dalla fondina, gli è stata puntata più volte alla bocca ed alla testa, prosegue l’esponente radicale Quintieri. Per quel che emerge dal video, non c’era alcuna resistenza attiva o passiva in atto né altri atti di violenza, che potesse legittimare l’impiego della forza nei riguardi del detenuto che dopo la tentata evasione era stato subito catturato e si trovava nella piena disponibilità del personale di Polizia Penitenziaria. Nell’esercizio delle proprie funzioni quotidiane, il personale penitenziario, deve rispettare e tutelare la dignità umana e preservare e far rispettare i diritti fondamentali di ogni persona e non deve far ricorso alla forza contro i detenuti salvo in caso di legittima difesa, di tentativo di evasione o di resistenza fisica attiva o passiva ad un ordine legittimo, e sempre come ultima risorsa. Mi auguro che ognuna delle Autorità competenti, a cui ho indirizzato l’esposto, assuma al più presto rigorosi provvedimenti al riguardo, conclude l’ex Consigliere Nazionale di Radicali Italiani. Venezia: Ferraresi “il ministero avvia un’indagine sulla morte di Sissy Trovato Mazza” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 31 gennaio 2019 Il sottosegretario alla Giustizia: “Istituita una commissione ispettiva”. “Risultati entro febbraio, chi sa parli. Droga nelle celle? Fatti da contrastare”. “Sissy è stata raggiunta da un colpo di pistola nel 2016, mentre si trovava in servizio presso l’ospedale civile di Venezia, in circostanze sulle quali la famiglia ha chiesto di fare chiarezza, e sarà compito dello Stato dare risposte a queste richieste ricostruendo la verità”. Così la scorsa settimana, al rientro dai funerali di Maria Teresa Trovato Mazza celebrati a Taurianova (Reggio Calabria), il sottosegretario pentastellato Vittorio Ferraresi prometteva via Facebook l’impegno delle istituzioni per fare luce sulla tragedia. Ma ora, dopo che Il Gazzettino ha svelato l’esistenza della lettera con cui l’agente di polizia penitenziaria aveva denunciato “fatti gravi” all’interno del carcere femminile della Giudecca, il rappresentante del ministero della Giustizia va oltre, annunciando al nostro giornale “l’avvio di un’indagine interna” sul penitenziario lagunare, in aggiunta all’inchiesta per l’ipotesi di induzione al suicidio, pendente in Procura contro ignoti. Sottosegretario Ferraresi, da quando, e con quali modalità, il suo dicastero sta seguendo questa vicenda? “Premetto che posso rispondere solo nei limiti di quanto mi è concesso dal rispetto per l’operato della magistratura. Comunque assicuro che, appena siamo entrati al ministero, abbiamo subito preso contatto con i familiari di Sissy e abbiamo dato loro la nostra disponibilità e il nostro sostegno, per quanto ci è possibile, supportandone la richiesta di giustizia e di verità”. La famiglia ha lamentato che l’Amministrazione non ha mai svolto indagini interne rispetto alle denunce formulate da Sissy all’allora direttrice Gabriella Straffi. È così? “Annuncio che, per la prima volta dall’inizio di questa tragica storia, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha avviato formalmente una serie di accertamenti interni, autorizzati dal pubblico ministero come previsto nei casi di indagini in corso, per la verifica e l’approfondimento delle segnalazioni e delle denunce che Sissy aveva fatto e di altre questioni di natura amministrativa. In questo senso è già stata istituita una commissione ispettiva all’interno del Dap, che ci aspettiamo arrivi a conclusione nel più breve tempo possibile, ma comunque entro il mese di febbraio”. Può dirci quando è stata istituita la commissione e di quali poteri dispone? “È stata istituita da qualche giorno, una volta ricevuta l’autorizzazione dalla Procura. Ha tutti i poteri delle commissioni di indagine, comprese le richieste di documentazione e l’attività ispettiva. I componenti possono fare quello che ritengono opportuno e riferiscono direttamente al capo del Dipartimento”. Quindi gli accertamenti riguarderanno le pesanti accuse lanciate da Sissy sugli episodi che sarebbero avvenuti nell’istituto di pena? “Non posso entrare nel merito di questa specifica vicenda. Dico però che abbiamo un’attenzione e una sensibilità particolari per questi temi. Sappiamo che ci sono problematiche in diverse carceri italiane e ci sono stati casi da cui si sono sviluppate delle indagini. Ogni volta abbiamo appreso tutte le notizie come nuove e abbiamo intrapreso un percorso di ascolto forte delle criticità, sempre nel rispetto dei confini segnati dalle eventuali inchieste dell’autorità giudiziaria”. Si riferisce anche alla circolazione di droga nelle celle, come riferito da alcune ex detenute alla Giudecca? “Non parlo di Venezia in particolare, ma dell’Italia: l’introduzione di stupefacenti e cellulari nelle carceri è sicuramente un fenomeno non nuovo su cui occorre prestare la massima attenzione e che va contrastato con la massima efficacia. Non si tratta di un’emergenza, ma neanche di una cosa che non avviene, per cui bisogna rilevare il dato delle notizie che arrivano e accertarle dal punto di vista amministrativo e penale, in quanto determinate condotte non possono essere accettate”. Un’ultima domanda: cosa si sente di dire ai Trovato Mazza? “Abbiamo ricevuto la famiglia al ministero, ci siamo sentiti telefonicamente, siamo stati presenti a un momento importante e delicato com’è quello dei funerali che hanno coinvolto l’intera comunità. Ora garantisco che intendiamo continuare ad avere un’attenzione particolare. Per questo a tutti, indipendentemente dai loro ruoli o dalle loro posizioni, lancio un appello: chi sa qualcosa, parli. Come dico spesso anche ai ragazzi che incontro nelle scuole durante i percorsi sulla legalità, il migliore contributo che si può dare alla ricerca della verità e della giustizia è quello di farsi avanti con le forze dell’ordine e con la magistratura, senza timori” Piacenza: Don Adamo (Apg23) “come scopro la mia identità nel dialogo con i detenuti” di Valerio Lessi buongiornorimini.it, 31 gennaio 2019 Don Adamo oltre che cappellano nel carcere di Piacenza, è anche il responsabile a Rimini della Comunità Papa Giovanni XXIII. La settimana la trascorre fra visite in carcere e incontri a Rimini. Don Adamo sarà uno dei relatori al primo incontro del ciclo che il centro culturale Il Portico del Vasaio dedica a “Le parole che dividono”. L’altro è don Carlo d’Imporzano, della Fondazione Monserrate, da anni in Cina per sviluppare rapporti di cooperazione internazionale. Il primo appuntamento è per martedì 5 febbraio alle 21,15 al Teatro degli Atti sul tema “Identità. Nel dialogo, chi siamo”. Quando è in visita ai detenuti del carcere di Piacenza, don Adamo Affri risponde sbrigativamente che è “dentro”. Gli chiediamo: cosa succede dentro? “Dentro di me o dentro il carcere?”. Cominciamo da cosa succede in carcere. “Quando sono partito avevo mille paure, non sapevo bene cosa fare. Poi ho scoperto che le persone mi chiedono di esprimere ciò che sono, un sacerdote. Quindi quando sono in carcere celebro la Messa, tengo incontri di catechesi, incontro le persone a tu per tu. Mi cercano, mi vogliono incontrare. Quindi più sto dentro, più mi trovo occupato. Non ci sono solo i detenuti, ma anche le guardie. Prendiamo un caffè insieme, scambiamo qualche parola, a volte mi invitano nelle loro famiglie. Mi sono guadagnato la loro fiducia. È come se fossi parroco di un villaggio”. E dentro di lei cosa è successo? “Dentro di me sono cambiate tante cose. All’inizio pensavo di non essere all’altezza. Mi ponevo molte domande: cosa posso portare io a loro? come posso essere credibile ai loro occhi, io che entro ma poi esco? Poi ho scoperto che loro desiderano semplicemente che ci sia qualcuno che condivide la vita. Se prima avvertivo paura e smarrimento di fronte a quei corridoi, di fronte ai cancelli, ai forti rumori metallici, adesso quel luogo mi è diventato famigliare. Dentro il carcere trovi tante persone diverse, per lingua, cultura, religione, però scopri che in tutti c’è lo stesso anelito, la stessa ricerca di un significato per la vita. Nel partecipare al loro cambiamento, alle loro speranze, anche io mi sono ritrovato cambiato, partecipe di un cammino di liberazione. Loro si atteggiano nei miei confronti in modo molto libero, non hanno da nascondere nulla, hanno perso tutto. Anche io mi sento provocato a gettare via le mie maschere e trovo molta libertà, molta pace, molta serenità”. Don Adamo, lei cosa ha scoperto nel dialogo con i detenuti che incontra nel carcere di Piacenza? “Ho scoperto tante cose belle che nemmeno pensavo. Ho scoperto il senso dell’appartenenza, che tutti ci apparteniamo, perché in tutti noi c’è la stessa sorgente, lo stesso desiderio di essere umani. I detenuti mi coinvolgono nelle loro vicende; tuttavia, nel rapporto con loro, i reati, anche quelli più gravi, passano immediatamente sullo sfondo. Davvero l’uomo è più del suo errore”. Accennava prima che in carcere si incontra tanta diversità… “Sì, anche perché i detenuti sono soprattutto stranieri. Molti sono musulmani, ci sono diversi ortodossi, rumeni, e ci sono gli albanesi, che sono niente e sono tutto. Arrivano con il loro bagaglio e sono aperti a tutto. Nel rapporto con i musulmani c’è la consapevolezza che le differenze sono originalità. Per cui non c’è competizione ma rispetto per l’altro. Quando qualche detenuto fa la spesa e mi passa dei viveri da donare ai poveri, non mi dicono di darli a quelli della loro etnia o religione. Mi chiedono semplicemente di darli a chi ha bisogno”. Noi che siamo fuori, istintivamente abbiamo paura e diffidenza di chi sta dentro. Cosa permette di superare la paura? “È l’incontro. L’incontro abbatte tutti gli ostacoli, ha una forza incredibile. Capita a volte che arrivino gli autori di reati gravissimi, che istintivamente non avrei voglia di incontrare. Ma quando faccio il passo di andare da loro, crollano tutte le paure”. L’incontro con l’altro aiuta a scoprire la propria identità? “Sì, certo, e questo avviene in un cammino. Questo lo vedo molto nella mia esperienza. Scopro di me aspetti nuovi, anche limiti, non solo risorse. Così come vedo che quando l’altro è guardato in un certo modo, quando si accorge che è considerato come persona e non identificato con i suoi reati, scopre anche lui la sua umanità. I detenuti tendono a identificarsi con la loro storia, che rifiutano. Il cambiamento avviene quando scoprono che anch’essi sono amabili. Quando li incontro non chiedo cosa hanno fatto o di che religione sono. In loro incontro Gesù, Gesù che si è incarnato nella nostra umanità”. Come è avvenuto l’incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII? “Ero un giovane alla ricerca di qualcosa per cui valesse la pena vivere. L’incontro con un fratello della comunità mi ha portato a vivere in una casa famiglia. Dovevo starci sei mesi, invece sono passati diciotto anni e sono ancora nella casa famiglia Vivendo lì, ho scoperto la mia vocazione, per cui all’età di quarant’anni sono diventato prete. Quest’anno è il decimo anniversario della mia ordinazione. Nella condivisione dei poveri, ho scoperto la mia identità, cosa ero chiamato ad essere nel mondo”. Come può accadere? “Si tratta non solo di vivere per i poveri, ma di farsi povero. Papa Francesco dice di volere non solo una Chiesa per i poveri ma una Chiesa povera. Se anche tu non diventi povero, non capisci chi sei”. Che significa diventare povero? “Significa riconoscere che solo dal Signore può venire la salvezza. Significa riconoscere di essere fragili, deboli, bisognosi di essere salvati. Questa salvezza avviene in un noi, nella Chiesa, nella comunità. Fuori da questo noi, non posso essere davvero me stesso. Quindi essere poveri significa lasciarsi guidare dallo Spirito Santo nel rapporto con il Signore e con la Chiesa. È un cammino stupendo, perché il Signore ha molta fantasia”. Roma: domani un convegno su giustizia riparativa, mediazione e riconciliazione agensir.it, 31 gennaio 2019 “La questione carcere rimane centrale nel dibattito politico e per l’opinione pubblica. Le posizioni che spingono per più carcere riscuotono facili consensi, ma non assicurano affatto maggiore sicurezza, come vorrebbero far credere”. Partendo da questo dato, il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), in collaborazione con il Coordinamento italiano case alloggio/Aids (Cica), organizza, venerdì 1° febbraio, un convegno per riflettere sul significato e il valore delle misure alternative al carcere e, in particolar modo, sulla giustizia riparativa, “un approccio che mette al centro dell’azione non solo l’autore del reato, ma anche la vittima e la comunità coinvolta nel reato”. Il convegno è l’evento finale di un progetto durato un anno e mezzo, intitolato “La pena oltre il carcere”, finanziato dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali e realizzato dal Cnca in partenariato con Cica, un’iniziativa che si è proposta di conoscere e sperimentare esperienze innovative nell’ambito delle pratiche di giustizia riparativa nelle organizzazioni associate ai due coordinamenti, al fine di favorire il recupero sociale di detenuti, ex detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria sia adulti sia minori. Nell’occasione verrà presentato il modello di valutazione dell’impatto sociale, elaborato dal Cnca in collaborazione con Luigi Corvo dell’Università di Tor Vergata, che è stato adottato all’interno del progetto “La pena oltre il carcere” per valutare la ricaduta sociale degli interventi realizzati in favore di detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria dalle organizzazioni coinvolte nell’iniziativa. Intervengono, tra gli altri, Paolo Meli, presidente del Cica, Riccardo De Facci, presidente nazionale del Cnca, Lucia Castellano del ministero della Giustizia - Direzione generale esecuzione penale esterna e di messa alla prova, Isabella Mastropasqua del Ministero della Giustizia - Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Filomena Albano, garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Mauro Palma, garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, Alessandro Lombardi, direttore generale DG Terzo settore ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Napoli: il nuovo carosello napoletano al carcere di Poggioreale Gazzetta di Napoli, 31 gennaio 2019 Nell’ambito del progetto “Vale la pena. Attività a sostegno della popolazione detenuta straniera”, realizzato da Cidis Onlus e finanziato con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese, mercoledì 30 gennaio alle ore 10.30 nella Chiesa Centrale della Casa Circondariale Poggioreale di Napoli ci sarà il concerto finale del “Laboratorio musicale e di canto creativo”. “Il nuovo carosello napoletano”, questo il titolo dello spettacolo, è il risultato di un percorso laboratoriale intenso, iniziato nel mese di ottobre e condotto dal percussionista napoletano Francesco Paolo Manna, con un gruppo di detenuti, italiani e stranieri, che attraverso la musica, la voce e il ritmo si sono messi in gioco. Gli incontri sono stati per i partecipanti un’evasione dalla quotidianità del carcere e uno spazio non conflittuale e competitivo dove la collaborazione e la condivisione sono state le modalità comunicative privilegiate. Per l’occasione si esibiranno i ragazzi della Scalza Banda, la banda musicale che dal 2012 realizza un percorso d’integrazione sociale attraverso la pratica musicale collettiva nel quartiere Montesanto di Napoli e che ha accolto con entusiasmo l’invito a suonare insieme ai detenuti nell’Istituto Penitenziario. Sarà sicuramente una mattinata piena di emozioni sia per i detenuti che per i giovani musicisti. Malala: “Vi racconto le storie di ragazze coraggiose” di Lisa Allardice Corriere della Sera, 31 gennaio 2019 “Siamo tutti profughi. I miei viaggi e i miei incontri con le ragazze di tutto il mondo in fuga dalla guerra”, scritto dalla Premio Nobel Malala Yousafzai con Liz Welch, da oggi in libreria con Garzanti e in edicola con il Corriere della Sera (pp 165, 12,90 euro più il costo del quotidiano). “La mia storia la conoscono tutti”, ammette Malala Yousafzai, la premio Nobel più giovane di sempre. “È venuto il momento di ascoltare le storie di altre ragazze”. Il suo nuovo libro, Siamo tutti profughi, è una raccolta di resoconti che Malala ha raccolto nei campi dei rifugiati in giro per il mondo. “Ne sentiamo parlare, spesso con connotazioni negative. Ma non sentiamo mai le loro voci, specie quando si tratta di bambine e ragazze. Per questo ho scritto il libro”. La storia di Malala Yousafzai - colpita da un proiettile dei talebani a Peshawar nel 2012, quando aveva 15 anni, per aver sostenuto il diritto delle ragazze all’istruzione - è nota in tutto il mondo. Dopo la guarigione, ha accettato di assumere il ruolo di ambasciatrice globale per la scolarizzazione delle ragazze. Nel 2014 è stata insignita del premio Nobel per la pace. Oggi è una ventunenne studentessa di Oxford, con il capo avvolto da un velo e vestita di una tunica rosa brillante, un paio di scarpe con i tacchi a spillo. L’unico segno esterno delle ferite riportate nell’attentato è un sorriso leggermente storto. Ma non smette mai di sorridere. “Il 90% dei rifugiati” sono ospitati nei Paesi in via di sviluppo. Cerchiamo di capire su chi ricade effettivamente il peso delle migrazioni”, dice Malala. La prima stesura del libro risale a oltre cinque anni fa, negli accampamenti dei profughi siriani in Giordania, da lei visitati per avviare gli interventi della Fondazione Malala per l’istruzione delle ragazze. Mentre siamo al corrente delle catastrofi umanitarie in corso in Siria e in Iraq, Malala ha voluto attirare l’attenzione sul fatto che “questo accade in ogni angolo del pianeta. Accade in America Latina come nel sud-est asiatico, in India, e in gran parte del continente africano”. “Noi non riusciamo a immaginare di salire in macchina e andare da Birmingham a Londra da sole, a 14 o 15 anni”, dice Malala. “I nostri genitori sarebbero preoccupati per noi. Mentre ci sono ragazze che camminano giorno e notte da sole, talvolta salgono sugli autobus in compagnia di estranei, attraversano confini, senza sapere se arriveranno dall’altra parte sane e salve. Rischiano ogni giorno la vita. E questo è segno di grande coraggio”. Osserva Malala che “spesso ci dimentichiamo che anche i rifugiati vorrebbero tornare a casa loro. Ogni ragazza ha questo sogno, vuole tornare a vedere casa sua. Quando diventi un rifugiato, ti senti un estraneo nel nuovo Paese. Ma non appena senti di appartenere alla nuova realtà, anche tu hai diritto di viverci, come tutti gli altri. Quel Paese diventa casa tua. E ognuno di noi può avere casa in molti luoghi”. Pur sentendosi “molto orgogliosa di Birmingham”, che è diventata la sua seconda casa, Malala ha ancora nostalgia dei suoni, profumi e sapori di Peshawar: il tè dolce che bolle sulla stufa, il pollo con il riso preparato dalla mamma. Non si abituerà mai al clima inglese (anche se è disposta a concedere, con un pizzico di tristezza, che “l’estate non è più così male, forse per il riscaldamento globale”), o al fatto che gli automobilisti non suonano il clàcson in continuazione. Prima del suo arrivo nel Regno Unito, “non avevo mai visto automobili che rispettavano il codice della strada”. Lo scorso marzo con la sua famiglia è tornata in Pakistan per la prima volta dall’attentato, con il padre perennemente in ansia che le elezioni o altri avvenimenti politici potessero mettere in pericolo la loro incolumità. Hanno riabbracciato centinaia di amici e parenti - “tanti selfie, tanti abbracci, baci e preghiere” - compresa la sua migliore amica d’infanzia e oggi rivale negli studi, Moniba, iscritta a medicina. Hanno visitato la valle di Swat, “il tempo era bello”, e sono tornati nella loro vecchia casa, dove la famiglia che oggi la abita ha conservato inalterata la sua vecchia stanza: “C’erano i miei libri, i disegni, i premi ricevuti a scuola, l’armadio e il letto e tutto il resto. È stato bellissimo”. Oggi Malala frequenta il secondo anno di università e studia filosofia, politica ed economia a Oxford, come sognava da bambina in Pakistan. Il suo collegio è il Lady Margaret Hall, uno dei primi collegi femminili, dove la sua eroina, Benazir Bhutto, già primo ministro pachistano, assassinata nel 2007, aveva studiato nella medesima facoltà. La vita universitaria le piace: “A Oxford ci sono già diverse persone famose, perciò nessuno fa caso a me”. Ha stretto amicizia con diversi studenti come lei: “Non mi trattano come “la Malala,” ma semplicemente come la loro amica Malala”. Le sono piovute addosso non poche critiche quando qualcuno ha messo in Rete una foto di lei con indosso un paio di jeans attillati: “Sono solo jeans, che c’è di male?” chiede allegramente. “Di cose come queste non mi preoccupo minimamente”. È rimasta “sorpresa” nel constatare che il sessismo sopravvive ancora, persino nel Regno Unito. “Noi consideriamo l’Occidente come un mondo perfetto dove regnano uguaglianza e democrazia”. È ancora intenzionata a diventare il prossimo primo ministro del Pakistan? “La gente pensa sempre alla politica, ma c’è anche la filosofia e l’economia”. No, non ha progetti né interesse in politica, in questo momento, dice. Ma tra quindici o vent’anni, chi lo sa? Sta leggendo il libro di Michelle Obama. E sebbene non abbia mai incontrato Trump, si augura che vorrà leggere il suo libro. “È di facile lettura. Potrebbe anche ritwittarlo”, ride. Tornando seria, Malala dice che lo inviterebbe volentieri a visitare un campo profughi. “Magari potrei aiutarlo a organizzare la visita”. “Talvolta pensiamo ai rifugiati come a delle vittime, cariche di storie lacrimose. Ovviamente sono persone tristi, ma sanno anche mostrarci quanto sanno essere coraggiose”. Malgrado tutti gli orrori, il libro di Malala è ricco di speranza: molte delle ragazze le cui storie vi sono raccontate oggi studiano all’università. “Sono diventate attiviste, e vogliono realizzare i loro sogni”. Come dice giustamente la più famosa di tutte: “Se una ragazza istruita può cambiare il mondo, che cosa sapranno fare 130 milioni di ragazze?”. Il volume - Il testo è introdotto e concluso dalla stessa Malala, che ripercorre le tappe della sua fuga dal Pakistan. I suoi interventi fanno da cornice alle testimonianze di altre rifugiate e sfollate che l’autrice ha incontrato nel corso della sua attività per il Malala Fund. Malala ha iniziato la sua campagna per l’istruzione a 11 anni, scrivendo anonimamente della vita sotto i talebani nella valle dello Swat su un blog in urdu della Bbc. Ispirata dall’attivismo del padre, Malala ha ben presto preso pubblicamente le difese delle ragazze, attirando l’attenzione dei media e vincendo diversi premi. A 15 anni, è stata vittima di un attentato dei talebani. È stata curata nel Regno Unito, e oggi continua la sua battaglia per l’istruzione femminile. Eutanasia legale, la Camera avvia l’iter della legge di iniziativa popolare di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 gennaio 2019 Caso Cappato-Dj Fabo. La Consulta ha dato tempo fino a settembre 2019 per colmare “il vuoto di tutele”. Dopo oltre cinque anni di “confino” negli archivi del Parlamento e dopo 1965 giorni da quando l’Associazione Luca Coscioni ha depositato le firme di supporto al testo - ormai oltre 130 mila -, ieri finalmente la Proposta di legge di iniziativa popolare “Eutanasia legale” ha iniziato il suo iter nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera. Dopo l’introduzione di ieri dei due relatori, Giorgio Trizzino (del M5S, aderente all’intergruppo per la legalizzazione dell’eutanasia) della commissione Affari sociali, e Roberto Turri (Lega) della Giustizia, si proseguirà con un ciclo di audizioni (entro l’8 febbraio le richieste di convocazione), e solo dopo verrà deciso se e come eventualmente cambiare l’attuale testo base. “Sono intervenuti quasi tutti i capigruppo, con toni molto pacati e collaborativi, perché si è deciso di non ripetere gli errori del passato, con prese di posizione squilibrate o esasperate - riferisce al manifesto la presidente della commissione Giustizia, Giulia Sarti (M5S) - Noi non vogliamo mettere alcun cappello alla legge ma arrivare, assieme a tutte le forze politiche, ad un testo il più possibile condiviso, che risponda ai bisogni dei cittadini”. Il tempo stringe, però, perché “mancano solo 8 mesi per rispondere all’ordinanza della Corte costituzionale sul caso Cappato/Dj Fabo, che ha concesso fino al 24 settembre 2019 per l’approvazione di una legge in grado di colmare il “vuoto di tutele” Costituzionale”, come fa notare Marco Cappato, leader della Coscioni, che chiede ai presidenti Fico e Casellati di fare tutto il possibile per far rispettare i tempi. Anche perché, ricorda Cappato, la legge è “attesa dal 76% degli italiani, secondo una recente indagine che abbiamo commissionato a Swg”. Un dato simile a quello riportato ieri, aggiunge l’esponente radicale, “dal Gazzettino, secondo il cui Osservatorio gran parte del Veneto si è dichiarato “moltissimo” o “molto d’accordo” con l’affermazione: “Quando una persona ha una malattia incurabile, e vive con gravi sofferenze fisiche, è giusto che i medici possano aiutarla a morire se il paziente lo richiede”. Non si fa pregare, il presidente della Camera Roberto Fico che con un post su Facebook si dichiara “orgoglioso” dell’avvio dell’iter: “Siamo di fronte a un compito importante per la Camera, un compito da affrontare con grande senso di responsabilità per avviare la riflessione su un argomento delicato, su cui si è registrato un ritardo normativo notevole. È un lavoro - conclude Fico - che richiederà tutta la sensibilità e la lungimiranza possibile per trovare una sintesi comune”. Migranti. Accuse (a vanvera) alle Ong, Salvini non risponde di Daniela Preziosi Il Manifesto, 31 gennaio 2019 Alla Camera interrogazione di Leu a Salvini. Il deputato Palazzotto alla fine attacca: le evidenze erano fake news. Salvini di nuovo in Transatlantico in divisa da poliziotto. Prima fa il guappo dai banchi del governo, “ero preoccupato, alle tre del pomeriggio non mi era ancora arrivata nessuna minaccia di denuncia”, risate dagli scranni della maggioranza. Poi entra - dice - nel merito. Matteo Salvini, al question time di Montecitorio, deve rispondere a due domande di Erasmo Palazzotto, deputato di Leu. Tema: le accuse sparate a raffica contro le Ong. Le questioni sono precise. La prima: il 23 gennaio Salvini ha sostenuto di essere in possesso di “evidenze” che dimostrerebbero rapporti tra le Ong e trafficanti, e che le avrebbe presto consegnate alle autorità giudiziarie”. La seconda è ancora più delicata: il 27 gennaio il quotidiano Il Fatto ha pubblicato un’intervista a Pietro Gallo, “agente della sicurezza” che nell’ottobre del 2016 si imbarca con Save The Children a bordo della nave Vos Hestia, e spia - e filma - l’equipaggio. A caccia di prove dei rapporti con gli scafisti. Non ne cava niente, per sua stessa ammissione, ma alla fine consegna tutto alla procura di Trapani, che indaga 20 persone (l’inchiesta langue come le altre due che a Ragusa e Catania riguardano alcune Ong). Ma il punto è che a chi lo intervista Gallo racconta di averlo fatto per conto “di Salvini o della Lega”. In cambio di una promessa aiuto per un lavoro. Palazzotto ricostruisce la vicenda. Gallo è “un contractor della Imi Security Service, società che sembra essere vicina a organizzazioni di estrema destra, come Generazione Identitaria”. Le spiate vanno a vuoto ma in quei giorni Salvini, che è europarlamentare, ‘svelà l’esistenza di un dossier dei servizi, “smentito dall’allora presidente del Copasir”, Giacomo Stucchi, anche lui leghista. “A quale titolo ha svolto questa attività?” chiede Palazzotto, “le informazioni di cui dichiara di essere oggi in possesso sono state acquisite con le stesse modalità o sono stati coinvolti corpi dello Stato che hanno agito sotto diretto impulso del suo ministero e quindi senza ‘autorizzazione dell’autorità giudiziaria?”. Insomma oggi che è ministro continua a incaricare ‘qualcuno’ di fare “indagini”? La risposta arriva, si fa per dire, al termine di una serie di sorrisetti rivolti ai suoi in aula. “Per il mio mestiere sentivo e sento quotidianamente persone che lavorano nell’ambito del settore dell’immigrazione”, dice Salvini, “e qualunque elemento mi venga fornito viene trasferito ovviamente a chi di competenza, che ne valuterà la consistenza”. Faccio cose, vedo gente, insomma. “Così operavo in passato, in maniera assolutamente trasparente, senza promettere niente a nessuno, men che meno posti di lavoro, nell’unico e solo interesse della tutela della sicurezza nazionale”, poi allude al caso Diciotti per cui non vuole essere portato in giudizio: “Sono convinto da otto mesi di operare per difendere la sicurezza di chi parte e muore”, “L’ho fatto e lo rifarò”. È convinto. Ma non ha le evidenze. Replica Palazzotto: “Non ci ha detto se queste attività delle forze di polizia sono state eseguite su impulso suo diretto o dell’autorità giudiziaria, ma il fatto che lei ci dica che le deve trasferire all’autorità giudiziaria, in realtà ci dice molto”. E le “evidenze” erano “fake news”, dice. Il dubbio se episodi come quello di Gallo si siano ripetuti, oggi che Salvini è al Viminale, è inquietante. Una pericolosa confusione di ruoli. Che ha anche una fotografia. Salvini alla camera arriva sfoggiando una giacca della polizia, è la seconda volta che lo fa. Oggi ha il distintivo di un’aquila che tiene fra le grinfie “Primus”. Si è travestito da pilota del Primo Reparto Volo di Pratica Mare, gli elicotteri che sorvegliano dall’alto i cortei e le città. Spesso forniti di occhiute telecamere. Migranti. Una strage al giorno: nel Mediterraneo sei vittime ogni 24 ore di Adriana Pollice Il Manifesto, 31 gennaio 2019 I numeri choc dell’Unhcr: nel 2018 2.275 migranti hanno perso la vita in mare, un decesso ogni 14 arrivi per l’assenza di soccorsi. Filippo Grandi: “Si è creata una corsa tra paesi a non prendere migranti, quasi una gara contro la solidarietà dettata da motivi politici. C’è un’atmosfera tossica”. Attraversare il Mediterraneo centrale significa affrontare la rotta più letale al mondo: il tasso di mortalità dei migranti che dalla Libia si imbarcano verso l’Italia o Malta è più che raddoppiato lo scorso anno, quando le missioni di ricerca e soccorso delle ong sono state quasi azzerate e molti Stati hanno cambiato le loro politiche nei confronti dei migranti. A certificarlo è il rapporto “Viaggi disperati” pubblicato ieri dall’Unhcr, l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite. Nonostante il significativo calo del numero di arrivi nelle coste europee, sono state circa 2.275 le persone morte o scomparse attraversando il Mediterraneo nel 2018, un decesso ogni 14 arrivi. Il tasso era uno su 38 nel 2017. La traversata verso l’Europa è costata una media di sei vite al giorno. Se l’Europa si è sottratta, la Guardia costiera di Tripoli ha intensificato le operazioni: l’85% di chi parte viene riportato in Libia dove finisce nei centri di detenzione in condizioni terribili. In balia di milizie e degli stessi trafficanti, sono rinchiusi senza acqua né cibo per giorni, soggetti a torture, stupri ed epidemie. Tra il 2017 e il 2018 gli arrivi in Europa sono scesi da 172.324 a 139.300, il numero più basso degli ultimi cinque anni. I flussi sono cambiati: se in Italia si è passati da 119.400 a 23.400, sono saliti in Grecia (da 35.400 a 50.500) e in Spagna (da 28.300 a 65.400). Così, nel Mediterraneo occidentale, i decessi sono cresciuti: da 202 nel 2017 a 777 nel 2018. La politica dei porti chiusi ha anche attivato la rotta via terra: in circa 24mila sono arrivati in Bosnia-Erzegovina attraverso i Balcani occidentali. “Salvare vite in mare non è un’opzione né una questione politica, ma un imperativo primordiale - ha spiegato Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati - Possiamo porre fine a queste tragedie con un approccio basato sulla cooperazione e focalizzato sulla vita e la dignità umana”. Cioè l’opposto di quanto successo nell’ultimo anno, con gli Stati europei impegnati a far valere il proprio interesse. Il risultato sono state le navi delle ong bloccate in mare con i naufraghi per lunghi periodi senza porto di sbarco, in violazione delle norme internazionali. L’Unhcr sottolinea, poi, che l’intero viaggio per i migranti è “un incubo” che li espone a torture, stupri e sequestri a scopo d’estorsione: “Gli Stati devono agire con urgenza per scardinare le reti dei trafficanti e consegnarli alla giustizia”. Grandi accusa: “L’afflusso registrato nell’Ue nel 2018 è gestibile. Ci sono paesi in Africa o in Asia dove 139mila persone arrivano in un mese e ce la fanno”. Secondo Grandi, il dato positivo riguarda i ricollocamenti che, pure in mancanza di una linea comune, alla fine si ottengono: “Nonostante lo stallo politico, rispetto all’avanzamento di un approccio regionale ai soccorsi e agli sbarchi, diversi Stati hanno assunto l’impegno di ricollocare le persone soccorse nel Mediterraneo centrale, una potenziale base per una soluzione duratura. Gli Stati hanno inoltre promesso migliaia di posti destinati al reinsediamento per permettere l’evacuazione dei rifugiati dalla Libia. L’Italia si è impegnata per 400 e, in parte, è stato questo governo”. Resta da parte dell’Alto commissario il giudizio negativo sui paesi Ue: “L’Europa può gestire il fenomeno, ci vuole al più presto almeno un accordo temporaneo tra volenterosi in modo da poter fare gli sbarchi senza provocare ogni volta tensioni, senza intossicare il dibattito per fini politico-elettorali”. Per poi attaccare: “I governi spostano il problema fuori dai loro confini invece di risolverlo. In Libia i paesi europei hanno rafforzato solo la Guardia costiera, perché questo contribuisce a ridurre gli sbarchi, ma i migranti salvati entrano nel circolo vizioso dei centri di detenzione in condizioni orribili”. E ancora: “Bisogna intervenire su tutto il contesto libico in modo che anche lì queste persone possano essere gestite in maniera umana”. Sulle ong: “Rifiuto le accuse mosse loro. La capacità di salvataggio di ong e privati deve essere mantenuta, non può essere vista come un fattore che incentiva le partenze. La presenza di queste navi nel Mediterraneo centrale si è ridotta da 10 a 2 ed è stata una delle cause dell’aumento del tasso di mortalità”. La conclusione è amara: “Si è creata una corsa tra paesi a non prendere migranti, quasi una gara contro la solidarietà dettata da motivi politici interni. Non vedo la volontà di risolvere i problemi, c’è un’atmosfera tossica”. Venezuela. La guerra di Maduro ai bambini “Li arrestano per farci paura” di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 31 gennaio 2019 Sono 77 i minori, tra i 12 e 14 anni di età, finiti in prigione. “Picchiati tutti i giorni”. Secondo le ong molti adolescenti sono stati rimessi in libertà, ma ne restano dentro alcune decine. “Restituite i nostri bambini!”. Il grido che risuonò da tutto il mondo verso la foresta nigeriana, qualche anno fa, ora si alza forte in un Paese occidentale. Qui non ci sono terroristi islamici e inermi studentesse, ma l’apparato repressivo di uno Stato che ogni giorno continua a perdere pezzi e reagisce con violenza e scompostezza. “Non era mai successo, in tutte le ondate di protesta in Venezuela, che venissero arrestati tanti bambini e adolescenti come stavolta”, spiegano a Foro Penal, l’organizzazione che tiene il conto delle violazioni ai diritti umani e fornisce assistenza giuridica alle vittime. Nell’ultima settimana sono stati arrestati dalla polizia 77 ragazzini tra i 12 e 14 anni di età, quindi ben al di sotto dell’età minima di responsabilità penale. Quasi tutti il giorno 23, quello delle manifestazioni di massa in tutte le città, culminate con il giuramento di Juan Guaidó come presidente “incaricato”, e lontano da Caracas, quindi dalla copertura mediatica alternativa alla propaganda di regime. Quel giorno, con oltre 700 casi, si è battuto ogni record di arresti in Venezuela negli ultimi vent’anni. “Ero quello più picchiato di tutti, perché non piangevo. Sono state le guardie a menarmi, erano tutte donne”. Lo sguardo afflitto di Jickson Rodríguez, 14 anni, ha fatto il giro del mondo sui social il 29, quando il ragazzino è stato rimesso in libertà, sei giorni dopo l’arresto. Dalla prigione Jickson è stato portato d’urgenza all’ospedale di Puerto Ordaz, perché vittima durante la detenzione di due convulsioni per mancanza di medicine. Il ragazzino soffre di crisi epilettiche. Altri tre casi hanno destato impressione: un bambino con sindrome di Down, un altro malato di cancro e una ragazzina india di 14 anni. A ieri, la Ong ha informato che molti degli adolescenti sono stati rimessi in libertà, ma ne restano dentro alcune decine. Perché questo accanimento? In parte perché i minori sono stati catturati mentre manifestavano con adulti, quindi in retate a caso; ma è forte il sospetto che il regime voglia mandare un messaggio a tutti i giovani, affinché non tornino a diventare l’avanguardia dura della rivolta contro il regime chavista, come avvenuto in passato. Durante le proteste del 2017, ma anche prima, era sorta in tutto il Venezuela la figura del guarimbero (da guarimba, che significa barricata), l’oppositore pronto a scontrarsi con la polizia a margine delle manifestazioni principali. Quasi tutti molto giovani, con il volto coperto, il casco e la maschera antigas, i guarimberos si dedicavano a improvvisare barricate di rifiuti e macerie per bloccare le strade e fermare il traffico, e finivano sempre sotto il tiro della repressione. Alcuni di loro sono stati uccisi, quasi tutti hanno ricevuto ferite da pallottole di gomma e manganellate. Da giorni al Foro Penal arrivano notizie di retate casuali e soprattutto minacce ai familiari degli oppositori uccisi dalla polizia e detenuti, affinché non denuncino gli abusi della repressione. “I genitori dei ragazzini picchiati o in galera sono minacciati quando chiedono notizie. Zitti o finirà peggio - raccontano gli avvocati -. Noi rispondiamo sempre che non è il momento di avere paura”. Con la censura totale sui media tradizionali, circolano in rete immagini di familiari che chiedono notizie dei loro ragazzi davanti alle carceri e alle sedi della polizia. Il responsabile di uno dei principali siti di notizie teme che la prossima ondata repressiva possa abbattersi su di loro. “Abbiamo già notato nei giorni scorsi che la velocità delle connessioni Internet si abbassa decisamente in alcuni momenti della giornata, soprattutto quando parla Guaidó”. La repressione ha già colpito anche i giornalisti stranieri. Due francesi sono stati fermati mentre filmavano nei paraggi del palazzo presidenziale. Altri due reporter della televisione statale del Cile sono stati trattenuti per otto ore e poi portati all’aeroporto di Caracas per essere espulsi. Israele. “Io, arrestato senza sapere perché, vi racconto le condizioni disumane delle carceri” di Futura D’Aprile tpi.it, 31 gennaio 2019 Israele usa la detenzione amministrativa come arma contro i palestinesi, di conseguenza la misura perde il carattere di prevenzione dei reati per assumere una valenza meramente punitiva. L’obiettivo è trasformare i prigionieri in oggetti privi di identità politica e umana. Immaginate di essere nella tranquillità della vostra casa, da soli o in compagnia dei vostri cari: all’improvviso uomini armati varcano la soglia, vi intimano di seguirli, vi ammanettano e vi trascinano via senza darvi il tempo di capire cosa sta succedendo, né tanto meno perché. La mente corre veloce, cercate di capire cosa avete fatto, lo chiedete ai militari che vi stanno portando via, ma non avete risposta, non potete saperlo. Volete conoscere le accuse contro di voi, ma questo diritto vi viene negato. Neanche il vostro avvocato può saperlo. È un segreto tra il Tribunale militare e i giudici. Tutta questa riservatezza però un nome ce l’ha: si chiama detenzione amministrativa ed è una delle misure a cui sono sottoposti i palestinesi della West Bank, che vivono sotto il controllo di Israele. La loro unica “colpa” è che un giorno potrebbero essere una minaccia per la società, per cui vengono incarcerati preventivamente, senza accuse a loro carico, senza aver commesso un reato. E senza sapere se e quando saranno scarcerati, perché la detenzione amministrativa può essere rinnovata ogni sei mesi per un massimo di altri sei mesi, all’infinito. Per capire cosa vuol dire vivere sulla propria pelle la detenzione amministrativa TPI ha intervistato Salah, un avvocato detenuto nella prigione di Al-Naqab per più di un anno e attuale collaboratore di Addameer, una Ong che offre aiuto legale ai carcerati palestinesi. Perché eri in detenzione amministrativa? Quali erano le accuse? Non ci sono ragioni specifiche dietro il mio arresto. Non mi hanno mai detto quali erano le accuse a mio carico. La detenzione amministrativa si basa sulla segretezza e solo il Tribunale militare e i giudici sanno quali sono le accuse mosse contro chi viene arrestato. Né io né il mio avvocato abbiamo avuto accesso alla documentazione. Quando e per quanto tempo sei stato in prigione? Sono stato arrestato il 23 agosto 2017, mentre ero nella mia casa a Kufr Aqab, Gerusalemme est. Dopo alcuni giorni mi hanno condannato a sei mesi di detenzione amministrative e l’ordine è stato rinnovato il 26 febbraio 2018 per altri quattro mesi. Il mio arresto è stato prolungato una terza volta per altri tre mesi. Sono stato rilasciato il 30 settembre 2018, dopo più di un anno. In che condizioni vivevi in prigione? In prigione si vive in condizioni disumane, la vita è difficile e la detenzione è usata da Israele come uno strumento per eliminare ogni traccia di umanità dai prigionieri palestinesi e trasformarli così in semplici oggetti privi di identità politica e umana. Considera che la detenzione amministrativa può essere rinnovata ogni sei mesi per un tempo indeterminato: puoi passare anche una vita intera in carcere. Certo, mentre ero in prigione non sono stato mai torturato, ma noi prigionieri siamo costantemente controllati ogni singolo minuto fin dal momento dell’arresto dall’efficiente apparato tecnologico di Israele. La detenzione inoltre è usata per separarci su base geografica a seconda della zona di provenienza e alla lunga questo tipo di isolamento mira a distruggere la nostra cultura e i nostri valori politici: ci porta a pensare che non siamo un “popolo palestinese”, ma che apparteniamo a semplici comunità isolate con valori differenti. Quante persone erano in detenzione amministrativa nel tuo stesso periodo? Non lo so con certezza, sono stato in carcere per più di un anno e in quel lasso di tempo molte persone sono state incarcerate e rilasciate. In genere però ci sono più di 450 persone in carcere in detenzione amministrativa. La misura viene applicata anche contro i minori. La detenzione amministrativa: cos’è e come funziona La detenzione amministrativa prevede che una persona possa essere trattenuta senza subire necessariamente un processo e senza aver commesso un reato, ma solo perché l’autorità ritiene che in futuro potrebbe violare le leggi. Si tratta di una misura preventiva basata sull’articolo 78 della Convenzione di Ginevra, anche se con alcune eccezioni. La norma infatti prevede la residenza forzata o l’internamento del soggetto ritenuto non pericoloso, ma Israele, grazie altre tre leggi del proprio ordinamento, ha trasformato la detenzione amministrativa in una misura carceraria. A impartire l’ordine di arresto è il comandante militare regionale sulla base di prove che non vengono rivelate al carcerato per “motivi di sicurezza”. In questo modo i detenuti non possono difendersi, non sapendo di quali reati sono accusati, e la detenzione può essere rinnovata ogni sei mesi per un tempo indeterminato. I soggetti posti in detenzione amministrativa devono essere portati dinanzi a un giudice militare entro otto giorni dall’emissione dell’ordine di detenzione originale o dalla sua estensione: il giudice può confermare l’ordine, respingerlo o abbreviare il periodo di detenzione richiesto. Qualunque sia la decisione, sia il detenuto che il comandante militare possono ricorrere in appello presso la Corte d’appello militare e, in seguito, presso l’Alta Corte di giustizia (HCJ). La detenzione amministrativa viene usata da Israele come arma contro i palestinesi, di conseguenza perde il carattere di prevenzione dei reati per assumere una valenza meramente punitiva. I palestinesi sono stati sottoposti a questa misura fin dai tempi dell’occupazione israeliana del 1967, anche se era già applicata ai tempi del mandato britannico. La frequenza dell’uso della detenzione amministrativa ha subito diverse fluttuazioni durante l’occupazione israeliana ed è aumentata costantemente dallo scoppio della seconda Intifada del settembre del 2000. Prima di quella data, i detenuti amministrativi erano solo 12, mente due anni dopo, tra la fine del 2002 e l’inizio 2003, c’erano oltre mille palestinesi in detenzione amministrativa. Tra il 2005 e il 2007, il numero medio mensile di detenuti è rimasto stabile intorno alle 765 persone. Un nuovo picco si è registrato a dicembre 2018 con l’arresto di 482 palestinesi: nove sono membri del Consiglio legislativo palestinese. Afghanistan. Senza futuro le 500 bambine della scuola Maria Grazia Cutuli di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 31 gennaio 2019 Dopo il ritiro delle truppe italiane e Usa. A Kush Rod, vicino a Herat. dove si trova l’istituto intitolato all’inviata del Corriere, si preparano a una nuova guerra civile con i talebani: “Ora la loro vita è a rischio”. E ora? Ora che le truppe italiane sono pronte ad andarsene dall’Afghanistan, ora che l’America di Trump sembra aver raggiunto un accordo per permettere ai talebani di tornare al governo del Paese, ora cosa succederà alle 500 bambine che studiano nella bella scuole blu di Kush Rod intitolata alla giornalista del Corriere Maria Grazia Cutuli? Cosa succederà a loro? E cosa succederà a tutte le altre (e gli altri) che in 18 anni si sono opposti al terrorismo talebano, li hanno sfidati e hanno studiato altro oltre al Corano, hanno insegnato altro oltre ad alcuni precetti religiosi e hanno mandato a scuola le figlie oltre ai figli? A Kush Rod, distretto di Injil, a 15 chilometri da Herat, si preparano a una nuova guerra civile. “Nessuno combatterà solo perché le figlie vadano in classe, ma temo che saremo costretti a farlo per difendere la loro vita e quella di tutta la famiglia” sostiene uno degli “anziani” del villaggio, Haji Khan Badrawi raggiunto al telefono dal Corriere. “Se i talebani potranno tornare in città con il permesso degli americani e non del governo afghano o dei comandanti locali, scatteranno le vendette, le ruberie, le violenze. Non si combatte per 23 anni per poi dividersi sorridenti i posti in municipio, alla dogana, nell’esercito, nella compagnia dei telefonini, ovunque si facciano affari”. A Injil la maggioranza della popolazione è di etnia hazara e segue l’Islam sciita. I talebani sono invece soprattutto pashtun e sunniti. Quando tra 1996 e 2001 gli “studenti del Corano” erano al potere, gli abitanti della valle scapparono in Iran: circa 150 su 200mila. “E mentre noi eravamo in esilio dei contadini pashtun hanno occupato le nostre fattorie. Per scacciarli non sono bastati i bombardieri B52 americani, ma abbiamo dovuto anche sparare parecchie fucilate. Erano terre nostre” si giustifica Haji Khan Badrawi. La vallata appoggiò in modo massiccio un “signore della guerra” che è ancora protagonista della politica nazionale, quell’Ismahil Khan di cui le cronache hanno raccontato prodezze e orrori. Nella scuola blu “Maria Grazia Cutuli” studiano circa 500 bambine e 400 bambini. “I maschi possono anche andare a cercare una classe un poco più lontano, non è tanto pericoloso per loro camminare in campagna per un’ora o due. Così diamo la precedenza alle femmine che invece è bene restino più vicine a casa” spiega la preside del settore femminile Kinaaz. È un privilegio raro nel Paese che si prepara al ritorno dei talebani, ma è anche un piccolo miracolo della scuola costruita a 15 chilometri da Herat per ricordare il sacrificio della giornalista del Corriere della Sera uccisa nel 2001 proprio dai talebani. Si spesero circa 130mila euro (con fondi tra gli altri della stessa famiglia della reporter, del Comune di Roma, della Regione e della Confindustria siciliane, dell’Ordine dei giornalisti, del Corriere), ma la logistica fu tutta del contingente militare italiano di base ad Herat. I nostri soldati hanno costruito negli anni un centinaio di scuole di questa taglia e molte altre ne hanno ristrutturate con fondi nazionali e, soprattutto, americani. Quest’attività edile era parte di un’esplicita strategia volta a premiare con infrastrutture utili allo sviluppo le aree più favorevoli al governo centrale di Kabul. Si sperava così di convincere anche gli altri che fosse più conveniente stare dalla parte dell’Occidente piuttosto che degli Studenti del Corano. Con circa il 70 per cento del territorio ormai sotto il controllo o la minaccia talebana, bisogna prendere atto che purtroppo l’idea non ha funzionato, non è bastata a cambiare l’inerzia di un’economia drogata dai soldi di chi ha interesse a mantenerla nell’instabilità. Appena costruita, così brillante nel suo color lapislazzuli in un paesaggio dominato dal tono dell’argilla, così blu in un Paese dove il colore si riserva solo alle moschee, la scuola “Cutuli” sembrava un’esplicita sfida all’oscurantismo talebano. Said Ahmad, allora capo del consiglio degli anziani, confidò al Corriere il giorno dell’inaugurazione la sua preoccupazione: “Dovremo difenderla con grande attenzione perché è talmente diversa da ciò a cui siamo abituati, che sarà un obbiettivo simbolico, perfetto per i talebani”. In nove anni, per fortuna, nulla è successo. Anzi, al comando italiano di Herat confermano che la scuola ha sempre funzionato con regolarità e continua a farlo. “Abbiamo così tante richieste - dice la preside Kinaaz - che i due turni, mattina e pomeriggio, non bastano più. Alle 8 classi in muratura originarie abbiamo dovuto aggiungerne altre in tenda”. “Siamo felici che la scuola sia aperta da tanti anni come speravamo - dice Mario Cutuli, fratello della giornalista uccisa e presidente della Fondazione a lei intitolata -. Siamo anche stati inseriti in un premio dell’Agha Khan Fundation sui progetti a favore dello sviluppo. Certo è una goccia nel mare, ma una goccia che ha aiutato comunque tanti bimbi sino ad ora”. “L’unica speranza per evitare la guerra civile - azzarda Haji Khan Badrawi - è che i nostri leader come Ismahil Khan possano raggiungere un accordo con i talebani per una spartizione del potere e delle aree di competenza”. Si tornerebbe a un Afghanistan a macchia di leopardo, fratturato lungo linee etniche, tribali e confessionali, dominate dalla forza delle armi e dalla paura. Per chi ha sempre comandato non cambierebbe molto. Gli affari, dall’oppio all’estrazione mineraria, al commercio all’ingrosso per il consumo interno, continuerebbero indisturbati. Per tutti gli altri sarebbe la fine della speranza di un futuro migliore, in cui la guerra non sia l’unica prospettiva. In una recente intervista, Ismahil Khan ha invitato i talebani a negoziare non solo con gli americani e con il governo filo-occidentale di Kabul, ma anche con la “grande famiglia dei mujaheddin” per costruire assieme uno Stato “sinceramente islamico”. Il problema per la scuola blu e le sue 500 allieve è che, come agli “studenti del Corano”, anche al vecchio mujaheddin e signore della guerra conviene credere che un Paese “islamico” sia un Paese senza scuole e senza libertà.