Rems, criminale è la nostalgia del manicomio di Francesco Maisto Il Manifesto, 30 gennaio 2019 Quando qualche autorevole magistrato di sorveglianza evoca un manicomio giudiziario come Castiglione delle Stiviere “all’avanguardia per quanto riguarda trattamenti e terapie…un errore non coltivare quell’esperienza”, nel presente clima culturale e politico di re-istituzionalizzazione e ri-carcerizzazione, bisogna proprio allarmarsi. Così facendo si dimenticano i tanti trattamenti inumani, degradanti, violenti, osceni, strutturali ed illegali connaturati ai manicomi giudiziari, rimasti in larga parte “latrine” (secondo la qualificazione di Lombroso), come reso evidente dall’Indagine della Commissione parlamentare Marino sulle condizioni degli Opg. La vecchia dottrina penalistica ed alienistica classificava gli autori di reato in rei-folli (i rei divenuti successivamente folli) e in folli-rei (i soggetti già folli che commettevano reati), tutti destinati alla discarica del manicomio giudiziario - poi ingentilito con l’ossimoro ospedale psichiatrico giudiziario- in cui gli internati erano marchiati da presunzioni giuridiche assolute di pericolosità sociale rivedibili a scadenze fisse, cancellate, dopo un lungo lavorio dalla Corte Costituzionale, dalla Legge Gozzini ed infine, dalla legge 81 del 2014. È vero che questa legge ha sancito la chiusura degli Opg, ma al contempo, ha previsto un termine per le misure di sicurezza detentive (prima indeterminate); ha espunto l’handicap sociale dai criteri di valutazione della pericolosità sociale; ha reso obbligatori i programmi terapeutici individualizzati e, solo in via subordinata, ha previsto l’istituzione di piccole strutture terapeutiche denominate Rems (Residenze per la esecuzione delle misure di sicurezza detentive psichiatriche), come uno degli esiti del proscioglimento per infermità o seminfermità mentale con ritenuta attualità della pericolosità sociale. Le Rems come strutture sanitarie e non penitenziarie, come strutture e non istituzioni totali, come strutture sicure non chiuse, strutture di gestione dell’aggressività e della fragilità, e non di contenzione e di trattamenti sanitari obbligatori, strutture temporanee. E dunque, non le Rems al posto degli Opg, secondo la diversa narrazione del Capo del Dap e di magistrati che aderiscono alle correnti psichiatriche istituzionalizzanti. È vero che attualmente alcune centinaia di soggetti con patologie psichiatriche, ritenuti pericolosi, sono in lista di attesa per una assegnazione alle Rems oppure illegalmente trattenuti nelle patrie galere, ma ciò non è certamente imputabile a carenze della legge, né all’insensibilità di tutte le Regioni. Tante sono le omissioni che continuano a minare la completa e puntuale attuazione del trattamento penale degli infermi di mente. Le proposte degli Stati Generali non sono state recepite da questo Governo. In particolare, la mancata abrogazione dell’art. 148 del codice penale e la riduzione della possibilità di ricorrere a misure alternative, ha impedito la creazione di un sistema unitario con la possibilità di un adeguato trattamento in carcere. L’interlocuzione tra il sistema di giustizia penale ed il sistema dei servizi psichiatrici, auspicata dal Consiglio Superiore della Magistratura con due Risoluzioni precise e stringenti, non vede attivo un livello nazionale, ma è lasciata alle singole Regioni (sono stati prodotti protocolli solo in Emilia, Lazio, e a Brescia). Le prassi del Dap non sono cambiate rispetto a quelle praticate con la vecchia normativa. Non è stata attivata la Conferenza nazionale sulla salute mentale e l’Accordo Stato-Regioni del 26 febbraio 2015 non è stato ancora rivisto. Non stupisce, dunque, se, in un clima politico “repressivo” e regressivo, riprenda vigore l’ipotesi di soluzioni istituzionalizzanti piuttosto che la scelta di un sistema incentrato sulla comunità. Cappellani penitenziari, “segni di misericordia” di Stefania Careddu Avvenire, 30 gennaio 2019 All'inaugurazione della sede dell'Ispettorato il segretario generale Cei, Russo: “Valorizzate la dignità di ogni persona”. Papa Francesco li ha definiti “segni delle viscere del Padre”, ovvero di quella misericordia che non conosce limiti e raggiunge chiunque. Anche dietro le sbarre. Effettivamente i cappellani che prestano il loro servizio all'interno delle carceri sono la testimonianza di una vicinanza concreta e di un'attenzione alla persona che va oltre l'errore. E non guarda al colore della pelle, alla lingua, all'estrazione sociale o alla religione. Sono 230 i sacerdoti impegnati all'interno di 192 istituti di pena per adulti e di diciannove strutture per minori: sulla carta il rapporto è praticamente uno a uno, ma nei fatti nelle carceri più grandi sono presenti più preti, mentre quelle meno affollate condividono lo stesso cappellano. Che è punto di riferimento per tutti, per i detenuti, che spesso sono immigrati, senza fissa dimora, persone sole, e per gli operatori. Il cappellano si occupa dell'assistenza religiosa (e non solo), della catechesi, degli incontri personali, dell'organizzazione della pastorale penitenziaria. È lui che si interfaccia con i volontari, tra cui diaconi, religiosi e suore, che operano nelle carceri e con i luoghi dove si scontano le pene alternative, che si fa carico dei bisogni spirituali e spesso anche materiali di uomini e donne, che mantiene e, in molti casi, cerca di ricucire, i rapporti con le famiglie. È una specie di angelo custode, che si fa prossimo anche a chi è di una confessione o di una religione diversa. A vigilare sull'operato di questi sacerdoti, a coordinare le numerose attività che si svolgono nelle strutture di tutta Italia, a tessere le relazioni con le istituzioni e a curare la corrispondenza dei detenuti con il Papa cui sono indirizzate moltissime lettere è l'Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane che da ieri ha una nuova sede a Roma, in un palazzo che fa parte del complesso della casa circondariale di “Regina Coeli” in via delle Mantellate. Dello staff fa parte anche una detenuta in semilibertà. “Andiamo avanti insieme, ciascuno nel proprio ruolo, per cercare di vivere quella prossimità che nasce dal riconoscere in ogni uomo l'immagine di Dio e aiutarlo a riscoprire tale consapevolezza, al di là dell'appartenenza di fede”, è stato l'incoraggiamento del vescovo Stefano Russo, segretario generale della Cei, che ha benedetto i locali del nuovo ufficio. “Il vostro - ha sottolineato - è un impegno da valorizzare e da farne oggetto di formazione perché i sacerdoti possano con la loro testimonianza trasmettere la libertà, che è l'aspirazione di ogni uomo”. “Vogliamo contribuire a costruire con il nostro impegno la civiltà dell'amore” ha detto don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari, per il quale la presenza del segretario generale della Cei è “garanzia che la Chiesa italiana ha preso a cuore la realtà delle carceri continuando ad inviare negli istituti dei consacrati per fasciare le ferite di uomini e donne privati della libertà”. Russo (Cei): l’impegno dei cappellani è da valorizzare e da farne oggetto di formazione “L’impegno dei cappellani delle carceri è da valorizzare e da farne oggetto di formazione perché possano con la loro testimonianza trasmettere la libertà che è l’aspirazione di ogni uomo”. Ne è convinto mons. Stefano Russo, vescovo di Fabriano-Matelica e segretario generale della Cei, che questa sera ha inaugurato a Roma il nuovo ufficio dell’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri. Questi sacerdoti, ha spiegato, “sono chiamati a farsi prossimi a persone private della libertà” e svolgono “un lavoro a servizio degli uomini e delle donne del nostro tempo”: “Andiamo avanti insieme, ognuno nel proprio ruolo, per vivere quella prossimità che nasce dal riconoscere in ogni uomo l’immagine di Dio e aiutarlo a scoprire questa consapevolezza”. “Vogliamo contribuire a costruire la civiltà dell’amore”, ha detto da parte sua don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani, per il quale la presenza di mons. Russo è “garanzia che la Chiesa italiana ha preso a cuore la realtà delle carceri continuando ad inviare consacrati che si sono messi a servizio per fasciare le ferite di uomini e donne privati della libertà”. Il magistrato accusa: troppi innocenti alla sbarra Il Dubbio L’intervento del Presidente del Tribunale di Torino Massimo Terzi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Al 30 settembre 2018 risultano pendenti in Italia sui Tribunali nella fase dibattimentale, quasi 600mila procedimenti monocratici e 27mila procedimenti collegiali”. Il dato è emerso nel corso dell’intervento del presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ma il presidente del Tribunale, Terzi ha presentato dati ancora più scioccanti: “Ogni anno abbiamo almeno 150 mila indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti non prescritti) all’esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni”. E ancora: “Sulla base di questi dati - ha infatti continuato Massimo Terzi dall’entrata in vigore oramai trent’anni fa del codice di procedura penale abbiamo processato ed assolto in primo grado mediamente dopo 4,5 anni quasi 5 milioni di imputati”. Siprevede nel 2019 di affrontare la problematica della ragionevole durata del processo penale. Sono molto pessimista sugli esiti perché nonostante i generici allarmi non percepisco vera consapevolezza del livello di criticità; ed in mancanza di vera consapevolezza gli approcci sono velleitari. Per un corretto approccio si deve valutare la febbre dello stato del processo. Lo farò per maggior chiarezza utilizzando il parametro più in voga degli ultimi vent’anni quello delle agenzie di rating: il famoso spread. Mi limito a semplificarvi i dati concreti della parte di cui sono più esperto e cioè la fase dibattimentale del primo grado. Parte che rappresenta comunque il core business intorno al quale ruota il fulcro del processo penale. Da un punto di vista quantitativo i dati nazionali sono. Al 30 settembre 2018 risultano pendenti in Italia sui Tribunali nella fase dibattimentale: procedimenti monocratici n. 596.426. Procedimenti collegiali n. 27.823. Il dato, pur di per sé impressionante, non è in realtà neppure del tutto significativo della drammaticità del trend e della situazione ove non si ponga a mente che i numeri sono questi nonostante le alte percentuali di archiviazione per prescrizione già in sede di indagini preliminari e nonostante gli “accantonamenti” di vario tipo in conseguenza dei criteri di priorità adottati. Sarà il caso di rammentare che i Giudici adibiti al dibattimento penale sono meno di 1500 in tutta Italia. Mi pare pertanto che, con tutta la benevolenza, su questo dato sia corretto fissare lo spread ad oltre 1000 punti base rispetto ad un processo normale. Vediamo quello che si dice l’outlook, la prospettiva. Negli ultimi dieci anni vi è stato un incremento rispettivamente del 35% e del 32%. Con questo trend tra 15 anni saremo vicini al traguardo di un milione di procedimenti monocratici e di cinquantamila procedimenti collegiali. Mi pare indubitabile prevedere un outlook più che negativo. Su queste basi il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirli, in gergo di rating, titoli spazzatura. Analizziamo ora la qualità del dato per verificare quale possa essere intervento efficace. Non avendo a disposizione i dati nazionali faccio riferimento a quelli del Circondario di Torino che non ho dubbi, sia ben chiaro, tendenzialmente potrebbero anche essere migliori di quelli nazionali. Escluse le direttissime, a dibattimento abbiamo avuto nello scorso anno giudiziario il 35% di assoluzioni sui collegiali oltre il 50% di assoluzioni nel rito monocratico non definito con riti alternativi; i riti alternativi conclusi con applicazione pena o condanna in abbreviato nei giudizi incardinati come ordinari sono meno del 10% sulle sopravvenienze. Se questi numeri li proiettiamo in chiave nazionale ogni anno abbiamo almeno 150mila indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti non prescritti) all’esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni. Sulla base di questi dati dall’entrata in vigore oramai trent’anni fa del codice di procedura penale abbiamo processato ed assolto in primo grado mediamente dopo 4,5 anni quasi 5 milioni di imputati. Velleitario quindi pensare di affrontare il cuore della problematica quantitativa con soluzioni quale depenalizzazione, aumento di risorse ovvero aggiustamenti della disciplina del dibattimento; modifiche che avrebbero comunque incidenza non significativa. Vero è che, quando un sistema va in crash non si possono rincorrere medicine palliative, ma è necessario un radicale intervento chirurgico. Il primo intervento che può concretamente prestare un pronto soccorso e quantomeno stabilizzare il trend è l’abolizione tout court dell’udienza preliminare; è di tutti i giorni l’esperienza Kafkiana dei Gup che assolvono in abbreviato il coimputato e sono costretti a fissare a dibattimento l’altro coimputato non richiedente l’abbreviato che poi viene quasi sistematicamente assolto a dibattimento. Se poi minimizzassimo seriamente i reati per i quali giudica il Tribunale a competenza collegiale il pronto soccorso sarebbe ancor più terapeutico. Ma l’unico intervento veramente decisivo, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, è un altro e concerne la necessità che il Pubblico Ministero eserciti l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna cioè idonee a convincere il Giudice della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Se poi accompagniamo tale criterio con la trasformazione del rito abbreviato semplice quale rito ordinario mantenendo del tutto libero la facoltà da parte dell’imputato e del suo difensore di chiedere la celebrazione del dibattimento saremmo certi dell’oggettivo rispetto di tale criterio”. Salvini deve essere processato: ora si lasci che i giudici facciano i giudici di Maria Brucale Il Dubbio, 30 gennaio 2019 La domanda di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Matteo Salvini formulata dal Tribunale del Ministri di Catania, esprime, con una corposa motivazione, la convinzione che la condotta del ministro dell'Interno, tra il 20 e il 25 agosto 2018, relativa al trattenimento a bordo della nave della Guardia costiera Diciotti, ormeggiata nel porto di Catania, di 177 migranti, tra i quali anche minori non accompagnati, integri l’ipotesi di reato di sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale del soggetto agente, dall’abuso di poteri inerenti alla funzione esercitata, nonché dall'avere commesso il fatto anche in danno di soggetti minori di età. Finalmente, viene da dire, perché l’avvicendarsi di ore, mentre 177 persone pativano sofferenze inaudite in uno spazio minimo, in condizioni terribili, con il caldo di agosto, l’avvicendarsi di notizie sulle violenze atroci subite dalle donne a bordo nei campi di detenzione, sui casi di sospetta TBC, il pensiero di minori non accompagnati, soggetti vulnerabili, indifesi e soli, lasciavano tanti in una soffocante situazione di impotenza a chiedersi come fosse possibile che nessuna legge impedisse tutto questo. Oggi lo stesso strazio, lo stesso struggimento si prova davanti alla vicenda della nave Sea Watch, a bordo della quale, ancora, 47 persone in uno spazio infimo e condizioni igieniche disastrose, in uno stato di sostanziale carcerazione, ancora minori non accompagnati, attendono stavolta nel gelo di gennaio, un porto sicuro. La richiesta del Tribunale affronta con lucidità il tema dello straripamento di potere e valuta la qualità dell'agito del ministro per stabilire se sia un atto politico, sorretto da ragioni di sicurezza e di ordine pubblico, ovvero un atto espressione di una convinzione politica. Spiega come ogni discrezionalità cessi, escludendo perfino la possibilità di una valutazione politica, a fronte delle convenzioni internazionali che impongono l'individuazione di un luogo sicuro di accoglienza davanti a una richiesta supportata da ragioni di tutela delle persone a bordo della imbarcazione e delle loro condizioni di salute. Specifica come tale obbligo pesasse da subito sull'Italia perché primo paese richiesto dell'aiuto e come tale investitura si sia cristallizzata e formalizzata con la richiesta di Pos del 17 agosto. Chiarisce come, ormai note al ministro dell'interno le condizioni critiche delle persone a bordo (tra le quali minori non accompagnati, donne stuprate e sospetti malati di TBC) l'obbligo di dare loro accoglienza e assistenza fosse diventato cogente al punto da rendere operative quelle norme che pongono in secondo piano perfino le procedure di identificazione e quelle di individuazione dello status. Precisa come nessuna indicazione o informazione consentisse di ritenere sussistente, in caso di sbarco, una situazione di pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblici. Esclude la sussistenza di qualunque esimente afferente a esercizio di un dovere. Valuta la condotta in astratto della privazione della libertà personale di individui per un lasso di tempo apprezzabile e l'elemento soggettivo dell'accusato ed analizza in concreto le responsabilità individuali di chi, richiesto ripetutamente di autorizzare lo sbarco, si è assunto la piena responsabilità di rifiutarlo mentre da giorni la questura di Catania aveva manifestato la disponibilità di uomini e mezzi predisposti per l'accoglienza e il soccorso. Certo non poteva, la nave Diciotti essere considerata il porto sicuro richiesto dalle convenzioni internazionali. Non dopo giorni e giorni di navigazione e 177 persone che dormono su pezzi di cartone in totale promiscuità sotto il sole di agosto, senza contare la disinvolta violazione delle norme che impongono l'immediata accoglienza per i minori non accompagnati in strutture idonee e il divieto assoluto di respingimento o di espulsione. La progressione di disagio e di criticità sulla nave è relazionata nella richiesta che individua il tempo del reato solo negli ultimi giorni della permanenza a bordo. La situazione di incertezza su quale Paese fosse tenuto a intervenire veniva definitivamente superata quando il Comando Generale della Capitaneria di Porto trasmetteva al Comandante della Diciotti, l'ordine di dirigersi verso Pozzallo. Spettava, dunque, all'Italia l'individuazione immediata del “place of safety” resa attuabile ed eseguibile dal raggiungimento dell’ormeggio presso il porto di Catania. In tale contesto, il rifiuto opposto allo sbarco da parte del ministro ha, secondo il Tribunale dei Ministri, determinato una limitazione apprezzabile della libertà di movimento dei migranti, una situazione di assoluto disagio psicologico e fisico e di costrizione a bordo non voluta e subita, idonea, pertanto, a corroborare l'ipotesi di reato individuata. Le condizioni di sofferenza dei soggetti a bordo erano ben note al ministro e diffuse, unitamente al ripetersi del suo veto, dagli organi di stampa. Un veto che si traduceva nella condizione di reclusione di 177 persone. Il solo margine di discrezionalità previsto dalle convenzioni internazionali riguardava l'individuazione di un punto di sbarco piuttosto che un altro nell’ambito del territorio nazionale in ragione di esigenze di opportunità collegate al numero dei migranti e dalle loro necessità di accoglienza, cura e assistenza. Il ministro opponeva, invece, un rifiuto frutto di valutazioni connesse alla gestione dei flussi migratori mentre la circostanza che a bordo della Diciotti ci fossero al contempo naufraghi e migranti non legittima a alcuna differenziazione di trattamento riguardo alla procedura di sbarco. Nessuna scelta politica era, dunque, esercitabile a fronte della sacralità assoluta del “carattere universale della libertà personale che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. E ora si lasci che i giudici facciano i giudici! Salvini non deve essere processato. O sarà l’inizio della democrazia giudiziaria di Piero Sansonetti Il Dubbio, 30 gennaio 2019 Io penso che il Senato non deve concedere il via libera al processo contro Salvini. Per due ragioni. La prima è che le accuse che sono state rivolte al ministro (sequestro di persona aggravato, arresto illegale) sono francamente fantasiose. La seconda è che è di fronte a tutti la posta della partita che si sta giocando. Una partita decisiva tra magistratura e politica. Il Senato è chiamato a dire se ritiene che l’autonomia della politica sia un valore della democrazia o se invece questo valore non esiste e il potere giudiziario deve essere considerato sovraordinato rispetto agli altri poteri. Non credo che per sostenere questa tesi sia necessario essere d’accordo con le scelte compiute dal ministro dell'Interno sull’immigrazione, e coi divieti di sbarco che hanno bloccato per molti giorni tanti esseri umani a bordo delle navi che li avevano salvati dal naufragio. Io, per esempio, non sono affatto d’accordo con quelle scelte e con la linea di Salvini e non mi stancherò di ripeterlo e di gridarlo. E però non credo che il disaccordo si esprima attraverso l’azione penale. Salvini è stato accusato di reati di inaudita gravità. Se il Senato desse il via libera potrebbe essere condannato anche a moltissimi anni di carcere. Queste accuse hanno un senso? Esistono le garanzie di un processo giusto, senza condizionamenti politici? Provo a dare una riposta a queste due domande. L’accusa più grave è quella di sequestro di persona aggravato. In pratica i Pm sostengono che in quei giorni di agosto a Catania (e probabilmente di nuovo ora, in gennaio, a Siracusa) c’è stato un vero e proprio rapimento, voluto e diretto dal ministro dell'Interno. Ora io mi limito a fare una domanda semplice e ingenua. Ma se davvero i Pm erano convinti che quello fosse un rapimento, e cioè che fosse in corso un reato gravissimo, perché non sono intervenuti immediatamente? La notizia di reato è di un paio di settimane precedente agli avvisi di garanzia. Quello che stava succedendo sulla Diciotti è stato subito chiarissimo. I magistrati non hanno ritenuto loro dovere intervenire per interrompere il reato e ottenere la liberazione degli ostaggi? Perché faccio questa domanda, che può sembrare paradossale? Perché a me sembra che proprio nella definizione roboante delle accuse (sequestro, arresto illegale) ci sia il segno evidente di una tendenza alla spettacolarizzazione, al considerare la giustizia uno strumento politico più che di diritto. Poi c’è la seconda domanda e anche in questo caso a me sembra difficile dare una risposta tranquillizzante. In questi anni ci sono stati molti processi a politici. La maggioranza di questi processi è stata contro Silvio Berlusconi, però ce ne sono stati anche parecchi contro esponenti del centrosinistra. Molti di questi processi si sono conclusi con condanne in primo grado che poi sono state corrette e sono diventate assoluzioni in appello e in Cassazione. Ma le assoluzioni sono arrivate in molti casi troppo tardi, perché la carriera politica degli imputati era stata stroncata dal primo processo. Più di una volta si è avuta l'impressione che i magistrati che condannavano non fossero del tutto imparziali, o comunque che fossero condizionati dalle proprie idee politiche o etiche. Non è così? Si può immaginare che non possa avvenire la stessa cosa per Salvini? E allora torniamo al punto di partenza. È ancora un valore l’autonomia della politica o no? Se il Senato darà il via libera al processo contro il vicepresidente del Consiglio, metterà la parola fine alla lunga storia di questa autonomia, che è stata il pilastro dell’edificio repubblicano. Decreterà che comunque l’autonomia della politica può esistere solo nei confini che di volta in volta vorrà stabilire la magistratura. Oltretutto, se il Senato darà il via libera al processo, sarà molto complicato permettere al ministro dell’Interno, sospettato di reati gravissimi e considerato sospettabile dallo stesso Senato, di restare al suo posto. E di conseguenza avverrebbe quello che già è avvenuto in passato, sciaguratamente, almeno un paio di volte. Nel 1994, con la caduta per via giudiziaria (avviso di garanzia) del governo Berlusconi 1, e poi nel 2008 con la caduta per la stessa via (avviso al ministro della Giustizia) del governo Prodi 2. In tutti e due i casi alla caduta del governo seguì il cambio della maggioranza. Questa volta, è la mia impressione, la decisione sarebbe addirittura irrevocabile. E cioè sancirebbe il passaggio a quella che proprio ieri (sulle Colonne del Corriere della Sera, in un articolo molto lucido che abbiamo ripubblicato sul Dubbio) Angelo Panebianco chiamava la “democrazia giudiziaria”. Resistenza e lesioni al poliziotto non sono reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2019 Se reazione ad un fatto percepito come arbitrario. Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 29 gennaio 2019 n. 4457. La resistenza al pubblico ufficiale e persino le lesioni provocate ad un'agente non costituiscono reato se sono il risultato di una reazione ad un atto percepito come arbitrario. La Cassazione, con un'argomentata sentenza (4457), applica la scriminante, in forma putativa prevista dall'articolo 393-bis sulle cause di non punibilità, che scattano quando un pubblico ufficiale va oltre le sue prerogative. E lo fa anche se la convinzione di dover reagire ad un sopruso potrebbe essere, come nel caso esaminato, frutto di un'errata percezione del fatto. I giudici prendono così le distanza dalla giurisprudenza divergente sul punto, bollandola come datata e non in linea con le raccomandazioni della Corte costituzionale, che ha invitato a cogliere i mutamenti dei rapporti tra cittadini e autorità. I giudici della sesta sezione partono dal Codice Zanardelli e dal Codice Rocco, che aveva evitato di disciplinare la fattispecie in questione, con la convinzione che si potesse applicare, la scriminante della legittima difesa. Una lettura che per la Consulta, come per la Cassazione, poteva essere il risultato di una fiducia nell'infallibilità degli agenti della pubblica autorità. Errore in cui non cade la Suprema corte nell'esaminare il ricorso contro la condanna per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate, a carico di un cittadino italiano fermato a più riprese sul treno e dopo essere arrivato a destinazione, per il riconoscimento e bloccato per essere condotto al commissariato. L'uomo era destinatario di un atto di “rintraccio” disposto dal Pm, per essere sentito come persona informata sui fatti proprio in merito ad una denuncia che aveva presentato nell'ambito di un procedimento in cui era indagato per calunnia. Ad avviso della Cassazione i giudici di merito avevano sbagliato a basare la loro condanna sulla considerazione che quello che era apparso un atto arbitrario degli agenti, era in realtà legittimo. Per la Suprema corte, i fatti come accaduti potevano essere percepiti come arbitrari. Una insistente e persecutoria attività di identificazione, con la sola motivazione della notifica di un atto, era sembrata pretestuosa al ricorrente, già conosciuto dagli agenti, e collegata a denunce che lui aveva fatto nei confronti di magistrati locali e dello stesso commissariato del posto. Ragionevolmente dunque l'imputato si era sentito vittima di una vessazione. Di qui il riconoscimento della scusabilità putativa anche per quello che appariva l'ulteriore sopruso dell'accompagnamento coatto. L'intento di difendere la libertà personale scrimina anche le lesioni provocate ad un agente. La Cassazione annulla senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, con una sentenza che, ad avviso dei giudici, “riequilibra” alla luce delle indicazioni della Consulta, i rapporti Stato cittadino, come vanno intesi, in quest'epoca e in un Paese democratico. “Marocchino di m...” non è reato. Prosciolto il prof dell’insulto di Claudio Laugeri La Stampa, 30 gennaio 2019 Il tribunale salva l’insegnante delle medie di Torino. Lui: “Macché razzismo, mi è scappato”. “Ma quale razzismo? Mi è scappato...”. Tira un sospiro di sollievo Salvatore A., 59 anni, insegnante di Educazione tecnica alle medie, assolto dall’accusa di abuso dei mezzi di correzione. Era finito in tribunale per aver apostrofato due alunni di 11 anni con espressioni del tipo “cosa ridi, marocchino di m...” e “cinese di m...”. Quelle frasi gli erano costate tre giorni di sospensione. Ieri mattina, però, il giudice per l’udienza preliminare di Torino, Luca Fidelio, ha deciso che quell’accusa non regge. Secondo lui, mancano i presupposti per sostenere il “pericolo di danno al corpo o alla mente” dei bambini. Senza quell’elemento, l’accusa può essere qualificata soltanto come ingiuria. E anche con l’aggravante dell’odio razziale, da tre anni non è più reato. Depenalizzato, assieme a svariati altri articoli del codice penale. Il docente annuncia di volersi rivalere contro il Provveditorato per le spese legali - “Spero che non si ripeta più, soprattutto in un ambiente dove i bambini dovrebbero essere protetti e non insultati”, dice il papà di Ahmed (nome di fantasia), costituito parte civile con l’avvocato Davide Vettorello. Il legale è “sorpreso dalla sentenza, spero che non crei un precedente e che qualcuno non si senta legittimato a tenere questi comportamenti, fraintendendo il tenore della sentenza. È un discorso tecnico, ma non tutti sono addetti ai lavori. Il rischio è che venga male inteso il senso della decisione”. Ma Salvatore A. è convinto di non aver mancato al proprio ruolo di educatore. Anzi. Parte al contrattacco: “Mi rivarrò civilmente contro il Provveditorato e il ministero dell’Istruzione. Questa vicenda mi ha causato danni morali e materiali, comprese le spese per l’avvocato. La preside, poi, non mi ha nemmeno interpellato. Lo sa che ho letto la notizia della denuncia sui giornali?”. È stata una rappresentante di classe a segnalare la questione, “ma a me non hanno detto nulla. L’ho saputo alla fine, quando hanno deciso di sospendermi”. Ammette l’insulto al ragazzino di origine cinese (la famiglia non si è costituita parte civile), ma soltanto “per fermarlo. Stava tirando la corda di un avvolgibile, rischiava che gli cadesse tutto addosso. In quel momento, mi è sfuggito il nome, ero preoccupato, gli ho urlato quella frase, ma solo per fermarlo”. E il ragazzino marocchino? Salvatore A. è categorico: “Mai detto qualcosa del genere a lui. Mi sbeffeggiava, più volte gli ho detto: “Cosa ridi?”, ma nulla di più”. Nessun dubbio di aver sbagliato? Ribatte: “Mi è scappato, ho chiesto scusa. Guardi che non sono mica razzista, ho amici di colore, non ho frequentazioni di estrema destra. Sono stato anche consigliere comunale per cinque anni per il Partito popolare, nella mia zona di origine, l’Agrigentino”. E ancora: “A scuola ho sempre insegnato a non discriminare, a non fare differenze tra italiani e stranieri. Figuriamoci se ho istigato all’odio razziale”. Però, quelle espressioni non lasciamo molto spazio a equivoci. Lui tira dritto e se la prende con la preside: “Poteva chiamarmi, poteva mediare, ma ha fatto nulla. Soltanto perché sono un insegnante precario, come se fossi un docente di serie “B”“. L’episodio è avvenuto a febbraio dell’anno scorso, ma la sospensione è arrivata a giugno, “quindici giorni prima che scadesse il contratto”. E poi? Insegna ancora? “Certo, in un’altra scuola di Torino”, dice. Qualcuno potrebbe pensare che sia stata una scelta della preside, del provveditorato, del ministero dell’Istruzione. Non è così. La scelta è stata di Salvatore A.: “Pensi, la scuola mi ha anche mandato una mail per chiedermi se volevo andare a insegnare Educazione artistica, non ho neanche risposto”. Poi, la vampata di orgoglio: “Mica posso andare in un posto dove la mia professionalità viene sminuita da quattro bambini ineducati e irrispettosi...”. Già. Non lo meritano. Toscana: accordo per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti Redattore Sociale, 30 gennaio 2019 Regione, Dap e centri per l’impiego si sono impegnate a promuovere “un percorso sperimentale di individuazione, validazione e certificazione delle competenze destinato ai detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza”. Un accordo per favorire il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti delle carceri toscane è stato sottoscritto oggi, martedì 29 gennaio, da Regione Toscana, dall'Agenzia regionale per l'impiego od Arti e dal Provveditorato per la Toscana e l'Umbria dell'Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia o Prap. Scopo effettivo dell'intesa è “valorizzare le competenze formali, non formali ed informali dei detenuti del sistema carcerario toscano, acquisite precedentemente o durante la reclusione, al fine di facilitare il loro reinserimento socio-lavorativo”. A firmare l'accordo sono stati l'assessore a Formazione, lavoro ed istruzione della Regione, Cristina Grieco, la direttrice Simonetta Cannoni per l'Agenzia per l'impiego e il provveditore Antonio Fullone per l'Amministrazione penitenziaria. Il percorso, in una prima fase, verrà avviato nei carceri di Firenze, presso la casa circondariale Sollicciano e l'istituto di pena Gozzini, ma in prospettiva interesserà diversi istituti di reclusione della Toscana. “Si tratta di un accordo di grande civiltà che volge l'attenzione su una questione, il recupero anche lavorativo e sociale dei detenuti, su cui la Regione lavora da anni con misure tese a promuovere percorsi di reinserimento. Questo accordo rientra in un protocollo più ampio sul tema dell'apprendimento permanente e delle azioni rivolte alla valorizzazione delle competenze”, ha affermato l'assessore regionale Grieco. “Ogni cittadino, quindi anche il cittadino recluso, ha diritto a vedere formate e valorizzate le proprie competenze e le proprie capacità. La pena detentiva, come prescrive la Costituzione italiana, deve avere una valenza rieducativa e deve riconsegnare alla società persone pienamente recuperate”. Regione, Arti e Prap, firmando l'accordo, si sono impegnate a promuovere “un percorso sperimentale di individuazione, validazione e certificazione delle competenze” destinato ai detenuti appartenenti al “circuito di media sicurezza”. La direttrice Cannoni ha sottolineato che “l'Arti mette a disposizione personale qualificato” e che “la certificazione delle competenze richiede un'adeguata professionalità”. Il provveditore Fullone ha sottolineato che “con questo accordo si riconosce i lavoro già svolto in carcere o che si svolgerà” e che l'obiettivo di fondo anche del Prap è “creare un carcere più utile alla società e al vivere comune”. Nel corso dell'incontro con i giornalisti è intervenuto inoltre il garante dei detenuti del Comune di Firenze, Eros Cruccolini, che ha espresso soddisfazione per l'accordo raggiunto e per le politiche attuate in questa materia dalla Regione. L'Agenzia regionale per l'impiego, attraverso il Centri per l'impiego, realizza la presa in carico dei detenuti segnalati dagli istituti penitenziari e l'erogazione del servizio di individuazione e validazione delle competenze, rilasciando il documento attestante la messa in trasparenza delle competenze acquisite e il documento di validazione. La Regione Toscana realizza, se richiesto, il procedimento delle competenze attraverso la nomina della commissione di esame per la certificazione delle competenze e il rilascio della relativa attestazione finale. Il Provveditorato per la Toscana e l'Umbria dell'Amministrazione penitenziaria, invece, si impegna a sostenere, motivare e ad essere di impulso affinché le direzioni degli istituti di pena coinvolti collaborino, per il tramite delle loro aree pedagogiche, allo svolgimento delle attività. Roma: i trenta detenuti a Rebibbia che riparano le buche sulle strade di Clarida Salvatori Corriere della Sera, 30 gennaio 2019 Via ai lavori nella Capitale. Con loro anche tutor e guardie. Dove non sono arrivate le ditte appaltatrici, sono arrivati loro: trenta detenuti “asfaltatori” del carcere di Rebibbia, scelti tra coloro che hanno una breve pena residua da scontare e un basso indice di pericolosità, che da ieri hanno cominciato a prendersi cura delle strade della Capitale. E dell'ormai annoso problema delle voragini che si aprono di continuo e che non poche vittime della strada hanno causato. Tra loro Elena Aubry, morta in sella alla sua moto sulla via Ostiense a causa del manto stradale disconnesso. “Ben venga - ha commentato la mamma di Elena, Graziella Viviano. Ma un Comune non può affidarsi sempre a soggetti esterni perché non riesce a risolvere in proprio un problema così rilevante per i suoi cittadini. Altro che riparazioni in emergenza”. Divisa arancione e blu, sono partiti dalla periferia: da via Mario Lizzani, nella zona di Torre Spaccata, a ridosso del Grande raccordo anulare. E hanno trascorso una mattinata a rattoppare buche, ridisegnare strisce pedonali ormai cancellate dal tempo, ripulire caditoie tappate da cumuli di foglie e rifiuti. Sotto lo sguardo attento dei tutor di Autostrade per l'Italia, che li hanno formati con un corso specifico, e delle guardie penitenziarie, hanno messo in pratica il mestiere che per loro potrebbe anche essere l'opportunità di una nuova vita. “Un duplice successo - le parole della sindaca Virginia Raggi, che il 7 agosto 2018 ha firmato il protocollo d'intesa “Mi riscatto per Roma”, con il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e Autostrade per l'Italia -. Da un lato, i ragazzi sono impegnati in un'attività all'esterno del carcere e imparano un mestiere che li aiuterà una volta fuori; dall'altra fanno qualcosa di utile per la città”. Come d'altronde era già accaduto per i carcerati “giardinieri” che a marzo del 2018 avevano ripulito parchi e ville, coordinati dal servizio Giardini del Campidoglio. Nelle prossime settimane, quei fratini colorati saranno impegnati in interventi in altri quartieri. “Le squadre stanno lavorando molto bene - ha commentato Francesco Delzio, direttore relazioni esterne e affari istituzionali di Autostrade per l'Italia Spa. Si tratta di un'iniziativa dall'alto valore simbolico ma anche con una ricaduta positiva per la città”. La best practice dei detenuti “asfaltatori” potrebbe presto superare i confini della Città Eterna. Sono infatti allo studio, con i sindaci di altre realtà metropolitane e con i presidenti dei tribunali di sorveglianza, modelli e protocolli. Forse da esportare anche all'estero. L'ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine in Messico ha infatti scritto al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Mi riscatto per Roma” può essere di grande interesse per il Messico: vogliamo verificarne la trasferibilità”. Roma: il Garante dei detenuti “giusto impiegarli… ma andrebbero pagati” di Clarida Salvatori Corriere della Sera, 30 gennaio 2019 “Vedo bene l'impiego di persone condannate. C'è una tradizione di esempi positivi come la pulizia dei parchi, però”. Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti del Lazio, è perplesso? “Solo sulla gratuità dell'esperienza. Un'alternativa alla giornata in cella è sempre positiva ma il detenuto va retribuito perché deve poter sviluppare una prospettiva di reinserimento”. Così non è? “No, in questo modo il lavoro di rifacimento delle strade resterà magari un'esperienza positiva ma senza seguito”. Esempi di lavori retribuiti in carcere? “A Rebibbia c'è già una torrefazione, un'impresa di manutenzione di infissi e un'altra di macchine da caffè”. Reggio Calabria: respinta richiesta archiviazione sul decesso del detenuto Roberto Jerinò di Emilio Enzo Quintieri* strettoweb.com, 30 gennaio 2019 Sono passati già quattro anni ed ancora non si conoscono, con precisione, le cause della morte del sessantenne Roberto Jerinò, all’epoca ristretto presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria Arghillà, avvenuta il 23/12/2014 presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria per “insufficienza cardio-respiratoria in soggetto con gravissima ed estesa ischemia celebrale da occlusione delle arterie cerebrali posteriori e vertebrali”. Nonostante la denuncia presentata dai familiari del detenuto ed una circostanziata Interrogazione Parlamentare a risposta in commissione (n. 5/04649 del 05/02/2014) indirizzata ai Ministri della Giustizia e della Salute Andrea Orlando e Beatrice Lorenzin presentata, nella scorsa legislatura, dall’On. Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico, su sollecitazione di Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria in persona del Sostituto Procuratore Giovanni Calamita, a seguito di quanto accaduto, aveva aperto un Procedimento Penale contro ignoti per accertare se, in ordine al decesso del Jerinò, vi fossero state responsabilità del personale dell’Amministrazione Penitenziaria o dei Sanitari Penitenziari ed Ospedalieri. Tuttavia, solo recentemente, il Pubblico Ministero Nicola De Caria, all’esito delle indagini espletate avvalendosi anche del Medico Anatomopatologo Patrizia Napoli (che aveva eseguito esame autoptico sulla salma), aveva chiesto l’archiviazione del Procedimento, pendente contro ignoti per il reato di omicidio colposo ex Art. 589 c.p., ricevendo l’opposizione dei familiari del detenuto Jerinò, rappresentati e difesi dall’Avvocato Maria Tassone del Foro di Catanzaro che, nei mesi precedenti, aveva depositato una puntigliosa consulenza medico legale di parte a firma Prof. Peppino Pugliese, Specialista in cardiochirurgia e malattie dell’apparato cardiovascolare e docente presso l’Università degli Studi Alma Mater di Bologna, con la quale erano stati evidenziati comportamenti gravissimi definiti “penalmente rilevanti”, ad opera del personale sanitario operante negli Istituti Penitenziari di Reggio Calabria “Panzera” ed “Arghillà” ed in quello di Paola, consistenti in condotte attive ed omissive, imperite, imprudenti e negligenti, determinanti una catena di eventi che hanno concorso a cagionare la morte di Jerinò. Il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Calabria Mariarosaria Savaglio, ritenuta ammissibile l’opposizione proposta dal difensore delle persone offese, a seguito della Camera di Consiglio tenutasi il 18/12/2018, non ha accolto la richiesta di archiviazione sollecitata dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria disponendo la restituzione del fascicolo per nuove indagini, fissando in 6 mesi il termine per il compimento delle medesime ex Art. 409 c. 4 c.p.p. In particolare, secondo il Gip Savaglio, “le indagini esperite al fine di accertare se sussistano eventuali responsabilità del personale medico o del personale del carcere appaiono meritevoli di approfondimento in ordine ad eventuali condotte che si sarebbero potute tenere al fine di evitare/ritardare il decesso di Jerinò Roberto, atteso che la perizia medico legale effettuata dal consulente incaricato dal Pubblico Ministero è basata su documentazione medica solo parziale, per cui le conclusioni a cui è giunta appaiono eccessivamente generiche e non dotate di sufficiente rigore scientifico, anche alla luce di quanto riportato nelle perizie di parte effettuate dai consulenti medici di parte” ed infine “è necessario, alla luce di quanto addotto dalle consulenze tecniche di parte, sottoporre ad una nuova complessiva valutazione le circostanze che hanno portato al decesso del suddetto Jerinò Roberto e di eventuali ritardi o inerzie in relazione alla deospedalizzazione dello stesso in data 4/11/2014, alla mancata somministrazione dei farmaci salvavita necessari per mancanza di un piano terapeutico, al ritardo nell’eseguire esami clinici necessari in maniera tempestiva e in ordine al ricovero dello stesso in data 15/12/2014 nel reparto malattie infettive, piuttosto che nel reparto idoneo a trattare la vasculopatia cerebrale in atto”. Per questi motivi, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Calabria, ha rigettato la richiesta formulata dall’Ufficio del Pubblico Ministero, poiché “appare necessario il completamento delle indagini” e, nello specifico, “1) accertare, mediante l’espletamento di nuova consulenza tecnica, da effettuare tramite consulente medico specializzato in malattie neurologiche e sulla base di tutti i documenti clinici disponibili, le eventuali responsabilità in cui sono incorsi i soggetti che avevano in cura e custodia il detenuto Jerinò Roberto; 2) effettuare tutte le eventuali indagini che il PM ritenga necessario alla luce delle risultanze di suddetto accertamento; 3) identificare gli eventuali responsabili di condotte attive o omissive.”. Roberto Jerinò, prima di essere ristretto al Carcere di Reggio Calabria “Arghillà” (07/07/2014 - 23/12/2014), era stato detenuto presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria “Panzera” (15/12/2011 - 21/03/2013) e poi presso la Casa Circondariale di Paola (21/03/2013 - 07/07/2014). Jerinò non stava espiando nessuna pena, si trovava sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere perché imputato per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di cocaina, aggravata dal metodo mafioso, nell’Operazione “Solare 2 - Crimine 3” della Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. In primo grado, nell’ambito del giudizio abbreviato, il Gup Distrettuale di Reggio Calabria Cinzia Barillà lo condannò a 14 anni 8 mesi di reclusione e 64.000 di multa (26/02/2013). Per lui, il processo, si concluse l’11/02/2015, pochi mesi dopo la sua morte, innanzi alla Corte di Appello di Reggio Calabria, che pronunciò il “non doversi procedere per morte del reo”. Tra l’altro, i difensori di Roberto Jerinò, chiesero al Giudice procedente la sua scarcerazione essendo divenuto incompatibile col regime carcerario. Tale richiesta, come al solito, per ironia della sorte, venne rigettata dal Giudice proprio il giorno della sua morte. Evidentemente, come accaduto in altre analoghe occasioni, il Magistrato, non era stato ancora informato che l’imputato era deceduto. *Già Consigliere Nazionale Radicali Italiani, candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria Tolmezzo (Ud): l’avvocato denuncia “il mio assistito è stato picchiato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 gennaio 2019 “Al colloquio l’ho visto pieno di lividi, con il volto tumefatto e subito sono andato alla stazione dei carabinieri per denunciare l’accaduto”. È l’avvocato Giuseppe Annunziata del foro di Salerno a raccontare a Il Dubbio del presunto pestaggio avvenuto in cella di isolamento nei confronti del suo assistito, Domenico Tamarisco, detenuto nella sezione di alta sicurezza del carcere di Tolmezzo. Era andato a fargli visita lunedì scorso e prima di vederlo, il comandante della polizia penitenziaria lo aveva messo al corrente che c’erano stati problemi con il suo cliente. “Pensavo semplicemente che ci fosse stata una semplice tensione, ma appena ho visto Tamarisco al colloquio, sono rimasto scioccato per i lividi che presentava”. Agli occhi dell’avvocato, il detenuto presentava evidenti ecchimosi al volto, in particolare l’occhio sinistro tumefatto, compreso altre tumefazioni alle orecchie ed ecchimosi alla gamba sinistra e al braccio destro. Cosa gli è accaduto? Il detenuto ha raccontato all’avvocato che sarebbe stato aggredito venerdì scorso dal personale della polizia penitenziaria in due diverse occasioni, alla mattina e al pomeriggio, mentre era rinchiuso in cella di isolamento. L’avvocato spiega che Tamarisco già da alcuni giorni aveva avuto delle discussioni accese con gli agenti, motivo per il quale aveva subito il provvedimento disciplinare che dispone il suo isolamento. L’avvocato si è esposto per primo, ha denunciato subito e con l’esposto ai carabinieri ha chiesto “l’immediata apertura di un provvedimento che possa chiarire quanto accaduto”, ma soprattutto chiede che “vengano accertate le condizioni di salute del signor Domenico Tamarisco attraverso la nomina di un medico”. Sì, perché il detenuto ha riferito all’avvocato di non essere stato sottoposto a una Tac o comunque a cure mediche dirette a verificare le sue condizioni di salute. A quel punto l’avvocato, dopo aver fatto un esposto ai carabinieri, ieri si è recato in procura per fare richiesta urgente di un medico per cristallizzare la situazione delle lesioni procurate. Cosa è accaduto per davvero nel carcere di Tolmezzo? Non possiamo saperlo. L’azione penale è obbligatoria e competerà alla magistratura verificare cosa sia davvero successo e a cosa sono dovute le lesioni che presentava il detenuto. Il carcere di Tolmezzo nasce il 30 gennaio del 1992. La Casa Circondariale venne destinata alla popolazione femminile e maschile appartenente al circuito della media sicurezza. Nel 1999 fu soppressa la sezione femminile. Dal 2014 l’istituto è destinato ai detenuti maschili appartenenti al circuito dell’alta sicurezza legati alla criminalità organizzata. Il carcere ha anche una sezione dedicata al 41 bis. L’anno scorso il Garante nazionale delle persone private della libertà ha constatato la presenza di sette persone non detenute, ma internate. Parliamo di persone che avevano finito di scontare il carcere duro, ma che alla fine della pena sono stati raggiunti da una misura di sicurezza da espletare sempre al 41 bis. Intanto, attraverso le pagine del Dubbio, siamo arrivate a tre segnalazioni di presunti pestaggi avvenuti nelle carceri italiane. Uno al carcere di San Gimignano e l’altro al Mammagialla di Viterbo. La giustizia farà il suo corso per accertare la verità, ma non è un buon segnale. Viterbo: contro i suicidi dei detenuti intesa tra Asl e carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 gennaio 2019 Intervento immediato, presa in carico dei casi a rischio di psicologi, psichiatri medici e agenti. Firmato, nei giorni scorsi, un protocollo di intesa tra il direttore della Asl e quello del carcere Mammagialla di Viterbo per prevenire le condotte suicidarie, a tutela dei detenuti ristretti nell’istituto penitenziario e ricoverati nel reparto di Medicina protetta - Malattie infettive dell’ospedale di Belcolle. Il patto tra le parti contribuisce ad affinare e a potenziare, attraverso una sinergia fra gli operatori interessati alla prevenzione del fenomeno, gli strumenti tesi alla intercettazione e alla valutazione dei fattori di rischio nei soggetti più fragili. Tra le azioni contenute nel protocollo figurano l’intervento immediato in ottica medico-custodiale, e la presa in carico dei casi a rischio da parte di una équipe multidisciplinare composta da medici, psicologi, psichiatri, educatori, unità di Polizia penitenziaria, considerando, inoltre, la pronta ed efficace gestione delle emergenze- urgenze e la formazione specifica del personale sanitario e penitenziario coinvolto. “Il protocollo - ha commentato il direttore generale della Asl di Viterbo, Daniela Donetti - conferma, inoltre, l’obiettivo generale delle due amministrazioni, nell’ambito delle rispettive competenze, di sviluppare quei positivi fattori ambientali che contribuiscono a prevenire le situazioni di rischio. Tra questi: il miglioramento del complessivo quadro delle relazioni delle persone private della libertà (si pensi al sostegno alla genitorialità dei detenuti padri), la garanzia dei diritti soggettivi delle persone detenute, fra cui un adeguato livello di assistenza sanitaria, e la costruttiva occupazione del tempo della detenzione con attività di studio, di formazione professionale, di lavoro, in alternativa a condizioni di ozio e passività”. Il direttore del carcere di Viterbo Pierpaolo D’Andria ha aggiunto che in questo modo “anche attraverso gli strumenti del piano locale di prevenzione, la Asl di Viterbo e la Casa circondariale, nel consolidato clima di rispetto dei ruoli e di attenzione al coinvolgimento della comunità locale, intendono proseguire la proficua collaborazione verso un’esecuzione penitenziaria che possa realizzare, nella realtà viterbese, adeguate condizioni di umanità, dignità della pena e utili percorsi di risocializzazione”. In realtà il protocollo, frutto di un’intensa attività collaborativa fra le amministrazioni penitenziaria e sanitaria, in seno al tavolo di lavoro costituito dalla Asl nel 2018, dà attuazione al piano nazionale di prevenzione scaturito conferenza unificata Stato Regioni del 27 luglio 2017. Parliamo di un piano di prevenzione dove ancora non tutte le carceri si sono adeguate. Tale piano aveva come obiettivo quello di prevenire, appunto, le condotte suicidarie in ambito penitenziario degli adulti ed era finalizzato a realizzare in tutti gli Istituti Penitenziari attività che posseggano le seguenti caratteristiche: piena condivisione del complesso degli interventi da parte del Servizio sanitario nazionale e dell’Amministrazione della Giustizia; implementazione di organizzazioni funzionali dedicate a livello centrale, regionale e locale, costantemente integrate nelle professionalità e negli obiettivi; regolamentazione del monitoraggio degli interventi e degli esiti; definizione idonea a soddisfare adeguatamente i criteri di riferimento dei diversi attori interessati all’analisi e alla gestione del fenomeno suicidio; costante definizione e aggiornamento di protocolli operativi e locali; esclusione di ogni forma di iniziale coinvolgimento dei servizi sanitari specialistici della salute mentale nelle attività per prevenire il rischio di riconduzione errata delle scelte suicidarie nell’ambito di condizioni patologiche psichiatriche. Campobasso: progetto di apicoltura presso il carcere, consegnati gli attestati ai detenuti molisenetwork.net, 30 gennaio 2019 È terminato, con la consegna degli attestati di partecipazione, il progetto S.I. API. - Scuola Itinerante di Apicoltura - promosso dal Circolo Legambiente Eugenio Cirese di Campobasso presso la Casa Circondariale del Capoluogo. Il progetto S.I. API., finanziato con i fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese ha permesso ad undici detenuti di avvicinarsi al mondo dell’apicoltura attraverso un percorso formativo professionalizzante iniziato lo scorso ottobre e che continuerà in primavera con altre attività a tema apicoltura all’interno dell’istituto penitenziario. Gli organizzatori del corso, insieme al direttore della struttura penitenziaria, il dott. Mario Silla, hanno tracciato un bilancio positivo dell’esperienza formativa. Gli 11 studenti coinvolti, infatti, si sono dimostrati motivati e interessati ad apprendere non solo le tecniche apistiche, ma anche gli aspetti ambientali e di sostenibilità legati al mondo delle api, soprattutto il loro valore di indicatore biologico e l’importanza della presenza delle api nell’ecosistema. Questo è risultato evidente dalla presenza assidua alle lezioni, dalla curiosità delle domande in aula e dalla volontà espressa di avviare in futuro un percorso lavorativo in ambito apistico. Inoltre, data la presenza di molti detenuti di origine straniera, il corso si è rivelato un importante momento di scambio interculturale, grazie ai racconti su come si pratica l’apicoltura nei diversi paesi di origine. “Siamo fermamente convinti che progettualità del genere - afferma il responsabile del progetto, Andrea de Marco - siano un’occasione unica per accrescere le capacitazioni di soggetti più a rischio di marginalità sociale, garantendo loro libertà di realizzarsi tramite esperienze formative che restituiscono in pieno la dignità sia di lavoratore che di cittadino. Un ringraziamento particolare va alla Chiesa Valdese per l’attenzione riposta verso i progetti di agricoltura sociale che il nostro circolo sta portando avanti”. Roma: uomini maltrattanti, se ne è parlato alla Casa Internazionale delle Donne di Tiziana Bartolini noidonne.org, 30 gennaio 2019 Le esperienze in alcune carceri romane delle associazioni Ponte Donna e Il Cortile in un convegno alla Casa Internazionale delle Donne. Il 24 gennaio scorso alla Casa Internazionale delle Donne a Roma si è tenuto un incontro sul lavoro svolto nel Carcere di Regina Coeli e di Rebibbia con uomini autori di violenza sulle donne. “Non soltanto un evento di restituzione - ha spiegato Carla Centioni, presidente di Ponte Donna che insieme all’associazione Il Cortile ha promosso e svolto il progetto “Uomini liberi dalla violenza” - ma una giornata di lavoro dove pensiero e pratica si sono incontrati. Il nostro obiettivo infatti non è quello di chiudere il progetto ma di proseguirlo, mettendoci tutte e tutti insieme. Soltanto utilizzando i saperi che si articolano alle pratiche possiamo far emergere le competenze e aprire un dialogo con gli e le invitati/e delle diverse Istituzioni. L’esperienza ci ha restituito la necessità di un lavoro multidisciplinare da svolgere in funzione di contrasto della recidiva nel reato di maltrattamento e violenza che è altissimo”. Tra le numerose presenze all’incontro, si segnalano: il Procuratore aggiunto del Tribunale di Roma M. Monteleone, il Garante dei detenuti di Lazio e Umbria S. Anastasia, la Direttrice di Regina Coeli S. Sergi, l’Educatrice I. Rinaldi Tufi di Regina Coeli, alcune colleghe che prestano il proprio lavoro nelle carceri e le assistenti sociali dell’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterno). Non ultimo le rappresentanti della politica della Regione Lazio, l’Assessora alle Pari Opportunità, C. Bonaccorsi, la Presidente della Commissione Pari Opportunità E. Mattia, la Consigliera M. Bonafoni, con loro anche Cecilia D’Elia e Mariagrazia Passuello, e-sperte di discriminazione e violenza di genere. Un mix di donne competenti e appassionate che ha fatto sì che la mattinata sia trascorsa velocemente e abbia rappresentato un momento di approfondimento e di scambio. Laura Storti, presidente dell’Associazione Il Cortile, ha affrontato un altro aspetto. “Perché la psicanalisi nelle attività di contrasto alla violenza maschile sulle donne? La storia è iniziata nel 2005, quando Il Cortile con Ponte Donna e altre associazioni della Casa Internazionale delle Donne, ha vinto il bando per la gestione del Centro per donne e minori in difficoltà La Ginestra. Per noi psicoanaliste del Cortile (nove + uno), si è trattato di un lavoro in presa diretta con il “disagio della civiltà”, inserito in un Programma Internazionale di Psicoanalisi a Orientamento Lacaniano (Pipol) che in quegli anni si sviluppava nel mondo. Abbiamo creduto che potesse essere utile introdurre gli strumenti che la psicoanalisi ci fornisce nella lettura del fenomeno della violenza maschile sulle donne, fenomeno strutturale, trasversale e multifattoriale. Abbiamo chiesto e ottenuto la costituzione di un’équipe stabile di operatrici per permettere loro di usufruire di una “formazione e autoformazione permanente” in un appuntamento settimanale. La riunione avveniva alla presenza di uno psicoanalista ex-stime e rappresentava un momento di riflessione e di scambio dove affrontare le impasse che il lavoro quotidiano poneva. Inoltre, abbiamo inaugurato un lavoro con i/le minori ospiti o inviate/i dai Servizi territoriali, attraverso l’istituzione di Laboratori. Abbiamo aperto uno spazio di parola, considerandoli soggetti separati dalle loro madri e quindi, portatori di loro traumi e di loro esigenze. Ed è proprio attraverso le parole delle/dei bambine/i che ci siamo avvicinati ai padri e abbiamo nel 2010 aperto presso Il Cortine all’interno della Casa Internazionale di Roma, uno Spazio di Ascolto per uomini maltrattanti. La mattinata ha visto poi l’intervento delle due équipe di lavoro nelle carceri. L’équipe di Regina Coeli con Monica Vacca e Luisa Di Masso ha presentato un lavoro durato tre anni nella Sezione VII° BraccioI di Regina Coeli, reparto che ospita i sex offenders, detenuti precauzionali, i cosiddetti “mostri”, “i segregati tra i segregati”. “Il Laboratorio di parola e di scrittura - racconta Monica Vacca - non è pensato come un lavoro di ‘gruppo’ in quanto è animato dalla ‘logica dell’uno per uno’. La partecipazione, grazie anche al passaparola tra i detenuti, è stata costante nel tempo perché, a loro dire, ‘qui possiamo parlare senza essere giudicati’ e ‘aspettiamo il laboratorio, il nostro Cortile di libertà’. La logica di fondo è quella di ‘estrarre dal detenuto il soggetto’ affinché emerga quella verità soggettiva che mette in luce il rapporto del soggetto con il proprio atto. Una verità in qualche modo ‘inafferrabilè, altra dalla verità giuridica che sanziona la colpa e nomina il reato. La parola se ascoltata, accolta e sostenuta mostra il suo versante creativo, quello capace di provocare e far emergere il soggetto”. Monica, che è una psicanalista si é soffermata sulla pulsione, dicendo perché ‘Uno Spazio di Parola’ ai maltrattanti. “La parola estrae dalla detenzione della pulsione che vede gli umani, nessuno escluso, esserne soggiogati. La pulsione è padrona più di quanto la ragione non immagini, induce a fare quello non si sareb-be voluto e spesso capita che sia troppo tardi per porvi rimedio. Essa si manifesta nella ripetizione senza fine. Non a caso, il rischio di recidiva è altissimo se non si interviene per arrestare e trattare la pulsione. Ecco perché, ha spiegato Monica, abbiamo pensato ad uno spazio per dare parola, “perché chi parla sa che ciò che dice non gli servirà a modificare la sua condanna ma, se vorrà, servirà a toccare il suo essere e ad aprire degli interrogativi. Interrogativi che l’operatore dovrà saper maneggiare e ai quali dovrà saper non rispondere per farne piuttosto un buon uso”. L’équipe di Rebibbia (Giovanna Mannarà, Alessio Patacca, Matteo De Lorenzo e Carla Centioni) ha invece presentato il lavoro che si svolge da circa un anno nel reparto G9, Precauzionale. Gli interventi hanno restituito le difficoltà della vita di questi detenuti sia nella direzione dei pregiudizi che abitano dentro il carcere che quelli che abitano fuori. Ha spiegato come si è costituto il “non gruppo”, quali regole si è dato per parlare, per esempio “si può dire tutto quello che si vuole ma le parole hanno un peso dunque, stiamo attenti a ciò che diciamo”, nell’intento cioè di stimolare la responsabilità soggettiva del proprio dire. Infine Matteo ha presentato una serie di frasi “in presa diretta” per restituire esattamente cosa si dice li dentro le mura, come si lavora e a che punto siamo nel lavoro di elaborazione soggettiva sempre con l’orizzonte di lavorare per contrastare la recidiva, la ripetizione dell’atto violento. Nel dibattito che è seguito è venuto fuori chiaramente il principio fondamentale delle due équipe e cioè quello di non puntare alla “rieducazione” né alla “riabilitazione” tanto meno al “trattamento terapeutico”. Il Laboratorio pone all’orizzonte una possibile assunzione della responsabilità di ciascuno di fronte al proprio atto e alle conseguenze che ne derivano, spiegano le psicanaliste. La mattinata si è poi aperta ad un dialogo circolare tra Maria Monteleone (Procura di Roma), la direttrice di Regina Coeli Sergi e gli interventi dal pubblico con i contributi delle personalità politiche presenti. Tutte ci hanno ricordato dell’importanza di operare insieme a partire dalla messa in sicurezza della donna che subisce violenza, ribadendo l’importanza della formazione di tutte le figure socio-sanitarie, Forze dell’Ordine e Magistratura coinvolte al contrasto alla violenza, non ultimo il coinvolgimento del Uepe ufficio penale esecuzione esterna. Il dibattito che si è sviluppato ha suscitato un grande interesse, suggerendo l’idea di proseguire nella strada aperta anche facendo rete perché solo insieme si può combattere la violenza sulle donne. Milano: “Parole liberate”, a Palazzo Marino le canzoni composte dai detenuti mi-lorenteggio.com, 30 gennaio 2019 Enrico Maria Papes ha presentato il brano vincitore della terza edizione. Lipparini: “Iniziativa importante per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione delle persone detenute nelle carceri italiane e la funzione rieducativa della pena”. Riparte da Milano “Parole liberate: oltre il muro del carcere”, il premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane. “Parole liberate” è una iniziativa di impegno sociale e civile senza scopo di lucro, che vuole contribuire a dare concreta espressione all’articolo 27 della Costituzione, sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni nelle quali le persone detenute oggi scontano la pena e richiamare l’attenzione sulla necessità di impegnarsi quanto più possibile per l’effettivo reinserimento sociale - innanzitutto attraverso il lavoro - di coloro che abbiano finito di scontare la pena. L’idea originale di “Parole liberate” è quella - mai tentata prima in Italia - di chiedere ai detenuti non semplicemente di “scrivere una poesia”, ma di divenire co-autori di una canzone: il bando prevede infatti che la lirica vincitrice sia affidata a un “big” della musica italiana, perché la trasformi in Canzone. Il cantautore Ron ha musicato la vincitrice della prima edizione, “Clown Fail” di Cristian Benko, in arte Lupetto, allora detenuto presso il carcere di San Vittore. Il big della seconda edizione è stato Virginio Simonelli, già vincitore di Amici e Sanremo Giovani, autore di livello internazionale che vanta collaborazioni con artisti del calibro di Celine Dion, Norah Jones e Laura Pausini. Virginio ha musicato la lirica “P.S. Post scriptum” di Giuseppe Catalano, all’epoca detenuto presso il carcere di Opera, e includerà il brano nel suo prossimo album. La Terza edizione vede protagonista Enrico Maria Papes, che ha musicato la lirica “Frammento” di Pietro Citterio (detenuto del carcere di Opera). Nel corso dell’evento Enrico Maria Papes ha presentato per la prima volta al pubblico il brano “Frammento”, mentre Virginio ha eseguito “P.s. Post scriptum”. È stato inoltre presentato in anteprima il bando della IV Edizione, in corso di approvazione presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel corso della giornata sono intervenuti Lorenzo Lipparini (assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open data), Alessandra Naldi (Garante delle persone detenute), Anita Pirovano (presidente della Sottocommissione Carceri), Michele De Lucia, Riccardo Monopoli e Duccio Parodi (fondatori di Parole liberate), Barbara Rossi e Renzo Magosso per l’Associazione Leggere Libera-Mente (il cui laboratorio ha espresso i vincitori delle ultime due edizioni di Parole liberate), Donatella Massimilla (Presidente del Cetec-Centro europeo teatro e carcere, che curerà diffusione del nuovo bando in particolare nelle sezioni femminili), Giampaolo Pape Gurioli (pianista di fama internazionale) e i vincitori delle ultime due edizioni, Giuseppe Catalano e Pietro Citterio. “Per il terzo anno abbiamo deciso di ospitare questa importante iniziativa - ha commentato l’assessore Lipparini - che, attraverso la musica e le canzoni, porta all’attenzione dell’opinione pubblica un tema così importante come quello delle persone detenute nella carceri, della loro condizione e del lavoro quotidiano che si svolge per rendere concreta la funzione rieducativa della pena affermata nella Costituzione. La rete di associazioni che ha dato vita a questo premio svolge un’importante funzione sociale e al tempo stesso offre alla Pubblica Amministrazione l’occasione di riflette sulla necessità di porsi in prima fila per offrire a chi sta scontando la pena possibilità di riscatto e reinserimento sociale”. Il Premio Parole liberate è promosso in collaborazione con: A buon diritto, Ancot (Associazione nazionale consulenti tributari), Antigone, Associazione Ram Dass, Cetec (Centro europeo teatro e carcere), Fed.I.M. (Federazione Italiana Musicoterapia), La Ribalta - Centro studi Enrico Maria Salerno, Ristretti Orizzonti, Storieria.com. Media Partner del Premio è Radio radicale. Parole liberate è su Facebook all’indirizzo @paroleliberate. Il 2018 anno orribile per le vittime sul lavoro: tre al giorno, in aumento anche gli infortuni di paolo baroni La Stampa, 30 gennaio 2019 Più 10% rispetto ai dodici mesi precedenti, il Nord paga il prezzo più caro. Pesa il crollo del ponte Morandi, ma non solo. Crescono anche le denunce per le patologie di origine professionale. Dalle cronache quotidiane lo si era già capito, adesso arrivano i dati ufficiali dell’Inail a certificare che il 2018 è stato un anno orribile: sui luoghi di lavoro si sono infatti contati ben 1.133 morti. Ovvero il 10,1% in più dell’anno precedente. In quasi tutti i mesi dell’anno passato, segnala l’Inail nel suo ultimo rapporto, il numero delle denunce di casi mortali è stato superiore rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente: tra questi, soprattutto per effetto del crollo del ponte Morandi, spicca in particolare agosto, con 132 decessi contro i 78 dell’agosto 2017 (quasi il 70% in più), alcuni dei quali causati dai cosiddetti incidenti “plurimi”, ovvero eventi che hanno causato la morte di almeno due lavoratori. L’anno scorso, infatti, nel solo mese di agosto si è contato quasi lo stesso numero di vittime (37) in incidenti plurimi dell’intero 2017 (42). Tra gli eventi dello scorso agosto con il bilancio più tragico si ricordano, in particolare, il crollo del ponte Morandi a Genova, con 15 denunce di casi mortali sul lavoro, e i due incidenti stradali avvenuti in Puglia, a Lesina e Foggia, in cui hanno perso la vita 16 braccianti. Nel 2017, invece, il bilancio più pesante era stato quello delle due tragedie avvenute in Abruzzo, a Rigopiano (11 casi mortali denunciati) e Campo Felice (5). Nell’insieme dei 12 mesi, nel 2018 tra gennaio e dicembre si sono verificati 24 incidenti plurimi, che sono costati la vita a 82 lavoratori, rispetto ai 15 del 2017, che hanno causato 42 morti. Gli ultimi incidenti plurimi, avvenuti tra settembre e dicembre, hanno provocato la morte di due dipendenti dell’Archivio di Stato, vittime di una fuga di gas ad Arezzo, di quattro persone travolte da una frana durante l’esecuzione di alcuni lavori di emergenza a una condotta fognaria danneggiata dal maltempo a Isola di Capo Rizzuto, in Calabria, di sette lavoratori coinvolti in tre incidenti stradali avvenuti nel Lazio e in Lombardia e di quattro operai deceduti in Puglia: due edili precipitati nel vuoto da una piattaforma di elevazione, nel corso di lavori di ristrutturazione di uno stabile a Taranto, e altri due lavoratori morti a causa dell’esplosione di una fabbrica di fuochi d’artificio nel comune di Arnesano, in provincia di Lecce. Tonando ai dati, l’Inail segnala anche che sono aumentati sia i decessi avvenuti in occasione di lavoro, che sono passati da 746 a 786 (+5,4%), sia soprattutto di quelli occorsi in itinere, con un aumento pari al 22,6% (da 283 a 347). Nel 2018 si è registrato un incremento di 128 casi mortali (da 857 a 985) nella gestione Industria e servizi e un decremento di 14 casi nel Conto Stato (da 31 a 17) e di 10 in Agricoltura (da 141 a 131). Dall’analisi territoriale emerge un aumento di 47 casi mortali nel Nord-Ovest (da 258 a 305), di 24 nel Nord-Est (da 249 a 273), di tre al Centro (da 211 a 214) e di 35 al Sud (da 223 a 258). Nelle Isole, invece, le denunce sono state cinque in meno (da 88 a 83). A livello regionale spiccano i 27 casi in più della Campania (da 60 a 87), i 24 in più della Lombardia (da 139 a 163) e del Veneto (da 91 a 115), i 22 in più della Calabria (da 19 a 41), i 15 in più del Piemonte (da 83 a 98) e i nove in più di Liguria e Toscana. Cali significativi si registrano, invece, in Abruzzo (da 54 a 25) e nelle Marche (da 33 a 22). Nel corso del 2018 le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto sono state invece 641.261 (+0,9% rispetto allo stesso periodo del 2017). In aumento anche le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 59.585 (+2,5%). Migranti. Strasburgo non ordina lo sbarco, ma l’Europa trova un accordo di Carlo Lania Il Manifesto, 30 gennaio 2019 Sea Watch. Cinque Paesi si divideranno i 47 migranti. Salvini: “La linea del governo paga”. I 47 migranti bloccati da undici giorni sulla Sea Watch 3 nelle prossime ore potranno forse finalmente sbarcare, ma non per decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo - ai quali si erano rivolti con due ricorsi la ong tedesca e alcuni dei migranti che si trovano a bordo della nave - si è infatti limitata a chiedere all’Italia di garantire assistenza sanitaria, legale, viveri e vestiti per i 34 uomini e i 13 minori tratti in salvo il 19 gennaio scorso nel Mediterraneo, senza però ordinare il loro sbarco. Una sentenza che pur riconoscendo la responsabilità dell’Italia sui migranti - e non dell’Olanda come più volte sostenuto dal ministro degli Interni Matteo Salvini - legittima di fatto la decisione del governo gialloverde di chiudere i porti italiani alle navi della ong, con il rischio di costituire un pericoloso precedente. Unica notizia positiva, che permetterà probabilmente di mettere fine alla vicenda, è l’accordo raggiunto ieri nel vertice dei Paesi del Mediterraneo che si è tenuto a Nicosia e nel quale si prevede la distribuzione dei 47 della SeaWatch tra cinque Paesi: Germania, Francia, Portogallo, Romania e Malta. Scontata quindi, a fine serata, la soddisfazione del premier italiano: “Non c’è l’ordine di sbarco, ma si invita l’Italia ad offrire assistenza sanitaria, cosa che sta già facendo, e generi di conforto per provvedere alla vicenda” ha commentato Conte dopo aver ringraziato i paesi europei per la disponibilità offerta nell’accogliere i migranti. Tornato da Nicosia, Conte ha convocato i due vicepremier Salvini e Di Maio a palazzo Chigi per un vertice utile a decidere le prossime mosse in vista dell’avvio oggi in Giunta per l’immunità, del procedimento sul caso Diciotti. Ma l’incontro è servito anche a ribadire la linea sugli sbarchi adottata finora dal governo e il rapporto con l’Unione europea. Tema, quest’ultimo, sul quale è facile immaginare una unanimità di posizioni: “Fino a ieri l’Europa era abituata a trattare l’Italia come un campo di profughi. Guarda caso, nelle scorse ore la Commissione europea ha cominciato a muoversi. La linea della concretezza paga”, è stato il commento di Salvini. Una linea che, per il premier, ma anche per il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, trova conferma nella sentenza di Strasburgo. Il ricorso era stato presentato venerdì scorso dal capitano della SeaWatch 3 e dal capomissione, seguito il giorno dopo da un altro sottoscritto da alcuni dei migranti che si trovano sulla nave, minori compresi, nel quale si chiedeva di ordinare lo sbarco perché “la situazione della nave è precaria e i migranti non sono in buone condizioni fisiche”. In maniera salomonica la Corte ha deliberato a maggioranza di chiedere all’Italia di “prendere i prima possibile tutte le misure necessarie per assicurare ai ricorrenti cure mediche adeguate, cibo e acqua”, nonché di garantire una tutela legale per i minori non accompagnati. Ma non è andata oltre, evitando di ordinare, come richiesto, lo sbarco immediato dei migranti. “La Corte ha riconosciuto che vi sia una violazione di diritti umani in corso e ne ha indicato a riguardo la responsabilità del governo italiano”, ha detto Giorgia Linardi, portavoce di SeaWatch. “In attesa che si disponga lo sbarco dei naufraghi, attendiamo la nomina dei tutori garanti per i minori non accompagnati, mentre segnaliamo come l’approvvigionamento di beni a bordo, pur necessario, abbia conseguenze deterioranti sulla salute mentale dei naufraghi, in quanto segno di una soluzione sempre più lontana. Ciò che sta accadendo è vergognoso e disumano”. Duro anche il commento dell’avvocato Salvatore Fachile, esperto di diritto di asilo che parla di “sentenza politica dai contenuti vergognosi”. L’allarme dell’Unhcr: “Otto migranti su 10 riportati indietro nei lager libici” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 30 gennaio 2019 L’85 per cento di chi parte dalla Libia viene intercettato dalla Guardia costiera e riportato indietro. Rinchiuso nelle carceri in condizioni disumane, spesso senza acqua né cibo per giorni, a rischio di epidemia. È così da quando l’Italia ha chiuso i suoi porti. Più di quindicimila persone che, dopo mesi di detenzione, finiscono con l’essere rimesse in mano ai loro aguzzini e naturalmente ritentano la traversata pagando di nuovo i trafficanti e alimentando all’infinito un business che adesso, per reclutare nuovi clienti nei paesi d’origine, si nutre anche di “offerte speciali” per chi, naturalmente, non ha immediata disponibilità del denaro richiesto. “Parti ora e paghi dopo”, “Viaggia ora gratis e lavori quando arrivi in Libia”, “Porta tre amici paganti e viaggi gratis”, “Riunisci cinque persone, viaggio gratis per tutti e lavoro all’arrivo”. Non è vero che con i porti chiusi e con la stretta sulle Ong si parte di meno dalle coste africane e, soprattutto, non è vero che si muore di meno. Né a mare né a terra, che sia nel deserto e all’interno dei centri di detenzione libici (dove nessuno sa quante persone perdono la vita ogni giorno), o che sia sulle strade di montagna che hanno visto una grande ripresa dei flussi migratori. Sei morti al giorni nel mar Mediterraneo, un numero che, seppure diminuito in termini assoluti (2.275 contro i 3.139 del 2017) è più che raddoppiato in termini percentuale con una vittima ogni 14 persone che partono e la conferma della rotta dalla Libia all’Europa come la più pericolosa in assoluto. E con 136 migranti (quasi il doppio dell’anno scorso) morti sulle rotte terrestri, sul fiume Evros tra Turchia e Grecia, alla frontiera tra Croazia e Slovenia, sui sentieri delle Alpi tra Italia e Francia. È un trend nuovo e preoccupante quello registrato nel dossier dell’Unhcr sui “Viaggi disperati”, un trend di rischi crescenti per un flusso migratorio che non si ferma caratterizzato negli ultimi sei mesi dell’anno dal vuoto nei soccorsi in mare, dai porti chiusi in Italia e dall’assenza di quell’automatico meccanismo di sbarchi e condivisione dei migranti tra gli Stati europei che Unhcr e Oim sollecitano per evitare i ripetuti casi di navi costrette a rimanere in mare per giorni in attesa dell’assegnazione di un porto sicuro. Circostanze che danno la percezione del fenomeno migratorio come emergenza quando emergenza non è. Un dato su tutti: oltre un milione di migranti arrivato in Europa nel 2015, appena 139.000 nel 2018, la metà dei quali arrivati in Spagna diventato il primo paese di approdo con oltre 65mila persone a fronte dei 23.400 sbarcati in Italia e dei 50.500 in Grecia. Chi è stato intercettato e riportato nell’inferno libico ci riproverà affidandosi ai trafficanti perché “meglio rischiare la morte che rimanere in Libia”. Per questo l’Unhcr chiede con forza un intervento sul governo libico perché le persone soccorse non vengano sottoposte ad una detenzione immotivata e perché vengano incrementati i corridoi umanitari per portare in Europa, per vie legali, i rifugiati in condizioni di vulnerabilità: 2.404 le persone evacuate dalla Libia, sei volte di più che nel 2017 ma ancora troppo poche. Figli e droga: i genitori lasciati soli e il sistema che non funziona di Antonio Polito Corriere della Sera, 30 gennaio 2019 Dovremmo aiutare madri e padri ad agire prima, con il sostegno dei tribunali minorili, portando presto i ragazzi nelle comunità Invece c’è troppa burocrazia. Ci vorrebbe un poeta per scrivere la Spoon River dei ragazzi morti per droga. A guardare le foto che sta pubblicando il Corriere nell’inchiesta partita dal bosco di Rogoredo, tutti quei volti di adolescenti che non ci sono più, vengono a mancare le parole. Ti ammutolisce un misto di rabbia per tanta bellezza sprecata, angoscia per quello che può accadere ai tuoi ragazzi, sconcerto quando senti dire che il problema è la proibizione, mentre invece è la nuova disponibilità, sotto casa e per tutti, di sostanze molto più letali di quando eravamo giovani noi. Le storie di chi non ce l’ha fatta, ed è morto nei bagni di una stazione a Udine o sulla barella di un ospedale dismesso a Roma, non si possono più ascoltare da chi le ha vissute. Di loro resta solo lo strazio dei parenti. Ma ogni tanto dal bosco spunta una voce che può ancora narrarsi in prima persona, perché ne è uscita, come la ragazza milanese che si è confessata l’altro giorno a Elisabetta Andreis e Gianni Santucci sul Corriere. E allora, da questi rari documenti provenienti dal fronte, capisci che il problema fondamentale è il tempo: quanto ce n’è tra quando un ragazzo prova la droga per la prima volta e quando non c’è più niente da fare? Lasciamo stare tutto quello che viene prima e dopo, e la solita sterile polemica tra chi vuole reprimere di più e chi vuole permettere di più. Tanto ormai nei fatti seguiamo tutti la stessa politica: quella dello struzzo, che insegna a mettere la testa sotto la sabbia e a non guardare, quasi come se ci fossimo rassegnati a questa tragedia generazionale, che suscita ormai meno allarme del bullismo sui social e delle slot machine, e convive con i negozi che vendono marjuana light agli angoli delle strade come fossero sigarette aromatiche. Proviamo invece a concentrarci su quell’attimo cruciale tra il primo buco e l’ultimo libero arbitrio, quando “hai ancora un piede dentro la realtà”, come dice la ragazza del bosco, e puoi ancora ascoltare, se ti parlano. “Avrei voluto qualcuno che mi entrava in testa... Nessuno ci riusciva, da sola non potevo uscirne, però”. Lei alla fine l’ha trovato, un angelo che le ha parlato. Un “operatore di strada” che non si è limitato a fornire siringhe sterili, che lavora in una comunità, conosce il cuore degli adolescenti e si è aperto una piccola breccia nella sua mente semplicemente con la parola. Ma quanti giovani hanno questa fortuna? E, se non ce l’hanno, che cosa possono fare i genitori in quell’attimo fuggente, tra quando sospettano che il figlio si droghi e quando è troppo tardi? Forse il dibattito dovrebbe umilmente ripartire da qui. Perché oggi le cose sono messe in modo tale che anche i più determinati e coraggiosi dei padri e delle madri rischiano di dover aspettare mesi, forse un anno, anche più, prima di riuscire a trovare un posto per il figlio in una comunità, la casa fuori dal bosco dove i ragazzi si salvano. Si passa per una lunga e complessa trafila, che parte dai servizi sociali o dai Serd (servizi per le dipendenze patologiche), e inizia sempre con la risposta di prammatica: niente si può fare senza la volontà del ragazzo. Ma il ragazzo non vuole, mai. È ancora convinto di potersi “gestire”, ha una fiducia illimitata e infondata nella sua ancora acerba neurobiologia. Mente, si nasconde, si ribella. E allora comincia il calvario ben noto a tanti genitori: le prime analisi delle urine, la battaglia del controllo (con chi vai? dove vai?), gli accertamenti tossicologici prescritti dalla legge, la scelta di un avvocato, il tribunale dei minori. Passano mesi. E se il giovane non ha ancora fatto danni ad altri, ma solo a se stesso, non è affatto detto che il giudice disponga l’invio in comunità. Per Desirée, la ragazza orrendamente predata e uccisa a Roma, il ricovero venne negato tre giorni prima che morisse. E se non vanno in comunità, dove vanno la sera? Nella piazza dello spaccio, tra le immondizie di un palazzo abbandonato, di nuovo nel bosco. Così si ritarda, oltre il limite, l’incontro con una presenza, con una persona, l’unica cura per le tossicodipendenze (e anche per altro). A giudicare da quello che leggiamo e vediamo, il sistema non funziona. È come se si fosse tarato su una progressiva riduzione del fenomeno, sperando di renderlo marginale. E oggi non riesce a reggere la improvvisa e nuova emergenza: nell’ultimo mese sono morte 25 persone, quasi una al giorno, 11 di eroina, 11 di sostanze non determinate, una di speedball, un’altra di cocaina, un’altra ancora di metadone non prescritto (sono i dati in tempo reale che fornisce il sito geoverdose.it). “Se aiutassimo i genitori ad agire prima, anche con il sostegno dei tribunali minorili, prendendo direttamente l’iniziativa di portare questi ragazzi nella comunità che dà loro più affidamento, saltando il filtro della burocrazia, forse qualche vita la salveremmo”, dice Giuseppe Mammana, psichiatra e presidente di Acudipa, un’associazione per la cura delle dipendenze patologiche. C’è insomma chi vorrebbe liberalizzare le droghe e chi vorrebbe liberalizzare le cure. Forse varrebbe la pena di discuterne. Ma dove? La conferenza nazionale sulle droghe, che una legge del ’90 stabiliva si dovesse tenere ogni tre anni per verificare l’efficacia delle norme ed eventualmente correggerle, non si riunisce da dieci anni. Importa ancora a qualcuno quel che succede nel bosco? Guerra in Afghanistan, una triste lezione per tutti di Paolo Mieli Corriere della Sera, 30 gennaio 2019 L’esito di questo conflitto - come quasi tutti quelli in cui sono stati impegnati gli Stati Uniti - segna il trionfo di coloro che ad esso si opposero. Ancora non si sa se e quando gli americani (forse preceduti dagli italiani) lasceranno l’Afghanistan ma gli effetti dei preaccordi di Doha si vedono già. Ancora una volta gli Stati Uniti hanno perso una guerra e incoronano vincitori quelli che un tempo additarono come nemici con i quali non sarebbero mai scesi a patti. Accadde in Vietnam a metà degli anni Settanta, dopodiché questo triste esito si è ripetuto in più di un’occasione. I trattati che gli Usa firmeranno con i talebani a garanzia di lunga vita per l’attuale presidente Ashraf Ghani valgono come quelli sottoscritti dai sovietici nel 1989 volti ad assicurare un grande futuro per Mohammed Najibullah che qualche tempo dopo finì ammazzato e appeso ad un lampione. Lo stesso discorso si può fare per le assicurazioni offerte a quella parte di popolo afghano che ha collaborato con gli “occupanti”. Triste destino il loro e non sarebbe onesto evitare adesso di parlarne apertamente, ammantando le nostre considerazioni di un ottimismo che non ha ragion d’essere. Il popolo che credette in un Afghanistan in cui, per nostro merito, sarebbe stato concesso alle donne di togliere il velo e di tornare a studiare, pagherà un prezzo altissimo. Nel silenzio dei media occidentali. Ancor più che un’incoronazione dei talebani, l’esito di questo conflitto - come di quasi tutti i precedenti scontri armati che ebbero come protagonisti militari a stelle e strisce - segna il trionfo di coloro che a quelle guerre si opposero fin dall’inizio. Ai quali, con scarso senso del ridicolo, si aggiungeranno quegli interventisti del 2001 che avvertiranno l’esigenza di dare spiegazioni su perché e per come sia stato giusto, da parte loro, cambiare opinione nell’arco dei successivi diciotto anni. Avremo i pentiti del 2003 (che diranno di essersi accorti di aver sbagliato - anche per l’Afghanistan - a seguito della guerra in Iraq), quelli del 2011 (convertiti al pacifismo dalle primavere arabe), del dopoguerra in Siria, dei tempi successivi alla nascita dell’Isis e via di questo passo. L’unico risultato di questi atti di contrizione sarà che la prossima volta in cui dovesse rendersi necessario un intervento armato (fosse anche il più ragionevole) le resistenze saranno molto maggiori che in passato. E in effetti, se deve sempre andare a finire così, se le “guerre umanitarie” devono necessariamente produrre come risultato intermedio la presenza di truppe straniere su un territorio ad esse estraneo, non si dovrebbe neanche iniziare. Se non si ha un’idea di come riedificare il Paese e se è prevedibile che alla fine ci si ritirerà senza aver costruito nulla, lasciando sul terreno migliaia di morti oltreché un risentimento diffuso da parte delle popolazioni locali, se le cose, dicevamo, devono obbligatoriamente andare così, forse è da ripensare nei modi più radicali la stessa idea che ci siano situazioni in cui sia doveroso impugnare le armi a favore di una causa. Anche quella che sulla carta può apparire la più lodevole. La seconda guerra mondiale non fu vinta nell’estate del 1944 sulle spiagge della Normandia o in Germania nel 1945, ma negli anni successivi alla fine del conflitto quando gli alleati in metà Europa - e (con ben altri metodi) i sovietici nell’altra metà - diedero prova di avere un’idea di come rimettere in sesto i Paesi del continente. Una guerra la si vince solo quando si ha per il dopo un’idea di come costruire una pace. Anche per quel che riguarda i costi economici dell’impresa. Tre anni fa il “New York Times” calcolò in dettaglio come in Afghanistan si fosse speso già nel 2016 assai più del costo complessivo dell’intero Piano Marshall con cui nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti avevano riedificato l’intera Europa occidentale. Adesso dovremmo essere al doppio. Forse anche più. Il modo in cui sta “finendo” la guerra in Afghanistan - tra l’altro nei giorni in cui l’amministrazione americana allude (per il momento in maniera ancora vaga) a un possibile intervento in Venezuela a favore dei democratici che si battono inermi contro Maduro - dovrebbe indurci poi a un supplemento di prudenza. Dai diciotto anni trascorsi a Kabul dovremmo apprendere che l’ unica modalità di intervento destinata al successo è quella (all’epoca peraltro assai criticata) di George Bush senior nella prima guerra del Golfo. La missione deve essere motivata in maniera ineccepibile, con prove evidenti di ciò che l’ha provocata. E soprattutto deve essere limitata negli obiettivi e nel tempo. Per dire, la seconda guerra mesopotamica, quella di George Bush junior contro Saddam, apparirebbe, secondo tali criteri, sconsigliabile - al di là della questioni delle armi di distruzioni di massa - per il fatto che la costruzione di un regime democratico a Bagdad era un obiettivo velleitario e tale da richiedere una presenza di truppe in terra irakena eccessivamente prolungata. A questo punto la lezione dell’Afghanistan è inequivocabile: qualsiasi intervento preveda che soldati stranieri restino per un lungo periodo nel Paese che si vuole “salvare” - ed è da considerarsi lungo quel lasso di tempo che si protrae per più di qualche settimana - è da ritenersi di per sé potenzialmente dannoso. Anche se originato da ragioni le più nobili. Anzi ormai si può considerare provato che più sono ambiziosi gli obiettivi di affermazione del bene contro il male, più c’è da preoccuparsi che il male alla fine in qualche modo trionfi. C’è poi un’ultima lezione afghana che si può apprendere dall’Italia. Quando c’è da annunciare il ritiro da una guerra che ha prodotto decine di morti - tra i quali è giusto qui ricordare i parà del sanguinoso attentato a Kabul del 17 settembre 2009 (senza però lasciare all’oblio nessuno degli altri militari e i civili del luogo che hanno perso la vita in quei frangenti) - sarebbe meglio che i ministri si mostrassero all’altezza della circostanza o quantomeno fingessero di aver concordato tempi e modi dell’annuncio. E sarebbe altresì sconsigliabile, nei giorni successivi a tale dichiarazione d’intenti, ricondurre tale iniziativa ad occasione per così dire “di confronto tra le diverse componenti del governo”. Dal momento che talvolta le modalità del ritiro possono rivelarsi più disonorevoli del ritiro stesso. Stati Uniti. Le carceri private guadagnano miliardi con immigrati e detenuti di Matteo Cavallito valori.it, 30 gennaio 2019 Gestire l’accoglienza (sic) dei migranti delegando ai privati. Nel nome di una logica del profitto basata sul taglio dei costi. Suona familiare e non è un caso. Il paragone suggerito da USA Today, commentando le accuse di Amnesty International contro il governo austriaco e la società elvetica ORS, calza alla perfezione. Negli Stati Uniti, la gestione dei migranti e dei richiedenti asilo è affidata in larga parte ai privati. Anche qui le denunce di abusi non mancano di certo. Ma in verità c’è dell’altro. Perché l’America, ben prima di Trump, si è affermata in primo luogo come la culla di un modello basato sull’appalto a operatori (e investitori) specializzati. Un business da decine di miliardi che, come ricorda, tra gli altri, uno studio dell’associazione no profit newyorchese Urban Justice Center, ha radici molto profonde. Dagli USA al Sudafrica - In principio fu CoreCivic, conosciuta al tempo come Corrections Corporation of America (CCA). Nel 1983 l’azienda, con sede a Nashville, Tennesse, ottiene un contratto per la gestione di un carcere: è il primo caso di appalto privato nel settore. L’anno seguente tocca a GEO Group, una società di Boca Raton, Florida, che opera oggi anche nel Regno Unito, in Australia e in Sudafrica, dove gestisce un carcere da 3mila posti a Makhado, vicino alla frontiera con lo Zimbabwe. CoreCivic e GEO, sostiene il rapporto, hanno chiuso il 2017 con un fatturato complessivo da 4 miliardi di dollari. Entrambe sono quotate a Wall Street fin dagli anni ’90. Con alterne fortune. Decisamente migliorate da quando The Donald, che loro avevano finanziato generosamente in campagna elettorale, si è insediato alla Casa Bianca. Tre migranti su quattro nelle mani dei privati - CoreCivic e GEO restano in prima fila anche nel comparto migranti e richiedenti asilo. Nel maggio 2018 la media giornaliera degli individui detenuti sotto il controllo della Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia federale che si occupa degli ingressi, si aggirava sulle 41mila unità, l’8% in più rispetto all’anno precedente. 11.200 di questi, rileva lo Urban Justice Center, sono “gestiti” da GEO con un fatturato complessivo da 541 milioni di dollari nel 2017; 7.100 circa sono “ospitati” da CoreCivic generando ricavi totali da 444 milioni. Nel ciclo elettorale 2016, le due società hanno speso in totale 9,2 milioni di dollari tra attività di lobbying e contributi alle campagne politiche. Nel 2019, riferisce ancora lo Urban Justice Center, il budget dell’ICE dovrebbe crescere di quasi 1 miliardo. Tra i migranti in attesa di asilo o espulsione, al momento, quasi tre persone su quattro (725) sono detenute in strutture private. Un business da oltre $40 miliardi - Secondo i ricercatori, oltre la metà del budget federale complessivo destinato al sistema carcerario è utilizzato per pagare le compagnie private. Tra la gestione diretta di circa 130 prigioni e la fornitura di servizi vari (assistenza sanitaria, mense e così via) si arriva così a un business da oltre 40 miliardi di dollari. Il boom nasce dall’espansione fuori controllo della popolazione carceraria americana, passata dalle 660mila unità di inizio anni 80 - ricorda ancora la ricerca - ai 2,2 milioni di oggi. Alle minoranze Usa, pene più severe. Il (costoso) razzismo delle Corti federali - E il bello, dal punto di vista degli investitori, è che ad essere premiati da questo trend sono proprio le aziende del settore. Secondo un recente rapporto della società di consulenza Arabella Advisors, dal 1999 al 2015 il numero di detenuti reclusi nelle prigioni private americane è passato da meno di 70mila a oltre 126mila. Venezuela. Rischia 20 anni di carcere l'italiana arrestata di Marco Mensurati La Repubblica, 30 gennaio 2019 Fermata durante una protesta, Laura Gallo è accusata di associazione per delinquere, detenzione e maneggio di esplosivo e finanziamento del terrorismo. La decisione sulla condanna spetta ora alla Corte d'appello. Pene comprese tra i 15 e i 20 anni di carcere sono state chieste dal procuratore di Yaracuy per l'attivista di passaporto italiano Laura Gallo e altri cinque manifestanti, arrestati la notte del 23 gennaio scorso durante una protesta di piazza. A difendere la signora Gallo davanti al giudice Eloy Granados e al rappresentante dell'accusa Normely Perez, c'era suo figlio, Gabriel Gallo, avvocato dell'associazione Foro Penal e dirigente locale del partito Voluntad Popular. Secondo quanto raccontato da Gallo stesso, la donna è stata formalmente accusata di associazione per delinquere, detenzione e maneggio di esplosivo, utilizzo di minorenni (ne sono arrestati 11 nella stessa retata) per atti punibili secondo la legge, e finanziamento del terrorismo. Al termine dell'udienza - che si è svolta alla presenza di un rappresentante del governo italiano mandato dall'ambasciata di Caracas - il giudice si era detto disponibile a concedere ai detenuti la libertà dietro cauzione. “L'accusa - racconta Gallo - ha però chiesto una sospensiva della decisione, investendo del caso la corte d'appello che adesso deve scegliere se ratificarla o meno”. Il caso di Laura Gallo - che dunque resta in carcere - ha sollevato parecchie critiche nei confronti del Governo di Roma da parte della comunità italiana in Venezuela, già irritata dalla linea incerta e titubante mostrata sin dall'inizio sulla crisi che ha scosso il Paese dopo l'autoproclamazione di Guaidó come presidente. Asia Bibi confermata l’assoluzione: potrà lasciare il Pakistan di Valerio Sofia Il Dubbio, 30 gennaio 2019 La Corte Suprema respinge il ricorso: è libera. Asia Bibi è libera. Si è conclusa felicemente dopo dieci anni la vicenda della donna pakistana madre di cinque figli che fu accusata di blasfemia nel suo villaggio per una lite alla fontana e in un primo momento venne condannata a morte. Assolta in ultima istanza, la sentenza è stata infine confermata ieri dalla Corte Suprema che ha respinto il ricorso di un imam radicale. “Basandosi sul merito, questa richiesta di revisione è rigettata” ha decretato il presidente del collegio giudicante Asif Saeed Khosa. Asia Bibi, scagionata in ottobre, non aveva potuto lasciare il Pakistan in attesa di questo pronunciamento, mentre ora finalmente può espatriare per raggiungere i suoi familiari probabilmente in Canada, dove si sarebbero recati dopo la conclusione del processo durante il quale avevano dovuto vivere nascosti e sotto scorta. Anche l’avvocato musulmano che ha difeso la donna era stato costretto a lasciare il Pakistana a causa delle minacce, ma ieri è rientrato nel Paese per assistere alla sentenza e ha detto che vi rimarrà, anche se ha denunciato che questa è una scelta rischiosa e ha chiesto protezione al premier Imran Khan. In precedenza l’avvocato cristiano della donna era stato costretto ad abbandonare la difesa e la professione dopo il sequestro della sua famiglia. Ancora una volta il caso giudiziario è stato accompagnato da imponenti misure di sicurezza, a causa dei temuti disordini da parte degli estremisti musulmani del movimento Tehreek and Labbaik Pakistan (Tlp) che hanno fatto della condanna di Asia Bibi la loro bandiera, nonostante centinaia di imam moderati alla fine si fossero schierati con la ragazza e contro i suoi accusatori, lanciando un appello pubblico. Secondo il giudice il firmatario del ricorso “non è stato in grado di individuare alcun errore nel verdetto della Corte Suprema che ha assolto Asia Bibi”. Durante l'udienza, l'avvocato del ricorrente aveva chiesto che a giudicare la richiesta fosse un tribunale più ampio che includesse anche religiosi islamici e ulema, fortunatamente per la donna la richiesta è stata respinta al mittente. Ecco le parole del presidente della Corte: “Il verdetto è stato emesso sulla base di testimonianze. Secondo l'islam una persona dovrebbe essere punita anche se non è stata giudicata colpevole? Ci dimostri cosa c'è di sbagliato nel verdetto”. In Pakistan è in vigore la legge sulla blasfemia che contempla la pena di morte per chi offende Maometto o il Corano. Asia Bibi, 45 anni, era stata accusata pretestuosamente di blasfemia dopo una lite con delle donne musulmane del suo villaggio di Ittanwali, nella provincia del Punjab. La sua vicenda oltre ad attirare l’attenzione dei media di tutto il mondo era finita per diventare uno strumento di propaganda politica da parte degli islamisti radicali pakistani, che l’hanno utilizzata per esercitare pressioni sul delicato equilibrio politico e sociale del paese. Così nel novembre 2010 il tribunale del distretto di Nankana emise la condanna a morte verso la madre cattolica, che presentò ricorso all’Alta corte del Punjab. Che nell’ottobre 2014 confermò la condanna, contro cui la difesa presentò ricorso alla Corte Suprema, che la sospese. Per arrivare alla sentenza di assoluzione si dovette attendere fino al 31 ottobre 2018. A livello internazionale è sotto accusa la legge che prevede la pena di morte per blasfemia, ma in questo caso si è battuto sul tasto della sua innocenza rispetto ad accuse strumentali.