Il carcere nel tempo della paura di Francesco Maisto Il Manifesto, 2 gennaio 2019 Il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha inviato al personale del Dap le sue “Linee programmatiche”, con una circolare in cui invita “ad adottare tutte le iniziative per garantire la tempestiva esecuzione delle disposizioni”. Per fortuna nella Premessa del documento tali indicazioni sono qualificate solo come “tendenziali”, perché, se invece fossero effettive, rappresenterebbero sicuramente una drammatica battuta di arresto del lungo e faticoso cammino di attuazione dell’Ordinamento penitenziario in senso costituzionale e una tragedia per gli scenari di un sistema carcerario futuro. Il 5 dicembre 2018 il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha inviato al personale del Dap le sue “Linee programmatiche”, con una circolare in cui invita “ad adottare tutte le iniziative per garantire la tempestiva esecuzione delle disposizioni”. Per fortuna nella Premessa del documento tali indicazioni sono qualificate solo come “tendenziali”, perché, se invece fossero effettive, rappresenterebbero sicuramente una drammatica battuta di arresto del lungo e faticoso cammino di attuazione dell’Ordinamento penitenziario in senso costituzionale e una tragedia per gli scenari di un sistema carcerario futuro. La Circolare restituisce un quadro eccessivamente desolante e caotico delle carceri senza tenere in nessun conto il passato più recente, caratterizzato dalla riduzione dei suicidi e degli autolesionismi, dall’adeguamento alle sentenze della Corte Edu e da tante pratiche virtuose promosse da quei territori oggi deprecati. Il documento si presenta come il progetto di riorganizzazione, secondo criteri economici e di controllo verticistico del sistema, di una qualsiasi altra “macchina” amministrativa postmoderna e tecnologica, trascurando la specificità umana che connota “questa” amministrazione, deputata alla cura di persone in carne ed ossa, alla loro crescita responsabile ed attiva, e perciò orientata ai valori della Costituzione. Alla programmata rigidità del sistema, monocentrico e standardizzato, non potrà che corrispondere un’inutile e dannosa inflessibilità verso i detenuti, con l’istituzione supplementare di “squadrette” di polizia penitenziaria - nuovi piccoli Gom (“gruppi di intervento operativo dotati di equipaggiamento idoneo ad affrontare ogni possibile evento critico”) - ed una maggiore applicazione di sanzioni disciplinari, sia con i divieti tipici del regime di sorveglianza particolare, sia con i trasferimenti da un penitenziario all’altro come strumento anomalo di punizione. L’assetto prefigurato non è quello del carcere che rieduca, che responsabilizza per l’inserimento nel contesto sociale, perché mortifica il necessario pluralismo delle figure professionali penitenziarie. Un carcere improntato alla rigidità, con la previsione del monopolio dell’informazione attraverso la figura del Referente della comunicazione, la militarizzazione dei funzionari direttivi (copiando la legge di riforma della pubblica sicurezza del 1981), inquadrati nei ruoli della polizia penitenziaria. Ulteriore elemento di separatezza dell’istituzione sarebbe l’implementazione della partecipazione a distanza dei detenuti alle udienze per evitarne la traduzione in nome dell’abolizione del fenomeno qualificato, erroneamente, “come tornelli o porte girevoli”. In un siffatto contesto la “popolazione detenuta”, “i soggetti reclusi” verrebbero trasformati in “risorsa dell’amministrazione penitenziaria”. Il presunto miglioramento della “qualità di vita” si ridurrebbe, così, alla restrizione degli spazi intramurari di libertà mediante la revisione della sorveglianza dinamica, ad una scelta “allargata” dei canali televisivi ed al massiccio aumento del lavoro di pubblica utilità non retribuito, a tutto vantaggio delle carceri e degli uffici giudiziari. Ritornerebbe così la prigione come disciplinamento dei corpi. In una situazione di ripresa - crescente, rapida e non casuale - di quel sovraffollamento che mortifica la dignità del mondo umano delle galere, ci si limita ad evocare indefinite “soluzioni di minor impatto finanziario”, dimenticando l’efficacia di una pur possibile sinergia con la Magistratura di sorveglianza per l’implementazione di quelle misure alternative alla detenzione che, comunque, rappresenterebbero una strategia diversificata del contrasto alla criminalità. Il bluff populista degli stranieri in carcere di Corrado Giustiniani L’Espresso, 2 gennaio 2019 Chi considera la solidarietà come un valore insopprimibile, chi è convinto che l’emergenza sicurezza sia un grande bluff populista, e non si stanca di dimostrarlo con la forza dei numeri che testimoniano la riduzione generale dei delitti, chi si è sentito troppe volte simile a un salmone che risale il fiume controcorrente, in questo terribile 2018 che ha portato il razzismo e la xenofobia al potere, ha provato una forte sensazione di sollievo nell’ascoltare in tv il discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Parole come “la sicurezza c’è, se tutti si sentono rispettati”, se cioè vengono garantiti i valori primari della convivenza, o l’elogio del Terzo settore, con l’invito a ritirare l’assurda “tassa sulla bontà” o infine l’augurio di buon anno “ai cinque milioni di immigrati che vivono, lavorano, vanno a scuola, fanno sport nel nostro Paese” sono un pungolo fortissimo a non arrendersi, ad andare avanti sulla strada indicata della Costituzione. Vorrei oggi affrontare un problema molto delicato e certamente molto grave, quello degli stranieri reclusi nelle carceri italiane, per giungere alla conclusione che anche qui non c’è un’emergenza sorta in questi ultimissimi anni e che anzi le cose vanno un po’ meglio. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, relativi al 2017, su circa 57 mila detenuti nelle prigioni della Penisola, più di 19 mila sono stranieri, e dunque un terzo del totale, nonostante la popolazione immigrata sia molto inferiore rispetto ai 55 milioni di italiani che vivono nel nostro Paese. Dato certamente molto preoccupante, ma migliore rispetto a quello di quindici anni fa. Nel 2003, infatti, gli stranieri detenuti erano circa 17 mila, secondo i dati riportati nell’ultimo Dossier statistico immigrazione curato dal Centro di ricerche Idos, ma su una popolazione di stranieri residenti in Italia estremamente più bassa rispetto ad oggi: erano infatti 1 milione e 464 mila. Ragion per cui ben l’1,16 per cento degli stranieri “ufficiali” figurava allora tra le sbarre. Oggi che il numero degli stranieri residenti si è più che triplicato (5 milioni e 47 mila) quelli detenuti si sono in proporzione ridotti a un terzo, scendendo allo 0,39 per cento della popolazione immigrata. Quanto al numero assoluto dei detenuti immigrati, anche qui c’è stato un netto miglioramento negli ultimi anni, perché nel 2013 erano quasi 22 mila, oltre 2 mila più di oggi. Senza sottovalutare il problema, che, sia chiaro, resta grave, ci sono però alcune considerazioni da fare: tra gli stranieri sono molto meno diffuse le misure domiciliari alternative al carcere, molto maggiore è la quota dei detenuti in attesa di giudizio (sono il 38 per cento, ovvero quattro su dieci), molto più debole è la difesa. Non solo perché non possono permettersi gli avvocati migliori, ma persino perché è più difficile per loro farsi capire: nelle prigioni operano in tutto 223 mediatori culturali, poco più di uno ogni cento detenuti immigrati. Senza contare che la popolazione straniera è molto più giovane di quella autoctona e la gran parte dei delitti si commettono sino a 50 anni d’età. Ancora: più cresce la gravità del reato, più diminuisce l’entità della componente straniera. Solo il 6 per cento di tutti gli ergastoli è a carico loro. Molti delitti, infine, sono commessi da stranieri irregolari, e questo mostra - ancora una volta - che è l’integrazione la via maestra da seguire. Con l’augurio che qualcuno, in questo 2019, capisca la lezione. Sovraffollamento e suicidi: il 2018 annus horribilis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 gennaio 2019 Il 2018 è stato un annus horribilis per le carceri italiane: sessantasette sono stati i detenuti che si sono tolti la vita, superando così gli anni 2010 e 2011 che avevano contabilizzato 66 suicidi. Solo negli ultimi giorni ci sono stati due detenuti che sono morti nel carcere di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu”: uno è un suicidio, l’altro ancora da accertare. Ma il 2018 è stato anche l’anno del sovraffollamento. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i reclusi sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Con una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%. Incertezza sull’effettivo numero dei suicidi nelle carceri italiane avvenute nell’anno 2018. Annus horribilis per quanto riguarda i decessi visto che almeno 67 sono stati i detenuti che sono tolti la vita, superando così l’anno 2010 e 2011 che avevano contabilizzato 66 sucidi. Due sono i detenuti che sono morti nel giro di pochi giorni nel carcere di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu”: uno è un suicidio, l’altro ancora da accertare. È Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale Radicali Italiani, candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria, ad aver diffuso per primo una nota sui recenti episodi avvenuti nel carcere di Bancali e, in particolare, sulla morte dell’algherese Omar Tavera che sembrerebbe avvenuta per una overdose. Quintieri informa inoltre di un altro tragico decesso, anche questo algherese. “Questa notte (30 dicembre, ndr) sono stato informato di altri due decessi avvenuti nei giorni scorsi presso la Casa Circondariale di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu” e tenuti “riservati” dall’Amministrazione penitenziaria. Dalle poche notizie che sono riuscito ad avere, si tratterebbe di due giovani detenuti di Alghero, morti a poche ore uno dall’altro, entrambi ristretti nell’Istituto Penitenziario di Sassari”. Quintieri spiega che il 25 dicembre è deceduto il detenuto Omar Tavera, 37 anni, recluso per reati contro il patrimonio, violazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ed altro, trovato morto nella sua cella dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria: “Tavera, il giorno della vigilia di Natale, l’aveva trascorso fuori dall’Istituto Penitenziario, grazie ad un permesso premio concessogli dal magistrato di Sorveglianza di Sassari. Pare che la causa del decesso sia una overdose. La Procura della Repubblica di Sassari, in persona del Pubblico ministero Mario Leo, informata del decesso, ha nominato un proprio consulente, il medico Legale Salvatore Lorenzoni, disponendo l’esame autoptico sulla salma ivi compresi gli esami tossicologici per accertare le cause della morte del detenuto. Al momento si procede per il reato di cui all’Art. 586 del Codice Penale “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”. Il consulente tecnico incaricato dalla Procura della Repubblica di Sassari relazionerà in merito entro 90 giorni. Ma spunterebbe un altro suicidio di cui ufficialmente ancora non si ha contezza. “Pare che nelle ore successive - denuncia sempre Quintieri, probabilmente il 26 o il 27 dicembre, ma di questo non ho ancora avuto alcun riscontro ufficiale, nel medesimo Istituto Penitenziario si sia suicidato tramite impiccagione, un altro detenuto algherese di 31 anni, Stefano C., da poco arrestato per reati contro il patrimonio. Nella Casa Circondariale di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu”, al momento, a fronte di una capienza regolamentare di 454 posti, sono ristretti 424 detenuti (13 donne), di cui 142 stranieri. Tra i ristretti presenti nell’Istituto anche 90 detenuti sottoposti al regime detentivo speciale 41 bis O. P. ed altri 30 detenuti per terrorismo internazionale di matrice islamica. Sale così a 149 il numero dei “morti in carcere”, - conclude Quintieri - di cui 68 suicidi, avvenuti nel 2018”. Quintieri parla di 68 persone che si sono uccise, perché include anche l’ultimo suicidio da lui segnalato. Quindi c’è incertezza, numeri effettivi che non sono ufficiali. D’altronde il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non pubblica una lista ufficiale delle morti nel sito del ministero della Giustizia. Le notizie dei decessi sono difficili da reperire, non sempre arrivano comunicati ufficiali - di solito da parte dei sindacati della polizia penitenziaria - e quindi c’è difficoltà a stilare il numero reale delle morti in carcere. Da anni c’è la redazione di Ristretti Orizzonti che aggiorna ogni giorno la lista dei detenuti morti dal 2002 fino ai giorni nostri per cognome, età, data e luogo del decesso. Ma il 2018 appena concluso è anche l’anno del sovraffollamento. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i detenuti sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Con una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%. Il sovraffollamento è però molto disomogeneo nel paese. Al momento la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 161%, seguita dalla Lombardia con il 137%. Se poi si guarda ai singoli istituti, in molti (Taranto, Brescia, Como) è stata raggiunta o superata la soglia del 200%, numeri non molto diversi da quelli che si registravano ai tempi della condanna della Cedu. “L’indirizzo dell’attuale governo - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. Ciò significa che ad oggi servirebbero circa 40 nuovi istituti di medie dimensioni per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti dal 2014 ad oggi ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo”. “Quello che si potrebbe fare subito sostiene Gonnella - è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre conclude il presidente di Antigone - andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente”. L’anno che si è concluso ha visto anche l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, a conclusione di un iter avviato dal precedente governo che aveva convocato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale a cui avevano partecipato addetti ai lavori provenienti da diversi mondi. “Gran parte delle indicazioni uscite da quella consultazione - scrive Antigone - sono state disattese, in particolare proprio sulle misure alternative alla detenzione. Tuttavia su alcuni temi si sono fatti dei piccoli passi avanti, ad esempio con la creazione di un ordinamento penitenziario per i minorenni”. Antigone denuncia anche il discorso dello spazio vitale nelle celle. “L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso - scrive l’associazione - ma, nei 70 istituti per cui è conclusa, abbiamo rilevato che nel 20% dei casi ci sono celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq ciascuno”. Continua anche a registrare carenza di personale, soprattutto gli educatori. “Negli istituti visitati - denuncia Antigone - c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti. Ma in alcuni realtà si arriva a 3,8 detenuti per ogni agente (Reggio Calabria ‘ Arghillà’) o a 206 detenuti per ogni educatore (Taranto)”. I 600 jihadisti arruolati nelle carceri italiane di Maurizio Tortorella Panorama, 2 gennaio 2019 Un violento? Ovvio. Un disadattato? Certo. Uno che in Francia non si era mai integrato? Anche. Ma soprattutto un ex detenuto. Il ritratto giudiziario di Chérif Chekatt, l’attentatore marocchino che l’11 dicembre a Strasburgo ha lanciato l’ultimo attacco in nome della Jihad, la guerra santa del fanatismo islamico, era chiaro come le vesti bianche che era solito indossare. Nella sua scheda si legge che Chekatt era stato condannato per reati comuni in Francia, in Germania e in Svizzera, e che era stato in carcere 27 volte, quasi una per ognuno dei suoi 29 anni. Proprio per questo il suo nome avrebbe dovuto lampeggiare al neon, sui terminali delle forze dell’ordine e dell’antiterrorismo francesi: perché era assai probabile che in una di quelle prigioni Chekatt fosse stato avvicinato e convinto alla radicalizzazione. E si sa bene che quando un mujaheddin viene concepito e cresciuto in cella, quando ne esce ha un solo compito: colpire. Esattamente come nel dicembre 2016 aveva fatto Anis Amri, il terrorista iracheno che aveva lanciato un camion contro un mercatino di Natale a Berlino: Amri era sbarcato come clandestino in Sicilia, poi si era messo a spacciare droga ed era stato radicalizzato proprio durante la detenzione all’Ucciardone di Palermo. E lo stesso è accaduto con Benjamin Herman, il cittadino belga che alla fine dello scorso maggio ha ucciso due poliziotte e un passante, a Liegi, continuando ossessivamente a gridare “Allah u’akbar” fino a quando altri agenti non l’hanno freddato: seguendo la stessa cattiva strada di Chekatt, anche monsieur Herman continuava a entrare in carcere per reati comuni, ma l’ultima volta ne è uscito con una nuova fede e un motivo per sparare. La lista dei casi, in tutta Europa, è ormai lunga come la barba di Maometto, però continua a essere pericolosamente sottovalutata dagli inquirenti. Eppure in Francia come in Belgio, ma anche in Italia, o in Germania e nel Regno Unito, i servizi di intelligence ormai hanno ben chiaro che i luoghi più a rischio per il reclutamento di nuovi adepti al terrorismo non sono più le moschee o i centri islamici. Ed è vero che la Jihad continua a pescare nel mare di internet, dove le sue idee insistono a propagarsi con minacciosa generosità, però le polizie hanno comunque messo in campo strumenti informatici invasivi ed efficaci. Ma quel che oggi i livelli più alti dell’antiterrorismo europeo hanno capito è che i maggiori pericoli si nascondono nei penitenziari. Perché è qui che il brodo di coltura è più fertile. E che i controlli sono più complessi. Tutti i Paesi europei, in realtà, hanno dato una stretta di vite sulle prigioni dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo e dopo quella del teatro Bataclan: i due peggiori attentati islamici messi a segno a Parigi tra gennaio e novembre 2015, e organizzati in parte da ex detenuti che si erano radicalizzati dietro le sbarre. In Italia il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha varato una politica di particolare attenzione nel 2009. Per il Dap, però, quella dei potenziali terroristi è una nebulosa assai difficile da interpretare, tanto più nella composita galassia dei 60 mila detenuti oggi ficcati a forza nelle 190 straboccanti prigioni italiane. Tra loro, gli stranieri sono 20.300 e gli islamici appena 8 mila, ma i142 per cento dei reclusi proveniente da Paesi musulmani (in tutto 10 mila) non dichiara alcuna fede religiosa. È possibile che questo avvenga per evitare discriminazioni, il sospetto però è che possa essere anche un mezzo per eludere i sistemi contro la radicalizzazione. I reclusi per terrorismo internazionale, un reato che da noi è stato introdotto tra 2015 e 2016 e affronta in particolar modo lo jihadismo, oggi sono una settantina, in gran parte in attesa di giudizio. Sono divisi nelle quattro carceri “specializzate” di Bancali (Sassari), Nuoro, Rossano Calabro (Cosenza) e Asti. Vivono confinati nei reparti ad Alta sicurezza di “tipo 2”, dove vigono regole un po’ meno dure di quelle cui sono assoggettati i boss mafiosi, seppelliti nelle sezioni di “tipo 1”. Anche gli “As2”, così vengono definiti in gergo i terroristi islamici veri o presunti, in teoria non possono avere contatti con altri reclusi. Malgrado questi limiti, accanto a loro ci sono altri 600 detenuti che in prigione sono stati radicalizzati, cioè avvicinati e convinti in qualche misura alla guerra santa dell’Islam. Il loro numero è in crescita rispetto alla fine del 2017, quando erano 506; ed è quasi doppio rispetto ai 365 del dicembre 2016. In carcere i sospetti radicalizzati vengono sorvegliati in base a tre diversi standard di allarme: alto, medio e basso. Alla fine del 2017, quelli considerati al livello più rischioso erano 242, contro 150 di livello medio e 114 di livello basso. Ma come può avvenire la radicalizzazione, malgrado limiti e controlli? Le vie di Allah sono infinite. E corrono soprattutto grazie alla scarsità delle risorse destinate da tutti gli ultimi governi al nostro sistema penitenziario. Il carcere di Bancali, che in teoria è una moderna struttura di massima sicurezza inaugurata solo nel 2013, ospita 336 agenti e 411 reclusi, 25 dei quali imputati o condannati per terrorismo di stampo islamico. Ma i poliziotti dovrebbero essere 71 di più. E infatti le aggressioni ai loro danni sono frequenti. L’ultima risale al 6 dicembre: un detenuto islamico ha distrutto la cella e poi ha lanciato pezzi di termosifone contro i poliziotti, chiamando i compagni all’insurrezione. “Il nostro direttore si divide tra Sassari e Nuoro” lamenta Antonio Cannas, delegato del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria “e da settembre siamo anche privi della figura fondamentale del comandante. Insomma, ci sentiamo abbandonati dallo Stato. Qui mancano agenti, ispettori, sovrintendenti”. In questa situazione, diffusa negli istituti di pena, si fanno miracoli per evitare i contatti fisici tra i detenuti per terrorismo e gli altri: “Ma quelli all’As2 sono al quarto piano e continuano a gridare in arabo dalla finestra” aggiunge Cannas. “Che sappiamo di quel che dicono? E come facciamo a impedirglielo?”. Anche per questo si stima che tra le mura di Bancali, negli ultimi due anni, almeno una ventina di detenuti comuni si sia convertita all’Islam: il primo pare sia stato Vulnet Maqelara, un macedone che in prigione si fa chiamare Karlito Brigande in omaggio al suo eroe, il protagonista del film Carlito’s way. È l’avanguardia di un esercito che cresce. I motivi sono tanti. A Bancali, come in tante altre prigioni italiane, mancano le visite di un imam ufficiale. È un vuoto che dietro le grate lascia campo libero al proselitismo degli imam “fai-da-te”, che diffondono un Corano colorato di aggressività e divulgano tra i compagni una visione dell’islam funzionale alla radicalizzazione. L’isolamento, la frustrazione e il senso di rivalsa fanno il resto: sono il substrato culturale che si trasforma in terreno fertile per le idee più violente. Un giusto passo avanti era stato compiuto con un protocollo siglato nel 2015 tra il ministero della Giustizia e l’Ucoii, l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia. L’accordo prevedeva l’ingresso di imam accreditati negli istituti di pena, per dare ai detenuti musulmani un’assistenza religiosa controllata. Ma ancora oggi gli imam dell’Ucoii sono una decina in tutta Italia. Così gli agenti, che quasi mai sanno qualche parola d’arabo, si limitano a scrutare e indicare (vedere il riquadro a sinistra) i segnali di presunte conversioni. Detenuti che si mettono a pregare cinque volte al giorno. Barbe che si allungano e si colorano d’arancione. Voci che scoprono toni solenni. Vestiti che cambiano e tendono al bianco. Il rifiuto di avere a che fare con le donne agente. E un callo sulla fronte, che ne denuncia l’ossessivo sbattere contro il pavimento nella preghiera: i musulmani la chiamano zebiba, acino d’uva. Sulla sua foto segnaletica, anche Chekatt aveva quella macchia rossastra sotto l’attaccatura dei capelli. Nessuno, evidentemente, l’aveva notata. I quattro passaggi verso il terrore Ecco come avviene il processo di affiliazione di un detenuto, secondo gli esperti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria italiana. - Preradicalizzazione è la condizione da cui parte il fenomeno, su cui incidono fattori sociali e psicologici soggettivi che rendono il detenuto (non necessariamente di religione islamica) più vulnerabile alle ideologie radicali: per esempio un legame familiare o affettivo con chi abbia subito persecuzioni o atti discriminatori. - Identificazione è la fase in cui il detenuto, influenzato dalla propaganda radicale, comincia a identificarsi con chi le propugna. Il recluso non islamico si allontana dalla sua identità religiosa e dalle sue frequentazioni abituali per avvicinarsi a gruppi di reclusi musulmani. - Indottrinamento il detenuto intensifica il suo approccio alle tesi radicali. Questa fase porta all’associazione con altri reclusi, a volte anche soltanto per pregare, e costituisce un serio indicatore di pericolo. Il detenuto indottrinato si fa crescere la barba, sulla sua fronte spunta a volte il callo della preghiera, tipico dei fanatici islamici. - Jihadizzazione è la fase in cui il detenuto indottrinato passa all’azione e alla dimostrazione, in nome della sua nuova ideologia. In carcere manifesta estrema aggressività nei confronti degli agenti penitenziari. Il nuovo affiliato, in teoria, è pronto alla Jihad e a partecipare ad azioni terroristiche. Il processo senza fine di Leonardo Filippi* L’Unione Sarda, 2 gennaio 2019 Il Parlamento ha appena approvato, nella cosiddetta “legge spazza-corrotti”, anche la norma che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ma, per la prima volta nella storia repubblicana, ha scatenato una netta opposizione da parte di tutti gli operatori del diritto, magistrati, avvocati e docenti universitari. Solo l’ex pm di Mani pulite, Davigo, si è schierato a favore del blocco della prescrizione. Ma sia il Consiglio Superiore della Magistratura, sia l’Unione Camere penali italiane, sia ben no professori di diritto e procedura penale, hanno redatto tre pareri decisamente contrari allo stop della prescrizione, in cui espongono i motivi per cui la nuova legge è contraria alla Costituzione. Tali pareri sono stati inviati al presidente della Repubblica con richiesta di non promulgare la legge e di rinviare il testo della legge alle Camere con messaggio motivato, sollecitando una nuova deliberazione, così come prescrive l’art. 74 della Costituzione, e solo se le Camere approveranno nuovamente la legge, questa dovrà essere promulgata. È un’evenienza, questa, che si è verificata soltanto poche volte nella storia repubblicana. Ora la decisione spetta al Quirinale, che avrà un mese di tempo per decidere. In effetti, la nuova disposizione che esclude la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia di assoluzione che di condanna, comporta che, dopo il primo giudizio (che già interviene a distanza di molti anni dal fatto), l’imputato diventi un eterno giudicabile, cioè il processo può durare all’infinito. Tale “ergastolo processuale” (perché di questo in realtà verrebbe a trattarsi con la contestata disposizione) si pone in spregio alla prescrizione costituzionale che impone una “ragionevole durata” dei processi, come ci raccomanda anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, con pregiudizio sia per la presunzione di innocenza dell’imputato, sia per il diritto alla prova, che tanto per l’accusa che per la difesa, sarà impossibile a distanza di tanti anni dal fatto; senza dimenticare inoltre che tale allungamento comporterà anche un aumento dei risarcimenti che lo Stato dovrà erogare per l’eccessiva durata del processo. Tra l’altro, la nuova disposizione entrerebbe in vigore soltanto nel 2020, insieme alla futura riforma complessiva del processo penale. Ma allora, se non entra in vigore subito, perché approvarla ora, senza aspettare la complessiva riforma del processo penale e inserirla organicamente nelle future disposizioni ? Semplicemente, perché è una “norma bandiera”, che non serve a nulla ma manda un segnale all’elettorato sulle intenzioni del Governo in materia di giustizia. Ma la giustizia è una posta troppo alta per essere sacrificata agli idoli della politica. *Avvocato e docente all’Università di Cagliari Basta scuse per i giudici: adesso non esiste più l’alibi della prescrizione di Bruno Ferraro* Libero, 2 gennaio 2019 È giunta in porto, poco prima di Natale, la legge fortemente voluta dal governo gialloverde, battezzata come “anti-corruzione” o “spazza-corrotti”. Trionfante la sponda grillina attraverso le parole del vicepremier Di Maio e del ministro della Giustizia Bonafede. Più contenuta la soddisfazione della Lega; contrari per più versi gli avvocati; perplessa la Magistratura. Al di là delle differenti valutazioni, che risentono delle differenze di concezione culturale, provo a dire la mia ricorrendo al famoso detto.... chi vivrà vedrà. Non discuto al momento della riforma del codice penale, nella parte in cui si introduce la figura dell’agente sotto copertura per contrastare i reati contro la Pubblica amministrazione, si limitano e rendono più trasparenti le donazioni ai partiti e si introducono sanzioni accessorie pesanti a carico dei condannati per peculato, corruzione in atti giudiziari e traffico di ingerenze illecite in danno o a vantaggio di un’impresa commerciale (interdizione perpetua dai pubblici uffici e incapacità di contrattare con la PA). Spero che la minaccia di così pesanti pregiudizi valga a distogliere dalle loro gesta corrotti e corruttori, togliendo all’Italia il primato o quasi della piaga correttiva. Vado invece alla parte del provvedimento normativo a contenuto processuale, che si sostanzia nella nuova disciplina della prescrizione. A partire dal l° gennaio 2020, i termini di prescrizione saranno sospesi dopo la pronuncia, di condanna o di assoluzione, in primo grado, neutralizzando e rendendo innocuo il periodo di tempo occorrente per il giudizio di appello e l’eventuale giudizio di Cassazione. Speculare, quindi, sui tempi dei processi sarà molto più problematico; le accuse agli avvocati penalisti sono destinate a cessare; la responsabilità per eventuali lungaggini ricadrà interamente sulle spalle dei giudici. Ciò posto, da una ricerca dell’Eurispes relativa al decennio 2007-2017 è risultato, su un campione di 12.918 processi monitorati, quanto segue: 12,4% di processi rinviati per assenza del giudice titolare; 0,2% di rinvii per assenza del Pm; 1,5% di rinvii per diversa composizione del collegio giudicante; 2,6% per legittimo impedimento (esempio malattia) dell’imputato; 54% di rinvii per omessa citazione dell’imputato o dei testimoni; 6,8% di rinvii per carenza di aule o assenza dell’interprete o del trascrittore; 3% di rinvii per eccessivo numero di processi da celebrare nel dato giorno. L’incidenza dell’assenza o dell’impedimento del difensore è risultata quindi piuttosto contenuta, comunque gestibile da parte dei giudici del dibattimento. E allora? Forse sarebbe stato meglio fissare limiti temporali per la celebrazione dei processi con norma di legge, impedendo che il tutto sia rimesso alla discrezione dei giudici nell’assenza di efficaci controlli sul loro operato. Ma tant’è, con la norma varata cresce comunque la responsabilità degli uffici, dovendosi evitare che il tutto si risolva in un incentivo a lavorare meno o a prendersela comoda. Forse è esagerato parlare di “ergastolo processuale” o di cedimento ad una forma di populismo giudiziario, come sostenuto dalla camera penale. Sicuramente ci sarà qualcuno che potrà appellarsi al principio costituzionale della ragionevole durata dei procedimenti. La speranza è che sia colto il segnale della riforma appena varata: un segnale ai corrotti e ai corruttori ma anche l’invito ai giudici a rimuovere le cause della cronica lentezza della giustizia. In attesa della riforma della legittima difesa e del rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, intervengano capi uffici e Csm per rispondere alla sfida modificando la propria organizzazione. *Presidente aggiunto onorario Corte di Cassazione Il pool di Cafiero de Raho sui delitti eccellenti: ok, ma attenzione a chi entra e chi no di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 gennaio 2019 Sarà una specie di superprocura formata da due gruppi di lavoro: terrorismo e mafia. A gennaio ci saranno i nomi dei componenti del pool che si formerà all’interno della Direzione Nazionale Antimafia. Una specie di Superprocura che sarà formata da due gruppi di lavoro. “Uno sui delitti eccellenti - ha annunciato il Procuratore Nazionale Federico Cafiero De Raho, a margine dello scorso convegno al Palazzo di Giustizia di Palermo su “Costruire il futuro della Convenzione di Palermo” - e, più in generale, sulle stragi e i fatti riconducibili anche a entità esterne alle mafie e, un altro, sul versante terrorismo. Il nostro obiettivo ha aggiunto - è riprendere tutto il materiale investigativo che negli anni, a partire dalla fine degli anni 60, è stato acquisito e attraverso di esso dare una lettura che sia un po’ più approfondita, ma soprattutto generale”. Sul versante delle stragi di mafia, il gruppo di lavoro quindi si occuperà soprattutto della strage di Capaci e quella di Via D’Amelio; quest’ultima in particolare che presenta punti oscuri a partire dal depistaggio, che - secondo le recenti conclusioni della Commissione Antimafia della Regione Sicilia - sarebbe iniziato fin da quando Borsellino stesso era in vita. De Raho, quindi, parla di “entità” esterne, un riferimento ben chiaro all’idea dei mandanti esterni, quindi dove la mafia è considerata mera esecutrice. Eppure, diverse sono le linee di pensiero, anche tra magistrati stessi, riguardo il concetto di una mafia che sarebbe stata autodiretta. A partire da Falcone stesso, quando spiegò più volte che non esiste un terzo livello e che la mafia, per sua natura, agisce autonomamente, senza essere guidata da nessuno. Falcone, in più occasioni - oltre ai libri, anche in dibatti pubblici - riteneva già Cosa Nostra una organizzazione perfettamente piramidale con un gruppo dirigente, che contava al proprio interno intelligenze e professionalità, le più disparate, ben inserite in alcuni circuiti politici ed economici assoggettati all’unico vincolo possibile: servire gli scopi dell’onorata società. In realtà, attualmente, altre sono le Procure che si occupano delle stragi. C’è la Procura di Caltanissetta, che - dopo la sentenza del Borsellino Quater - ha messo sotto processo i tre poliziotti accusati di depistaggio con l’aggravante di aver favorito la mafia. Così come attualmente, c’è la Procura di Messina, che ha l’arduo compito di verificare se ci sono i presupposti per indagare i magistrati, protagonisti delle prime indagini, e lo svolgimento dei primi due Processi sulla strage di Via D’Amelio - che portarono alla condanna di persone estranee alla strage. Il futuro pool - in attesa di conoscerne i componenti e augurandoci che sia costituto nel miglior modo da garantire la maggior genuinità possibile nella ricerca della verità - non potrà indagare direttamente su inchieste affidate a varie Procure d’Italia. Potrà, però, assegnare i propri Sostituti direttamente ai fascicoli d’indagine: in questo modo, i Pm avranno i poteri per svolgere l’attività inquirente e poi coordinarsi con i colleghi assegnati ad altri fascicoli. Sempre sulla strage di Via D’Amelio, sarà da capire dove il futuro pool vorrà indirizzare le indagini e se avrà già una tesi precostituita. Due sono le ipotesi processuali che attualmente confliggono tra loro. Nelle motivazioni del Borsellino Quater c’è un grosso capitolo, in cui si ritiene che la spinta d’accelerazione all’eliminazione di Paolo Borsellino fosse stata determinata dal suo interessamento al dossier mafia- appalti, visto che lo ritenne la concausa della strage di Capaci. Mentre secondo le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l’accelerazione sarebbe stata determinata non dall’interessamento di Borsellino sulla morte di Falcone, ma dal fatto che avrebbe ostacolato la presunta trattativa. Il futuro pool sarà equidistante? Per ora non lo sappiamo. Però sappiamo che De Raho ha accolto con favore la sentenza sulla trattativa; così come sappiamo che fu sempre lui, quando era a capo della Procura di Reggio Calabria, a consentire indagini come quella sulla ‘ndrangheta stragista e sul sistema criminale integrato di mafie, servizi deviati, massoneria e destra eversiva. In pratica, la riesumazione dei “sistemi criminali”- condotta (e poi archiviata) dall’allora pm Antonio Ingroia, che in pratica fu l’antesignana del processo sulla trattativa. La manager ostaggio di 50 mila lire per una condanna di 34 anni fa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 gennaio 2019 Aveva 19 anni quando il 3 maggio 1983 la madre del suo allora fidanzato l’accusò di averle portato via due banconote dalla borsetta in casa. Riabilitazione impossibile, deve rinunciare agli incarichi nell’Organismo di vigilanza. Fa la manager e a 55 anni vorrebbe entrare nell’Organismo di vigilanza (Odv) di una impresa di costruzioni che fattura alcuni milioni di euro. Ma non ci riesce. Perché da 35 anni resta ostaggio di due banconote da 50.000 lire che avrebbe rubato nel 1983 alla madre dell’allora suo fidanzato. Ostaggio dell’impossibilità di ritrovare adesso quella mancata suocera. E ostaggio quindi della macchina burocratica che, per legge, continua tuttavia a pretendere, per poterle riconoscere l’istituto giuridico della “riabilitazione” e dunque la cancellazione della condanna per furto, la prova dell’oggi impossibile risarcimento di quelle banconote all’allora derubata (e oggi introvabile) parte civile. La “riabilitazione”, istituto alla ribalta nel maggio scorso quando se ne avvalse Silvio Berlusconi dopo aver espiato ai servizi sociali la condanna a 4 anni per frode fiscale, permette al condannato - se siano passati tre anni e abbia manifestato ravvedimento, mantenuto buona condotta e risarcito i danni - di ottenere la cancellazione dei reati dal casellario giudiziario e quindi l’estinzione delle pene accessorie. È quello che servirebbe alla 55enne manager quando nel 2017 sta per entrare nell’Odv di una impresa e si accorge di non potere perché dal passato riemerge un dato ostativo: quella condanna per furto sul casellario giudiziario. Aveva 19 anni quando il 3 maggio 1983 la madre del suo allora fidanzato l’accusò di averle portato via dei soldi dalla borsetta in casa, soldi che invece nella sua difesa erano la compensazione di un dare e avere con il ragazzo. Costui però al processo non l’aveva confermato, e in sentenza il giudice estensore Antonio Nova aveva condannato il 10 luglio 1984 l’imputata a 10 mesi di reclusione per furto e 500.000 lire di multa, pena sospesa dalla condizionale. Vuoi per la giovane età, vuoi per l’inesperienza, la donna aveva perso consapevolezza del prosieguo processuale della condanna, che era diventata definitiva poco dopo, il 5 marzo 1985. Nella primavera 2017, per entrare nell’Odv, le serve appunto cancellarla dal casellario. E domanda quindi la riabilitazione al Tribunale di Sorveglianza, che però la boccia perché “l’interessata non ha fornito prova dell’avvenuto risarcimento del danno”. La donna, tramite l’avvocato Piergiorgio Weiss, spiega allora che la mancata suocera (con la quale non aveva più avuto alcun rapporto) in quel 1984 si era sì costituita parte civile e aveva ottenuto dal Tribunale il titolo al risarcimento dei danni, ma in seguito non glieli aveva mai chiesti; e, soprattutto, che a distanza di oltre un trentennio non si ha la più pallida idea di dove rintracciarla. Decide allora di fare una donazione a un ente di ricerca contro il cancro, ma i giudici la ritengono bassa. Allora la raddoppia, portandola a 400 euro (a fronte del controvalore delle due banconote da 50.000 lire), ma di nuovo il Tribunale solleva il problema della mancata ricerca anagrafica della parte civile. È un adempimento impossibile, protesta la manager, perché anche l’Anagrafe, consultata, risponde di non sapere indicare l’eventuale nuovo domicilio in assenza almeno di data e luogo di nascita della signora, di cui la condannata conosce però solo nome e cognome in quanto ulteriori dati non figuravano nemmeno sulla sentenza di condanna di 34 anni fa. E alla fine, per la gioia dei paradossi burocratici e dei casi buffi della vita, la manager si arrende. Addio agli Organismi di vigilanza delle imprese. E convivenza forzata, invece, con l’ineliminabile peso delle banconote da 50.000 lire di 34 anni fa. La salute del carcerato prevale su esigenze detenzione quotidianosanita.it, 2 gennaio 2019 Condannato medico che non aveva fatto ricoverare in ospedale detenuto anoressico, poi deceduto. Secondo la Cassazione il medico carcerario non può invocare la colpa lieve prevista dalla legge Balduzzi se non si attiva per far trasferire il carcerato anoressico (poi deceduto) in una struttura esterna, malgrado l’evidente e costante calo di peso e l’inefficacia delle cure. Per i giudici era stato riscontrato il nesso tra l’inadempimento del medico curante e la morte del carcerato che avrebbe potuto essere salvato, come affermato dai periti. Estraneo invece ai fatti il dirigente sanitario. La salute del detenuto carcerato prevale sui meccanismi di prevenzione del regime carcerario. Su questa base la Cassazione (sentenza 58363/2018) ha respinto il ricorso un medico carcerario che non aveva provveduto al trasferimento di un detenuto anoressico poi deceduto, assolvendo invece il dirigente sanitario della struttura, anche lui chiamato in giudizio. E il medico accusato non può invocare la colpa lieve prevista dalla legge Balduzzi se non si attiva per far trasferire il carcerato anoressico in una struttura esterna, malgrado l’evidente e costante calo di peso e l’inefficacia delle cure. Per i giudici era stato riscontrato il nesso tra l’inadempimento del medico curante e la morte del carcerato che avrebbe potuto essere salvato, come affermato dai periti. Il fatto - Un detenuto al momento dell’arresto a gennaio 2009 aveva un peso di 79 kg. Dopo un mese esami di laboratorio rivelavano ipopotassiemia, ipocloremia e ipercalcemia e dopo meno di due mesi il peso corporeo era sceso a 63 kg. Veniva prescritta visita psichiatrica per stato ansioso, che però non era effettuata. Dopo una serie di analisi e ricoveri successivi e dopo numerose negazioni degli arresti domiciliari per malattie, in strutture interne e de esterne al carcere, a distanza di sei mesi dalla carcerazione il peso corporeo del detenuto era sceso intorno ai 50 kg. Tra fine agosto e settembre il peso era sceso a 47,5 kg. A novembre veniva fissata la camera di consiglio per la discussione dell’ennesima istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute o differimento pena, corredata di relazione di aggiornamento in cui si insisteva sull’assenza di “atteggiamenti manipolativi in capo al detenuto, sul continuo calo ponderale e sull’ipopotassiemia, mai risoltasi, nonché sul conseguente elevato rischio di aritmie cardiache potenzialmente letali, come reso evidente dall’ultimo elettrocardiogramma, da cui emergeva l’allungamento dell’intervallo QT”. A fine novembre gli elettroliti di potassio raggiungevano il valore di 3,3 mmoli/l e il detenuto, alle ore 8.10 del mattino, veniva trovato morto nel centro diagnostico terapeutico del carcere dove si trovava dagli agenti di polizia penitenziaria. La sentenza - Secondo la Cassazione il mancato miglioramento delle condizioni di salute, malgrado la terapia seguita all’interno della struttura, avrebbe dovuto indurre il medico e il dirigente della Asl, anche lui condannato nella sentenza primaria, a scegliere un ospedale all’esterno, in una logica di prevalenza della salute del paziente rispetto alle esigenze “special-preventive” connesse al regime carcerario. Un criterio, spiegano i giudici, in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, visto che solo una condizione di benessere psico-fisico del carcerato può garantire il suo recupero e dunque il suo reinserimento sociale. I giudici annullano invece senza rinvio, con la formula per non aver commesso il fatto, la condanna del dirigente sanitario della struttura. Pur essendo, infatti, in astratto individuata una sua posizione di garanzia, non era stata provata l’ingerenza sia nel trattamento del paziente, seguito dal medico incaricato, sia nella valutazione della compatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario. La Cassazione nella sentenza, pur rilevando l’estinzione del reato per cui si procede per intervenuta prescrizione, “posto che il termine massimo di sette anni e mezzo risulta decorso”, decide di valutare i motivi di censura “dedotti dai ricorrenti ai fini delle statuizioni civili, con possibili effetti anche sulla decisione ai fini penali, qualora venga riscontrata l’insussistenza dei presupposti oggettivi o soggettivi del reato, e quindi sia accertata la mancanza di responsabilità penale, anche per insufficienza o contraddittorietà delle prove”. La Cassazione rileva nella sentenza che “la tutela del diritto alla salute delle persone private della libertà personale si ricava, in primo luogo, in via interpretativa dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione Edu, che sostanzialmente fanno riferimento al divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti, sulla scorta di principi giurisprudenziali ricavati dalla Corte Edu, che riconducono il diritto alla salute nell’alveo dei diritti garantiti in ambito internazionale, quale corollario del diritto alla vita e della dignità umana”. Poi ci sono le Regole penitenziarie europee che affermano che la finalità del trattamento consiste nel “salvaguardare la salute e la dignità” dei condannati nella prospettiva del loro reinserimento sociale, e la deliberazione approvata dall’Onu (dicembre 1982) in materia di “Principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti”, nella quale è previsto che “gli esercenti le attività sanitarie incaricati di prestare cure a persone detenute o comunque private della libertà, hanno il dovere di proteggerne la salute fisica e mentale, nello stesso modo che li impegna nei confronti delle persone libere”. “Tali principi e regole - si legge nella sentenza - si pongono in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, se ed in quanto entrambi postulano il perseguimento di una piena ed efficace tutela del diritto alla salute del condannato, posto che solo una condizione di benessere psico-fisico dello stesso può garantire il suo recupero e perciò il suo reinserimento sociale. In tal senso quindi, in ossequio all’art. 27 Cost. e ai suoi corollari, il detenuto ha diritto alla tutela della sua salute sia fisica che mentale, posto che in effetti la pena può svolgere la propria funzione rieducativa verosimilmente su una persona mentalmente in grado di comprenderne la portata e il significato”. Secondo la Cassazione “in tema di colpa professionale medica, l’instaurazione del rapporto terapeutico tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita. Inoltre, va anche rammentato che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto della sussistenza della violazione di una regola cautelare (generica o specifica) volta a prevenire l’evento, nonché della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso”. “Nel caso di specie - continua la sentenza - non è stato superato il limite del ragionevole dubbio rispetto alla effettiva titolarità di una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa, avuto riguardo alle evidenziate lacune motivazionali della sentenza impugnata in relazione alla effettiva ingerenza del dirigente nel trattamento sanitario e nelle scelte riconducibili alle valutazioni di compatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario. Tutto ciò a fronte della riconosciuta e prevalente attività gestionale e amministrativa del medico nell’ambito della struttura organizzativa complessa da lui diretta, avente caratteristiche e finalità assai diverse rispetto alla tipica attività medica a diretto contatto con i pazienti, cui si riconducono gli obblighi di garanzia per la tutela della loro salute, ai fini della operatività della c.d. clausola di equivalenza di cui al secondo comma dell’art. 40 cod. pen.”. “Le superiori considerazioni - conclude la Cassazione - consentono già in questa sede di escludere la responsabilità penale del medico dirigente sanitario della struttura in ordine al reato a lui ascritto, palesandosi la superfluità di un nuovo giudizio di merito sul punto. La gravata sentenza va, pertanto, annullata senza rinvio nei confronti del medico, per non aver commesso il fatto; tale proscioglimento comporta ex lege il venire meno nei confronti del medesimo anche della condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili”. Niente colpa lieve per il medico che non trasferisce il detenuto anoressico in ospedale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 28 dicembre 2018 n. 58363. La salute del carcerato deve prevalere sulle logiche di prevenzione. Per questo non può invocare la colpa lieve prevista dalla legge Balduzzi il medico del carcere che non si attiva per far trasferire il carcerato anoressico in una struttura esterna, malgrado l’evidente e costante calo di peso e l’inefficacia delle cure. La Corte di cassazione, con la sentenza 58363 del 28 dicembre scorso, respinge il ricorso del camice bianco che aveva in cura un detenuto, morto per anoressia senza che l’imputato avesse fatto i passi necessari per trasferirlo in una struttura esterna, in modo da avere cure più appropriate. Per i giudici era stato riscontrato il nesso tra l’inadempimento del medico e la morte del carcerato che avrebbe potuto essere salvato, come affermato dai periti. Il mancato miglioramento delle condizioni di salute, malgrado la terapia seguita all’interno della struttura, avrebbe dovuto indurre il medico e il dirigente della Asl, anche lui condannato, a scegliere un ospedale all’esterno, in una logica di prevalenza della salute del paziente rispetto alle esigenze “special-preventive” connesse al regime carcerario. Un criterio, spiegano i giudici, in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, visto che solo una condizione di benessere psico-fisico del carcerato può garantire il suo recupero e dunque il suo reinserimento sociale. I giudici annullano invece senza rinvio, con la formula per non aver commesso il fatto, la condanna del dirigente sanitario della struttura. Pur essendo, infatti, in astratto individuata una sua posizione di garanzia, non era stata provata l’ ingerenza sia nel trattamento del paziente, seguito dal medico incaricato, sia nella valutazione della compatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario. Omesso versamento ritenute: no alla tenuità del fatto se si sfora del 10% la soglia penale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 28 dicembre 2018 n. 58442. Lo scostamento del 10 per cento dalla soglia di punibilità, nel caso di omesso versamento delle ritenute certificate sulle retribuzioni dei lavoratori, non si può considerare vicinissimo al valori limite, ai fini della particolare tenuità del fatto. La Corte di cassazione, con la sentenza 58442 del 28 dicembre scorso, respinge il ricorso teso a far valere la scriminante della crisi dell’impresa per ragioni estranee alla volontà e alla condotta del ricorrente o, in subordine, a ottenere l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale che consente la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Ma la Suprema corte respinge entrambe le richieste. Non passa la “giustificazione” del crisi di liquidità, dovuta sia al mancato pagamento da parte dei clienti sia alla decisione della banca di interrompere i rapporti di “fido” aperti in precedenza con la Srl. Sul punto i giudici ricordano che la violazione dell’articolo 10-bis del Dlgs 74/2000 scatta quando il sostituto d’imposta non rispetta il suo dovere di accantonare la provvista necessaria per adempiere l’obbligazione tributaria. Un’operazione di “messa in riserva” che va fatta, in linea con una prudente gestione delle risorse finanziarie, ogni volta che vengono fatti i pagamenti oggetto di tassazione. Caduta dunque la prima “giustificazione”, non passa neppure la richiesta della non punibilità. Nello specifico la somma non versata era di 167.686 mila euro, a fronte di un tetto di rilevanza penale di 150 mila euro. La Cassazione sottolinea come la giurisprudenza, pur con delle oscillazioni nelle cifre, si sta orientando al riconoscimento della particolare tenuità del fatto nei casi in cui l’omissione sia vicinissima alla soglia di punibilità. E per i giudici non si può ritenere di lieve entità un valore superiore, come nel caso esaminato, al 10 per cento del limite. Sinistro stradale: responsabile anche del comportamento imprudente altrui se prevedibile di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 2 ottobre 2018 n. 43544. Occorre la massima prudenza nell’effettuare la svolta, anche in previsione di veicoli che sopraggiungono a velocità elevatissima. Lo hanno ribadito i giudici della terza sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 43544 del 2 ottobre 2018. La vicenda - Un automobilista veniva assolto dal Tribunale di Cosenza dal reato di omicidio colposo sull’accusa elevata a suo carico di aver causato la morte di altro conducente impattando la moto condotta ad altissima velocità che viaggiava nella medesima direzione di marcia. Secondo la prospettiva accusatoria, l’imputato avrebbe agito per colpa consistita nell’effettuare una manovra di svolta a sinistra su una strada sterrata interpoderale senza essersi preventivamente assicurato dell’assenza di pericoli o intralci per gli utenti della strada e senza segnalare in anticipo la propria direzione, e comunque per negligenza, imprudenza e imperizia. La Corte territoriale di Catanzaro, in riforma della pronuncia di primo grado, riteneva colpevole il conducente del veicolo del reato a lui ascritto. Contro la decisione l’imputato proponeva ricorso per cassazione sollevando vari motivi. La decisione - Gli Ermellini ritengono il ricorso infondato ritenendo che l’utente della strada deve ritenersi responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché questo rientri nel limite della prevedibilità, potendosi cioè escludere la colpa concorrente solo se la percezione dell’altrui imprudenza sia tanto improvvisa da porre il conducente nella assoluta e incolpevole impossibilità di evitare l’imprevisto. In particolare, con riguardo al fondamento giuridico dell’attribuzione al ricorrente della concorrente responsabilità della determinazione dell’incidente mortale, hanno ravvisato a carico di questi profili di colpa generica e specifica, osservando che, alla luce dello stato dei luoghi, delle condizioni di visibilità e dell’assenza di veicoli intermedi, il ricorrente, adoperando la normale diligenza e attenzione di guida, si sarebbe dovuto accorgere necessariamente, guardando gli specchietti retrovisori, della moto che lo seguiva a quella velocità. Il rapido avvicinamento della moto che viaggiava in quel modo così spericolato avrebbe quindi dovuto consigliare al ricorrente di usare la massima prudenza prima di impegnare la corsia di sorpasso nella manovra di svolta a sinistra, per cui nel caso specifico la violazione delle condotte cautelari del cambiamento di direzione o di corsia o altre manovre è stata determinata a monte da un difetto di attenzione del conducente circa l’avvistabilità e la velocità della moto che sopraggiungeva da dietro, non essendo in tal senso dirimente stabilire se l’automobilista avesse utilizzato o meno gli indicatori di direzione prima di effettuare la manovra, perché, ove pure ciò fosse avvenuto, rimane il fatto che la manovra di svolta, in quella condizione di pericolo, non andava effettuata, e vi erano i presupposti per astenersi dalla svolta a sinistra, in quanto il conducente dell’autoveicolo aveva avuto a disposizione un tempo non breve, valutati in circa 10 secondi, per accorgersi del sopraggiungere della moto e della condizione di pericolo scaturente dalla sua sconsiderata velocità. Del resto, la moto era avvistabile ad alcune centinaia di metri di distanza e il ricorrente, in quella situazione ambientale, era in grado di percepire l’imminenza del pericolo, astenendosi dal compimento della manovra rivelatasi fatale. Lazio: carceri affollate, nuovo triste record negli istituti laziali, 1.258 in eccedenza di Flaminia Savelli La Repubblica, 2 gennaio 2019 Risse, rivolte e liti: nelle carceri scatta l’allarme sovraffollamento. L’ultimo grave episodio è avvenuto al carcere di Civitavecchia lunedì scorso quando è scoppiata una rissa tra due detenuti. Gli agenti sono intervenuti per separarli ma sono stati aggrediti a loro volta ed è stato necessario l’ausilio di altre guardie carcerarie. Ancora una lite, questa volta nel carcere di Regina Coeli la mattina del 15 dicembre, è degenerata tra due detenuti e sono stati quattro gli agenti rimasti feriti. Per uno dei poliziotti è stato necessario il ricovero in ospedale a causa di una profonda ferita al setto nasale. Per gli altri colleghi invece, fortunatamente solo lividi e contusioni. Ma, tra tentate fughe e risse, già a novembre si era accesa la spia rossa sulla sicurezza: il 19 nella casa penitenziaria Giuseppe Pagliei a Frosinone, un detenuto aveva tentato di scappare dall’infermeria ferendo i due poliziotti che lo avevano bloccato. A Velletri addirittura, lo scorso 9 novembre, sono scoppiate due risse nello stesso giorno. A raccontare una situazione ormai al limite sono anche i numeri dei penitenziari italiani: il tetto massimo infatti è di 42mila posti mentre i detenuti sono attualmente 60mila. E il Lazio è in testa alla classifica con un sovraffollamento, nei 14 istituti regionali, di 1.258 detenuti in più rispetto ai 5.259. che sarebbero previsti. Un record negativo che supera pure quello di agosto che aveva toccato quota 1.044. Nello specifico: a Regina Coeli ne risultano registrati 373 in più. A Rebibbia da ottobre sono 302. La situazione non migliora a Velletri che conta un sovraffollamento di 169 unità. Neanche al Mammagialla di Viterbo dove nell’ultimo mese, i detenuti in più sono 135 rispetto alla capienza regolare. Ancora, a Civitavecchia l’esubero è di 158 detenuti in più rispetto a quello regolamentare. “Il numero crescente del sovraffollamento comporta gli innumerevoli eventi critici nei confronti del personale” denuncia Massimo Costantino, segretario regionale aggiunto Cisl “Nelle ultime settimane abbiamo registrato risse e diversi episodi violenti e quello di Civitavecchia è solo l’ultimo. É paradossale - sottolinea - che lo Stato che deve garantire la sicurezza non riesca ad assicurarla neanche ai poliziotti. Occorrono più organici, più formazione, una diversa organizzazione del lavoro e un sistema rieducativo che preveda benefici e anche sanzioni”. “Abbiamo chiesto più volte al governo - prosegue Costantino - una nuova legge e un sistema per la salvaguardia dell’incolumità degli agenti durante il servizio purtroppo caratterizzato da continue violenze anche a causa del sovraffollamento dei detenuti”. Richieste che però sono state disattese tanto che il 15 novembre i sindacati di categoria hanno accompagnato il personale di polizia penitenziaria nella lunga protesta in piazza del Parlamento. Una manifestazione in cui le guardie dei diversi istituti hanno chiesto “almeno 5mila assunzioni, nuove risorse per il riordino delle carcere e provvedimenti per contrastare il fenomeno delle aggressioni contro le guardie carcerarie”. Milano: la storia di Pino, da ergastolano a fondatore d’impresa di Paolo Foschini Corriere della Sera, 2 gennaio 2019 Condannato nel 1993 comincia a studiare informatica a San Vittore Trasferito a Bollate ottiene la semilibertà e costituisce Bee4: una cooperativa sociale che oggi dà lavoro a 115 tra detenuti ed ex. “E ne assumerò altri”. Con la pena ridotta a trent’anni, ha pagato il conto e finalmente è libero. Mi chiamo Giuseppe, sono detenuto nel carcere di San Vittore a Milano dal giugno 1993, condannato alla pena dell’ergastolo”. Così cominciava un suo scritto del 25 febbraio 2005. Salto al 2013. Giuseppe è stato trasferito nel carcere di Bollate. Un posto diverso dalla ruota girevole di San Vittore, dove ì detenuti stanno il tempo del processo e poi via: qui restano anni. Ed è a Bollate che lui fonda Bee4. Una cooperativa sociale Onlus per “dare ai detenuti mia seconda possibilità”. Oggi Bee4 gestisce dall’interno di Bollate due call center, un laboratorio per la riparazione delle macchine da caffè e uno per il controllo qualità, per un totale di 115 dipendenti. Quasi tutti detenuti, ma con un capannone anche a Cologno Monzese “per seguire le persone nel post-pena: diversi ex detenuti lavorano ancora con noi”. Tutti col contratto nazionale delle cooperative sociali: 13 mensilità, ferie, permessi, contributi, stipendio mensile tra i 1.000 e i 1.300 euro, a seconda che si lavori nel week-end. Per non corrodermi il cervello Ma la storia di Giuseppe che tutti conoscono per “Pino” non è nata in un giorno e il suo prologo, torniamo un attimo indietro, risale appunto agli anni di San Vittore. “È là - racconta - che avevo ripreso i miei studi di informatica. Ero in una sezione di massima sicurezza, mi venne data quella opportunità e la presi al volo per non restare chiuso in una cella a corrodermi il cervello. Pino studia, si forma. Nel 2000, senza che se lo aspettasse, i rimbalzi della giustizia lo fanno uscire per otto mesi. Lui li usa per collaborare con aziende e dare lezioni anche a studenti universitari: “È stata una soddisfazione determinante rispetto alla mia scelta di tornarmene in carcere con le mie gambe quando il procedimento che avevo in corso è passato in giudicato”. A San Vittore diventa responsabile del progetto Infon, centralino Telecom di quelli che in quegli anni si chiamavano per sapere il numero di qualcuno. Ancora da uno scritto di Pino di allora: “Avevo lasciato mia figlia a dieci mesi di età, l’ho ritrovata a nove anni, ora ne ha quasi tredici. Vedermi lavorare è stato utilissimo soprattutto per lei. Quante volte l’ho sentita dire “il mio papà lavora con i computer” con tono soddisfatto”. Usare il tempo - Gli anni passano, la riorganizzazione delle carceri milanesi prevede che i detenuti definitivi vengano spostati da San Vittore, Pino trasloca a Bollate. Nel frattempo la sua pena viene ridotta a 30 anni e nel 2012 gli arriva anche la semilibertà. Può uscire durante il giorno e rientrare la sera. E lui è uno che il tempo ha imparato a usarlo: il lavoro non gli basta più chiederlo o aspettarlo, vuole darlo. Così un anno dopo la cooperativa la fonda lui: nasce Bee4. Quando la racconterà - in uno scritto che nel giugno del 2017 viene ripreso anche sul sito del Comune di Milano - dirà che il suo scopo è quello di “aiutare i più deboli a ricostruirsi: niente assistenzialismo, ma reinserimento sodale attraverso l’educazione al lavoro”. La partenza è con un laboratorio adibito a controllo qualità, nella sezione femminile. Tre dipendenti. Oggi solo per questa attività sono in venti, tra interno e esterno del carcere. “Del resto - spiega Pino - l’area industriale di Bollate è un luogo di lavoro a tutti gli effetti. Sembrerebbe un’utopia invece è esattamente il modello di business che Bee4 propone alle imprese, le quali raramente conoscono l’opportunità di investire nel carcere”. Il meccanismo è questo: “Quando un’azienda decide di aprire un’attività in carcere diffondiamo una sorta di bando con l’indicazione delle caratteristiche richieste. Quindici giorni dopo con la lista dei candidati iniziamo la selezione. Presentiamo al committente una rosa di possibili nuovi assunti e, se approvata, si avvia la formazione”. Quindi contratto, lavoro, stipendio. “Lo stipendio ha un valore altissimo per il detenuto, che può mantenersi e, in caso, aiutare la famiglia. Ci occupiamo anche delle procedure burocratiche per l’utilizzo degli spazi, il cui costo di allestimento viene solitamente suddiviso con il committente della Onlus. Un percorso importante attraverso cui riprendono forma concetti come regole e responsabilizzazione. Arrivano ragazzi che non hanno mai lavorato, e in maniera provocatoria dico loro di applicare sul lavoro la medesima serietà che mettevano in una rapina”. Funziona. Pino ha finito di pagare completamente il suo conto con la giustizia nel maggio del 2018. Il suo sogno? “Continuare a fare quello che sto facendo per la mia riabilitazione. Portare avanti il mio progetto di vita. Sviluppare ulteriormente l’attività di Bee4”. Roma: soldati tappabuche, stop di Mattarella. Dal 15 al lavoro i reclusi di Rebibbia di Enrico Bellavia La Repubblica, 2 gennaio 2019 Il Capo dello Stato boccia l’idea dell’esercito ma tra due settimane sulle strade debuttano i reclusi di Rebibbia formati dal Dap. Non bastassero le levate di scudi degli organismi di rappresentanza militare è stato il Capo dello Stato nel suo discorso di fine anno a liquidare con garbata fermezza l’idea dei soldati tappabuche. Riferendosi alle forze armate e al loro contributo, Mattarella ha rimarcato che “la loro funzione non può essere snaturata destinandole a compiti non compatibili con la loro elevata specializzazione”. Discorso chiuso. A Raggi e a Roma non resta che fare affidamento sulla propria capacità di mandare in gara il rifacimento dell’asfalto della capitale. Avvalendosi, al massimo, dei detenuti di Rebibbia. Per i quali si è già concluso il percorso di formazione e si può passare alla fase due del protocollo che prevede la collaborazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della società Autostrade che fornisce il corredo e dell’amministrazione comunale che vedrà arrivare squadre di reclusi pronti a intervenire per i rammendi. Il giorno del debutto è fissato per il 15 gennaio. In trenta su un totale di 100, esauriranno l’ultima settimana di formazione e da115 saranno operativi. Tra qualche giorno, dunque, come già accaduto per lo sfalcio di ampie zone verdi della capitale saranno i detenuti di Rebibbia, selezionati tra quelli a bassa pericolosità e con pene residue minime da scontare a venire in soccorso degli automobilisti: prima la pulizia delle caditoie e le strisce pedonali, poi l’asfalto a caldo per le buche. I militari resteranno a occuparsi d’altro e ove mai il Campidoglio riuscisse a convincere la riottosa ministra Trenta che esistono delle emergenze irrisolvibili e in contesti limitati che richiedono interventi di alta specializzazione, solo in quel caso, si potrebbero vedere divise intorno alle buche, ma delle consolari. Le parole del presidente chiudono una fase di salvifica attesa del genio militare che nelle ricostruzioni pentastellate avrebbero dovuto rimediare alle voragini stradali senza altro onere per la giunta. Sollevandola al contempo dal gravoso quanto spesso fallimentare compito di bandire gare che resistano al fuoco incrociato delle irregolarità dei bandi e dei ricorsi degli esclusi. Quella dell’esercito era un’idea partorita nell’entourage di Raggi e sbandierata come una delle proposte di intervento da richiedere al governo amico. L’idea aveva assunto le sembianze di un emendamento alla manovra faticosamente arrivata in porto con un fiorire di commi e postille per accontentare le roccaforti elettorali. Per Roma la questione esercito si era risolta in una Caporetto dal momento che l’emendamento era stato ritirato. Tanto più che la stessa ministra della Difesa, Elisabetta Trenta si era sfogata con i suoi bocciando senza appello la possibilità di un impiego dei militari. Costretti a raffreddare gli entusiasmi di una Raggi che già gridava alla “vittoria”, i grillini si erano affrettati a riproporre una versione decisamente più light che limita l’utilizzo dei soldati a situazioni gravi e da concordare con la Difesa. Infine anche la questione dei fondi era stata oggetto di una sforbiciata: dagli iniziali 180 milioni si è scesi ai 60 in due anni. Non pochi ma un terzo di quelli su cui la sindaca faceva già i conti per liberarsi dal fardello di vecchie e nuove buche. Cagliari: tragedia nel reparto di psichiatria, 45enne muore, la Procura apre un’inchiesta castedduonline.it, 2 gennaio 2019 La morte di un 45enne cagliaritano è stata segnalata dal sindacato Fials, l’uomo sarebbe stato a lungo immobilizzato. Paolo Cugliara: “Cosa si aspetta a prendere provvedimenti, visto che è l’ennesimo dramma in quel reparto?”. Saranno i magistrati a dovere accertare eventuali responsabilità. Il segretario provinciale Paolo Cugliara commenta: “Purtroppo in quel reparto si ripete il dramma ancora una volta. spiega Cugliara - tante volte abbiamo evidenziato le gravissime criticità dovute alla totale assenza di un capo dipartimento e di figura idonea al coordinamento infermieristico. Il pressapochismo ed il viaggiare a vista regnano in una struttura dove medici, infermieri, oss, guardie giurate e carcerarie propongono il massimo impegno mostrando elevate competenze. Ora chiediamo ai vertici aziendali: che altro dovrebbe accadere per cambiare rotta e sostituire i vertici? Evidentemente gli errori del passato non insegnano”. Forlì: il sottosegretario Morrone in visita alla Casa circondariale Adnkronos, 2 gennaio 2019 Ieri visita mattutina del sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, alla Casa circondariale di Forlì per augurare buon anno al personale. Accolto dal direttore, Palma Mercurio, dal comandante, Michela Zattoni, e dall’ispettore superiore, Gennaro Zampella, il sottosegretario Morrone - riferisce una nota - ha rivolto loro un cordiale saluto e il ringraziamento a nome dell’intera comunità locale “per l’attività fondamentale e meritoria che esercitano nell’ambito della giustizia e della sicurezza”. “La mia visita qui, in un giorno particolare come il primo dell’anno, rappresenta un atto di omaggio a chi opera 24 ore al giorno, tutti i giorni dell’anno, in un contesto difficile e delicato, tenendo alta l’attenzione quotidianamente per evitare tensioni e problemi, ma anche organizzando importanti percorsi di riabilitazione e recupero per il reinserimento nella società dei detenuti una volta saldato il loro debito con la giustizia. Tutto questo anche in presenza di difficoltà strutturali che, auspico, saranno risolte dallo sblocco dei lavori per il completamento del nuovo carcere. Credo, in ogni caso, che sia importante -ha concluso Morrone- che la cittadinanza sia consapevole della professionalità, del coraggio e del senso di responsabilità che servono per svolgere questi compiti così complessi”. Palermo: igiene, decoro e sicurezza; i detenuti per il progetto “emergenza periferie” palermomania.it, 2 gennaio 2019 Parte il progetto per impiegare in servizi utili i detenuti in semilibertà, Costantino “A tutti spetta una seconda occasione nella vita. Saranno volontari al servizio della collettività”. Un progetto ambizioso, quello approvato l’ultimo giorno dello scorso anno, con una mozione i cui proponenti sono il Vicepresidente di Forza Italia, Fabio Costantino, e i consiglieri Natale Puma e Pietro Gottuso. Utilizzare i detenuti in semilibertà per il progetto Emergenza periferie Palermo. “Una scelta maturata per insufficienza di personale che si occupi di garantire l’igiene, la sicurezza e il decoro del territorio”, dichiara il Vicepresidente Costantino. “Sono detenuti socialmente non pericolosi - continua il Giovane azzurro - condannati per reati veniali. La legge tra l’altro, consente il loro impiego per lo svolgimento di progetti di pubblica utilità, secondo il principio della rieducazione e reinserimento in società”. “La proposta congiunta a mia firma e dei due colleghi del Consiglio di Circoscrizione - conclude Costantino - mira a porre rimedio alle condizioni emergenziali in cui versano i quartieri periferici della città, mediante l’utilizzo di un progetto che sensibilizza alla concessione di una seconda possibilità a soggetti che possono ancora essere utili alla collettività”. “Tassa sulla bontà”, ora il governo la tolga davvero di Paolo Foschini Corriere della Sera, 2 gennaio 2019 Il governo ha promesso di correggere “l’errore” commesso raddoppiando le tasse sul Terzo Settore. Ma la politica ha perfezionato l’arte del rinvio. Occorre evitare pasticci, e agire. Subito. Se bastasse contare i #graziepresidente sarebbe fatta: il Terzo settore e i milioni di cittadini impegnati nel sociale, oltre soprattutto ai milioni di altri che all’impegno dei primi sono riconoscenti ogni giorno, potrebbero stare tranquilli. Certo, il governo ha fatto approvare una manovra che proprio per il Terzo settore raddoppia le tasse. Certo, poi tutto il governo a cominciare dal premier Conte - addirittura scusatosi per “l’errore” - ha promesso che nel 2019 si troverà un modo tecnico per rimediare. E certo: al Terzo settore, con tutta la fiducia del mondo, assai sarebbe piaciuto almeno un impegno scritto in tal senso. Ma di fronte a un capo dello Stato che nel suo discorso di fine anno dice che vanno “evitate tasse sulla bontà” e al valore del non profit dedica uno dei passaggi più intensi, poi ritwittato milioni di volte, al posto del Terzo settore verrebbe appunto da dire ok, fidiamoci, a questo punto una soluzione dovranno trovarla sul serio. Peccato solo che la politica abbia imparato da molti anni l’arte del rinvio, così come i cittadini quella dell’adattarsi in fretta al peggio. E poiché una “soluzione” per questo pasticcio non sarà semplice (“intanto pagate poi vi ridaremo i soldi in altra forma” son belle parole ma senza coperture son chiacchiere), se davvero si vuole bisogna partire subito. O il rischio è che passino i mesi, il Terzo settore protesti, ma poi si abitui all’idea di esser stato fregato, e di essere tassato al 24% anziché al 12, così quando gli proporranno di chiudere a quota 20 la piglierà come “riduzione del danno”: con in più la beffa. Per questo invece è importante pretendere un incontro subito. Come dolcemente sottolineato ieri da Claudia Fiaschi, portavoce del Forum del Terzo settore, che unitasi al #graziepresidente rivolto a Mattarella da milioni di italiani ha aggiunto rivolta al governo: “La mia agenda è aperta, sto aspettando”. Povertà abolita. Ma è solo un sogno di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 2 gennaio 2019 Per Ernesto Rossi si trattava di un’idea, un obiettivo, una provocazione, un progetto. Come non condividere un sogno così? Ma Di Maio quel sogno l’ha dato per realizzato. Dio benedica Barbara Spinelli per tutti i reportage, le corrispondenze, i commenti, le bacchettate che ha pubblicato negli anni. Ogni riga che ha scritto su la Repubblica, il Corriere della Sera, La Stampa, è stata occasione per imparare qualcosa. Non solo sulla politica estera ma anche su temi che sembravano a lei meno congeniali. Come la ricostruzione a San Giuliano di Puglia dopo il terremoto che la mattina del 31 ottobre 2002 scosse la cittadina molisana e fece crollare la scuola elementare uccidendo 27 bambini della prima e la loro maestra, Carmela Ciniglio. Pezzo memorabile: “La San Giuliano che ho visto non è la cittadina d’un tempo. È divenuta l’occasione di un ciclopico esperimento urbanistico, e un inaudito spreco di denaro pubblico che ancor oggi paghiamo. È stata invenzione di bruttura, disumanizzazione di una città, spudorata circolazione di denaro dello Stato a vantaggio di una cricca chiusa”. “Urbanicidio”, lo chiamò. “Un rito sacrificale che ha immolato tante città terremotate”. Chapeau. È arduo, però, se non impossibile, condividere un parallelo che la grande giornalista eletta al Parlamento europeo come capolista per la coalizione L’Altra Europa con Tsipras (poi lasciata) ha tracciato giorni fa in una intervista al Fatto nella quale molti punti (uno per tutti sulla guerra all’immigrazione) erano peraltro condivisibili. “Non entro nei dettagli della legge di Bilancio”, ha detto, “ma a chi si scandalizza perché Di Maio vuole “abolire la povertà”, ricordo che Ernesto Rossi scrisse il libro “Abolire la miseria”, mentre lavorava al Manifesto di Ventotene”. L’idea di fondo, riassunse il liberale Valerio Zanone ripreso da Reset, era quella “di abolire la miseria con la fornitura gratuita dei beni e servizi essenziali per un minimo definito di vita civile senza regalare nulla a nessuno e senza sopprimere le “ineguaglianze salutari” che devono restare fra pigri e laboriosi, inetti e capaci”. Sintesi corretta, imperfetta, forzata, assurda, sballata? Il punto è che per Ernesto Rossi si trattava di un’idea, un obiettivo, una provocazione, un progetto, un sogno: “Abolire la miseria”. Come non condividere un sogno così? Di Maio no. Lui quel sogno l’ha dato per realizzato. “Con la pensione di cittadinanza che introduciamo con questa Legge di Bilancio avremo abolito la povertà in Italia”. E questa è un’altra faccenda. Migranti. Anno nuovo, confini vecchi di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 2 gennaio 2019 All’accorato discorso di fine anno di Mattarella, che giustamente ha considerato la sicurezza come capacità di costruire il bene della comunità nazionale a partire dal rispetto delle diversità, ha subito risposto Salvini. “Abbiamo riconquistato i nostri confini”, ha dichiarato, forse avendo in mente la vicenda della nave Sea Watch da dieci giorni in mare con a bordo 32 esseri umani tra cui tre minori non accompagnati un bambino ed un neonato. A questi si sono aggiunte altre 17 persone salvate da un’altra nave che dunque ancora vagano alla ricerca di un porto sicuro nel Mediterraneo. Tra il Natale, la nascita della Speranza che illumina il mondo, e l’epifania, i doni che ad essa sono dedicati, questa vicenda drammaticamente umana attualizza tutta la distanza che c’è tra chi cerca di costruire fattivamente un mondo inclusivo e chi, al contrario, si impegna affinché ciò che separa sia fonte di ispirazione prevalente. Non a caso Mattarella ha voluto, in uno dei suoi passaggi più significativi, dire una parola chiara sul valore della solidarietà, dal volontariato sociale alle Organizzazioni non governative, quelle che, salvando vite, sono state accusate di essere trafficanti di esseri umani da chi, evidentemente, ha un senso esclusivo ed escludente della comunità umana. Vantarsi delle statistiche sulla diminuzione degli sbarchi, infatti, significa non solo negare alla radice il valore dell’accoglienza, ma costruire una realtà in cui respingere il distante è la precondizione per poi restringere le libertà di tutti, come ben dimostra quella che Mattarella ha giustamente stigmatizzato come la “tassa sulla bontà” per le Onlus, evidenziando, da presidente della Repubblica, e non da ingenuo sprovveduto, quanto i sogni e gli ideali costituiscano l’idea di comunità, l’idea stessa della Repubblica come destino comune. Tutto infatti si tiene: non a caso in questa Legge di bilancio sono stati diminuiti i fondi sia per la cooperazione allo sviluppo a livello bilaterale, con grave danno anche per le Ong che operano in quelle parti del mondo da cui fuggono i migranti, sia a livello multilaterale, cioè alle Nazioni Unite. Questo significa che l’odissea della Sea Watch, come la fuga in Palestina dalla strage degli innocenti, è solo un tassello di quella oscura costruzione in cui verranno via via spinti coloro che dissentono, che vogliono ancora affermare i valori repubblicani, quelli che, come i bambini dai quali il presidente Mattarella ha ricevuto la cittadinanza onoraria, vogliono costruire Felicizia, dove felicità ed amicizia si incontrano. Lo ripetiamo ancora una volta: come nella poesia di Brecht prima scompaiono quelli più lontani ed apparentemente diversi poi, via via, tutti coloro che vogliono continuare a pensare liberamente. Il Governo del cambiamento apre dunque l’anno nuovo con politiche non solo vecchie ma estremamente liberticide, dai respingimenti dei profughi alla violazione delle Convenzioni internazionali sull’infanzia, dal rifiuto del Global Compact al taglio tout court dei fondi all’Onu. Dalla riduzione dei fondi per la solidarietà internazionale alla tassa su quella nazionale. La stella che i Re Magi seguirono indicava una speranza, incarnata simbolicamente in un bambino in fuga con la sua famiglia. A questa condizione furono dedicate Saggezza, Forza e Bellezza, i doni dei Magi, affinché la fiamma più grande, quella della Speranza di un destino migliore per tutta l’umanità non si estinguesse. A ciascuno di noi il dovere di fare la sua parte perché quella stella continui il suo cammino perché quei doni continuino ad avere un valore universale. Kenya. Nelle campagne senza Stato, di Silvia non c’è traccia di Fabrizio Floris Il Manifesto, 2 gennaio 2019 Sono passati 38 giorni dal rapimento della cooperante italiana. La polizia usa droni e pattugliamenti, ma i locali non aiutano più. Nelle aree remote non si investe e la sanità è assente: istituzioni viste come nemiche. Lungo la faglia che separa la città dalla campagna, il progresso dai selvaggi, gli impiegati dai pastori, il dio denaro è l’unico medium che ritorna e annoda i fili di un rapimento. E mentre in occidente la campagna rappresenta la tradizione, la conservazione e la chiusura (la destra), in Kenya è sinonimo di abbandono e, quando capita, di operazioni compassionevoli e casuali. Vasti territori che il governo non frequenta e non conosce. Tant’è che nel caso di Silvia Romano i militari che si sono messi sulle sue tracce hanno chiesto di essere “accompagnati” dalla popolazione locale. Tutto questo si intreccia con una seconda faglia che riguarda la relazione centro/periferia. Diversamente dall’occidente, la periferia qui respira l’aria della città e si sente parte del progresso, non è antisistema, ma brama di farne parte. L’elitè del Paese appare come un gigante con un occhio solo, vede solo la città come fonte del progresso, ha la supremazia senza la comprensione, domina il Paese senza comprenderlo. Le politiche sono scollegate dai bisogni della popolazione e funzionali al benessere della città: così, ad esempio, non ci sono investimenti nelle aree remote e non c’è una politica che sostenga l’agricoltura e i prezzi dei prodotti agricoli. Il sistema sanitario è pressoché assente e non esiste la protezione; quindi o ti difendi da solo o subisci e in qualche caso muori. Questo genera una proliferazione delle armi in un mix di difesa e attacco dove non c’è una chiara linea di demarcazione tra le armi come strumento di difesa e le armi come mezzo di attacco. In questo intreccio è entrata la vita di Silvia Costanza Romano, rapita da un gruppo di criminali comuni a cui la polizia ha pensato di dare la caccia con i droni e i pattugliamenti, convinta di risolvere la questione in pochi giorni, ma poi forse è entrato qualche altro attore in scena. Non a caso c’è stato l’arresto di un alto ufficiale del Kenya Wildlife Service, come se la banda fosse stata sua volta catturata da qualcuno di più forte. Ha smesso di scappare di notte nella foresta e si è messa sotto la protezione della comunità. In effetti è un po’ difficile muoversi per settimane nella foresta tra green mamba, come cacciatori e raccoglitori: c’è un problema di approvvigionamento di cibo e acqua. Così la polizia ha messo in campo l’intelligence, una taglia di quasi 10mila euro, ma dopo una prima fase di collaborazione con le comunità Orma e Wardei qualcosa si è rotto: i militari hanno compiuto un blitz pensando di andare “a colpo sicuro” nel villaggio di Chari, ma non hanno trovato nulla. Così hanno arrestato praticamente tutti gli abitanti sentendosi presi in giro: le informazioni pare siano state date volutamente in modo ingannevole. La gente non si è più sentita sicura e ha visto gli agenti come nemici da cui proteggersi: ritorna il tema dello Stato e del senso di non appartenenza al Kenya per le popolazioni pastorali del Paese. E siamo arrivati al 38esimo giorno di prigionia per una ragazza che voleva solo aiutare i bambini a studiare. Stati Uniti. I risultati della battaglia di Trump contro l’immigrazione illegale di Gianandrea Gaiani analisidifesa.it, 2 gennaio 2019 Forse il completamento del muro di separazione tra USA e Messico è ancora lontano ma il Presidente Donald Trump non ha lesinato sforzi per contrastare immigrazione illegale e fermare i flussi di immigrati, soprattutto di quelli islamici, negli Stati Uniti. Contro le “carovane” di migranti illegali partite il 13 ottobre scorso dall’ Honduras Trump ha mobilitato 5.200 militari, poi ridotti notevolmente nelle ultime settimane. Un’iniziativa che ha sollevato le proteste del Partito Democratico che sembra aver già dimenticato che il muro eretto al confine col Messico venne voluto e finanziato dall’Amministrazione Clinton e che anche Barack Obama schierò la Guardia Nazionale lungo i confini messicani per fermare gli immigrati illegali, come ha ricordato un articolo sul sito “Gli occhi della guerra”. La Casa Bianca punta a una stretta sul diritto di asilo, riforma per ora bocciata dai giudici alla vigilia di Natale, ipotizzando l’abolizione dello ‘ius soli’, il principio costituzionale secondo il quale ogni bambino nato sul territorio americano ha diritto alla cittadinanza. Da ottobre 2017 a settembre 2018, il primo anno fiscale completo dell’Era Trump, sono stati ammessi negli Stati Uniti 3.500 rifugiati musulmani, contro 39.000 da ottobre 2015 a settembre 2016, quando alla Casa Bianca c’era Barack Obama, secondo i dati del dipartimento di Stato. Nei primi 6 mesi del 2018, i richiedenti asilo musulmani accettati sono stati solo 2.107. E se con i predecessori, il numero dei rifugiati musulmani negli Usa superava quello dei cristiani, con Trump è esattamente l’opposto. I cittadini provenienti dagli 8 Paesi colpiti dal Travel Ban (Ciad, Iran, Libia, Corea del Nord, Somalia, Venezuela, Siria, Yemen) non possono mettere piede negli Usa. Gli ingressi, da ciascuno di questi Paesi, sono diminuiti di circa 80%. Nel 2018 l’amministrazione ha tagliato il personale che si occupava dei colloqui per i visti all’estero e ha reso più stringente il processo di screening. Il numero di persone considerate “ad alto rischio” è praticamente raddoppiato. Si stima che entro la fine dell’anno saranno complessivamente 20.000 i rifugiati accettati negli USA, contro 97.000 nel 2016, ultimo anno alla presidenza di Obama, che però durante gli 8 anni del suo mandato fece espellere oltre 3 milioni di clandestini, per il 43% macchiatisi di reati negli USA. I dati disponibili l’anno scorso, citati da un articolo su Il Giornale, riferivano che tra il 2009 e il 2015 (manca quindi l’ultimo anno di mandato) Obama fece espellere 2.427.000 immigrati illegali (66.5% messicani), 400 mila in più di quanti ne cacciò George W. Bush Jr nei suoi due mandati. I rifugiati, cioè le persone a cui gli USA hanno riconosciuto lo status di perseguitati, accolti quest’anno rappresenta il numero più basso dal 1980, quando, con il Refugee Act venne istituito il programma per i rifugiati in America. Secondo un ampio articolo dell’agenzia di stampa AGI La politica di Trump sull’immigrazione ha reso “molto più aggressivi gli agenti dell’ICE, l’Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale deputata a far rispettare le leggi sull’ immigrazione lontano dal confine. Trump ha riempito il dipartimento per la Sicurezza Nazionale (in posizioni che non richiedono la conferma del Senato) di gente proveniente dal Fair (Federation for American Immigration Reform), think-tank attivo nella lotta all’immigrazione illegale negli Stati Uniti ed Europa, non ostile tout-court agli immigrati ma fautore di una politica di ingressi limitati. Nel feroce dibattito tra Casa Bianca e opposizione Dem, Trump non ha risparmiato il 29 dicembre l’accusa ai Democratici di essere responsabili per ogni persona morta al co fine con states. “È per colpa dei Democratici e delle loro patetiche politiche sull’ immigrazione che permettono alle persone di fare lunghi viaggi pensando di poter entrare illegalmente” negli Usa. Trump è tornato sull’argomento su Twitter, commentando il decesso di due bambini migranti morti dopo essere stati affidati alle Guardie di frontiera. “Non possono entrare. Se ci fosse un muro, loro non ci proverebbero nemmeno”, ha aggiunto il capo della Casa Bianca. “I bambini in questione stavano molto male prima che venissero affidati alle Guardie di frontiera. Il padre della bimba ha dichiarato che non era colpa loro, non aveva dato da bere alla piccola per giorni. Le Guardie di confine hanno bisogno del Muro in modo che finisca tutto questo. Stanno lavorando duramente e si prendono pochi meriti”, ha spiegato Trump. Il pugno di ferro dell’Amministrazione Trump sull’immigrazione potrebbe però mostrare qualche piega imbarazzante per il Presidente anche se, visto il clima di odio politico che domina gli USA da quanto The Donald ha vinto le elezioni, non si può escludere che si tratti dell’ennesimo fuoco di paglia tesi a screditare l’inquilino della Casa Bianca. L’attorney general del New Jersey e l’FBI stanno infatti esaminando i documenti degli immigrati illegali che affermano di aver lavorato nel golf club del presidente Donald Trump a Bedminster. Lo ha rivelato Anibal Romero, un avvocato che rappresenta cinque di loro e che ha fornito agli investigatori la falsa green card e la falsa tessera socio-sanitaria che i supervisori del golf club avrebbero dato ad uno dei suoi clienti, Victorina Morales, 44 anni, guatemalteca. Il legale ha consegnato anche la busta paga di Sandra Diaz, 46 anni, del Costa Rica, ora legalizzato ma che era un clandestino quando lavorava nel club. Le due donne sono state le prime ad uscire allo scoperto all’inizio del mese. Morales, che stirava i vestiti di Trump e gli faceva anche il letto, ha spiegato di aver raccontato i fatti (ma solo “in parte”) per denunciare “l’ipocrisia” del presidente, che assume irregolari e poi si batte per il muro al confine col Messico e per un giro di vite sull’ immigrazione. Il materiale raccolto dagli inquirenti, secondo il Washington Post, indica che potrebbe essere aperta un’inchiesta sulle assunzioni nel golf club di proprietà del presidente. Brasile. Prigioni senza sbarre di Chiara Zappa mondoemissione.it, 2 gennaio 2019 In Brasile, dove le carceri sono luoghi di violenza e il tasso di recidiva è dell’80%, esistono penitenziari in cui i detenuti riescono davvero a cambiare vita. Il segreto? La fiducia, perché nessuno è irrecuperabile. Cleubert era nato in una famiglia povera e disastrata, sua madre era alcolizzata. A tredici anni era già avviato a una vita da criminale, presto era finito in diversi penitenziari minorili finché, appena compiuta la maggiore età, era stato rinchiuso in carcere con una condanna di quindici anni. Si trattava di una qualunque delle famigerate prigioni brasiliane, luoghi di violenza e di vera e propria tortura, teatri di periodiche, furiose ribellioni dei detenuti e in cui il tasso di recidiva si aggira intorno all’80%. Ma Cleubert si trovò ad avere un’opportunità inaspettata e decisiva. Fu mandato a scontare gli ultimi due anni e mezzo di pena in una struttura Apac, un carcere gestito cioè da un’Associazione di protezione e assistenza ai condannati, realtà nata 47 anni fa nello Stato di San Paolo e il cui metodo è riconosciuto oggi dall’Onu come una delle migliori pratiche al mondo nel sistema detentivo. Le chiamano “le prigioni senza sbarre”, perché qui i detenuti - definiti “recuperandi” - sono loro stessi responsabili della sicurezza della struttura: non ci sono guardie né armi, i carcerati non sono numeri, delinquenti irrecuperabili, ma persone, a cui è offerta davvero la chance di prendere in mano la propria vita e rivoluzionarla. Di fare i conti con le loro colpe e di superarle, di riconciliarsi con i familiari e con la società, di trasformarsi in uomini e donne nuovi. “È in questo carcere che ho scoperto il vero senso della vita, che cosa vuol dire rispettare il prossimo, che cosa significano le parole amore e famiglia”, racconta Cleubert, che oggi si è sposato, è padre di due figli e si prende cura di sua madre. In prigione ha avuto l’opportunità di studiare, si è laureato in giurisprudenza, ora è membro delle Apac di Betim e di Belo Horizonte e dipendente della Fraternità brasiliana di assistenza ai condannati (Fbac), l’organizzazione che promuove il metodo inventato a metà degli anni Settanta dall’avvocato di São José dos Campos Mario Ottoboni per “ammazzare il criminale e salvare l’uomo”. “Ottoboni, con un gruppo di volontari coinvolti nella pastorale carceraria, aveva visitato il carcere di Jacarei ed era rimasto molto colpito dalle condizioni inumane dei detenuti: gli venne così l’ispirazione di creare un percorso che permettesse a quelle persone di recuperare quella “immagine e somiglianza di Dio” che lì veniva offuscata, attraverso la speranza, la fiducia e la misericordia, i tre capisaldi di quello che sarebbe diventato il metodo Apac”. A raccontarlo è Valdeci Antonio Ferreira, missionario laico comboniano, direttore generale della Fraternità, che ricorda: “Presto la sperimentazione cominciò a produrre risultati positivi, finché si arrivò al punto di concedere ai volontari le chiavi delle celle e il compito di amministrare la struttura. Io, che a quel tempo lavoravo nel settore metallurgico a Itaúna, nello Stato di Minas Gerais, e che a mia volta ero rimasto profondamente scosso da una visita alla prigione cittadina, quando venni a sapere della prima Apac decisi di andarla a vedere con i miei occhi. Mi fermai un anno, vivendo insieme a Ottoboni e ai detenuti di São José dos Campos, e alla fine tornai a Itaúna determinato a creare un’unità anche lì”. Furono necessari molti anni di lotte e di sfide, si sfiorò il fallimento per mancanza di fondi, ma, anche grazie all’aiuto delle Chiese cattolica e protestante, il progetto prese forma, e innumerevoli esperienze di successo nel recupero sociale degli ex carcerati permisero infine di dimostrare alle autorità la validità della metodologia e della filosofia alla sua base: proteggere la società, soccorrere la vittima e promuovere la giustizia. Da allora, in Brasile le Apac si sono moltiplicate: oggi il metodo è applicato interamente in cinquanta strutture, distribuite in sei Stati, per un totale di circa 3.500 detenuti, mentre altre cento sono in fasi diverse di implementazione. “Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori”: la massima - attribuita al Beccaria spagnolo, Manuel Montesinos y Molina - campeggia sul muro di questi penitenziari speciali, dove non ci sono celle sovraffollate, né bande criminali che mantengono l’”ordine” o gruppi di autodifesa contro le violenze delle guardie, come invece è tristemente normale nelle 1.436 realtà detentive del Brasile, il Paese con la quarta popolazione carceraria al mondo. “Le Apac - spiega Ferreira - sono coordinate da associazioni che collaborano con il potere giudiziario ed esecutivo per la custodia dei detenuti e, una volta scontata la pena, per il loro reinserimento, in una partnership virtuosa tra Stato e società civile organizzata. Sebbene solo in certi casi ottengano finanziamenti dallo Stato, rappresentano a tutti gli effetti un’alternativa al sistema penitenziario tradizionale: i carcerati scontano la pena in cella, ma non ci sono poliziotti. Sono gli stessi reclusi a tenere le chiavi della struttura, a occuparsi della pulizia e della cucina, dell’organizzazione e della sicurezza, in collaborazione e cogestione con i responsabili Apac”. Ma come è possibile che un carcerato scelga di non fuggire? “C’è una frase pronunciata da un ex recuperando, che oggi è scritta sulle porte delle Apac: “Dall’amore nessuno scappa”. Quando il metodo è applicato fedelmente, con i suoi dodici punti che funzionano come ingranaggi, con il coinvolgimento e l’impegno di tutto il personale, i volontari e la società nel processo di recupero del condannato, questi è portato a fare una riflessione su di sé e a rendersi conto che la condanna è uno stato non solo fisico ma anche mentale e spirituale, che deve essere superato”, spiega il direttore della Fbac. “Il metodo richiede anche che il recuperando impari ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, a rispettare gli altri, ad amare, a vivere in una comunità riponendo in essa la sua fiducia. Sono valori che, all’interno della proposta di valorizzazione umana, di accettazione della realtà, di lavoro e di studio, portano all’impegno nei confronti della società, della famiglia e di se stesso. Quindi, sebbene sia facile fuggire dalle mura di un’Apac, la consapevolezza di dover pagare per il proprio errore e il riconoscimento di tutti gli sforzi profusi per il proprio recupero non lo consentono. Non da ultimo, il detenuto sa che una sua défaillance potrebbe chiudere le porte ad altri carcerati che, in Brasile e non solo, chiedono a gran voce l’opportunità di cambiare vita in uno dei nostri istituti”. Per riconoscere il male commesso occorre fare esperienza del bene: è questo, in sintesi, il senso del metodo inventato da Ottoboni. Scontare la pena in una prigione Apac, tuttavia, non è facile come si potrebbe immaginare. Nelle strutture, di solito di dimensioni ridotte e costruite in contesti piuttosto decentrati, con il consenso della comunità locale, vige una disciplina molto rigida - “non basta smettere di compiere il male ma bisogna iniziare a fare del bene” -, con ritmi intensi di attività, che iniziano alle 7 del mattino e continuano fino alle 22. L’esperienza delle Associazioni di protezione e assistenza ai condannati nasce in un contesto cristiano - a sostenerla da tempo c’è anche l’italiana Avsi -, ma è aperta a detenuti di qualunque fede, che possono avere assistenza secondo il loro credo. “Ciò che è più importante per noi è la possibilità di fare esperienza di Dio”, spiega ancora Valdeci Antonio Ferreira. “In questi anni, poi, abbiamo avuto diversi casi di recuperandi che non professavano alcuna religione ma che, attraverso l’esempio che hanno potuto osservare durante la convivenza con gli altri, hanno poi deciso di convertirsi”. Sono tante, d’altra parte, le cose fuori dal comune che accadono in queste prigioni senza sbarre. Per esempio che i tassi di recidiva, che nei penitenziari ordinari in Brasile arrivano al 70-80%, qui si fermino al 10-20%. Una ragione in più per investire nel modello, i cui costi sono 1/3 di quanto speso per lo stesso numero di detenuti nel sistema detentivo comune. Senza contare che, in 47 anni, nelle unità Apac non si sono mai verificati episodi di ribellione e sommosse, né atti di violenza, come tristemente normale nel resto delle carceri brasiliane (e non solo). “Quando la società comprende che un prigioniero recuperato è un delinquente in meno per le strade, cioè più sicurezza per la società, allora sostiene la creazione e l’espansione della nostra alternativa”, chiosa Ferreira. Un’alternativa che ha già cominciato ad essere esportata al di fuori dei confini brasiliani: attualmente sono tredici i Paesi che ospitano esperienze di Apac. “È chiaro che ogni Stato ha le sue leggi e le sue peculiarità: in alcuni casi è possibile spingersi più avanti e applicare in pieno il modello originale, mentre in altri la normativa più rigida obbliga a svolgere un lavoro più timido, all’interno delle carceri ordinarie”. Dal Costa Rica alla Colombia, dal Cile al Messico all’Uruguay, ma anche Corea del Sud, Portogallo, Germania, Olanda, Belgio e la stessa Italia, sono numerosi i contesti dove il metodo è applicato in parte. A permettere la diffusione dell’esperienza anche alcune partnership importanti, come quella con Prison Fellowship International, organo consultivo delle Nazioni Unite per i temi del carcere, e la collaborazione con l’Unione Europea grazie ai progetti della Fondazione Avsi. Comune denominatore di queste esperienze, non sconti di pena ma il concetto di giustizia riparativa, in cui “l’uomo non è il suo errore”. Una provocazione significativa anche per la politica, al centro del messaggio di Papa Francesco per la 52esima Giornata mondiale della pace, che si celebra il 1° gennaio. “La responsabilità politica appartiene ad ogni cittadino, e in particolare a chi ha ricevuto il mandato di proteggere e governare - scrive Francesco. Questa missione consiste nel salvaguardare il diritto e nell’incoraggiare il dialogo tra gli attori della società”. Perché “non c’è pace senza fiducia reciproca”. Bahrein ed Emirati, condanne definitive per due difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 gennaio 2019 Quasi di nascosto, mentre le rispettive popolazioni si apprestavano a celebrare l’arrivo del nuovo anno, la Corte di cassazione del Bahrein e quella degli Emirati Arabi Uniti hanno confermato le condanne a cinque e dieci anni di carcere inflitta a due noti difensori dei diritti umani, Nabil Rajab (nella foto) e Ahmed Mansoor. Rajab, fondatore e poi presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein e del Centro per i diritti umani del Golfo, è entrato nel mirino delle autorità sin dall’inizio della “rivolta di San Valentino” del 2011 a causa delle sue denunce sulle violazioni dei diritti umani. Da ultimo, è stato arrestato il 13 giugno 2016. Ha ricevuto una prima condanna a due anni nel 2017 per aver rilasciato interviste sulla situazione dei diritti umani e poi, lo scorso anno, una seconda a cinque anni per aver twittato contro la guerra in Yemen (cui il suo paese prende parte nell’ambito della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita) e sulle torture nella prigione di Jaw. Ahmed Mansoor, premio Martin Ennals per i difensori dei diritti umani nel 2015, sconterà definitivamente la condanna a 10 anni emessa lo scorso maggio per aver pubblicato post sui social media contenenti, secondo i giudici, “informazioni false, dicerie e menzogne” che avrebbero messo in pericolo “l’armonia sociale e l’unità” del paese. Il processo si è svolto a porte chiuse. Mansoor, a sua volta perseguitato dal 2011, ha accusato l’azienda italiana Hacking Team di aver infettato il suo computer con un software-spia per consentire alle autorità emiratine di avere accesso alle sue comunicazioni. Marocco. Respinte le osservazioni di Amnesty sui detenuti di al Hoceima Nova, 2 gennaio 2019 Le autorità marocchine hanno categoricamente respinto ciò che Amnesty International ha riferito del processo ai detenuti per i fatti di Al Hoceima di un anno fa, per “mancanza di obiettività e imparzialità”. Le autorità marocchine esprimono il loro categorico rifiuto di quanto riportato dall’organizzazione, ha dichiarato lunedì la delegazione interministeriale per i diritti umani in un comunicato stampa. In assenza di una lettura giuridica ponderata del verdetto originale, la relazione di Amnesty, che viene messa sostanzialmente in dubbio, rende la posizione dell’Ong incoerente con gli standard riconosciuti a livello internazionale, inclusi i principi fondamentali relativi all’indipendenza della giustizia, ha spiegato la delegazione.