Riforma Ordinamento Penitenziario. Antigone: “Estendere le misure alternative” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 29 gennaio 2019 Con un volume fresco di stampa, l’associazione passa al setaccio la riforma mettendo in evidenza “i piccoli passi in avanti” e rilanciando con forza la necessità di riprendere le proposte lasciate al palo. Gonnella: “L’emergenza suicidi si contrasta prevedendo una differente qualità della vita”. “È chiaro che avremmo voluto un’altra riforma, ben più corposa, estesa, penetrante e ben più efficace di quella approvata. Ma questo è quello che abbiamo e questo è quello che commentiamo, dando il giusto rilievo anche ai piccoli miglioramenti che sono stati registrati”. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, presenta così, a Redattore Sociale, il volume di 176 pagine, fresco di stampa, con cui l’associazione ‘per i diritti e le garanzie nel sistema penalè passa al setaccio quello che sul carcere e l’esecuzione penale è stato fatto dall’attuale governo, quello che è stato lasciato indietro e quello che è urgente riprendere dalla ghiacciaia in cui sono finite la maggior parte delle proposte avanzate dalle precedenti commissioni. Si intitola “Riforma Ordinamento Penitenziario”, è edito da Giappicchelli Editore e il 20 febbraio inizierà dalla Fondazione Basso il tour di presentazioni in giro per l’Italia, il nuovo libro che Antigone propone come “un vero e proprio manuale che descrive analiticamente tutte le norme approvate nei tre decreti di riforma dell’Ordinamento penitenziario per adulti e le norme che riguardano i minori”. “Abbiamo ripreso norma per norma - spiega Patrizio Gonnella, autore del volume - per spiegare con estrema analiticità cosa cambia rispetto alla previgente legislazione penitenziaria e quali sono le norme più significative in questa direzione. Sempre avendo uno sguardo, che è il nostro sguardo ed è anche critico, rispetto al fatto che una serie di punti della legge delega non sono stati esercitati. Mentre nel momento in cui descriviamo le norme approvate, lo facciamo cercando di orientare coloro che dovranno usarle verso interpretazioni più estensive e non di tipo restrittivo”. Al testo hanno collaborato per i diversi capitoli tutti autori interni al circuito dell’associazione, tra giuristi, avvocati, ricercatori e docenti universitari. L’introduzione è di Stefano Anastasìa, garante regionale di Umbria e Lazio mentre la post fazione è di Marco Ruotolo, dell’Università Roma Tre, direttore del Master in Diritto penitenziario e Costituzione. “Nel volume - spiega Gonnella - analizziamo sia la prima parte della riforma, quella sulle norme di principio, che tutta la parte dedicata alla quotidianità della vita detentiva, per passare a temi come lavoro, procedure di sorveglianza e semplificazione della stessa. Un paio di capitoli sono dedicati alla quotidianità detentiva negli istituti penali per minori e alle nuove misure di comunità con gli allargamenti previsti, sempre per i minori. Mentre la parte finale contestualizza la riforma con riferimenti a dati sia su scala europea che italiana tratti dal nostro lavoro di osservatorio concreto, per cercare di non tenere troppo lontana l’analisi giuridica dalla situazione storica ed empirica delle nostre carceri”. Il libro, pensato come un manuale di aggiornamento per operatori, avvocati e magistrati, messo a disposizione della comunità accademica, parla con un linguaggio “che non è iper tecnico - sottolinea il presidente - ma alla portata di tutti coloro che sono stati interessati in questi anni dai processi di riforma più o meno riusciti, dell’ordinamento penitenziario. In appendice, inoltre, c’è una serie di schede sintetiche, create per ognuno dei punti più rilevanti della riforma e che hanno proprio il fine di rendere più fruibile il volume”. Quali sono gli aspetti positivi della riforma che avete rilevato? Tra tanti aspetti lasciati indietro registriamo comunque dei piccoli passi in avanti che abbiamo voluto valorizzare raccontandone i contenuti. Penso ad alcuni miglioramenti nella qualità della vita detentiva per i minori, penso ad alcune norme di principio come per esempio al divieto assoluto di violenza fisica e morale, che è scontato, ma questa volta è stato messo per iscritto in modo esplicito. O all’attenuazione del sistema disciplinare, sia nel caso dell’isolamento disciplinare che per l’isolamento giudiziario. Tra tutte le indicazioni che non hanno avuto buon fine, quali sono quelle che andrebbero riviste subito? Abbiamo ampliamente evidenziato come tutta la parte che investe su una esecuzione penale che non sia strettamente carceraria andrebbe ripresa. Questa è una riforma che dà per scontato che l’unica pena possibile è il carcere, che l’unica forma di esecuzione della pena sia quella detentiva e non investe minimamente sulla possibilità di misure di comunità, misure alternative, benefici e così via. Quella parte è tutta chiusa e se non ripartiamo da lì, continueremo a sostenere che non ci siano alternative al carcere mentre per una serie di reati e per una serie di detenuti in realtà dovremmo ovviamente estendere le possibilità di accesso ai benefici. Che altro? La seconda parte disattesa riguarda l’affettività e la sessualità degli adulti: prevista per i minori, non è stata prevista invece per gli adulti. Per i minori spieghiamo che non è stata prevista in modo esplicito ma da quello che il legislatore ha scritto, in realtà è un buon avvio per poterla realizzare. Mentre per gli adulti c’è stata una chiusura. Una terza parte su cui non c’è stato il minimo investimento è quella che riguarda i collegamenti con l’esterno, anche attraverso la tecnologia: quindi un’apertura alla possibilità di usare internet, le e-mail, e di aumentare la corrispondenza telefonica. Tutto ciò avrebbe dovuto esserci in questa riforma perché il nostro è un sistema molto chiuso rispetto agli altri, per esempio sulla possibilità di avere un’ordinaria corrispondenza telefonica con i propri cari anche nei momenti più difficili della vita penitenziaria. Intanto in carcere e di carcere si continua a morire… Sì. Il quarto punto che abbiamo evidenziato riguarda proprio l’isolamento per il quale ci sono piccoli miglioramenti ma non decisivi. Nel senso che in materia di isolamento si poteva avere un maggiore coraggio ed esplicitare maggiormente quali dovessero essere i limiti. Norme, queste, isolamento da un lato, corrispondenza con i propri cari dall’altro, insieme ai rapporti con l’esterno, che costituiscono un importante freno nella prevenzione dei suicidi che, ricordiamo, stanno tornando ai massimi storici con i 63 casi del 2018. L’emergenza suicidi non si contrasta togliendo il lenzuolo, ma togliendo la voglia di suicidarsi e prevedendo una differente qualità della vita. In cella se ti fermano? Dipende da dove avviene l’operazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 gennaio 2019 Il ricorso al carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, secondo Antigone non è così. Solo a Bologna sono portati a casa. Situazione opposta a Palermo, mentre a Roma vanno sia in prigione che nei commissariati o nelle stazioni dei carabinieri. A seconda il luogo dove si viene fermati e arrestati dalla polizia, il trattamento cambia. È uno delle problematiche riscontrate dal progetto Inside Police Custody, realizzato dall’associazione Antigone con il contributo della Direzione generale Giustizia e Consumatori dell’Unione Europea. Tale ricerca è finalizzata a misurare l’effettiva applicazione di tre delle direttive previste dalla road-map di Stoccolma: una riguarda sia il diritto di arrestati e fermati a essere informati sui propri diritti che quello di accedere per tempo al proprio fascicolo, in modo da poter preparare una difesa adeguata; l’altra riguarda il diritto degli arrestati stranieri a essere assistiti da traduttori e interpreti che rendano loro intelligibile quanto accade; la terza e ultima riguarda invece il diritto all’assistenza legale in generale. Il report, in inglese, è ben dettagliato. Grazie alla sintesi di Antigone a firma di Claudio Paterniti Martello, si evincono dei particolari interessanti come il fatto che solo a Bologna, tra le città prese in considerazione, la pratica di portare a casa gli arrestati trova applicazione con una certa frequenza. A Palermo al contrario si fa sistematicamente ricorso al carcere, nonostante le raccomandazioni ministeriali vadano in senso opposto; a Roma infine gli arrestati vengono portati sia in carcere che nei commissariati o nelle stazioni dei carabinieri. Una disparità di trattamento non da poco e vale spiegare il perché. Subito dopo l’arresto - spiega Antigone - si può essere condotti a passare la notte in tre posti diversi: a casa propria, in carcere o in o in una camera di sicurezza di una struttura delle forze dell’ordine. Portare l’arrestato a casa ad attendere l’udienza di convalida (che in genere ha luogo il giorno dopo) implica un risparmio di risorse e mezzi ed evita una misura coercitiva spesso inutile. In molti casi in effetti il rischio di fuga o inquinamento delle prove è basso o nullo. Il ricorso al carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, da un punto di vista normativo. Ogni ingresso in un istituto penitenziario comporta in effetti l’attivazione di un protocollo gravoso per l’amministrazione penitenziaria, e in questo caso si parla di soggiorni che spesso durano solo poche ore, in quanto l’arrestato viene messo in libertà dopo la prima udienza. Questi ingressi, oltre ad alimentare il sovraffollamento penitenziario, sottopongono l’arrestato a un inevitabile choc (la fase dell’arrivo in carcere è quella in cui il rischio suicidi è più elevato). Infine vi è la possibilità di ricorrere alle celle di commissariati e caserme dei carabinieri, le cui condizioni però non sono delle migliori, come ha messo in luce il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà nella relazione presentata al Parlamento nel 2017. Parliamo delle camere di sicurezza, ovvero le stanze presenti nelle caserme dei carabinieri e nelle questure che servono per trattenere le persone in attesa di un processo per direttissima. L’idea di ricorrere più spesso a questa modalità è stata sollecitata dall’ex guardasigilli Paola Severino per evitare le cosiddette “porte girevoli” che ingolfano gli istituti penitenziari. Altra criticità riguarda gli stranieri: sia a causa della mancata conoscenza della lingua che per una mancanza di familiarità col sistema penale italiano, gli stranieri hanno una minore consapevolezza dei propri diritti. In più di un caso è stato riferito ad Antigone di arrestati convinti di essere finiti in tribunale per via del loro status di immigrati irregolari, mentre erano lì perché accusati di reati come resistenza a pubblico ufficiale. Un reato, secondo Antigone, contestato con grande facilità nei loro confronti. La salute mentale fuori dal carcere di Daniele Piccione sossanita.org, 29 gennaio 2019 Questa presente è una stagione crudele in cui domina il diritto penale dell’emotività. Esso alimenta equivoci. Il più pericoloso risiede nell’equazione tra certezza della pena ed esecuzione della misura privativa della libertà in carcere. Eppure, chi conosce il carcere per ragioni professionali o di studio sa che la pena intramuraria è criminogena. Determina spinte antitetiche rispetto al comando dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La permanenza in carcere recide i legami sociali di appartenenza e indirizza alla recidiva. Questo banale rilievo trova un moltiplicatore severo nel volto che il carcere sta assumendo negli ultimi mesi. È allora inevitabile tornare a parlare della tragica amputazione del corpo di riforme del sistema penitenziario strozzate nella culla, pur dopo essere giunte a un passo da un varo che si attendeva da un quarantennio. Tra le pieghe dei decreti legislativi elaborati dalle Commissioni nominate dall’allora Ministro della Giustizia, vi era un ampio progetto di tutela della salute mentale delle persone sottoposte a pena. Ed è proprio questa ad essere risultata la più dolorosa tra le soppressioni: quella ai danni di una riforma progressista per cui la migliore cultura giuridica si era spesa senza riserve, dall’indomani del 1978, in cui si abolirono gli ospedali psichiatrici provinciali, fino agli Stati Generali dell’esecuzione penale con cui si intendeva umanizzare e sviluppare la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Di fronte ad una situazione disumana dimostrata dai dati relativi alla sofferenza psichica nelle carceri, si rivela dirompente e lancinante l’incompatibilità tra salute mentale e stato di cattività. Per sanare questa ferita, le Commissioni ministeriali avevano elaborato tre linee di intervento: il rinvio facoltativo della pena nei riguardi di persone affette da gravi infermità psichiche; l’ideazione di nuovi modelli di misure alternative terapeutiche non coercitive; la previsione di sezioni specializzate ad esclusiva gestione sanitaria, per i detenuti con infermità mentale sopravvenuta. Sarebbe dovuta essere la riforma complementare e di definitivo perfezionamento, dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma un tratto di penna è bastato a vanificare uno slancio riformatore che aveva visto partecipi il Consiglio Superiore della Magistratura, la psichiatria di territorio, autorevoli penalisti e costituzionalisti, una vasta rete di giudici di sorveglianza, intellettuali e operatori sociali uniti con l’avvocatura. Per fortuna si profila, nelle prossime settimane, un’opportunità decisiva per rendere più umano il nostro trattamento penitenziario. La Corte Costituzionale si pronuncerà su una questione di legittimità, sollevata coraggiosamente dalla Corte di Cassazione, in materia di trattamento del detenuto che vive l’esperienza del disturbo mentale. Se la questione prospettata dai giudici di legittimità fosse accolta, si potrà estendere la misura alternativa della detenzione domiciliare in luogo di cura, già ammessa per coloro che soffrono di malattie fisiche, anche ai detenuti affetti da una grave infermità psichica. Si tornerebbe, così, alla preziosa e colta intuizione che fu di Franco Basaglia: non si può curare il disturbo mentale tra le mura delle istituzioni totali. Questa è soltanto una delle molte ragioni per cui guardare con speranza alla decisione della Corte Costituzionale attesa per il prossimo febbraio. In caso di accoglimento della questione, si incrinerebbe il dogma del “tutto dentro il carcere e niente fuori”; si dissiperebbero alcune tra le ombre più inquietanti che percorrono questo nostro inverno segnato dai venti securitari e dal ritorno al cieco sorvegliare e punire. Teatro in carcere. Ora la scena è nazionale di Paolo Foschini Corriere della Sera - Buone Notizie, 29 gennaio 2019 Parte da La Spezia il primo appuntamento di “Per aspera ad astra”. Il progetto è costruito sull’esperienza pluripremiata di Volterra. Coinvolge detenuti, attori, operatori: obiettivo reinserimento. “Importante creare una rete tra le realtà di cultura e bellezza”. Si comincia da La Spezia tra due giorni, grazie al sostegno della Fondazione Carispezia. Ma il progetto complessivo riguarda in realtà tutta Italia e non a caso è stato abbracciato nel suo insieme dall’Acri, l’associazione nazionale delle fondazioni di origine bancaria: prendere l’esperienza trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra - il progetto di teatro in carcere già premiato lo scorso anno da Buone Notizie e il cui ultimo spettacolo ha ottenuto il Premio Ubu appena tre settimane fa al Piccolo Teatro Studio di Milano - e farne una rete che connetta tra loro le numerose esperienze di teatro e arte portate avanti in Italia quale strumento di recupero e reinserimento dei detenuti. Partorito e quindi fatto crescere a Volterra dal regista e drammaturgo Armando Punzo, il progetto del teatro in carcere ha dimostrato negli anni come sia possibile lavorare in contesti pur fortemente limitanti quali gli istituti di pena “nell’interesse del teatro e delle arti e dei mestieri del teatro”, oltre che per le finalità rieducative e risocializzanti. Per questo la divulgazione e la promozione del teatro in carcere - come sottolinea una nota rappresentativa del progetto Acri - significa anche permettere di abbattere la separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile, così da creare un clima di consapevolezza rispetto al compito che essi assolvono: operare per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il progetto si intitola “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Si articola in una serie di eventi formativi e di workshop realizzati all’interno degli Istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni coinvolte, rivolti a tutti i soggetti operanti a vario titolo attorno al mondo-carcere: e quindi non solo detenuti ma anche partecipanti alla scuola di formazione della Polizia e Amministrazione Penitenziaria, oltre che naturalmente operatori sociali, artistici, culturali. L’evento di La Spezia è il primo della serie. È uno spettacolo teatrale intitolato “Incendi” e coinvolge un gruppo di detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino”. È curato dall’Associazione Gli Scarti, andrà in scena giovedì 31 gennaio e, in replica, venerdì 1 febbraio al Centro Culturale Dialma Ruggiero, in via Monteverdi 27 (inizio ore 21, ingresso gratuito - consigliata la prenotazione al 3575714205). È l’esito finale di un anno di lavoro sul territorio spezzino e vede in scena i detenuti non solo in quanto destinatari di un progetto educativo ma quali attori non professionisti “il cui difficile vissuto - sottolinea una nota della Fondazione Carispezia - contribuisce a creare un teatro capace comunque di generare cultura e bellezza e dove il non professionismo più che un limite può costituire un’opportunità”. “Il progetto sperimentale a sostegno del teatro in carcere - precisa il presidente Mattel Melley - nasce da un incontro organizzato lo scorso anno da Acri in cui le Fondazioni hanno avuto modo di entrare in contatto con la realtà della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, un modello di eccellenza a livello nazionale. Le sei Fondazioni che hanno aderito al progetto promosso da Acri hanno voluto mettere a sistema alcune delle principali esperienze maturate in questo campo. Per aprire una riflessione il più ampia possibile sull’importanza dei percorsi di riabilitazione all’interno delle strutture penitenziarie”. Il mandato che più conta di Danilo Paolini Avvenire, 29 gennaio 2019 Una serissima questione di democrazia. È piuttosto curioso (per chi non vuole allarmarsi) o preoccupante (per chi nutre già una certa ansia per la tenuta istituzionale del Paese) quanto sta accadendo attorno alla vicenda della nave “Sea Watch 3”, costretta in rada davanti a Siracusa. È curioso, per cominciare, che il ministro dell’Interno abbia accusato i parlamentari Prestigiacomo, Fratoianni e Magi di “non aver rispettato le leggi” (non ha specificato quali) per aver fatto visita, domenica, ai migranti a bordo dell’imbarcazione e aver riferito agli italiani - anche a quelli che hanno votato per Salvini - quale situazione hanno trovato. Ma la Costituzione italiana riconosce al Parlamento e ai suoi singoli componenti una serie di prerogative di controllo sull’attività del governo, dal sindacato ispettivo esercitato con interrogazioni e interpellanze fino al potere inquirente operato attraverso le Commissioni parlamentari d’inchiesta. In più, all’articolo 67, la stessa Carta stabilisce che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Perché la Repubblica Italiana è una democrazia parlamentare, dove agli eletti (da tutti) è attribuita la facoltà di vigilare sul rispetto dei princìpi dello Stato di diritto. Per intenderci, l’occhio di un deputato o di un senatore è l’occhio del popolo sovrano, di tutti i cittadini e non soltanto dei suoi elettori. Soprattutto laddove a questi ultimi non è consentito arrivare: nelle carceri o nelle caserme, per esempio. O su una nave ancorata nelle nostre acque territoriali. Perciò non è curioso, ma sconcertante, il tira-e-molla che la delegazione del Pd guidata da Matteo Orfini e Maurizio Martina ha dovuto ingaggiare ieri per poter salire a bordo. E la notizia, data dagli stessi deputati dem, di essere finiti sul registro degli indagati appena riscesi a terra. È poi curioso, per proseguire, che lo stesso ministro poche ore prima di attaccare i deputati delle opposizioni aveva (legittimamente) fatto appello alle sue guarentigie di senatore della Repubblica rispetto all’azione dei magistrati che vorrebbero processarlo per una vicenda del tutto analoga, quella della nave “Diciotti”. Come se le prerogative parlamentari valessero a corrente alternata. La curiosità invece sfuma e assume più decisamente i contorni dell’allarme quando, come è accaduto ieri, i capigruppo del partito di cui il ministro-senatore è leader diffondono una nota ufficiale per dire che processare Matteo Salvini significherebbe “processare il governo”. Questo perché il ministro avrebbe “contemporaneamente agito nel pieno rispetto delle leggi e della Costituzione e ottemperato al mandato ricevuto dagli elettori”. Ma la prima parte della motivazione è, in tutta evidenza, quanto meno da verificare nelle sedi e nelle modalità previste, perché non basta certo un comunicato. Mentre la seconda parte appare infondata, in quanto un ministro non riceve alcun mandato dagli elettori. Ci sarebbe piuttosto da discutere seriamente se tra i poteri del ministro dell’Interno ci sia quello di decidere quali imbarcazioni possano entrare nei nostri porti. In ogni caso, il ruolo delle Camere e dei loro componenti non possono essere compressi se non nei limiti fisiologici tracciati dalla Costituzione. Non che non sia mai accaduto con i governi precedenti. Anzi. Ma va notato che, per la prima volta, la legge di bilancio dello Stato è stata approvata senza di fatto essere stata, non discussa, ma nemmeno letta nelle commissioni e nelle Aule. E che ora si mette in dubbio la legittimità di alcune azioni da sempre riconosciute tra le facoltà di deputati e senatori. Secondo la signora del giallo, Agatha Christie, tre indizi formano una prova. Siamo già almeno a due. La condanna degli innocenti di Alessandro Barbano Il Foglio, 29 gennaio 2019 Un milione e mezzo di persone attende 4 anni per poi essere assolta. L’orrore della non-giustizia illiberale. Immaginate di restare quattro anni sotto inchiesta, e magari di averne trascorsi una parte in carcere o agli arresti domiciliari, di avere perso il lavoro e di aver sconvolto la vostra famiglia e i vostri affetti, e alla fine di questo calvario di essere stati assolti. Poi moltiplicate ciò che avete immaginato accadesse a voi per un milione e mezzo di persone. E avrete la percezione corretta di ciò che avviene in Italia. La notizia l’ha data il presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un imputato ogni tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico. Aggiungete le assoluzioni in appello e in Cassazione, e proiettate, come ha fatto l’alto magistrato, questo dato su scala nazionale per un decennio. Avrete la cifra monstre di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, pur essendo innocenti, che attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che coincide con una persecuzione. Ora immaginate che la notizia sia del tutto ignorata dalla stampa e dalle tv italiane, fatta eccezione per il Corriere della Sera, che la riporta in un articolo di Luigi Ferrarella solo a pagina 21, in un’edizione, quella di domenica scorsa, aperta in prima pagina dall’ultimatum della Ue a Maduro e dalla divisione del governo italiano sul destino del regime illiberale venezuelano. E chiedetevi, da ultimo, se non abbiamo, noi italiani e le nostre élite che ci rappresentano e ci raccontano, due occhi e due misure per la libertà. Si dirà: vuoi mettere a confronto una dittatura feroce con una democrazia? Il paragone certamente non regge. Ma proprio perché la nostra civiltà democratica origina oltre due secoli fa nel pensiero di patrioti liberali come Cesare Beccaria, non dovremmo ignorare l’orrore che si nasconde in certi angoli oscuri delle democrazie. Perché di orrore si tratta. Un immenso carico di dolore, privazioni, lutti, ferite tra le famiglie e le generazioni, che si infligge per mano dello Stato. E che produce frustrazione, rabbia, desiderio di vendetta e contribuisce ad avvelenare ancora di più il clima di una comunità già esasperata da un declino economico e civile che si trascina ormai da decenni. La prima cosa da fare è chiedersi perché abbiamo, del nostro paese, un racconto rovesciato. Perché ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi indebiti, inutili e ingiusti superano il cinquanta. Vuol dire che noi tutti, cittadini ed élite, abbiamo fatto nostra una visione giudiziaria della democrazia, che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile. Ma vuol dire anche che questo controllo delegato rappresenta ormai per una parte della magistratura il fine in grado di giustificare qualunque mezzo, in nome di una visione per così dire sostanzialista. Così, se la pubblica accusa istruisce processi che in un caso su due sono diretti contro persone innocenti, la circostanza non suscita particolare turbamento. Di fronte a dati tanto drammatici, una parte dei pm pensa e dice senza pudore che il processo è lo spazio civile necessario ad acclarare l’innocenza del cittadino. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che fuori dal processo siamo tutti presunti colpevoli. Mi viene in mente a tal proposito una singolare risposta di un magistrato della procura di Napoli. Era scattata, qualche anno fa, un’inchiesta denominata Affittopoli, che aveva portato in carcere e agli arresti domiciliari una sessantina di professionisti e amministratori cittadini. Ma dopo un mese di detenzione il Tribunale del Riesame aveva revocato i nove decimi dei provvedimenti cautelari richiesti dalla procura e autorizzati dal gip, sostenendone la pressoché totale infondatezza. Al giornalista che gli chiedeva conto di quella macroscopica smentita, il magistrato rispondeva che si trattava della “normale dialettica tra pubblica accusa e giudici di garanzia”. L’orrore alligna e prospera dietro e dentro simili risposte burocratiche. Perché niente quanto la burocrazia è in grado di operare una scissione tra il piano delle idee e quello della realtà, facendo precipitare le persone coinvolte nel crepaccio aperto da questa frattura. Purtroppo questo approccio non è isolato. Lo dicono i numeri, a volerli ascoltare. Quelli della Corte d’Appello di Milano raccontano di 121 mila fascicoli di indagini preliminari che sono rimasti aperti per oltre due anni e che, secondo l’ultima riforma del processo penale varata dal governo Gentiloni, dovrebbero essere avocati dalla Procura generale. Sennonché la Procura generale non ha i mezzi per surrogare i magistrati inadempienti. E questo può voler dire molte cose, a seconda dell’angolazione con cui si guarda al problema. La prima è che i magistrati sono pochi. Certamente è vero, ed è quasi un miracolo che, come sostiene il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, si raggiunga qualche risultato nelle condizioni date. La seconda è che non è colpa della prescrizione se i processi non si celebrano. Ma piuttosto, come ammette la presidente della corte d’Appello di Milano, Marina Tavassi, “i processi non si fanno per innumerevoli ragioni e, quindi, si prescrivono”. La terza è che in quel crepaccio che si apre tra le regole della legge e la prassi sono cadute almeno 121 mila persone, ma in realtà molte di più, se si considera che alcune inchieste riguardano decine di indagati. Da questa ultima angolazione la questione assume un significato diverso, e forse più ampio. Se anche i magistrati inquirenti fossero incrementati del 20 o del 30 per cento, non resterebbe forse un numero insostenibile di innocenti, condannati insieme con le loro famiglie a un’attesa straziante? La dimensione dell’orrore non è quantitativa, ma qualitativa. Riguarda l’idea che il processo sia una circostanza normale, e non piuttosto eccezionale, della democrazia. Per comprendere quanto questa prospettiva sia deviante si deve parlare con i figli degli indagati e dei processati innocenti, le vittime ultime della giustizia. L’ampiezza del dolore da loro patito dimostra quanto invasivo possa risultare l’esercizio dell’azione penale, in nome di quel popolo assunto di questi tempi come fattore legittimante di ogni regressione civile. Una giustizia che ascoltasse davvero le persone, di cui il popolo è fatto, rispolvererebbe dagli archivi del Palazzo di giustizia di Roma la circolare che lo stesso procuratore Pignatone inviò due anni fa ai suoi sostituti, ammonendoli affinché l’iscrizione di una persona nel registro degli indagati non fosse un atto automatico, rispetto a una denuncia, né tantomeno un atto sempre dovuto, ma presupponesse l’accertamento di “specifici elementi indizianti”. La circolare non sortì nei fatti alcun un effetto pratico, ma smascherò indirettamente, e forse involontariamente, l’ipocrisia di un sistema per metà accusatorio e per metà inquisitorio, che ha nel ruolo del pm il simbolo della sua contraddizione. Le fa eco due anni dopo la denuncia del presidente del Tribunale di Torino. Quando propone l’abolizione dell’udienza preliminare e l’obbligo per i pm di “esercitare l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee a convincere il giudice della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”, l’alto magistrato non fa che invocare un rimedio inquisitorio che rimetta, in capo alla pubblica accusa, la titolarità e insieme la responsabilità di decidere sul processo dell’indagato. Né Pignatone, né Terzi dimostrano di avere la soluzione in tasca per guarire un sistema così confuso e così illiberale, ma l’inadeguatezza dei rimedi da entrambi suggeriti mostra quanto sia difficile pretendere che il pm sia contemporaneamente parte e terzo, sia capace di avviare tempestivamente l’azione penale in nome della sua obbligatorietà e allo stesso tempo valuti con prudenza e senza pregiudizio gli indizi nei confronti dei possibili soggetti da indagare, cercando poi allo stesso modo le prove a loro carico e a loro discarico. E da ultimo li porti a giudizio solo quando sia certo di poter provare la loro colpevolezza. Significa chiedere alla pubblica accusa più di ciò che un magistrato inquirente, per esperto ed equilibrato che sia, possa dare. Significa, ancora, prendere atto che il filtro di terzietà del gip e dell’udienza preliminare è del tutto insufficiente rispetto alla complessità del dramma processuale, e soprattutto personale, che in quella sede si compie. Che poi è la causa per cui a un esercito di innocenti, già passati attraverso il calvario e, spesso, la gogna di due anni di indagini preliminari, viene inflitta la condanna anticipata e aggiuntiva di un processo lungo oltre ogni ragionevole limite. Il fatto che alcuni magistrati giudicanti inizino a denunciare quest’orrore è segno che, timidamente, qualcosa si muove nel sonno consueto di un corpo dello Stato abituatosi a delegare a una minoranza militante la sua rappresentanza. Ma per ribaltare il racconto di una giustizia feroce bisognerebbe avere il coraggio di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, limitare l’abuso della custodia cautelare, riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia fondata sul sospetto e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische e, da ultimo, ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando, riducendo i tempi dei processi e aumentando le garanzie della difesa. È l’esatto contrario di ciò che si propone di fare il governo gialloverde e la maggioranza che lo sostiene e che ha già approvato, con effetto dal 2020, lo stop alla prescrizione sine die dopo il giudizio di primo grado. Vuol dire negare a quei perseguitati per quattro anni l’unica via d’uscita che restava loro per sottrarsi al calvario. È la giustizia dei presunti colpevoli, evocati più volte da magistrati come Pier Camillo Davigo. Si fonda sulla funzione redentrice del pm e sul rafforzamento dei suoi poteri nel processo, sull’aumento delle pene e sulla dilatazione della legislazione speciale. È la giustizia capovolta di un paese incattivito, dove perfino la condanna degli innocenti non fa quasi più notizia. Massimo Terzi: “La giustizia è incivile, si processa senza prove” di Luca Fazzo Il Giornale, 29 gennaio 2019 Il presidente del tribunale di Torino: “Situazione non conforme ai principi di democrazia”. “Non credo di essermi fatto molti amici tra i miei colleghi. Ma ridirei tutto. Perché ho indicato l’unico, vero tema che affligge la giustizia italiana”. Massimo Terzi, 62 anni, in magistratura dal 1981, presidente del tribunale di Torino, sabato scorso ha deciso di andare controcorrente. E mentre i suoi colleghi in tutta Italia inauguravano gli anni giudiziari con le solite proteste sulle carenze di mezzi e senza uno straccio di autocritica, lui ha detto che il dramma vero sono i milioni di italiani che in questi anni sono stati mandati sotto processo senza prove, assolti dopo anni di attesa, di angosce e di sacrifici. Così non si può andare avanti, dice “perché non è conforme ai principi di democrazia”. Come l’è venuto in mente? “Facendo questo mestiere da un po’ di anni ho sempre avuto la percezione che questo sistema non rispetta i diritti delle persone. Siccome sono anche un patito di numeri, mi sono procurato le statistiche. E ne sono rimasto scandalizzato. Ogni anno finiscono sotto processo 150mila persone che poi verranno assolte. Significa nei trent’anni dall’entrata in vigore dal nuovo codice questa esperienza è toccata a cinque milioni di italiani. Se non si interviene, nei prossimi trent’anni toccherà la stessa sorte a altri cinque milioni. E cosa facciamo guardiamo a questa prospettiva con nonchalance? Io penso che sia intollerabile”. Cosa si dovrebbe fare? “Costringere in modo imperativo e stringente, con una modifica di legge, le Procure a portare a processo solo gli imputati la cui colpevolezza è chiara oltre ogni ragionevole dubbio”. Le diranno: il processo serve proprio a capire se ha ragione l’accusa o la difesa. E a decidere alla fine è il libero convincimento del giudice. “Nella realtà, il libero convincimento del giudice non esiste: nel processo penale le prove ci sono o non ci sono. I casi davvero controversi, quelli in cui la valutazione è soggettiva, sono così pochi da essere statisticamente insignificanti. Il 50 per cento di assolti vuol dire semplicemente che le indagini sono state fatte male, e che la Procura ha portato in aula processi che non stanno in piedi. D’altronde se non ci sono filtri, se le udienze preliminari finiscono quasi tutte col rinvio a giudizio, i pubblici ministeri sono anche poco motivati a fare le indagini come si deve. Aggiungerei una considerazione”. Dica... “Questo sistema ha generato una montagna di processi che sta soffocando l’apparato giudiziario, con questo trend tra poco si arriverà a un milione di processi e neanche raddoppiando il numero dei giudici si riuscirebbe a smaltirli. Insomma, a rendere inaccettabile il sistema sono tanto i danni che provoca ai cittadini che la sua insostenibilità economica e organizzativa”. E quindi? “Visto che il governo annuncia un nuovo codice di procedura penale, si abolisca l’udienza preliminare che di fatto non serve a niente. La Procura si prende la responsabilità di mandare direttamente sotto processo gli imputati per cui ha trovato delle prove inoppugnabili. Il processo si fa con rito abbreviato, a meno che non sia l’imputato a chiedere il dibattimento. Si ridurrebbe drasticamente il numero dei processi, e questo permetterebbe di farli meglio e soprattutto più in fretta, rimediando alle lentezze che ci vengono rimproverate dal resto del mondo e che violano il principio costituzionale della ragionevole durata”. Giuseppe Pignatone: “Sull’omicidio Regeni non possiamo fare di più” di Francesco Grignetti La Stampa, 29 gennaio 2019 Il procuratore di Roma: solo le prove del Cairo sbloccherebbero l’impasse. Intervistare il procuratore Giuseppe Pignatone non è facile. Le sue risposte sono distillate con cura, aliene da battute ad effetto. Eppure, i messaggi ci sono eccome. Sul caso Regeni, ad esempio, che da tre anni è in evidenza sulla sua scrivania, ha spiegato in Parlamento che la procedura giudiziaria ormai è in stallo. E quindi il senso del discorso era chiaro: o si muove il governo ed esercita le opportune pressioni politiche e diplomatiche, oppure tutto finisce qui. È indubbio, procuratore, che l’attenzione stia calando, sulla morte atroce del ricercatore italiano. “Guardi, la collaborazione con la procura generale del Cairo ha avuto alcuni esiti positivi, ma non ha finora consentito l’acquisizione di prove certe di colpevolezza. Io credo che dal punto di vista giudiziario, la situazione possa essere sbloccata solo da elementi nuovi che dovessero essere acquisiti, e a noi trasmessi, dall’autorità egiziana”. Lei ha sulla scrivania un altro caso delicatissimo, la morte di Stefano Cucchi, che ha portato la procura a indagare nel corpo vivo dell’Arma dei carabinieri. Dobbiamo aspettarci nuovi sviluppi? “Naturalmente non parlo delle indagini che continueranno con il massimo impegno per accertare tutte le eventuali responsabilità. Su questo credo debbano essere condivise le sofferte parole rivolte a tutti i carabinieri dal Comandante generale dell’Arma, il generale Nistri, il quale, dopo aver parlato di “un silenzio durato troppo a lungo”, ha affermato: “La vicenda Cucchi è per noi una brutta pagina. Non dubitate, sapremo voltarla con onore, tutti insieme. Ma per riuscirci dobbiamo essere convinti che la verità va perseguita a ogni costo”. Sta riesplodendo in tutto il suo fragore, intanto, lo scontro tra politica e giustizia, complice il caso-Salvini… “Mmmh (pausa di riflessione) Ci sono processi in corso presso altri uffici, per cui non ritengo opportuno intervenire”. A forza di attizzare lo scontro, però, ne va della credibilità della magistratura. Nella sua lunga carriera l’ha vista crescere o diminuire? “Io credo che la magistratura abbia presso i cittadini un capitale di fiducia e di credibilità acquisito con quello che ha fatto e continua a fare nel contrasto al terrorismo, alle mafie, e in modo ovviamente diversi, alla corruzione. Noi dobbiamo meritare questa fiducia e anzi accrescerla, facendo bene il nostro lavoro. In primo luogo, dimostrando con i fatti di essere indipendenti. Cioè, come dice la Costituzione, soggetti solo alla legge. Proprio per questo indagini e processi devono prescindere dal consenso. Fare bene il nostro lavoro, potrà anche limitare almeno in parte l’effetto negativo per la nostra credibilità derivante dall’insoddisfazione per i ritardi e le disfunzioni del sistema giudiziario. Insoddisfazione giustificata, ma che solo in piccola parte dipende dai magistrati. Per lo stesso motivo, è assurdo gridare all’errore dei giudici ogni volta che una decisione viene cambiata in sede di impugnazione: è la fisiologia del processo e a questo servono i tre gradi di giudizio; che sono una garanzia, ma naturalmente hanno un costo sui tempi”. Scusi se insisto: non è preoccupato dal riaprirsi di questa polemica? “La polemica tra politica e magistratura caratterizza, con alti e bassi, la nostra vita pubblica da decenni. Io non credo che ci siano categorie perfette per definizione e altre inevitabilmente dannate. E in democrazia la libertà di pensiero e di critica sono un bene fondamentale. Ripeto: noi dobbiamo fare bene il nostro lavoro, con decisioni che siano e appiano imparziali e comprensibili. Dopo di che, il fatto che siano oggetto di indagini e processi non la politica, ma singole condotte ritenute illecite di singoli uomini politici, rientra nel sistema di pesi e contrappesi proprio della nostra Costituzione, che prevede espressamente l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale”. Sembra indiscutibile il vostro merito nell’avere svelato l’esistenza a Roma delle piccole mafie, che definiste “originarie e originali”… “Sotto il profilo criminale, dico che la cifra di Roma è la complessità, nel senso che non vi è un dato preponderante come la mafia a Palermo o Reggio Calabria, ma la presenza di fenomeni apparentemente diversi e apparentemente lontani come corruzione, criminalità economico-finanziaria, eversione politica, criminalità predatoria e associazioni per delinquere, anche di tipo mafioso. E come hanno rivelato molte indagini e molte sentenze, questi fenomeni si intrecciano moltiplicando la loro pericolosità. In questo contesto rimane gravissimo il fenomeno della corruzione in senso lato che, come dice anche Papa Francesco, corrode e corrompe le basi stesse della nostra società”. Lei ha ricordato che la corruzione resta la prima piaga di Roma… “Come per tante altre questioni, ci sono alti e bassi nella sensibilità dell’opinione pubblica. Magari alla prossima inchiesta clamorosa avremo un nuovo picco di attenzione. E di polemiche, dato che c’è una parte dell’informazione e degli osservatori che non condivide il giudizio sulla gravità del fenomeno”. Reati edilizi, il comproprietario non risponde penalmente se estraneo all’abuso di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2019 Corte d’Appello di Palermo - Sezione IV penale - Sentenza 6 luglio 2018 n. 3409. Non basta essere comproprietario di un immobile per subire una condanna per un abuso edilizio realizzato sull’immobile medesimo. Tale circostanza non è da sola sufficiente ad affermare la responsabilità penale, in assenza di indizi da cui possa dedursi una compartecipazione anche morale nell’illecito. Ad affermarlo è la Corte d’appello di Palermo con la sentenza 3409/2018, che ricorda come la responsabilità del comproprietario non può essere configurata come responsabilità omissiva. I fatti - La vicenda penale sorge a seguito della constatazione di un abuso edilizio realizzato da un uomo nella sua villa al mare nei pressi di San Vito Lo Capo, dove senza alcuna autorizzazione e in assenza di un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato venivano aggiunti al fabbricato preesistente un manufatto in muratura, due tettoie e un gazebo in legno. Per tale abuso il Tribunale sanzionava penalmente sia l’uomo che la moglie di costui, sulla base della mera circostanza che l’immobile su cui erano realizzate le opere abusive era in comproprietà. La difesa ricorre però in appello chiedendo ai giudici di riconsiderare perlomeno la posizione della moglie dell’autore materiale della condotta, il quale aveva ammesso le proprie responsabilità dichiarando la totale estraneità ai fatti della consorte. La decisione - Tale assunto coglie nel segno e induce la Corte d’appello ad assolvere l’imputata. I giudici di merito ritengono, infatti, anche alla luce della dichiarazione del marito, che l’unico elemento a carico della donna risulta essere la comproprietà dell’immobile. Tuttavia, ciò non basta a fondare una responsabilità penale. Ebbene, ricorda la Corte, secondo orientamento costante in giurisprudenza, “la responsabilità del proprietario o comproprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene, né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza”. Tale responsabilità invece deve essere dedotta da indizi “idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato”, come ad esempio la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi, la fruizione dell’immobile. Nel caso di specie, chiosa il Collegio, non c’è alcuna prova del coinvolgimento in concorso nel reato di abuso edilizio da parte dell’imputata, “non potendo ritenersi sufficiente la mera circostanza di essere comproprietaria dell’immobile, unitamente al coniuge”. Resta in carcere la casalinga che rimette in circolo le somme illecite del marito di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 28 gennaio 2019 n. 4215. Riciclaggio per la moglie casalinga che detenga e rimetta in circolazione un ingente patrimonio, frutto di operazioni illecite condotte dal marito. In funzione di questa condanna al soggetto va applicata la misura cautelare della custodia in carcere. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 4215/19. La vicenda - I Supremi giudici, della seconda sezione penale, si sono trovati alle prese con una vicenda relativa a un soggetto aveva depauperato una società trasferendo le somme in diverse società riconducibili a lui e al coniuge e lasciando la società principale come un semplice contenitore di debiti. Questi elementi sono risultati dimostrativi, pertanto, della consapevolezza della ricorrente di prestarsi alla realizzazione del disegno illecito perseguito dal marito, mediante un’attività di sostituzione e trasferimento delle somme di provenienza delittuosa ricevute (in virtù della regola che non poteva non sapere). Conclusioni - Il rilievo, pertanto, che parte delle somme fosse stata destinata a una spesa personale (assai modesta), non elimina la rilevanza personale della condotta, in quanto utilmente idonea a rimettere in circolo proventi di origine delittuosa, così rendendone più difficile il reperimento e l’identificazione. Sentenza penale: il requisito della sottoscrizione del giudice. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2019 Processo penale - Sentenza - Requisiti - Sottoscrizione - Del cancelliere - Sufficienza. Ai fini della attestazione della provenienza della decisione (sia essa rappresentata dal solo dispositivo che anche dalla contestuale motivazione), è sufficiente la sottoscrizione del cancelliere, la quale garantisce la veridicità di quanto avvenuto in udienza e di quanto attestato nel relativo verbale, ivi compresa l’adozione della sentenza e la sua integrale lettura in aula. Nel caso in esame è stata respinta l’eccezione di nullità della sentenza priva della sottoscrizione del giudice, trattandosi di motivazione contestuale resa a verbale che era stato sottoscritto sia dal cancelliere che dal giudice. - Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 18 gennaio 2019 n. 2221. Sentenza - Requisiti - Sottoscrizione - Dispositivo letto in udienza - Mancata sottoscrizione - Conseguenze - Nullità - Esclusione - Ragioni. La mancata sottoscrizione del dispositivo, pubblicato in udienza mediante lettura dal presidente del collegio, non dà luogo a nessuna nullità. (In motivazione, la Corte ha evidenziato come la sottoscrizione assume rilievo per i soli atti non pronunciati in udienza in quanto per questi ultimi non vi è alcuna esigenza di rendere certa la provenienza). - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 18 settembre 2013 n. 38355. Sentenza - Pubblicazione - Contestuale lettura del dispositivo e della motivazione - Indicazione nel verbale di udienza - Necessità. L’adempimento della lettura della sentenza, comprensiva di dispositivo e motivazione ove questa sia contestuale, deve risultare con certezza, ai fini della pubblicazione e, quindi, della decorrenza del termine di impugnazione, dal verbale di udienza e non solo dalla intestazione della sentenza stessa. (In motivazione la Corte ha ulteriormente precisato che l’assenza della sottoscrizione del giudice sul verbale è ininfluente, atteso che è la sottoscrizione dell’ausiliario a garantirne la veridicità). - Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 1° marzo 2010 n. 8043. Procedimenti speciali - Procedimento per decreto - Decreto di condanna - Requisiti - Sottoscrizione - Giudice - Mancanza della firma autografa sulla copia notificata - Presenza su tale copia dell’attestazione del cancelliere “firmato dott.” - Nullità - Esclusione - Ragioni. La mancanza della firma autografa del giudice sulla copia del decreto penale di condanna notificata all’imputato non è causa di nullità, atteso che è sufficiente la mera attestazione da parte del cancelliere, anche mediante il ricorso a semplici formule, dell’avvenuta sottoscrizione dell’originale da parte del magistrato. (Fattispecie nella quale la copia del decreto penale recava la formula “firmato dott...”). - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 giugno 2007 n. 21797 Toscana: reinserimento lavorativo dei detenuti, accordo tra Regione, Arti e Prap gonews.it, 29 gennaio 2019 Sarà firmato a Palazzo Strozzi Sacrati, oggi martedì 29 gennaio, ore 12.30, l’accordo sul reinserimento socio-lavorativo dei detenuti delle carceri toscane tra la Regione Toscana, l’Agenzia regionale per l’impiego Arti e il Provveditorato per la Toscana e l’Umbria dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia o Prap. Si tratta, per l’esattezza, di un’intesa per la sperimentazione dei servizi di individuazione, validazione e certificazione delle competenze a favore di coloro che sono reclusi nel sistema carcerario della Toscana. L’intesa sarà sottoscritta dall’assessore a Lavoro, formazione ed istruzione Cristina Grieco per la Regione, dalla direttrice Simonetta Cannoni per l’agenzia Arti e dal provveditore Antonio Fullone per l’Amministrazione penitenziaria. L’accordo ha lo scopo di valorizzare le competenze formali, non formali ed informali dei detenuti, acquisite precedentemente o durante la reclusione, al fine di facilitare il loro reinserimento socio-lavorativo. Firenze: Bonafede “Sollicciano tra le peggiori carceri in Italia” di Luca Cellini agenziaimpress.it, 29 gennaio 2019 Il carcere fiorentino di Sollicciano è “uno dei penitenziari peggiori in termini strutturali in Italia, è stato costruito malissimo e è stato concepito malissimo e conseguentemente le problematiche sono più gravi a livello strutturale”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel corso di una conferenza stampa svoltasi ne capoluogo di regione toscano. “È giusto ricordare che la situazione di alcuni Istituti, ed in particolare quella del carcere di Firenze-Sollicciano, il più grande istituto penitenziario della Toscana, è seria - ha invece puntualizzato il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola -. Persiste un pesante indice di sovraffollamento (712 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 500) e continuano ad esistere gravi problemi di carattere strutturale nelle diverse sezioni che hanno finito anche per incidere sulle condizioni igienico-sanitarie e rendono ormai indifferibile l’avvio di consistenti lavori di manutenzione straordinaria, inoltre suscitano grande preoccupazione i suicidi e gli atti di autolesionismo in carcere ed il crescere del numero dei tentati suicidi, 91 casi in Toscana, di cui 28 a Firenze-Sollicciano”. Questione di recupero. “Va attuato il principio di certezza ed effettività della pena; ma occorre altresì rimuovere gli ostacoli, che ancora sussistono, alla possibilità di garantire un livello adeguato, per quantità e qualità, di interventi trattamentali a favore della popolazione detenuta e finalizzati alla elaborazione di coerenti progetti di recupero e di reinserimento sociale - ha puntualizzato ancora Marcello Viola. Voglio esprimere particolare apprezzamento per le iniziative da tempo assunte, con forza, dalla Camera Penale di Firenze, che ha aperto una seria e comune riflessione sulla condizione carceraria, sulla pena e sull’applicazione della riforma del braccialetto elettronico”. Sulla situazione carceraria in Toscana ha detto il presidente della corte di appello di Firenze Margherita Cassano “purtroppo, invece, dobbiamo nuovamente registrare il sovraffollamento carcerario ascrivibile al fatto che la sanzione penale costituisce l’unica, impropria risposta a fenomeni di marginalità e devianza sociale che richiederebbero altri tipi d’intervento e le condizioni degradate delle strutture”, tuttavia “in un quadro così problematico è doveroso ricordare tre eccellenze del territorio toscano: l’esperienza del Teatro carcere di Volterra; il carcere ‘aperto’ della casa-isola Gorgona in cui si registrano ottimi risultati sotto il profilo rieducativo e del reinserimento sociale dei detenuti impegnati in attività di tipo agricolo e zootecnico; l’istituzione, nel maggio 2018, a Sollicciano del Consiglio dei detenuti, forza di rappresentanza elettiva e democraticamente designata da gruppi di detenuti nelle sezioni”. Napoli: in carcere, si diventa (anche) meccanici specializzati di Laura Bonani Corriere del Mezzogiorno, 29 gennaio 2019 Meccanici al lavoro? Sì, a Secondigliano. Uno dei carceri in cui si scontano pene anche molto lunghe. Un penitenziario con una grande cancellata che si varca con il furgone della polizia…e quando il cigolio svanisce, il vuoto allo stomaco diventa sofferenza. Proprio qui, la vita può cambiare. Ci sono detenuti che lavorano come meccanici-manutentori ai mezzi della Polizia penitenziaria. Qui, vengono formati con corsi di 600 ore dalla Regione Campania. Sono meccanici certificati. “È un progetto che ha vissuto vari step - spiega Giulia Russo, direttore della Casa circondariale. Agli inizi, è stato officina regionale di meccatronica…poi, è diventato Centro collaudo per i mezzi della Polizia penitenziaria. Lo scorso dicembre, col Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, abbiamo sottoscritto il progetto per trasformarlo nel 1° Centro di Revisione d’Italia. Aperto anche ai civili”. I primi frutti già si vedono. Uno dei meccanici sta per essere scarcerato e lo attende una vita nuova. “Fra pochi giorni sarò fuori e andrò a lavorare - spiega -. Grazie a questo corso ho un mestiere in mano e i miei familiari mi hanno trovato un posto in un’officina. Ho passato qui dentro 5 anni e ho capito gli sbagli. Mi sento diverso. Per me, inizierà un’altra storia”. “Vogliamo impegnarci nella rieducazione dei detenuti - nota Alfonso Bonafede, ministro della giustizia -. Certo, chi ha sbagliato deve pagare. Ma lo Stato deve dare una chance a quelli che si comportano in modo tale da meritarla. La prima carta da giocare dev’essere il lavoro. È il vero segnale di rispetto della dignità umana”. Fermo: suicidio in carcere, il Garante dei detenuti in visita alla struttura cronachefermane.it, 29 gennaio 2019 Nobili evidenzia le numerose criticità che caratterizzano la struttura. In primo luogo il sovraffollamento, come riportato anche nel Report sulla situazione degli istituti penitenziari marchigiani. Al centro dell’attenzione la vetustà del complesso, la mancanza di spazi e l’inadeguatezza delle tre celle destinate agli arrestati. Visita del Garante regionale presso il carcere di Fermo dopo il suicidio del detenuto quarantenne originario di Santo Domingo. L’uomo si trovava attualmente in regime di semilibertà. “Nel complesso la struttura fermana - sottolinea Andrea Nobili - presenta numerose criticità, più volte evidenziate agli organismi preposti. Esiste un oggettivo problema di sovraffollamento, riportato anche nel nostro Report sulla situazione degli istituti penitenziari, che abbiamo avuto modo di illustrare nei giorni scorsi”. Al 31 dicembre, infatti, i detenuti erano settanta, di cui 22 stranieri, su una capienza regolamentare di 41. Il Garante fa anche riferimento alla: “Vetustà della stessa struttura carceraria, ricavata da un antico convento, che non offre gli spazi necessari a soddisfare le diverse esigenze. Basti pensare - aggiunge - alla inadeguatezza delle tre celle destinate agli arrestati, che danno vita ad una piccola sezione circondariale. Posti limitatissimi che rendono ancora più complesso il lavoro di controllo da parte della polizia penitenziaria. Nelle camere di pernottamento si è arrivati ad inserire la terza branda nei letti a castello. Da non sottovalutare, infine, che la maggior parte dei detenuti ha problemi legati alla tossicodipendenza. Una situazione difficilissima, che viene affrontata quotidianamente anche grazie alla grande volontà di tutti gli operatori che intervengono all’interno del carcere”. L’ultimo suicidio in carcere sul territorio marchigiano era stato registrato a Villa Fastiggi nel luglio del 2018. Venezia: “Sissy non mi parlò di droga in carcere, ma di un’agente” di Gabriella Straffi* Il Gazzettino, 29 gennaio 2019 In una lettera al Gazzettino l’ex direttrice della Giudecca racconta l’incontro: “Denunciò una collega. I festini? Nel 2014 furono bevute due birre, tutti puniti” Mi riferisco all’articolo “Così Sissy denunciò i segreti del carcere” a pagina 9 del Gazzettino di sabato scorso. Comprendo lo strazio dei familiari di Maria Teresa Trovato Mazza, l’agente di Polizia penitenziaria del carcere femminile della Giudecca, trovata esanime in un ascensore dell’ospedale civile di Venezia per un colpo di pistola sparato con l’arma che aveva in dotazione e morta il 12 gennaio scorso dopo più di due anni di coma. All’epoca ero la direttrice del Femminile. Il colloquio - Derogando al dovere di riserbo che mi ero imposta di tenere su questa vicenda tragica considero necessario - ben consapevole che una smentita è una notizia data due volte - segnalare ai lettori la falsità di talune affermazioni e virgolettati dell’articolo, a cominciare dai riferimenti a un colloquio urgente con l’agente Trovato Mazza mai avvenuto e a denunce della stessa mai prese in considerazione su porcherie che Sissy stava scoprendo e che la direttrice del carcere voleva tenere nascoste. Un colloquio urgente che non avrei mai concesso? Falso. Proprio il 30 settembre del 2016 l’agente Trovato Mazza ebbe un lungo colloquio con me durante il quale parlò di dichiarazioni confidenziali raccolte da alcune detenute e che riguardavano esclusivamente un comportamento gravemente scorretto di un’agente nei confronti di una detenuta. Ricordo che quello stesso giorno e nei giorni successivi ascoltai, come risulta dalle annotazioni nel registro udienze, le detenute che la Trovato Mazza aveva indicato nelle dichiarazioni presentate. Dichiarazioni che inviai all’organo preposto a un eventuale avvio di procedimento disciplinare. Mai, in nessuna circostanza, né in quel frangente e neppure in passato; né per iscritto e nemmeno a voce, l’agente Trovato Mazza mi riferì di scambi di stupefacenti all’interno dell’Istituto. Aggiungo, sulle voci raccolte dal cronista presso una detenuta, di droga introdotta in carcere attraverso le lenzuola e tovaglie lavate per conto di strutture veneziane, che presso la lavanderia era sempre presente un’agente con il compito esclusivo di ispezionare tutta la biancheria proprio per accertare che non entrassero ad esempio posate o altri oggetti potenzialmente pericolosi e, naturalmente, per evitare il passaggio di sostanze stupefacenti, facilmente occultabili. A questo scopo venivano eseguite perquisizioni periodiche anche con l’ausilio di cani antidroga. Non solo. Gli esami - Le detenute tossicodipendenti, soprattutto quelle che lavoravano in lavanderia e che per questa ragione disponevano di una maggiore libertà di movimento interna rispetto alle altre, venivano sottoposte assiduamente a esami tossicologici, e va da sé che l’esito positivo avrebbe comportato punizioni disciplinari severe e la sospensione o cessazione dell’attività trattamentale e lavorativa. In ogni caso, nel periodo incriminato, perquisizioni e accertamenti, diretti a verificare la presenza di sostanze stupefacenti, hanno dato esito negativo. Quanto alle voci - anch’esse veicolate dal cronista e capaci, me ne rendo conto, di eccitare la fantasia di alcuni lettori - di festini a base di sesso, si è trattato in realtà di una bottiglia di vino e due lattine di birra consumati da due agenti insieme a più detenute. Si badi che il fatto risale al 2014. Le agenti penitenziarie e il portinaio coinvolti sono stati puniti in via disciplinare. Nell’occasione, non fu l’agente Trovato Mazza a compiere la segnalazione. Non vedo poi l’accostamento tra la pena patteggiata nel 2011 dal sanitario dell’Istituto per molestia sessuale e i fatti indicati nell’articolo. Non replico a virgolettati come tutti sanno cosa succede alla Giudecca, e la direttrice... ce l’aveva con mia figlia perché stava portando a galla cose che lei aveva nascosto. Affermazioni false e diffamatorie, non c’è altro da dire. Un’altra falsità da contrastare, infine, è che sia stato trattenuto in carcere il pc dell’agente Trovato Mazza: pc che noi non abbiamo mai visto. È nell’interesse, credo, di tutti - sicuramente del personale che ha lavorato e lavora al Femminile, nel mio interesse di direttrice dell’Istituto all’epoca dei fatti e, ritengo, della credibilità dell’amministrazione per la quale ho servito per decenni - che la Magistratura giunga a un rapido chiarimento. Quanto detto e scritto sabato scorso penalizza ingiustamente l’impegno intenso che il personale della Polizia penitenziaria, insieme agli operatori del trattamento, al personale amministrativo e sanitario e ai tanti volontari, ha profuso e profonde tutti i santi giorni con onestà e trasparenza - come faceva Sissy Trovato Mazza. Con tristezza profonda. *Già direttrice del carcere femminile della Giudecca a Venezia Venezia: il responsabile degli istituti di pena “noi indaghiamo solo dopo il pm” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 29 gennaio 2019 Enrico Sbriglia è il Provveditore delle carceri del Triveneto. Ed è sotto la sua giurisdizione sui penitenziari (maschili e femminili) di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, che Maria Teresa Trovato Mazza, per tutti Sissy, è stata rinvenuta in fin di vita in un ascensore dell’ospedale Civile di Venezia per un colpo di pistola alla testa. Che per le complicanze, il 12 gennaio scorso, le ha causato la morte dopo due anni di coma. “Noi come Provveditorato non possiamo che esprimere il grande dispiacere per quanto accaduto a questa nostra agente. E se ci verrà segnalato qualcosa, agiremo”. Dottor Sbriglia, quello di Sissy è un caso complesso, ormai mediatico, con le richieste di giustizia che si sovrappongono alle indagini... “Capisco i genitori, è comprensibile che da parte loro ci sia ogni ulteriore esigenza nell’essere confortati, ma a fronte del loro dolore c’è anche una competenza di leggere le cose che è tipica di chi, come lavoro, fa l’investigatore”. In diversi siti e sui social, ci sono detenute che affermano di aver visto comportamenti strani, ma che nulla è stato fatto. Che pensa di queste prese di posizione? “Se c’è chi fa dichiarazioni e dice di conoscere degli episodi, venga a dircelo. Esistono delle procedure. Chi fa parte di un corpo di polizia ha un obbligo giuridico nel farlo. Se si tratta di un detenuto, un ex detenuto o un familiare, si presenti in caserma e denunci”. Tra le accuse, anche quella di non aver fatto nulla, di non aver mai indagato nell’ambiente del penitenziario... “Se dobbiamo intervenire, interveniamo. In questo caso penso che sia prudente sapere che si interviene solo dopo che ci sono state delle indagini della magistratura che abbiano dimostrato qualcosa. Noi come nostro dovere ci atteniamo a ciò che sarà l’esito di ulteriori attività giudiziarie. La verità giudiziaria per noi sarà la verità delle cose. Ogni affermazione diversa sarebbe assolutamente fuori luogo e non servirebbe certamente a chiarire una vicenda che è sotto esame dalla magistratura. Il tutto al di là di quanto si dice sui social e attorno a questa triste vicenda”. Sareste pronti a indagare? “Di regola le attività ispettive non sono fatte a random, ma sulla scorta di procedure che vengono in qualche modo richieste. Nel caso di specie sarebbe anche poco ragionevole intrometterci ora, mentre indaga la magistratura. Se all’esito dovessero emergere elementi che spieghino una tensione altra, sul piano amministrativo ci muoveremmo. E lo faremmo anche a livello di dipartimento. Ma se poi le indagini dovessero dimostrare il contrario, non ce ne sarebbe bisogno. Aspettiamo e solo dopo, se necessario, interveniamo”. Teramo: detenuto ai domiciliari trovato morto in casa di Diana Pompetti Il Centro, 29 gennaio 2019 A trovarlo senza vita nella sua abitazione sono stati i carabinieri nel corso del controllo serale. Perché Pasquale Ciaffoni, 45enne di Campli, da tempo era ai domiciliari per scontare un cumulo di pena, anche se nelle ultime settimane più volte era stato trovato fuori casa e denunciato per evasione. Ora sarà l’autopsia disposta dal pm di turno Greta Aloisi a fare chiarezza sulle cause del decesso. Secondo le prime ipotesi, tutte da confermare con l’esame medico, l’uomo potrebbe essere morto per un malore o per una sospetta overdose. I militari, a questo proposito, hanno fatto dei sequestri nell’abitazione e il materiale acquisito ora è all’esame degli investigatori. L’allarme è scattato intorno alla mezzanotte di sabato quando i carabinieri si sono presentati nell’abitazione del 45enne per il quotidiano giro di controllo vista la sua detenzione domiciliare. Non avendo avuto risposta, i militari sono riusciti ad entrare nell’abitazione e qui hanno fatto la drammatica scoperta con l’uomo riverso a terra. L’allarme è stato immediato e in poco tempo sul posto è intervenuta l’ambulanza del 118, ma per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Sul corpo un primo esame medico ha escluso la presenza di segni di violenza esterni. Ora sarà l’autopsia, che nelle prossime ore sarà conferita del pm di turno, ad accertare con esattezza le cause della morte. Spinazzola (Bat): Remo, 40 anni, dall’Opg all’inserimento nella famiglia di “zia Patrizia” La Gazzetta del Mezzogiorno, 29 gennaio 2019 È una “storia di sguardi e sorrisi” ma anche “di malattia e guarigione” quella di Remo, 40enne affetto da schizofrenia paranoide, che sta scontando la sua condanna nella Rems di Spinazzola, struttura che sostituisce l’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg). È qui che ha incontrato Patrizia D’Innella, una signora impegnata nel sociale, che ha deciso di aprire a Remo le porte della sua casa e della sua famiglia. “È il mio terzo nipote”, racconta la donna che con Remo ha deciso di formalizzare la loro amicizia firmando un accordo Iesa (Inserimento etero-familiare supportato per adulti). Si tratta di uno strumento di affido in uso al dipartimento di Salute mentale della Asl Bat, che consente l’inserimento in famiglia di utenti con patologie psichiatriche. E così, quasi ogni domenica, Remo pranza con la “zia Patrizia”, la sua famiglia e i suoi amici. A rendere pubblica la storia è stata la Asl Bat in un video realizzato per parlare della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Spinazzola, attiva dal 2015, con 20 posti letto. Una struttura in cui Remo è contento di essere stato “spedito” nel 2015, dall’Opg di Milano. Dopo aver “conosciuto il carcere” ed essere stato in diversi Opg anche in Francia, Remo afferma che la Rems di Spinazzola gli “ha cambiato la vita: qui - sottolinea - per la prima volta sono stato veramente curato”. E poi, aggiunge, “zia Patrizia mi rende davvero felice: per me è un’amica e una confidente”. Adesso, assicura Remo, “sono cambiato: la mia malattia fa sì che mi servano delle spinte per fare le cose, e qui mi hanno dato molti interessi”. Per la sua psicologa, la dottoressa Giusi Lombardo, Remo è un “utente esperto”, cioè capace di fare qualcosa e consapevole della sua patologia, quindi in grado di comunicare ai medici informazioni preziose per gestirla. “A queste persone -spiega il direttore della Rems di Spinazzola - serve una gestione sanitaria utile a curarle e a recuperarle, mentre fino ad ora era stata giudiziaria e punitiva. Hanno bisogno di essere ascoltate”. E Patrizia D’Innella è sempre pronta a chiacchierare con Remo e a strappargli un sorriso. “Mi prendo cura di questo ragazzo - afferma soddisfatta - è in una comunità ma da ora è presente anche nella mia vita e in quella della mia famiglia”. Roma: i detenuti curano le strade di Marco Belli gnewsonline.it, 29 gennaio 2019 Iniziano questa mattina a Torre Spaccata, alla presenza della sindaca di Roma Virginia Raggi e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, i primi lavori di manutenzione dei detenuti asfaltatori di Rebibbia per le strade di Roma. Armati di appositi canal-jet e sotto l’occhio vigile degli agenti di Polizia Penitenziaria, trenta detenuti accuratamente selezionati e formati da “Autostrade per l’Italia”, con tanto di attestato professionale per operare in qualità di asfaltatori e manutentori di strade, si sono ritrovati alle 9 in Via Mario Lizzani, angolo Via di Torre Spaccata. Venticinque gli interventi manutentivi previsti, con i quali saranno pulite le caditoie del tratto di strada in questione, fra viale dei Romanisti e via Luigi Ferretti, nel VI Municipio. Si tratta del primo di dieci interventi di pubblica utilità che saranno svolti nell’ambito del protocollo d’intesa tra Roma Capitale, Dap e società “Autostrade per l’Italia”, firmato il 7 agosto dello scorso anno con il nome “Mi riscatto per Roma”, allo scopo di promuovere e favorire i lavori di pubblica utilità previsti dall’articolo 20 ter dell’Ordinamento Penitenziario. I successivi lavori saranno realizzati entro metà febbraio e riguarderanno altre strade di Torre Spaccata ed alcune in altri quartieri di Roma: Corviale, Quartaccio e Aurelio. Dopo il successo dell’esperimento romano, il modello è stato replicato dal Dap in altre città metropolitane, con la sottoscrizione di analoghi protocolli d’intesa con i sindaci e i presidenti dei tribunali di sorveglianza. È stata inoltre costituita un’apposita task-force specificamente dedicata al lavoro di pubblica utilità, che sta operando con grande entusiasmo sia degli agenti di Polizia Penitenziaria sia della popolazione detenuta selezionata. È nato in questo modo il format “Mi Riscatto per…”, nuovo e moderno esempio di best practice dell’Amministrazione Penitenziaria che ora anche l’Onu ci invidia. Se è vero che il Rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) in Messico ha scritto al Ministro della Giustizia Bonafede e al Capo del Dap che “‘Mi riscatto per Romà può essere di grande interesse per il Messico e per questo abbiamo intenzione di verificarne la sua trasferibilità”. Imperia: il carcere cerca rinforzi, superaffollato e con pochi agenti di Maurizio Vezzaro La Stampa, 29 gennaio 2019 Sul penitenziario gravano i trasferimenti da Finale a Ventimiglia: 4 agenti per 780 traduzioni. Il carcere di Imperia chiede aiuto a quello di Sanremo e soprattutto al Dipartimento di Giustizia perché, con la prossima sfornata di allievi in uscita dal corso (saranno 1200), almeno una decina siano mandati di rinforzo. La situazione è diventata drammatica per il rapporto nettamente deficitario tra personale e popolazione carceraria (solo 54 agenti compresi sottufficiali e comandante Lucrezia Nicolò a fronte di un centinaio di reclusi: la capienza ne prevedrebbe sessantadue) e per l’accumulo di lavoro che si è riversato sul penitenziario dopo la chiusura di quello di Savona. Quattro poliziotti, di cui uno impiegato in ufficio come addetto alla logistica, sono davvero pochi per un nucleo traduzioni che ha ormai competenza da Finale Ligure a Ventimiglia. Si tratta di portare i detenuti agli interrogatori di garanzia, alle udienze, alle convalide. Nel solo 2018 sono stati eseguiti 395 ingessi di nuovi detenuti, 235 scarcerazioni che comportano accompagnamento, 151 trasferimenti da un carcere all’altro, per un numero complessivo di movimentazioni di 780. A questo va aggiunto, come detto, il sovraffollamento: “Imperia, in rapporto ovviamente alla popolazione carceraria e alla capacità di accoglimento, è il quarto penitenziario più affollato d’Italia”, fa sapere Marco Zarro, rappresentante in loco del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. I numeri davvero spiegano da soli, senza tanto bisogno di ulteriori analisi, la portata dello sforzo a cui un semplice nucleo di quattro persone è costretto a sottoporsi: sempre nel 2018 gli agenti hanno dovuto portare i reclusi a 416 udienze in tribunale, a compiere 168 traduzioni in altre carceri, 112 trasferimenti in ospedale (c’è anche un’alta percentuale di episodi di autolesionismo tra i carcerati, sintomo di una situazione di enorme sofferenza), quattro scorte per portare gli arrestati ai domiciliari. Ancora Zarro: “C’è stato un forte incremento del lavoro per una serie di contingenze a cui non è seguito un potenziamento negli organici. Chiediamo pertanto al Provveditorato che, con il nuovo corso per agenti in svolgimento nelle scuole di Cairo Montenotte e Parma, da cui a marzo usciranno 1200 nuovi colleghi, una decina tra questi sia destinata a rimpolpare le nostre file. E desidereremmo che una mano la potesse dare il carcere di Sanremo, a cui potrebbero fare riferimento i detenuti in arrivo dalle zone dell’Estremo Ponente. Ciò ci sgraverebbe di una buona mole di lavoro, consentendoci di affrontare i compiti assegnati senza affanno e a scapito della salute del personale, ora sotto stress”. Proprio a causa dell’enorme pressione derivata da turni faticosi e legata alle lacune negli organici, il carcere di Imperia aveva dovuto subire due pesanti evasioni a distanza di pochi mesi l’una dall’altra tra 2008 e 2009”. Padova: il panettone del carcere “buono due volte” tgpadova.it, 29 gennaio 2019 L’artigianalità fa da padrona nei laboratori della “Pasticceria Giotto dal Carcere di Padova”; ogni giorno 40 detenuti pasticceri sfornano prodotti d’eccellenza che si contraddistinguono per materie prime ricercate, lunga lievitazione naturale e lavorazione manuale. Una pasticceria fuori dagli schemi, che grazie al numero elevato di pasticceri garantisce una produzione artigianale anche con i grandi numeri: sono stati 70 mila i panettoni preparati manualmente e venduti nel periodo natalizio 2018. Numeri importanti che attestano il “valore” di questa realtà unica al mondo, dove l’altissima qualità degli ingredienti e la lavorazione artigianale sono diventati il tramite per un progetto sociale ancora più importante, una scuola di mestiere e di vita. In moltissimi infatti, anche quest’anno, hanno scelto di mettere in tavola i pluripremiati panettoni sfornati dai laboratori all’interno della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova. Un progetto che mette al centro le persone, perché con la dignità di un lavoro vero è possibile ricominciare. Questo è quello che accade da oltre 15 anni, all’interno del Carcere di Padova, dove 40 dipendenti detenuti, regolarmente stipendiati, lavorano nei laboratori di pasticceria, impegnati nella preparazione dei panettoni e di altri prodotti artigianali, compresa l’attività di confezionamento. Ad affiancarli anche 5 detenuti tirocinanti, anch’essi regolarmente retribuiti, perché prima di essere assunti devono superare un periodo formativo di nove mesi per imparare il “mestiere” e un periodo di prova obbligatorio che ne attesta capacità e predisposizione. A seguirli, con passione e dedizione, sono 3 maestri pasticceri che quotidianamente entrano in carcere per insegnare agli allievi i gesti e i tempi dell’antica arte pasticcera che, maturando lentamente favorisce un cammino di cambiamento e diventa una possibilità reale per il futuro. Altri 4 dipendenti civili esterni completano la grande squadra di Pasticceria Giotto: un responsabile di produzione, un responsabile logistica, un responsabile qualità e un responsabile acquisti. I laboratori del Carcere sono così, il cuore di una pasticceria non convenzionale: un luogo semplice che fa i conti con la condizione delle persone recluse ma che ha come obiettivo la tensione ad una produzione artigianale di assoluta qualità. Infine, 4 commerciali assieme ad una rete di agenti plurimandatari promuovono i prodotti della Pasticceria, dai panettoni alla pasticceria fresca, dai biscotti alle praline al cioccolato fino al buonissimo gelato. “Mettiamo cuore e risorse in questo progetto - spiega Matteo Marchetto, Presidente della Cooperativa sociale Work Crossing, ci crediamo molto sin da quando nel 2005 abbiamo deciso di trasferire la pasticceria all’interno del carcere affrontando non poche difficoltà. Ma lo facciamo con convinzione e tenacia perché vedere concretamente il cambiamento positivo delle persone che vivono quest’esperienza e l’abbassamento della recidiva ci restituisce estrema soddisfazione. Risultati concreti che ci rendono orgogliosi e dimostrano l’efficacia e il valore del lavoro nelle carceri nel percorso di rieducazione”. Ad apprezzare il Panettone del Carcere di Padova si riconfermano principalmente le Aziende che hanno acquistato il 60% della produzione per regalarlo a dipendenti e clienti. Tra quelle che hanno scelto di sposare il progetto sociale abbinato all’eccellenza artigianale troviamo Arneg, Eurointerim, Acegas Aps Amga, Infocert, Elettrolux, De Longhi e Bosch Italia. Il 27% delle vendite va imputato ai negozi in Italia; l’8% agli acquisti su e-commerce dal sito web www.idolcidigiotto.it, mentre il 5% delle vendite è opera dei due punti vendita di Pasticceria Giotto a Padova, in via Eremitani e in via Forcellini. Per le tendenze d’acquisto, come sempre, trionfa il Panettone Artigianale Classico; l’80% dei consumatori infatti, durante le festività natalizie preferisce il panettone della tradizione con un impasto soffice e profumato arricchito da canditi e uvette. Molto gettonati anche i gusti speciali: dal tradizionale Panettone al Cioccolato a quello dai profumi più pronunciati e persistenti come il Panettone Cioccolato e Caffè, a quello più insolito che mixa il sapore deciso del cioccolato e la dolcezza dei fichi, Panettone al Cioccolato e Fichi. Premiate anche la ricerca e l’originalità delle ricette della Pasticceria, i clienti infatti hanno apprezzato la voglia di sperimentare accostamenti particolari come nel Panettone Albicocca, Pesca e Lavanda andato subito in esaurimento. I semi-canditi di albicocche e pesche insieme a leggere note di lavanda contraddistinguono questo panettone, la vera novità 2018, con uno straordinario profumo che esalta il soffice impasto del lievitato. E poi lui, il fiore all’occhiello della Pasticceria Giotto si riconferma ricetta ambitissima dai clienti: il Panettone al Kabir Moscato di Pantelleria Dop nato dal felice incontro con Donnafugata dove le fresche note del Kabir finiscono per lasciare spazio ad un delicato sentore di burro, perfetto per riscaldare ogni tavola natalizia. Ma altre festività sono dietro l’angolo e ogni occasione è buona per un momento goloso: i laboratori del Carcere non si fermano mai e i maestri pasticceri sono già all’opera per deliziarci con nuove ricette e sperimentazioni dalla straordinaria gamma di praline al cioccolato alle raffinate monoporzioni per San Valentino ai tipici dolci di carnevale, galani e frittelle che si possono trovare nei due punti vendita di Pasticceria Giotto a Padova, fino alle colombe pasquali. Foggia: detenuti al freddo senza scarpe e abiti di ricambio di Giovanni Rinaldi foggiareporter.it, 29 gennaio 2019 “Qualcuno non possiede nemmeno un paio di scarpe oppure non ha abiti invernali, per affrontare la stagione più fredda”. L’Associazione Genoveffa de Troia di Foggia, in collaborazione con il cappellano Frate Eduardo Giglia e con il sostegno del Csv Foggia, organizza una raccolta di abiti usati e in buono stato per le persone detenute in situazione di grave indigenza. “Alcuni ristretti posseggono solo gli abiti indossati al momento dell’arresto e, durante la detenzione, non hanno la possibilità di fare colloqui o di richiedere un cambio ai familiari. Qualcuno non possiede nemmeno un paio di scarpe oppure non ha abiti invernali, per affrontare la stagione più fredda”, spiegano i promotori della raccolta. L’appello ai cittadini foggiani è quello di consegnare indumenti usati, in buono stato, nella sede dell’Ass. Genoveffa de Troia, in via Napoli n. 111 (accanto al Cus Foggia), nelle giornate di martedì e giovedì, dalle ore 9.30 alle 12.30. Per motivi di sicurezza, si precisa che potranno essere raccolti solo abiti con le seguenti caratteristiche: scarpe da ginnastica prive di parti metalliche e con suola unica; scarpe in cuoio o gomma prive di parti metalliche; ciabatte in gomma prive di parti metalliche; giubbotti, giacche, camicie, maglie, pantaloni in stoffa o tessuto (non in pelle) privi di cappuccio, imbottiture, lacci e parti metalliche; indumenti vari che non abbiano imbottiture o parti interne metalliche; accappatoi privi di cappucci e cinte; coperte ad una piazza prive di bordi e imbottitura. La raccolta di abiti straordinaria servirà a rifornire il magazzino dell’Istituto Penitenziario, curato da molti anni, con grande impegno, dall’Ass. Genoveffa de Troia. “Esiste la dignità del vivere anche negli Istituti Penitenziari - sottolineano dal Csv Foggia - e la Comunità esterna non può chiudere gli occhi di fronte a situazioni di gravi disagio. Occorre avere uno sguardo più ampio sul tema, contribuire a far sì che il carcere non diventi fase terminale dell’area del disagio, dell’esclusione e dell’emarginazione sociale. Per questo motivo, speriamo che i cittadini foggiani possano accogliere l’appello dei volontari”. Milano: il direttore di Migrantes visita il carcere di Bollate rerum.eu, 29 gennaio 2019 Nel pomeriggio di giovedì 24 gennaio il direttore generale della Fondazione Migrantes, Organismo Pastorale della Cei don Gianni De Robertis, insieme ad un suo collaboratore Simone Varisco, hanno visitato la II Casa di Reclusione di Milano Bollate. Istituto nel quale Rerum ha attivo, da alcuni anni, un dinamico e variegato progetto educativo e di inclusione sociale che la Fondazione incoraggia e sostiene. Al loro ingresso, accompagnati da Roberto Tietto, Mite Balduzzi e don Carlo Seno, amico della nostra Associazione, hanno dapprima fatto visita alla Cappella del primo Reparto. Successivamente, insieme ad un detenuto che collabora e aiuta in modo efficace Rerum in tutte le sue iniziative, il gruppo si è trasferito negli uffici dell’Area Educativa dove si è svolto un cordiale, interessante ed aperto scambio col Responsabile dr. Roberto Bezzi durante il quale è stato possibile, tra il resto, venire a conoscenza dell’intensa attività che l’Area svolge in più ambiti verso la popolazione carceraria che ha come obiettivo, in stretta collaborazione con la Direzione e al Comando di Polizia Penitenziaria, di realizzare su “grande scala” un progetto a custodia attenuata volto alla graduale inclusione sociale dei detenuti. Il modello gestionale si fonda sui seguenti principi: responsabilizzazione dei detenuti, sicurezza fondata su una vigilanza dinamica ed integrata tra gli operatori, forte integrazione con il territorio. Successivamente si è visitato il quarto Reparto. Ad accoglierci il comandante degli Agenti del posto Francesco Mondello insieme ad alcuni detenuti coi quali Rerum mantiene abituali contatti di amicizia e collaborazione. La sala musica della “Freedom Sounds”, band composta da musicisti che effettua periodicamente dei Concerti presso realtà sociali sensibili esterne al carcere, è stato il luogo nel quale è proseguita la conoscenza e il dialogo tra tutti. Una visita ed una serie di incontri positivi che per contenuti, sensibilità e valori comuni hanno fatto nascere o rinsaldato l’amicizia tra i presenti rafforzando l’impegno quotidiano che ciascuno poi mette lì dove è chiamato a operare. Le due Italie e i 25 anni di briciole di Roberto Gressi Corriere della Sera, 29 gennaio 2019 C’è un’Italia stanca: di demagogia, di volgarità, di luoghi comuni. E un’Italia furiosa, pronta a farsi male purché si facciano male anche altri. La politica per 25 anni ha nutrito la seconda Italia con briciole senza progetto, in cambio di consenso elettorale. C’è un’Italia stanca e un’Italia furiosa. La prima è sotterranea, silenziosa, probabilmente più grande di quanto si possa credere. È stufa di demagogia, di volgarità, di luoghi comuni, di un Paese incapace di fare sistema che ignora energie e saperi. La seconda è incattivita, delusa, privata di un ascensore sociale che non sia fatto di sotterfugi, furbizie, sottomissioni e ricerca di favori. È pronta anche a farsi male, purché si facciano male anche altri. Altri che, non senza qualche ragione, si ritiene colpevoli di avere accaparrato per sé ricchezze piccole o grandi, privilegi, un futuro migliore. La politica nell’ultimo quarto di secolo ha sostanzialmente ignorato l’Italia stanca e nutrito l’Italia furiosa. L’ha nutrita con una continua distribuzione di briciole senza progetto in cambio di consenso elettorale. Briciole costose, fatte a spese del debito pubblico, messe in conto alle nuove generazioni. Ma comunque briciole, che dopo il primo boccone lasciano insoddisfatti, fanno sentire ingannati e ancora più furiosi. È successo con il sogno dell’ Italia senza tasse di Silvio Berlusconi, con l’illusione della ridistribuzione del reddito fatta a suon di mance da ottanta euro di Matteo Renzi e il rischio che stia per succedere di nuovo con il reddito di cittadinanza e con quota cento di Luigi Di Maio e Matteo Salvini sembra molto concreto. I leader poi non hanno resistito a riproporre, a distanza di anni, incredibilmente, la stessa promessa: un milione di posti di lavoro. E nessuno di loro ha mancato di additare alla folla un nemico: da esorcizzare, da rottamare, da chiudere fuori. Il reddito di cittadinanza e le pensioni a quota cento, per quando costosi e padri di una spesa ben più grande dovuta alla crescita dei tassi d’interesse del debito, sono insufficienti ed effimeri. Bastano appena, forse, a vincere le elezioni europee di maggio. L’Italia furiosa si accorgerà presto che altro non arriverà che un po’ di assistenza, che l’ idea onirica di Beppe Grillo di un reddito per tutti perché saranno le macchine e non le persone a lavorare resterà onirica, appunto. Che i lavori che verranno offerti saranno dequalificati e a basso stipendio, che magari avrà la meglio chi è più abile a fare arditi cambi di residenza o finti divorzi per aggirare le regole. Quota cento per le pensioni risponde di più alle zone di ingiustizia create dalla riforma Fornero: esodati, persone troppo avanti con gli anni per continuare a fare lavori troppo pesanti. Ma anche qui ci sarà una riduzione importante dell’assegno, dovuta ai minori contributi. Una soluzione appunto per un’area significativa di casi limite mentre chi è stato portato a pensare che d’ora in poi potremo smettere tutti di lavorare a 62 anni dovrà svegliarsi dall’ ennesima illusione. Ognuno sa, il premier Giuseppe Conte per primo, che una spesa pensionistica fuori controllo non è possibile. L’Italia stanca e l’Italia furiosa sono fortemente intrecciate, condividono lo stesso Paese, le stesse città, vivono nelle stesse famiglie. La politica può continuare a dare loro risposte con un gioco continuo di rilanci, alcuni leader possono essere più abili di altri, oppure possono essere sostituiti via via da affabulatori di maggior successo. Oppure ancora si può provare a cambiare schema. Siamo europei e restiamo umani di Marco Damilano L’Espresso, 29 gennaio 2019 Ci siamo dimenticati che la democrazia non è una meta raggiunta una volta per tutte. Ma è un processo continuo, un cammino lento e faticoso. Siamo europei. E restiamo umani. Sono due i manifesti politici e gli appelli lanciati all’attenzione della pubblica opinione negli ultimi giorni. Il primo è quello firmato da Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico con i governi Renzi e Gentiloni, ha raccolto in poche ore oltre 120 mila adesioni, propone la creazione di una lista delle “forze civiche e europeiste” al prossimo voto per il Parlamento europeo del 26 maggio. Il secondo non è un documento di carattere elettorale, è il titolo di un appello comune delle Chiese cristiane italiane (non solo la Chiesa cattolica, ma anche i protestanti, la federazione delle chiese evangeliche e i valdesi) perché “si continui a vivere uno spirito di umanità e di solidarietà nei confronti dei migranti”. Quella di Calenda e degli altri firmatari è un’iniziativa politica con un immediato sbocco pratico: l’individuazione di candidature per le liste da costruire nelle prossime settimane (“servono qualificati rappresentanti del mondo del lavoro, della produzione, delle professioni, del volontariato, della cultura e della scienza”), la campagna elettorale, un simbolo che sia “una bandiera” dietro cui schierare, e non “nascondere”, i vecchi simboli e le identità. Il secondo appello si presenta come un testo a carattere religioso ed ecumenico, ma fin dall’inizio affronta il tema “divisivo” dell’immigrazione con osservazioni di metodo e di merito: vie sicure e legali di accesso verso l’Europa, ampliamento dei cosiddetti corridoi umanitari, con la richiesta di un corridoio umanitario europeo, potenziamento delle attività di soccorso nel Mediterraneo, dei mezzi militari, della Guardia costiera e delle Ong. Non è un manifesto di partito, dunque, ma ha un fortissimo impatto politico. Li ho stampati sul mio tavolo, i due documenti, quello di Calenda e quello firmato da Cei, evangelici, valdesi e Comunità di Sant’Egidio, lo stesso cartello che da quasi tre anni cura i voli con cui profughi e richiedenti asilo arrivano in Italia a bordo di un regolare volo di linea e non a bordo di scafi putridi e mortali, stritolati tra gli scafisti e la blindatura delle invisibili linee di confine che sono state tracciate dalle politiche dei governi europei e del governo italiano. Intreccio paragrafi, sottolineo parole (investire e proteggere, capitale sociale, leadership scientifica europea, si legge nel manifesto Calenda), mentre arrivano notizie sempre più allarmanti dal fronte dell’accoglienza. Lo sgombero dei migranti ospitati nel centro di Castelnuovo di Porto, il ministro Matteo Salvini che torna ad associare le Ong e gli scafisti, il dubbio, il sospetto, il discredito da cui l’Italia che assiste, aiuta, accoglie è costretta a difendersi. “Aiutare chi ha bisogno non è un gesto buonista, di ingenuo altruismo o, peggio ancora, di convenienza”, si giustificano quasi i rappresentanti delle organizzazioni cristiane. Hanno ragione a doversi difendere: Ong è diventata nel linguaggio della politica una sigla impronunciabile, come se i volontari umanitari fossero la ‘ndrangheta (parola che infatti viene pronunciata sempre di meno), l’accoglienza è sinonimo di affarismo, i migranti sono divisi tra buoni (pochi, da accogliere) e cattivi (quasi tutti, da respingere). Da molti mesi l’Italia vive in mezzo a una crociata ideologica: prima l’attacco alle navi di soccorso, accusate in blocco di essere taxi del mare in combutta con i trafficanti di esseri umani, messe in mezzo da inchieste giudiziarie approdate a nulla, poi il decreto sicurezza di Salvini, con la messa in crisi del sistema di gestione dei Comuni e la criminalizzazione del richiedente asilo, ora l’attacco si sposta, com’era prevedibile, verso i centri di accoglienza. Ne parla Fabrizio Gatti a pagina 8. Si ribatte che anche l’accoglienza assoluta, di tutti i migranti indiscriminatamente, sia a sua volta un’ideologia, ma in questo momento non produce nessun effetto, nessun risultato concreto. Mentre l’altra sì: quella che il manifesto Calenda definisce, con una buona dose di ottimismo, “il rischio di un’involuzione democratica nel cuore dell’Occidente”. Il rischio esiste. Anzi, per certi versi, è stato superato dai fatti, pienamente realizzato. Democrazia ed Europa ci sono sembrati trent’anni fa sinonimi, all’epoca della caduta del muro di Berlino. Carlo Greppi, storico e scrittore classe 1982, ha raccontato nel suo ultimo libro (“L’età dei muri”, Feltrinelli) l’emozione di quel crollo, simboleggiato da un frammento di cemento armato che il papà riportò a casa in quei giorni dalla capitale tedesca, e poi il risorgere ovunque di muri e di divisioni. Avevamo dimenticato quanto sia stata breve, in realtà, la stagione della democrazia e del benessere, della ricerca e della laicità, dei diritti e dell’apertura, in un continente che nel Novecento era stato scenario di eccidi mostruosi e di perdita della ragione e del sentimento dell’umanità. Abbiamo perso memoria, dunque, della semplice constatazione che la democrazia non è una meta raggiunta una volta per tutte, ma è un processo storico, lento e faticoso. Non è il raggiungimento della terra promessa, ma è un cammino nel deserto, in cui sono possibili ripensamenti, ricadute, marce indietro, tradimenti. Senza il riconoscimento che la sconfitta e la caduta fanno parte della storia, così come della vita dei singoli individui, si creano organismi astratti, destinati a essere spazzati via. Così, direi, del manifesto di Calenda la cosa che mi piace di più è la frase finale, quando si afferma che “la Storia è tornata in Europa” e che la democrazia e l’Europa non sono conquiste definitive, ma un campo di battaglia quotidiana. E che le prossime settimane diranno se la costruzione della lista, del progetto in vista delle elezioni europee, sarà coerente con questa premessa. Nel ritorno della storia c’è anche l’esistenza delle identità, come scrive a pag. 38 il direttore del Mulino Mario Ricciardi, intervenendo sul dibattito aperto la scorsa settimana sull’Espresso da Antonio Funiciello: destra e sinistra, ma anche la cultura popolare, cattolico-democratica, laico-liberale che non possono essere sciolte in un tutto indistinto. C’è la nuova generazione che chiede radicalità, fuori dai miti della rottamazione, del vaffa-day, dell’uno vale uno, ma anche dei tecnici al governo, del mantra “non ci sono soluzione di destra o di sinistra ma solo soluzioni”, formule magiche che ci hanno accompagnato per anni, occupandosi del “chi” faceva le cose (i giovani, i cittadini, i professori), più che del come e del perché. Con il risultato di lasciare sguarnite l’Europa e la democrazia rispetto all’attacco di chi, invece, non valuta simili sottigliezze e vuole imporre la sua visione semplificata, la sua ruspa che tutto spiana. In vista della costruzione del listone europeo vanno evitati due rischi speculari, l’eccesso di entusiasmi e di adesioni formali (tutti i candidati alla segreteria del Pd si sono affrettati a dirsi d’accordo) che indebolirebbe il progetto e, al contrario, la chiusura verso le voci e i volti che esprimono una visione fuori e oltre il vecchio mainstream progressista anni Novanta, di cui c’è ancora traccia nel manifesto di Calenda. Una visione liberal e il pluralismo delle culture, la costruzione della nuova Europa e il radicalismo delle soluzioni. Siamo europei e restiamo umani. Migranti. In piazza a Montecitorio va in scena la solidarietà: “Non siamo pesci” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 29 gennaio 2019 Composti, quasi silenziosi, sotto gli ombrelli e dietro il cartellone “Unica soluzione, l’attracco” ancorato alla recinzione di piazza Montecitorio, si sono radunati a drappelli in un migliaio circa, ieri sera, chiamati a raccolta dalla petizione “Non siamo pesci” lanciata da Luigi Manconi, dalla sua associazione A buon diritto e dai Radicali italiani. Composti, quasi silenziosi, sotto gli ombrelli e dietro il cartellone “Unica soluzione, l’attracco” ancorato alla recinzione di piazza Montecitorio, si sono radunati a drappelli in un migliaio circa, ieri sera, chiamati a raccolta dalla petizione “Non siamo pesci” lanciata da Luigi Manconi, dalla sua associazione A buon diritto e dai Radicali italiani, oltre a un elenco di scrittori e personalità dello spettacolo e della cultura, come il regista Gabriele Muccino che si dice molto confortato dalla riuscita dell’appello. “Ciò che succede in Italia di oggi fa molto male, anche pensando a cosa è successo 71 anni fa in un Paese che non era neanche quello di adesso - aggiunge Muccino - e sicuramente in un momento così fa piacere quando ci si sente almeno un po’ meno soli”. Quasi nessuna bandiera, a parte alcune della pace, della FpCgil e di Medici senza Frontiere. “Pensavo di trovare cinque o dieci persone al massimo - dice Roberta, una delle prime ad arrivare - invece siamo tanti, anche se ancora disorganizzati”. C’è la segretaria generale della Fiom Francesca Redavid, esponenti delle ong come Intersos, LasciateCIEntrare, consiglieri comunali e presidenti dei municipi come Amedeo Ciaccheri che ha lanciato la candidatura a premio Nobel per Riace insieme al sindaco Mimmo Lucano, ai valdesi e alla rivista Left. E poi scrittori, più o meno noti, anche quelli che non ti aspetti di vedere come Luigi Pennacchi. Ma c’è soprattutto tanto Pd romano, mobiliato da un tam tam sui social network. Incluso Gianni Cuperlo e il deputato livornese Andrea Romano. Poi attivisti e parlamentari di Leu tra cui Nicola Fratoianni che racconta al microfono la sua recente ispezione sulla Sea Watch 3 al fianco di Stefania Prestigiacomo e Riccardo Magi. E un nutrito gruppetto di giornalisti ex Unità tra cui Pasquale Cascella, a lungo portavoce di Giorgio Napolitano al Quirinale e poi sindaco di Barletta. Nel turn over dei manifestanti infreddoliti, quasi tutti di età non più giovane, alla fine spunta anche qualche striscione, come quello dell’asilo multietnico del Celio, e qualche cartello scritto in fretta, a pennarello. In uno si legge una raccolta di hashtag, da “fateli scendere” a “vogliamo una politica seria”: lo innalza Imma Battaglia, ex consigliera comunale di Sel, ora tornata al suo lavoro di dirigente informatico. E, quasi rinfrancati dalla partecipazione che non accenna a diminuire, parte anche uno slogan ritmato, liberatorio: “Aprite i porti, aprite i porti”. Migranti. Sea Watch, caso diplomatico. A bordo è emergenza sanitaria di Nello Scavo Avvenire, 29 gennaio 2019 Quando sul ponte della Sea Watch viene issata la bandiera gialla, per un momento si pensa sia arrivato l’ordine di sbarco. Ma niente, neanche il rischio sanitario e l’inchiesta contro l’Italia appena avviata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, sembrano fare breccia nelle decisioni politiche che ieri hanno incontrato svariate smentite dalla Procura di Siracusa. Da Strasburgo intanto arriva la conferma di un’indagine sulla gestione dei soccorsi dei migranti da parte dell’Italia, in passato già condannata per i respingimenti verso la Libia. Il comandante della Sea Watch aveva fatto partire una segnalazione ma la Corte prenderà in esame anche altri episodi recenti. Oggi a bordo della nave verranno installati dei bagni chimici dopo che il capitano ha avvertito del rischio igienico sanitario sventolando il drappo giallo. Le toilette di servizio sono intasate e con il vascello sotto costa è impossibile qualsiasi scarico in mare. Nelle condizioni attuali la nave non può entrare nel porto e neanche prendere in largo. È così che sono stati presi in ostaggio 47 migranti (14 minorenni) e i 22 operatori dell’Ong. La prefettura di Siracusa è stata inamovibile. Le linee guida del ministero dell’Interno sono perentorie: “Nessuno deve mettere piede a terra”. E per tutta la giornata era stato impedito ad alcuni deputati del Pd di raggiungere la nave. Dal canto suo, Matteo Salvini ha adombrato denunce e inchieste, ma i pm frenano. Per il procuratore Fabio Scavone, che prima di entrare in magistratura era stato ufficiale della Marina Militare, il comandante della SeaWatch “non ha commesso alcun reato”, perciò non è stata presa in considerazione “l’ipotesi di un eventuale sequestro della nave”. Al contrario il vicepremier Luigi Di Maio preannuncia “altra documentazione” per ottenere il blocco. Ma secondo il magistrato il capitano “ha salvato i migranti e scelto quella che appariva la rotta più sicura”. Gli uffici giudiziari hanno acquisito le informative della Capitaneria e le relazioni giunte dall’Ong mentre la Procura etnea, guidata da Carmelo Zuccaro, avevaa cercato di avocare l’inchiesta con l’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Si tratta di una valutazione della Procura di Catania che quindi non è di competenza mia - ha precisato Scavone. Allo stato io non ho ravvisato questa ipotesi”. Tra le accuse mosse dal ministro dell’Interno a Sea Watch vi è quella di avere orchestrato un’operazione politica rinunciando alla possibilità di sbarcare in Tunisia. “Al momento, che io sappia su questo non sta indagando nessuno. Perché - spiega Scavone - comunque era un suggerimento che era stato dato al comandante della nave. Non una prescrizione. C’erano condizioni meteorologiche avverse e il comandante per motivi di sicurezza ha deciso di approdare a Siracusa”. Fonti coincidenti della Procura e dell’organizzazione umanitaria confermano che vi era stata da parte del governo olandese, di cui Sea Watch batte la bandiera, la richiesta formale di approdo in Tunisia, senza mai ricevere risposta. Non è il solo giallo. Sea Watch avrebbe dovuto cooperare all’inchiesta della Procura di Agrigento sulla morte di 117 migranti il 18 gennaio ma, con una decisione politica, gli sarebbe stato impedito di collaborare. L’Ong sostiene che la nave “Sea Watch 3” si era avvicinata a Lampedusa anche perché “invitata da un procuratore della Repubblica” (il pm Vella, della procura di Agrigento) a dirigersi verso l’isola per consentire al capitano e al capomissione di testimoniare in merito al naufragio. “Nonostante tutta la volontà di collaborare con la giustizia - ha spiegato Giorgia Linardi, di Sea Watch - non hanno potuto incontrare il pm perché non è stato autorizzato l’approdo a Lampedusa”. Migranti. “Il fermo dei minorenni sulla nave è un caso senza precedenti” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 29 gennaio 2019 Sea Watch. Carla Trommino, garante dell’infanzia del comune di Siracusa, ha messo in moto la macchina: “Con la Diciotti fu sufficiente l’intervento del Tribunale per i minori, in questo caso non è bastato”. “Il fermo di minorenni su una nave è un caso senza precedenti, mai successo prima. È una situazione complessa, stiamo lavorando per trovare una soluzione: certamente i minori devono sbarcare”. Da anni impegnata proprio sul fronte dei minori stranieri non accompagnati che giungono nelle coste italiane, l’avvocato Carla Trommino è stata la prima persona a segnalare cosa stava accadendo sulla Sea Watch, la nave della ong tedesca costretta in rada a Siracusa con 47 migranti a bordo ormai all’estremo delle forze e con una condizione sanitaria al limite. Una situazione “penosa”, così l’ha descritta lo psichiatra salito a bordo con la delegazione dei parlamentari prima del divieto assoluto di navigazione nello specchio di mare attorno alla Sea Watch diramato dalla Capitaneria. Tant’è che ieri l’avvocato Trommino, garante per l’infanzia del comune di Siracusa, ha presentato al Tribunale dei minorenni di Catania un ricorso d’urgenza per lo sbarco e l’assegnazione a un centro specializzato dei 13 minorenni. La richiesta è stata depositata dall’avvocato Rosa Emanuela Lo Faro ed è motivata con “i maltrattamenti e le torture” che i minorenni hanno subito in Libia. Il legale ha chiesto anche l’intervento dell’autorità marittima per dichiarare l’emergenza medica per i minori. Nell’istanza si sottolinea che i minorenni sono “vulnerabili” e che “hanno subito torture”. Per questo si chiede di “ordinare l’intervento della sanità marittima per l’accertamento e la libera pratica sanitaria” da cui si “evincerà che non ci sono condizioni sanitarie che possano determinare la quarantena degli occupanti della nave”. Si chiede quindi di “ordinare al ministero dell’Interno, per il tramite dell’ufficio immigrazione della questura di Siracusa, l’accompagnamento e il collocamento immediato dei 13 minori stranieri non accompagnati in una struttura di accoglienza adeguata” e di “nominare loro un tutore”. Avvocato, cosa è successo dopo la sua segnalazione alla procura del Tribunale per i minorenni di Catania che ha fatto scoppiare il caso dei minori della Sea Watch? C’è stato un notevole passo in avanti, perché è arrivata la conferma che a bordo della nave ci sono dei minori e abbiamo appreso del loro status. È un dato importantissimo, senza questo elemento il Tribunale per i minori non avrebbe potuto agire come ha fatto scrivendo agli organismi istituzionali. Ciò ha permesso di sollecitare l’autorità sanitaria marittima per accertare le condizioni sulla nave, seguendo i protocolli. Cosa manca a questo punto? Il passo finale: fare sbarcare subito i minori. Il ministro Salvini sembra non cedere. La decisione spetta agli organi competenti o al Tribunale, vedremo. È ottimista? Penso che a breve la situazione verrà sbloccata. Lei parla della Sea Watch come di un “caso nuovo”. Sì, mai accaduta una cosa del genere. C’è in atto un confronto aperto tra avvocati, giudici e operatori per capire quali strumenti adottare proprio perché non ci sono precedenti di fermi di minorenni su una nave. C’è stato il caso Diciotti. Sì, ma fu sufficiente l’intervento del Tribunale per i minorenni per farli sbarcare dalla nave, in questo caso invece non è bastato. Siamo di fronte a un fermo di minori che a mio avviso viola le norme internazionali. È solo una questione politica? Ci tengo a rimanere fuori da questa discussione, una questione che a volte non capisco. Sui minori non ci possono essere divisioni politiche. Siete pronti ad accogliere i minori? La macchina è pronta da giorni. La provincia di Siracusa si è da sempre distinta proprio per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati perché Augusta è stato il primo porto di sbarco. Abbiamo attivato la pratica dei tutori, un sistema all’avanguardia diventato legge. È stata contattata dal ministero o dalla prefettura in questi giorni? Dopo la segnalazione che ho fatto, sulla presenza dei minori ho chiesto di fare le verifiche e ho assicurato che il nostro territorio è pronto ad accoglierli. L’amarezza degli italiani: “Lasciare l’Afghanistan è una disfatta” di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 29 gennaio 2019 “Gli Usa non hanno consultato gli alleati. Dalla caccia ad Al Qaeda all’addestramento delle forze locali, siamo qui da 17 anni”. “Tra alleati come minimo ci si consulta prima di prendere decisioni tanto importanti come quello del ritiro totale o comunque cospicuo dall’Afghanistan. E Trump non lo ha fatto!”. C’è amarezza e risentimento negli ambienti militari italiani. Lo si avverte subito parlando con i comandi a Kabul ed Herat, sino al ministero della Difesa a Roma. Anche se nessun militare può esprimerlo ufficialmente. Chi parla invece apertamente è il 65enne generale in pensione dell’Esercito Giorgio Battisti, un veterano delle missioni all’estero. Diresse il primo nucleo arrivato a Kabul già il 31 dicembre 2001 (poche settimane dopo la caduta del regime talebano) con il compito di garantire la riapertura dell’ambasciata e poi fu ripetutamente presente nel Paese con mansioni di comando ai vertici Nato-Isaf sino al 2015. “Trump ha commesso un grave errore. Il suo annuncio avrebbe dovuto essere concordato con tutti i contingenti. Rischiamo altrimenti di trasformare un ritiro, che era nella logica dei fatti inevitabile dopo oltre 17 anni di presenza in Afghanistan, in una sorta di rotta disordinata dove ogni Paese agisce da solo. Speriamo almeno che gli accordi con i talebani siano seri”, commenta Battisti. Il precedente che gli viene in mente è il ritiro sovietico, che alla fine degli anni Ottanta aprì la strada alle guerre fratricide tra milizie mujaheddin e quindi ad Al Qaeda. “Occorre assolutamente che adesso tra alleati ci si consulti. Ovvio che senza americani non si va da nessuna parte. Sono loro che garantiscono la logistica, la copertura aerea e le truppe speciali”, aggiunge. A questo punto per i militari italiani diventa fondamentale che questo lungo impegno in un teatro tanto complesso si concluda in modo sensato. “L’Italia è stato un membro fedele della coalizione che dal 2002 al 2015 come Nato-Isaf aveva anche compiti di combattimento attivo e poi negli ultimi tre anni si è incaricata di addestrare le forze di sicurezza locali. Su 3.540 soldati alleati che hanno perso la vita in azione, la maggioranza americani, 53 sono italiani. Oggi impieghiamo circa 800 uomini tra Herat e Kabul, erano 900 tre mesi fa e saranno ridotti presto a meno di 700. Dal 2001 il nostro impegno finanziario è stato di 6 miliardi e 594 milioni di Euro”, ricordano al ministero della Difesa. La storia della missione fa parte integrante dell’Afghanistan contemporaneo. Inizialmente arrivarono un migliaio di uomini a Kabul. Con loro gruppi di truppe speciali (missione Nibbio), in rotazione con Nassiriya in Iraq, si affiancarono alle teste di cuoio americane nel dare la caccia ai gruppi qaedisti scappati nelle zone montuose al confine col Pakistan. Dopo il 2005 l’impegno italiano si fece più cospicuo: quasi 5.000 soldati. Si decise allora di ampliare la missione Isaf per garantire la stabilità del Paese intero: si aprirono presidi in tutte le province. All’Italia toccò la regione occidentale di Herat a maggioranza Hazara (sciita, diversa dai pashtun sunniti concentrati nel sud-est), tradizionalmente ricca di commerci con l’Iran. Ma dal 2006-7 tornò a farsi sentire la presenza talebana. Anche gli italiani furono vittime di attentati. Tra i più gravi la Toyota kamikaze esplosa tra due corazzati Lince della brigata Folgore presso l’aeroporto di Kabul il 17 settembre 2009. Morirono sei soldati, quattro rimasero feriti. Nel libro d’oro al campo di Herat è ricordato con il massimo dell’onore il sacrificio del capitano 31enne dei Bersaglieri Giuseppe La Rosa, che l’8 giugno 2013 nella provincia di Farah si gettò sulla bomba a mano lanciata nel loro automezzo. Il suo corpo fece scudo ai compagni, che si salvarono. Oggi la missione è limitata all’addestramento delle forze di sicurezza afghane. Tra i corsi italiani più seguiti: sminamento, pronto soccorso, pianificazione delle operazioni, reclutamento del personale. Allo scorso agosto circa 2.800 ufficiali tra militari e poliziotti avevano seguito i corsi, istruendo a loro volta circa 9.500 uomini. Venezuela. Esecuzioni segrete e retate di notte, così Maduro punisce gli oppositori di Paolo Mastrolilli La Stampa, 29 gennaio 2019 La denuncia del Foro Penal: in 7 giorni la polizia ha ucciso 35 persone, 850 le detenzioni. Paura per il corteo di domani. La repressione da parte del regime di Maduro è già cominciata. Forse non è ancora evidente come durante le proteste del 2017, ma i numeri sono impressionanti: 35 omicidi e 850 arresti, inclusi 77 minorenni, nel breve periodo compreso tra il 21 gennaio e ieri. La denuncia è venuta dal Foro Penai e da altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani, durante una conferenza stampa tenuta a Caracas alla vigilia della grande manifestazione nazionale di domani, che potrebbe diventare il pretesto per compiere nuovi atti di violenza. Il Foro Penal è un gruppo di avvocati venezuelani, che offre assistenza legale ai detenuti e perseguitati politici. Il suo direttore, Alfredo Romero, ha cominciato così l’incontro con i giornalisti: “Dal 21 gennaio ad oggi, 850 persone sono state detenute, la maggior parte nelle zone popolari”. Questa forse è la ragione principale per cui la repressione non è ancora stata notata abbastanza dai media, perché gli arresti avvengono soprattutto di notte, nei barrios più poveri e pericolosi come Petare, Catia, 23 de Enero, dove la gente non si avventura troppo. Romero ha aggiunto che “ci sono al momento 976 detenuti politici in Venezuela. Di questi, 696 sono stati presi il 23 gennaio”, giorno in cui Guaidó ha giurato come presidente ad interim, durante una manifestazione a cui hanno partecipato migliaia di persone. Tra gli 850 arrestati dal 21 gennaio ad oggi, secondo il direttore di Foro Penal ci sono “77 adolescenti di età compresa fra i 13 e i 14 anni, fermati in maniera arbitraria, e 100 donne”. Rafael Uzckegui, direttore del Programa Venezolano de Educación-Acción en Derechos Humanos, ha rivelato che almeno 35 persone sono state assassinate dai funzionari della polizia durante le proteste anti- governative. “La cifra - ha spiegato Uzckegui - è corroborata, con nome, cognome, luogo e presunti responsabili degli omicidi”. Secondo Marco Ponce, coordinatore dell’Observatorio Venezolano de Conflictividad Social, la maggioranza dei morti sono caduti a Caracas e nei barrios della periferia, con 10 vittime, seguita dallo Stato di Bolívar con 8. Le violenze e le minacce non sono state limitate a chi ha perso la vita, ma anche ai loro famigliari. “Abbiamo diverse denunce - ha rivelato Uzckegui - dove si omette la partecipazione delle forze speciali Faes negli omicidi. I parenti si sentono obbligati ad accettare questa menzogna, perché altrimenti li minacciano di non restituire loro i cadaveri”. Riguardo agli arresti, il membro del direttivo di Foro Penal Gonzalo Himiob ha spiegato che le accuse più diffuse sono “associazione a delinquere, terrorismo e danno alla proprietà”. Questo è un altro elemento importante, perché consente alle autorità di sostenere che gli arresti sono stati fatti per attività criminali, e non politiche. Non a caso, però, “la maggioranza delle detenzioni sono avvenute dopo le manifestazioni, incluse persone che non erano coinvolte”. Solo la metà degli arrestati è comparsa finora davanti a un tribunale, e quindi per molti di loro non sono note né le imputazioni, né il luogo fisico dove si trovano. Le statistiche dei mesi scorsi riportavano che la maggior parte dei detenuti politici erano stati portati nel famigerato carcere di Ramo Verde, dove erano finiti anche l’ex sindaco di Caracas Antonio Lede zma e il fondatore del partito Voluntad Popular Leopoldo Lopez. Subito dopo, in termini numerici, venivano gli arresti domiciliari e le persone rinchiuse nel Centro Simon Bolivar. Alcuni però erano anche nella sede del temuto servizio di Intelligence Sebin. Melanio Escobar, direttore di Redes Ayuda, ha chiesto anche che cessino immediatamente tutte le azioni di intimidazione contro i mezzi di comunicazione, condotte dalla Comisión Nacional de Telecomunicaciones. La repressione del 2017 era stata molto più evidente: le manifestazioni erano durate a lungo, meno pacifiche di quelle avvenute finora. Nei bastioni dell’opposizione, come Chacao e piazza Altamira, c’erano le barriere di fuoco in strada e i ragazzi incappucciati che sfidavano i poliziotti. I colectivos, cioè i gruppi paramilitari armati dal regime, infiltravano le proteste e sparavano alla gente. Alla fine erano morte circa 200 persone, ma il governo aveva tenuto perché i militari avevano deciso di non scaricarlo. Poi Maduro aveva indetto le elezioni per l’Assemblea Costituente, con cui puntava a esautorare l’Assemblea Nazionale, dove gli oppositori avevano ottenuto democraticamente la maggioranza nel 2015. La dinamica potrebbe iniziare a cambiare con la manifestazione di domani. Proprio per questo Guaidó, che ieri ha esplicitamente ringraziato Macron e Skrhez, ha lanciato un appello ai militari: non sparate sul popolo venezuelano che protesta. Ha detto di aver avviato contatti coni loro leader per convincerli ad abbandonare il regime e appoggiare la transizione pacifica verso nuove elezioni. Venezuela. La rabbia degli italiani dimenticati a Caracas: “Così Roma non ci aiuta” di Marco Mensurati La Repubblica, 29 gennaio 2019 Mobilitazione per una connazionale arrestata: è un’attivista. La rabbia degli italiani a Caracas covava già da tempo. Almeno da quando l’autoproclamazione di Juan Guaidó, il 23 gennaio scorso, aveva catapultato la crisi venezuelana al primo posto dell’agenda internazionale, trovando la politica italiana titubante, paralizzata dall’ennesima contraddizione interna al suo governo. C’era solo bisogno di un innesco perché esplodesse. E l’innesco è arrivato quando un esponente dell’opposizione, Gabriel Gallo - un dirigente del partito Voluntad popular e della Ong Foro Penal Venezolano - ha reso pubblica la vicenda di sua mamma, la signora Laura Gallo. Anche lei, come il figlio, attivista politica, ma di passaporto italiano. Proprio il 23 gennaio, ha raccontato Gabriel, la signora Gallo è stata arrestata insieme ad altre 31 persone - tra cui 11 ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni - durante una retata governativa al termine di una manifestazione nello stato di Yaracuy, circa 300 chilometri dalla capitale. Un arresto “arbitrario” e “infondato” per usare le parole di Gabriel. Uno dei tanti di questi giorni. A fronte del quale, l’intervento dello Stato italiano - riassumibile in un tweet dell’ambasciata nel quale si invoca “il rispetto dei diritti procedurali” - è stato giudicato dalla comunità decisamente insufficiente. Anzi, di più: “Vergognoso”. Il giudizio a dire il vero, sembra essere ingeneroso. Al di là della prudenza formale del tweet, l’ambasciata di Caracas sta facendo di tutto, in queste ore, per provare a tirare fuori dal carcere la donna. E però la confusione in cui versa il Paese rende la situazione difficilmente gestibile. Così è successo che il giudice ha rinviato per tre volte l’udienza di convalida del fermo (associazione per delinquere, terrorismo e occupazione stradale, i reati contestati a tutti gli arrestati, minorenni compresi) prolungando uno stato di detenzione che sembra destinato a durare ancora. Più probabile che la “vicenda Gallo” abbia funzionato da catalizzatore per l’enorme dose di malcontento e delusione che la comunità italiana aveva già accumulato nei giorni precedenti a causa della scelta di Roma di non esporsi con chiarezza a favore di Guaidó. Come invece hanno fatto altri paesi europei. Spiega Alfredo D’Ambrosio presidente della Cámara de comercio Venezolano-Italiana: “In questi giorni noi italiani siamo vittime di una sorta di persecuzione, via twitter ma anche nella vita reale, da parte dei nostri concittadini venezuelani. Ci accusano di ambiguità. Ci dicono che per colpa del nostro Paese il processo di ricambio al potere in Venezuela è stato rallentato, che abbiamo indebolito la posizione europea”. D’Ambrosio è uno dei pochi italiani che accetta di parlare in chiaro, nome e cognome. I più chiedono l’anonimato. Temono ritorsioni. “Tu parli con la stampa, poi il giorno dopo arrivano a casa tua con una macchina nera, senza targa. E sparisci per qualche mese”, raccontano. La loro preoccupazione non è solo di natura politica. Ma anche, se non soprattutto, commerciale ed economica. Per quanto possibile, negli anni, la politica estera italiana a Caracas è sempre stata allineata alla attuale posizione europea, quella di un’opposizione composta e pacata al governo Maduro. Anzi, spiegano da ambienti diplomatici, “anche a costo di numerosi sacrifici” si può dire che a tratti fosse “persino d’avanguardia”. Ecco perché questo improvviso cambio di direzione è risultato inspiegabile. Oltre a suonare beffardo. Essendo giunto quando le condizioni internazionali sembravano finalmente favorevoli. Detta in altri termini, dopo anni trascorsi all’opposizione di Maduro - che prediligeva come partner economici Russia, Cina, Turchia e Cuba - gli italiani adesso temono di non poter passare all’incasso e di trovarsi superati nel gradimento del nuovo potere da Paesi, come la Spagna, la cui linea, oggi a favore di Guaidó, negli anni è stata più ambigua. Se la manovra dell’opposizione dovesse andare in porto, uno dei primi passi formali del nuovo governo potrebbe essere la rivisitazione dell’assetto contrattuale relativo allo sfruttamento delle enormi risorse minerarie. Tra le altre compagnie presenti in Venezuela c’è l’Eni che gestisce tre giacimenti (Perla, nel Golfo di Venezuela; Junin 5, nella Faja dell’Orinoco; e Corocoro, nel Golfo di Paria) e che, soprattutto, punta allo sfruttamento futuro di alcune riserve non sviluppate sempre di Perla, scoperte nel 2009 con la spagnola Repsol. Che adesso rischierebbe di trovarsi avvantaggiata. Lo stesso discorso vale a maggior ragione per le piccole imprese degli italiani presenti in Venezuela: 160mila, secondo l’anagrafe consolare, il 65% dei quali con il doppio passaporto. Sono quasi tutti imprenditori che in questi anni hanno sofferto moltissimo la crisi dell’intero sistema. E che adesso si sentono traditi dalle incertezze di Roma. “Non so se si possa parlare di un tradimento vero e proprio - dice ancora D’Ambrosio - fatto sta che l’eco dei discorsi italiani che arrivano fin qui ci preoccupano. E non poco. Sarebbe ora di dare una sterzata decisa”. A cominciare magari proprio dal caso Gallo, quello che sta incendiando il dibattito della comunità e sul quale si invoca un intervento diretto di Roma. “Sarebbe il minimo. Nessuno Stato può rimanere indifferente di fronte all’arresto e la detenzione illegittima di un suo cittadino”, spiegano gli attivisti di Voluntad Popular mostrando un video in cui uno dei ragazzi arrestati viene picchiato con un bastone dal carceriere. Scene del genere, stando alle denunce delle Ong, sono all’ordine del giorno nelle carceri venezuelane. “Ho fatto visita a mia madre, sta bene - rassicura Gabriel Gallo. Anche se è chiusa da giorni dentro una cella due metri per due. Come sta? Dice che se tutto questo è per la libertà, allora va bene così”. Migranti uccisi in Gambia, Hrw chiede giustizia. Arrestati e torturati nel 2005 di Marco Cochi Nigrizia, 29 gennaio 2019 L’ong Human Rights Watch torna chiedere giustizia su un orrendo massacro di migranti consumatosi quasi 14 anni fa in Gambia. È stato veramente un tragico destino quello toccato a più di cinquanta migranti clandestini, che durante la traversata intrapresa dal Senegal nel tentativo di raggiungere le coste della Spagna, la mattina del 22 luglio 2005 ebbero la sventura di approdare sulla terraferma della città di Barra, sulla sponda opposta del fiume Gambia, antistante la capitale Banjul. Gli sfortunati naufraghi furono fermati dalla Marina gambiana proprio mentre i servizi segreti locali avevano ricevuto un allarme per un possibile golpe ai danni dell’allora presidente ed ex-campione di wrestling Yahya Jammeh. L’ex uomo forte di Banjul era ossessionato dall’eventualità di un colpo di stato, forse perché nel 1984 era salito al potere proprio con un golpe, che gli ha permesso di governare per 22 anni il Gambia come un feudo personale. Oltre due decadi di regime, costellate da innumerevoli casi di gravi violazioni dei diritti umani, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali e detenzioni arbitrarie. In questo sistema di governo, i migranti furono consegnati ai junglers, gli squadroni paramilitari della morte agli ordini dell’ex presidente, che ne uccisero subito otto. I restanti furono divisi in due gruppi e condotti nei pressi dei villaggi di Brufut e Ghana Town (una sorta di colonia abitata da ghanesi espatriati in Gambia), dove furono giustiziati a coltellate, colpi d’ascia e di machete, per essere poi gettati in una fossa comune. Non prima, però, di aver subito per una settimana indicibili torture, nel tentativo di carpire loro i dettagli del presunto piano sovversivo. Lo scorso maggio Human Rights Watch (Hrw) e Trial international hanno diffuso un dettagliato report che accusa Jammeh di aver ordinato direttamente il massacro. Un’accusa basata sulla testimonianza di trenta ex ufficiali vicini all’ex presidente, undici dei quali direttamente coinvolti nelle barbare esecuzioni, che avvennero con l’assenso dei responsabili della polizia, dell’intelligence e della guardia nazionale. A raccontare per la prima volta la terribile vicenda a Hrw è stato Martin Kyere, ghanese, unico sopravvissuto all’eccidio. Prima detenuto nella stazione di polizia, portato poi nella foresta per essere giustiziato insieme ai suoi compagni di sventura, Kyere riuscì a scappare in maniera rocambolesca, saltando giù dal camion che trasportava i migranti detenuti prima dell’esecuzione. Naturalmente, Kyere chiede di far luce sulla tragica vicenda e la scorsa settimana cinque osservatori per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno esortato l’organismo sovranazionale e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) a pubblicare il suo rapporto sul massacro, redatto nel 2009. “Perché questo rapporto è ancora segreto? Chi stanno proteggendo le Nazioni Unite e l’Ecowas?”, ha chiesto Kyere. All’epoca dei fatti, si crearono forti tensioni tra Gambia e Ghana, paese di origine di 44 dei migranti massacrati, di cui a distanza di tanti anni non è stato ancora possibile determinare il numero con certezza. Sembra che oltre ai 44 ghanesi il gruppo includesse anche 10 nigeriani, 2 o 3 ivoriani, 2 senegalesi e 1 togolese. Dopo che il governo di Jammeh bloccò il tentativo del Ghana di investigare sull’accaduto, l’Onu e l’Ecowas formarono una squadra investigativa congiunta, che nell’aprile 2009 stilò un rapporto, che non è mai stato reso pubblico. Il bollettino del dipartimento degli Affari pubblici delle Nazioni Unite riportò che il rapporto inedito concludeva che il governo gambiano non era “direttamente o indirettamente complice” nella strage, addossandone tutta la responsabilità a “elementi canaglia” dei servizi di sicurezza gambiani. Forse è arrivato il momento di pubblicare questo documento che fino ad oggi è stato l’unico passo avanti fatto per accertare le responsabilità dell’orrendo crimine e rendere giustizia ai familiari delle vittime. Arabia Saudita. Ricordate la ragazza alla guida? È in carcere sotto tortura di Veronique Viriglio agi.it, 29 gennaio 2019 In un commento sul New York Times la sorella di Loujain al-Hatlhoul racconta la sorte di chi in Arabia Saudita si batte per i diritti civili delle donne. Una sorte di prigionia e torture atroci. “Per Khashoggi, che era un mio amico, non possiamo fare nulla per farlo tornare. Allora rivolgiamo la stessa attenzione a quanti sono ancora in vita, come Hathloul e le nove altre donne attiviste detenute”. Forse non tutti ricordano il suo nome, ma sicuramente la sua storia sì: nel 2014 il video che ritraeva Loujain al-Hatlhoul alla guida di una macchina in Arabia Saudita divenne virale, aprendo la strada ad altre battaglie per i diritti delle donne nella patria del giornalista e dissidente brutalmente assassinato, Jamal Khashoggi. Già, chi denuncia e lotta per i propri diritti non ha la vita facile a Riad. La sorte riservata a Loujain è tornata alla ribalta della cronaca nei giorni scorsi, con un articolo sul New York Times firmato Alia al-Hatlhoul, sorella della leader del movimento Women2Drive, detenuta da maggio 2018. “A Riad, tappa più difficile del suo lungo tour in Medio Oriente, c’è un argomento che Mike Pompeo non affronterà: le coraggiose donne attiviste dell’Arabia Saudita che sono rinchiuse in prigione per aver cercato diritti e dignità. L’apatia di Pompeo è un problema personale per me perché una delle detenute è mia sorella. Lei ha lavorato senza sosta perché le saudite avessero il diritto di guidare”, ha scritto Alia alla vigilia della missione del Segretario di Stato americano, la settimana scorsa. In prigione per aver guidato Nel 2014 Loujain, classe 1989, originaria di Gedda, in possesso di una patente degli Emirati arabi uniti, guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita e tentò di attraversarlo. Il video, caricato su You Tube, ebbe 800 mila visualizzazioni e tremila commenti, divisi tra sostenitori e critici. L’anno prima, con il marito accanto, l’attore saudita Fahd al-Butayri, si era filmata mentre tornava a casa a Riad, guidando. Un gesto per noi banale, ma sovversivo in quella parte di mondo: il primo dicembre 2014 Loujain venne arrestata per aver sfidato il divieto di guida nel regno. Il caso era finito dinanzi ad un tribunale militare in quanto rientrava sotto la nuova legge antiterrorismo, trattandosi di un fatto che danneggia la reputazione del Paese. La giovane attivista passò allora 73 giorni in prigione oltre ad essere condannata al divieto di espatrio per diversi mesi. Nel novembre 2015, dopo la concessione alle donne del diritto di voto da parte della monarchia saudita, Loujain si candidò alle elezioni locali, ma il suo nome non è apparso nelle liste, nonostante l’ammissione ufficiale delle sua candidatura. Lo stesso anno è stata inserita al terzo posto della classifica “Top 100 donne arabe più potenti”. Una battaglia vinta: far guidare le donne In realtà Loujain aveva rilanciato una battaglia cominciata dalle sue compatriote nel 1990, quando a decine si misero al volante per protesta, furono imprigionate per 24 ore, alcune di loro persero passaporto e lavoro. Nel 2008, dopo una petizione presentata al re Abdullah, una delle sue promotrici, l’attivista Wajeha al-Huwaider si era filmata al volante mentre guidava all’interno di un complesso residenziale. Le immagini diffuse su You Tube suscitarono l’attenzione internazionale. Poi nel 2011, un gruppo di donne lanciò la campagna Women2Drive, un vero e proprio appello all’azione. Su Facebook, l’iniziativa guadagnò consensi e oltre 10mila persone espressero sostegno, ad esempio all’attivista Manal al-Sharif che si fece filmare mentre guidava, venne arrestata e poi rilasciata. Con altre attiviste del movimento ‘Women2Drivè, in primis la al-Sharif, Loujain ha portato avanti la battaglia per il diritto di guida delle donne, con campagne di grande successo sui social. La loro lotta si è conclusa con l’emanazione - il 26 settembre 2017 - da parte del principe ereditario Mo?ammed bin Salman, di un decreto reale che stabiliva il rilascio delle prime patenti di guida femminili da giugno 2018. L’Arabia Saudita è al 141mo posto su 149 dell’ultimo Global Gender Gap Report del Forum economico mondiale. Le donne vengono considerate eterne minorenni, pertanto sottoposte al controllo di un “guardiano”, un uomo della sua famiglia, che supervisiona tutti gli aspetti principali della vita e ha potere sulle decisioni più importanti come lavorare, studiare, sposarsi, divorziare. Nuovamente arrestata e detenuta da maggio 2018 - Il 4 giugno 2017 Loujain è stata arrestata per la seconda volta, all’Aeroporto Internazionale di Dammam-Re Fahd, in Arabia saudita. La ragione per l’arresto non è stata chiara e non le è stato concesso di avere un avvocato o di contattare la sua famiglia. Quando Riyad annunciò la fine dell’anacronistico divieto di guida per le donne, Loujain ricevette una telefonata in cui le autorità le impedivano di commentare la notizia o parlarne sui social. Per sfuggire al divieto si è trasferita negli Emirati Arabi Uniti, studiando per conseguire un master in sociologia all’Università della Sorbona di Abu Dhabi. Un soggiorno interrotto lo scorso marzo quando la giovane donna è stata prelevata dai servizi di sicurezza - assieme al marito - e riportata a Riad, dove è stata incarcerata e poi rilasciata. Da maggio 2018, però, non è mai più uscita dal carcere. Secondo alcune fonti, il marito di Loujain, invece scarcerato, avrebbe divorziato dietro pressioni esercitate dalle autorità. “Speravo che Loujain sarebbe stata rilasciata il 24 giugno, il giorno in cui è stato rimosso il divieto di guida per le donne. Ma non è successo. Io sono stata zitta sperando che il mio silenzio la proteggesse”, ha raccontato la sorella in un recente articolo sul New York Times. Vittima di torture in carcere - Tre mesi dopo l’arresto, lo scorso agosto Loujain è stata trasferita in un carcere a Gedda, sua città natale, e finalmente i genitori sono riusciti a vederla. “Tremava costantemente, non riusciva a stare seduta o a tenere qualcosa in mano” ha scritto Alia, riferendo che durante l’ultima visita lo scorso dicembre l’attivista ha raccontato in lacrime ai genitori delle torture subite. “È stata picchiata, affogata con il waterboarding, sottoposta a scariche elettriche, minacciata di stupro e more. Il tutto alla presenza di un consigliere reale, Saud al-Qahtani” ha denunciato la sorella di Loujain. Il mese scorso è stata nuovamente spostata dalla prigione Dhahban di Gedda a quella di al-Hàir nella capitale. “Avrei preferito scrivere queste parole in arabo su un giornale saudita, ma dopo il suo arresto la stampa locale ha pubblicato il nome di mia sorella e la sua fotografia bollandola come una traditrice mentre si guardano bene dal fare i nomi degli uomini accusati dell’omicidio di Khashoggi” conclude così Alia sul New York Times. La denuncia di Amnesty contro Riad - A confermare le “disumane” condizioni carcerarie inflitte dalle autorità saudite alle militanti femministe detenute arbitrariamente è l’ultima inchiesta di Amnesty International, spingendo le istituzioni di alcuni Paesi occidentale a chiedere a Riyad “maggiore trasparenza” e di aprire i propri centri di detenzione a “ispezioni internazionali”. Il rapporto denuncia la situazione “drammatica” di una decina di esponenti di spicco del movimento femminista nel regno - tra cui Loujain - trasferite in prigione senza avere mai ricevuto la notifica formale di “alcun capo di imputazione”, senza aver avuto la possibilità di contattare un avvocato. L’imponente ondata di arresti condotta nel maggio 2018 è stata giustificata dalla Casa reale da “esigenze di sicurezza nazionale”. Sulla base delle testimonianze indipendenti raccolte, è emerso che le attiviste sono state sottoposte a “raccapriccianti interrogatori” per poi subire in carcere “vessazioni atroci: frustate, stupri di gruppo, waterboarding, elettroshock” inflitti dagli agenti penitenziari. Per l’ong le ultime informazioni raccolte, dopo quelle già emerse lo scorso novembre, “rendono urgentemente necessaria un’indagine indipendente”. “Siamo molto preoccupati per lo stato di salute di queste attiviste, che da nove mesi sono arbitrariamente detenute solo per aver difeso i diritti umani”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. Finora nessun commento dalle autorità del Paese islamico. Chi è in carcere e chi è riuscito a fuggire - Oltre a Loujain, il dossier di Amnesty fa riferimento a Aziza al-Youssef, entrambe considerate “pioniere” del femminismo saudita. Ma agli arresti da otto mesi ci sono anche Eman al-Nafjan, Shadan al-Anezi e Nour Abdulaziz - attualmente nel carcere di al-Hàir - Samar Badawi e Amal al-Harbi - in quello di Gedda - Nassima al-Sada in quello di Damman, Mayaa al-Zahrani, Abir Namankani, Ruqayyah al-Mharib e Hatoon al-Fassi. Tra gli attivisti prigione figurano Abdulaziz al-Mish’al, Mohammad al-Rabèa, Khalid al-Omeir e Mohammad al-Bajadi, membro fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici. A dicembre è stato rilasciato il noto avvocato Ibrahim al-Modeimigh, in condizioni poco chiare. Inoltre negli ultimi anni l’Arabia saudita ha ripreso le esecuzioni capitali, con circa 150 attuate nel 2018. Per la prima volta la pena di morte potrebbe essere inflitta ad una donna, l’attivista Israa al-Ghomgham, condannata per le sue battaglie non violenti per i diritti umani. In questa nuova generazione di donne che usano la tecnologia per raccontare le loro storie, considerate pericolose dall’Arabia saudita, c’è chi invece riesce a scappare. Come la 18enne Rahaf Mohammed Al-Qunun, che ha chiesto aiuto su Twitter, si è barricata per giorni in un hotel dell’aeroporto di Bangkok prima di essere accolta come rifugiata in Canada. “L’Arabia Saudita è come una prigione. Non posso prendere le mie decisioni. Le ragazze saudite sono schiave” ha raccontato Rafah dal suo esilio canadese. Secondo alcune stime diffuse da sociologi e ricercatori, ogni anno oltre mille donne fuggono dal regno arabo. Appello sul New York Times - “Trump ha ragione quando dice che l’Arabia saudita è un alleato importante. Motivo per cui è importante avere un leader decente, modernista piuttosto che uno in faida contro i vicini, che rapisce il primo ministro del Libano, invade lo Yemen, uccide un giornalista e tortura donne schiette” ha scritto il giornalista Nicholas Kristof sul New York Times, precisando di “non aver mai sentito alcun membro dell’amministrazione Trump fare il nome di Hathloul o chiederne la liberazione”. Nella sua analisi Kristof deplora che finora “Trump, Pompeo e Kushner si siano rifiutati di utilizzare la leva enorme sull’Arabia saudita - in quanto dipende da noi per la sua sicurezza - per migliorare i diritti umani nel Paese”. “Per Khashoggi, che era un mio amico, non possiamo fare nulla per farlo tornare. Allora rivolgiamo la stessa attenzione a quanti sono ancora in vita, come Hathloul e le nove altre donne attiviste per i diritti che sono detenute, di cui alcune hanno denunciato di aver subito torture”: è l’appello lanciato dalla nota firma del quotidiano statunitense.