Dal carcere al lavoro. “Mi riscatto per...”: dare chance ai detenuti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 28 gennaio 2019 Cinque città coinvolte (e altre sette in arrivo) dal Mingiustizia. Roma, Milano, Palermo, Napoli, Torino e a breve anche i Comuni di Firenze, Venezia, Potenza, Bari, Lecce, Catania e Catanzaro. Sono le città italiane toccate dal Progetto “Mi riscatto per...”: format ideato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha stretto un patto con le singole municipalità nel segno del lavoro penitenziario e della sua funzione rieducativa per i detenuti coinvolti in lavori di pubblica utilità. Nato nella capitale a fine marzo e poi siglato ufficialmente nell’agosto 2018, replicato a Milano, Palermo, Napoli a dicembre e in ultimo a Torino solo il 16 gennaio scorso, ha la sua fonte nell’articolo 20 del decreto legislativo 124 /2018 di riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di detenzione e lavoro penitenziario attuativo della riforma Orlando, la legge n. 103 del 23 giugno 2017 di riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. “Negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà”, si legge all’articolo 20, “devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine, possono essere organizzati e gestiti, all’interno e all’esterno dell’istituto, lavorazioni e servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati. Possono essere istituite anche lavorazioni organizzate e gestite direttamente da enti pubblici o privati e corsi di formazione professionale organizzati e svolti da enti pubblici o privati”. La revisione dello stesso articolo rispetto alla legge del 1975 prevede inoltre che organizzazione e metodi del lavoro penitenziario riflettano quelli del lavoro nella società libera al fi ne di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. Roma - Gli istituti romani coinvolti sono quelli di Rebibbia Nuovo Complesso, Rebibbia Reclusione e Rebibbia Femminile per un totale di circa 4mila nuovi interventi dall’avvio del progetto a marzo scorso. “Cominciamo da Roma per arrivare su tutto il territorio nazionale. È una sfida che siamo pronti a sostenere perché la pena deve essere certa ma anche dignitosa. E il lavoro è la chance che possiamo dare a queste persone per reinserirsi nella società”. Così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva salutato quest’estate la presentazione ufficiale del progetto avvenuta alla presenza del sindaco Virginia Raggi. Nel 2019 i lavori di pubblica utilità sul territorio romano coinvolgeranno 190 detenuti: cinquanta destinati alle aree verdi e già formati dal Servizio giardini del Comune di Roma, con rilascio di attestato e abilitazione; trenta già formati da Autostrade per l’Italia, con attestato professionale per operare in qualità di asfaltatori e manutentori di strade; cinquanta da formare entro metà febbraio da Ama Roma, con attestato di operatore ecologico e così altri 50 detenuti di Rebibbia Reclusione; dieci detenute del femminile infine saranno formate dal Servizio Giardini, con successivo rilascio di attestato e abilitazione. Milano - Nel capoluogo lombardo, il partner si chiama Lend Lease, multinazionale australiana quotata in borsa che ha analizzato il modello romano facendolo suo e divenendo partner strategico del Dap. Coinvolti anche la Regione Lombardia, il Comune di Milano, la Città Metropolitana di Milano, Fondazione Fits - per l’innovazione del terzo settore, l’Associazione nazionale costruttori edili e la società di consulenza Plus Value. Ci saranno trecento detenuti impegnati in tre anni nella rigenerazione urbana dell’area ex-Expo, con formazione professionale e il coinvolgimento di Ance per clausola sociale utile per l’assunzione delle persone detenute. Palermo, Napoli e Torino - Il progetto coinvolgerà quest’anno non meno di cento detenuti per città. Nel capoluogo siciliano, è stato selezionato un primo contingente di cinquanta detenuti che arriveranno a cento entro fi ne anno. Mentre a Napoli, dove il protocollo d’intesa è stato sottoscritto nel dicembre scorso, è stato inserito nel progetto il carcere di Secondigliano con i primi venticinque detenuti, un secondo gruppo di altri venticinque sarà selezionato per fine febbraio fi no ad arrivare a cento entro fi ne anno. Torino è invece partita il 16 gennaio scorso con una prima fase sperimentale che sta coinvolgendo i primi 50 detenuti selezionati e formati per svolgere i primi lavori di pubblica utilità riguardanti la manutenzione delle aree verdi della città. Con il progetto a regime, fra circa sei mesi, si arriverà anche qui a un centinaio. Politica, giustizia e ipocrisie di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 28 gennaio 2019 Le democrazie liberali seguono (finché non cessano di essere tali) una strada intermedia che consenta loro di evitare sia il panpoliticismo delle democrazie illiberali che il pangiuridicismo delle democrazie giudiziarie. La richiesta di autorizzazione a procedere contro il ministro dell’Interno in relazione alla vicenda della nave Diciotti ma anche il braccio di ferro in corso fra la Procura di Catania e Salvini sul caso della Sea Watch, ci ributta addosso uno dei nostri problemi irrisolti. Esso riguarda i margini di libertà che spettano alla decisione politica in uno Stato che, come il nostro, si atteggia, non sempre in modo credibile, a “Stato di diritto”. I regimi ibridi, che mischiano democrazia e autoritarismo, possono assumere differenti fisionomie. Due tipi possibili (fra i tanti) sono la “democrazia illiberale” e la “democrazia giudiziaria”. Nella prima vige il panpoliticismo: il governo controlla, almeno in linea di principio, tutto e tutti. Anche i giudici dipendono dal governo. Qui la politica non deve sottostare a vincoli giuridici. Come sappiamo da esempi contemporanei il governo non rischia nulla nemmeno se fa ammazzare, in patria o all’estero, i propri oppositori. La “democrazia giudiziaria” è diversa, è un’altra varietà di regime ibrido (democrazia più autoritarismo). Per molti versi, è l’opposto della democrazia illiberale. Qui il governo è solo formalmente al posto di comando. Nei fatti, la discrezionalità politica di cui esso gode è quasi nulla. Non c’è decisione politica possibile se essa non ottiene il placet, quanto meno tacito, delle magistrature. Se il panpoliticismo impazza nella democrazia illiberale è il pangiuridicismo a celebrare i propri trionfi nella democrazia giudiziaria. Concretamente, se nella democrazia illiberale è un delitto di lesa maestà contrapporsi al governo, nella democrazia giudiziaria lo è contestare le decisioni dei magistrati. Dal punto di vista che qui ci interessa la differenza riguarda l’ampiezza della discrezionalità che i due regimi lasciano alla decisione politica (dilatatissima, priva di limiti giuridici, nella democrazia illiberale; nulla o quasi nulla nella democrazia giudiziaria). Nella democrazia illiberale il governo può impunemente commettere qualunque crimine. In una democrazia giudiziaria, per contro, gli ideologi del pangiuridicismo, negando l’autonomia della politica, non hanno da eccepire se un procuratore incrimina per strage o per tentata strage il capo del governo del proprio Paese il quale abbia ordinato azioni militari contro uno Stato nemico. Da quanto detto sopra è facile dedurre che in medio stat virtus: le democrazie liberali seguono (finché non cessano di essere tali) una strada intermedia che consenta loro di evitare sia il panpoliticismo delle democrazie illiberali che il pangiuridicismo delle democrazie giudiziarie. In concreto, una democrazia liberale resta tale fin quando funzionano i limiti che si sono auto-imposti tanto le classi politiche che le magistrature. Le prime non attentano all’indipendenza delle magistrature (dei giudici), le seconde rispettano la discrezionalità dell’azione politica, riconoscono l’esistenza di “domini riservati”, di ambiti di decisione ove solo le scelte del potere rappresentativo devono avere l’ultima parola. Racconteremmo una favoletta moralistica se dicessimo che questa auto-autolimitazione sia solo il portato delle “virtù” civili di cui (qualche volta) sono dotati politici e magistrati. Ma no: se quei limiti ci sono e funzionano (quando funzionano) è solo perché le tradizioni costringono tutti ad accettarli. Quei limiti funzionano se la “guardiana dei luoghi comuni” (alimentati dalle tradizioni del Paese), ossia l’opinione pubblica, impone ai due gruppi suddetti di rispettarli. Democrazia illiberale e democrazia giudiziaria sono casi estremi. Le varie democrazie esistenti possono di volta in volta avvicinarsi all’uno o all’altro. È almeno dai tempi di Mani Pulite che l’Italia bordeggia intorno alle coste della democrazia giudiziaria. Non è riuscita ancora ad attraccare ma ci prova di continuo. Spingono in quella direzione tante cose. Spinge il richiamo dell’antico detto “Piove governo ladro”. Ora la chiamano “anti-politica” ma è sempre l’idea che i politici siano tutti, per definizione, ladri e corrotti, gente da mandare in galera a prescindere. Gioca, per conseguenza, la potenza politico-organizzativa accumulata da una corporazione, quella dei magistrati, che è l’unico “potere forte” ancora esistente nel Paese. Domina su tutto una tradizione nazionale più forcaiola che liberale, per la quale vige la presunzione di colpevolezza, i procuratori vengono confusi con i giudici (e, per conseguenza, gli avvisi di garanzia sono equiparati alle sentenze) e c’è sempre qualcuno pronto a protestare indignato se viene assolto qualche imputato eccellente mentre non se ne trova uno a pagarlo che protesti di fronte a una condanna. C’è qualcosa di paradossale nelle azioni giudiziarie in corso contro il ministro dell’Interno e la sua politica in materia di immigrazione. Da un lato, si tratta di una tipica intrusione (da democrazia giudiziaria, appunto) tesa a negare la discrezionalità della politica in un ambito in cui quella discrezionalità non dovrebbe essere in discussione: nulla, infatti, è più politico, nulla è più di pertinenza della politica, nella sua autonomia, del diritto di chi governa in forza di un mandato popolare a decidere sui confini, su dove stabilirli, e su chi fare entrare e chi no nel territorio di propria competenza. In questa vicenda è la questione dei confini e di chi li controlla ad essere in discussione. Dall’altro lato, però, è bizzarro che ad essere colpito sia il ministro dell’Interno, espressione di un movimento politico che, al pari dei suoi amici e sodali dei 5 Stelle, non ha mai brillato in passato per avere difeso autonomia e discrezionalità della politica quando sotto attacco giudiziario erano altri. È un aspetto poco commendevole della nostra tradizione. Si difende la discrezionalità della politica o ci si dimentica di farlo a seconda delle convenienze. Più in generale, vige il principio: le garanzie liberali per noi, la galera o, almeno, il linciaggio morale, per tutti loro. Decreto Sicurezza: sono 8 le Regioni “ribelli” che ricorrono alla Consulta di Loredana Di Cesare Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2019 Sono otto le regioni “ribelli” che stanno impugnando il decreto Sicurezza davanti alla Corte Costituzionale, per la parte che riguarda l’immigrazione. Il tempo per presentare ricorso sta per finire: la scadenza è prevista per venerdì primo febbraio. Le ragioni della Toscana, Umbria, Basilicata ed Emilia Romagna, capofila nella battaglia, hanno convinto anche Calabria, Piemonte, Sardegna e Marche. La giunta marchigiana è l’ultima arrivata: ha approvato la delibera per il ricorso alla Consulta appena una settimana fa, il 22 gennaio. La Sardegna si aggiungerà dopodomani. Prima che arrivi la decisione dei giudici costituzionali, però, bisognerà attendere almeno un anno. Le delibere regionali presentano molti passaggi comuni. Di seguito, ecco i principali. Protezione umanitaria Prima del decreto, veniva concessa - per vittime di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza, di mancato rispetto dei diritti umani - a chi non poteva accedere allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria. Per i governatori, l’abrogazione della protezione umanitaria (articolo 1 della legge Salvini) non soltanto aumenta gli irregolari sul territorio, ma rende anche più difficile assistere le persone che hanno diritto alle cure sanitarie, all’assistenza sociale, alla formazione lavorativa e all’istruzione. Residenza anagrafica Un altro dei punti fondanti dei ricorsi è l’eliminazione della residenza anagrafica per i richiedenti asilo (articolo 13). L’art 13 stabilisce che il permesso di soggiorno attribuito ai richiedenti protezione internazionale non costituisce documento idoneo per l’iscrizione anagrafica. Competenza regionale - “Gli articoli l e 13 - si legge nella delibera della Basilicata - rappresentano norme lesive dell’autonomia regionale e degli enti locali, impattando in maniera significativa su competenze concorrenti e residuali garantite dalla Costituzione”. Questo è il punto di partenza: il governo ha legiferato incidendo su materie che, in base all’articolo 117 della Costituzione, competono alle Regioni. Stranieri discriminati - “In materia di assistenza sociale, sanitaria, istruzione, formazione e politiche attive del lavoro - continua la delibera lucana - sono lesi i diritti essenziali della persona, con disparità di trattamento tra i cittadini degli stati membri e stranieri regolarmente soggiornanti e in violazione delle convezioni internazionali”. Motivazioni pressoché identiche si leggono nella delibera Toscana. Per la giunta dell’Umbria, la cancellazione della residenza anagrafica è “lesiva di altre disposizioni costituzionali in quanto irragionevolmente sono introdotti due presupposti diversi per situazioni che debbono essere (ed erano) disciplinate unitariamente: da un lato, per i cittadini italiani e gli altri titolari di permesso di soggiorno, le prestazioni assistenziali e sociali vertono sul presupposto della residenza anagrafica; dall’altro lato, i richiedenti asilo, anche se immigrati regolari, dovranno attestare il domicilio”. Emilia Romagna e Calabria puntano il dito anche sull’articolo 12 del decreto che riguarda il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che è affidato agli enti locali. I richiedenti asilo adesso potranno essere ospitati soltanto nei Cara. Per entrambe le regioni siamo dinanzi a una “soppressione” dell’accoglienza presso gli enti locali. Per l’Emilia Romagna il decreto “sopprime testualmente l’accoglienza dei richiedenti asilo (...) nonché la tutela dei rifugiati e degli altri stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria presso i servizi di accoglienza dagli enti locali, di fatto riservando tale forma di accoglienza ai soggetti titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati”. Il ministro pm che minaccia lo Stato di diritto di Stefano Cappellini La Repubblica, 28 gennaio 2019 Matteo Salvini ha un problema con i confini. Quelli della nazione, dei quali si è eretto garante supremo. E quelli tra i poteri dello Stato, che oltrepassa in un senso e nell’altro con la stessa naturalezza con la quale è solito postare le immagini delle sue merende. Al ministro dell’Interno non basta estendere all’occorrenza le sue prerogative agli Esteri, alla Difesa e alla Giustizia. Vuole anche sostituirsi ai pm per decidere o no se c’è notizia di reato. Funziona così: se Salvini è oggetto di una indagine giudiziaria, contesta la facoltà della magistratura di valutare se la sua azione abbia violato il codice penale. La sua è politica, dice, è programma elettorale, dunque zona franca. Ecco perché invita a candidarsi i pm che chiedono di processarlo per il caso della nave Diciotti. Non è un tic solo suo. Gli esponenti del M5S sono arrivati a estendere l’invito a scendere in campo anche a Bankitalia e Ocse. Ma qui parliamo di giustizia ed è tutto più preoccupante. Nella costituzione materiale salviniana il rispetto delle leggi si valuta sulla base del consenso. Ma se l’azione politica è quella altrui, come nel caso dei parlamentari che hanno scelto di salire a bordo della nave Sea Watch per visitare i migranti ostaggio del governo italiano, allora no, non c’è più immunità. Al contrario, in questo caso è lo stesso ministro dell’Interno che, incurante della contraddizione con il suo status di indagato e con una sgrammaticatura inquietante in uno Stato di diritto, contesta a quei parlamentari l’esistenza di un reato (e quale poi? Reato di solidarietà? Forse tradimento della Patria). In questa visione totalizzante del suo ruolo, Salvini è potere politico, giudiziario e legislativo. E naturalmente anche braccio della legge, capace di intervenire senza alcun senso del ruolo e della misura, come quando davanti a un fermo di polizia concluso con la morte di un cittadino tunisino ha sentito il dovere di intervenire con una dichiarazione per chiudere a modo suo le indagini: “Cosa dovevano offrirgli i poliziotti, cappuccino e cornetto?”. Se ne ricordi il magistrato che dovrà far luce su questa vicenda accaduta di recente a Prato perché, nel caso la sua ricostruzione dovesse divergere dalla fulminea inchiesta salviniana, sarà presto invitato a candidarsi a sua volta. La sicurezza fai da te, così 140mila vedette spiano i vicini di casa di Michele Sasso La Stampa, 28 gennaio 2019 Dal Veneto alle Marche boom di iniziative. Ma le segnalazioni creano spesso solo allarmismi inutili. Nati dal basso, segnalano le anomalie per prevenire i furti con capizona, chat di WhatsApp e foto. Sono un esercito di occhi attenti e orecchie in ascolto. Un collante sociale e allo stesso tempo “impiccioni 2.0” che armati di smartphone e chat condivise segnalano anomalie e tutto quello che non sembra funzionare nel quartiere. Nato negli Usa negli Anni 60 e arrivato anche in Italia da qualche anno, il “controllo del vicinato” è una galassia che conta oggi migliaia di adesioni: oltre 140 mila persone stimate (con l’appoggio di 400 comuni) che si organizzano dal basso per prevenire i furti e rendere le città più belle e vivibili. Ed ogni anno si aggiungono 400 nuovi gruppi agli attuali duemila presenti dalla Brianza alle Marche. Spuntati qua e là, nel segno del contrasto alla microcriminalità e alla insicurezza, un po’ ronde un po’ solidarismo, rappresentano una realtà capillare e in costante crescita soprattutto al Nord: quasi 10 mila famiglie nel Veneto e circa 20 mila i volontari attivi, in Lombardia i mille gruppi hanno aggregato 31 mila nuclei famigliari. Cresce anche in Emilia Romagna e in Toscana e piace anche ai sindaci di sinistra: a Lucca hanno lanciato un’app con la possibilità di connettersi in tempo reale con la polizia municipale, mentre in Parlamento è stata presentata dalla Lega una proposta di legge per promuovere e sostenere le nuove vedette urbane. L’occhio del vicino “Il miglior antifurto è il tuo vicino”. Questo è il motto della sentinella: informazioni in tempo reale dove le anomalie vengono comunicate attraverso la gettonatissima chat di WhatsApp. Tra di loro, i residenti, comunicano vicendevolmente le proprie assenze prolungate da casa. Così facendo, le abitazioni vuote sono sempre sotto controllo. C’è poi un livello superiore nel quale il coordinatore di ogni singola zona (di solito poche vie) ha il compito di “scremare” le centinaia di segnalazioni quotidiane e avvertire le forze dell’ordine solo per quelle importanti. Questo il tono delle comunicazioni: “Girano due uomini con cartelline dicendosi della società del gas. Non mostrano tesserini ed alla richiesta di cosa vogliono parlare, rispondono che parleranno solo con gli intestatari del contratto. Chiamate immediatamente il 112”. Anche gli allarmismi abbondano: “Furti nei parcheggi del cimitero ed anche all’interno. Ricordatevi che i ladri sono spesso appostati lontano e vi osservano quando arrivate al cimitero a volte anche con dei binocoli”. Fino alla giustizia privata delle borgate di Roma, legittimata da chi si sente abbandonato dallo Stato: “Nuovamente sventato un furto in un appartamento dell’Infernetto: notate due persone sconosciute (di cui una di colore) scavalcare il recinto ed entrare nel giardino dell’abitazione di un vicino”. Ma anche panchine rotte, presenza di spacciatori, auto sospette o semplicemente anziani soli in casa. Chi vuol stare nel gruppo di controllo deve compilare un apposito modulo di adesione da inviare alla prefettura per evitare di imbarcare fanatici o peggio creare delle bande auto-organizzate. Una rete informale di sorveglianza che si alimenta con il passaparola e, oltre al lodevole effetto deterrenza, ha creato qualche problema. A Marghera è rimbalzata nelle chat la presenza di due uomini “malvisti” che camminavano per strada nel pomeriggio. Senza pensarci hanno scattato alcune foto e le hanno condivise tra i diversi gruppi. Peccato che la “presenza ambigua” fosse un maresciallo della Guardia di Finanza semplicemente a spasso con un amico che si è trovato immortalato su telefoni e bacheche Facebook. Oppure in Emilia Romagna dove un furgone che distribuiva pubblicità porta a porta è stato scambiato per il mezzo di appoggio di un gruppo di ladri. “A nessuno viene chiesto di lanciarsi in atti eroici né tanto meno di svolgere indagini o invadere la privacy altrui”, spiega Ferdinando Raffero, presidente dell’Associazione controllo del vicinato, che aggiunge: “È uno strumento di prevenzione nato per creare coesione sociale e una libera forma di prevenzione con regole e consulenza legale per spiegare quello che possiamo fare e no”. Le amministrazioni comunali appoggiano l’iniziativa perché avvicinano cittadini e istituzioni e sono un valido deterrente anche se qualche cortocircuito potrebbero crearlo, come ha spiegato la sindaca di Roma Virginia Raggi all’indomani del terribile ritrovamento di Desirée Mariottini, uccisa lo scorso ottobre nel quartiere San Lorenzo: “Non servono ronde, ma un’attività corale che vede come perno i cittadini che forniscono indicazioni a supporto delle forze dell’ordine” Il rischio, in una metropoli problematica come la Capitale, è la degenerazione in giustizia fai-da-te con l’uso della forza senza regole per risolvere questioni di ordine pubblico e sociale. Le controindicazioni di un eccesso di protagonismo le ha spiegate il capo della Polizia Franco Gabrielli: “Le persone di queste reti andranno adeguatamente preparate per evitare di creare un effetto al lupo, al lupo”. L’epicentro in Veneto - Con molto entusiasmo e qualche divisione, il Veneto è l’epicentro del controllo del vicinato. La sicurezza è un mantra per tutti i suoi abitanti e la Lega, che guida la giunta con il governatore Luca Zaia, ha annunciato al parlamentino regionale il varo, a breve, di una legge cucita su misura e 400 mila euro di finanziamento per le “dotazioni ed attrezzature riconosciute funzionali all’espletamento dei compiti” e le iniziative “informative e di formazione anche articolate in percorsi didattici di aula e percorsi teorico-pratici”. Per capire la sua diffusione nel ricco e spaventato Nord- Est, occorre fare un salto al 2014, quando nel paesone di Spinea (alle porte di Mestre) si sono trovati tre volontari per far nascere il primo gruppo, come spiega Antonella Chiavalin, pensionata e numero uno regionale dell’associazione controllo del vicinato: “Per noi è una filosofia di vita: in pochi anni siamo riusciti a far rinascere la coesione sociale, il dialogo e l’aiuto reciproco tra i nostri aderenti”. La diffusione nel confinante Comune di Venezia è stata immediata e spontanea. Grazie al passaparola sono spuntati i primi gruppi vicino alla stazione, zona di spaccio, degrado e microcriminalità. E, via dopo via, ora ci sono 140 aree sottoposte a vigilanza tra Laguna ed entroterra. Una crescita così tumultuosa che ha spinto anche le istituzioni locali a muoversi: sono 21 i Municipi della Città metropolitana che hanno sottoscritto il progetto, con Venezia capofila con 3500 famiglie aderenti. Questo battaglione informale che rischia di scambiare il verosimile per il vero ha generato nel 2018 oltre 19mila segnalazioni tra chiavi perse, vetri rotti, parchi sporchi, prostituzione in strada e qualche pericolo sovrastimato. Tante, troppe per poterle gestire in modo costruttivo. “Ad agosto abbiamo catturato un ladro di moto. Il proprietario era un nostro aderente e in tempo reale ha avvisato del furto in garage e grazie ai nostri volontari sul territorio abbiamo seguito e avvisato dei suoi spostamenti in tempo reale fino all’arresto da parte della Polizia”, racconta orgoglioso Luca Di Rocco, avvocato e formatore dei gruppi. Di Rocco riconosce anche i limiti: “Io insegno come osservare la targa di auto sospette, gli indumenti di chi si aggira per le strade e le precauzioni da tenere. Tutto per riferire al meglio alle forze dell’ordine, evitando il procurato allarme e la diffamazione”. Il variegato arcipelago di sentinelle che aggrega 18enni e pensionati over 70 proprio in Laguna si è spaccato ed è nato un clone con un simbolo simile e un evidente cortocircuito: da una parte la onlus ufficiale che si chiama associazione “del” controllo del vicinato e dall’altra quella nata nel 2018 che invece si chiama associazione nazionale controllo “di” vicinato. Una questione di preposizioni che ha generato più di una incomprensione e soprattutto una guerra a colpi di numeri e nuovi adepti. Il nuovo controllo “di” vicinato ha però ricevuto l’imprimatur del sindaco di Venezia Brugnaro e ha incaricato il consigliere comunale (e sovrintendente di polizia) Enrico Gavagnin. “È un fenomeno interessante - spiega Gavagnin - ma il loro animo è “protestatario” con un messaggio implicito: “Voglio più sicurezza e se lo Stato non me la dà mi organizzo da solo”. Non sanno nulla di pubblica sicurezza e il rischio è passare dall’osservazione statica alla ronda: vedono pericoli che non ci sono e si buttano in strada”. Per prevenire le degenerazioni come indagini private, schedatura delle persone e violazioni palesi della privacy sia gli “scissionisti” che i gruppi “ufficiali” puntano sulla formazione. Ma i sospetti reciproci rimangono, come sottolinea Giorgio Naia, referente di Mestre per il controllo del vicinato: “Questi numeri fanno gola e qualcuno cerca un bacino elettorale: per questo il Comune di Venezia ci ha messo il “cappello” e il sindaco Brugnaro si fa bello grazie al nostro volontariato. Ma noi siamo nati come apartitici e non vogliamo portare voti a nessuno”. Parola di sentinella. La sicurezza da statistiche e quella percepita di Paolo Graldi Il Messaggero, 28 gennaio 2019 Sono giorni di bilanci, riflessioni, critiche e propositi nel Pianeta Giustizia. Alle inaugurazioni dell’Anno Giudiziario i vertici della magistratura disegnano gli andamenti del settore. Ci dicono, tra l’altro, che gli omicidi nella Capitale sono in netto calo, ma in fortissimo aumento i reati a sfondo sessuale e rapine. Siamo una delle grandi città più sicure al mondo: tuttavia la percezione diffusa tra la gente è come un mantello che porta addosso il fardello della paura nel vivere quotidiano. C’è ancora molto da fare per diffondere tranquillità. Le bande specializzate in razzie negli appartamenti, gli assalti a mano armata contro farmacie, negozi e persone e la carenza strutturale, endemica e colpevole di una rete di controlli elettronici, quest’insieme di fattori negativi diffonde nei cittadini un senso di rischio latente e permanente. Il tessuto sociale, ci ammoniscono le alte toghe, s’inaridisce nel cinismo diffuso, e alla fine sfocia nell’indifferenza. È la difesa immunitaria di contrasto ad una illegalità che trova nella corruzione, anche all’interno dei palazzi di giustizia, il suo più diffuso nutrimento. Un male endemico. Dunque, quel calo di morti ammazzati, è poco consolante se è il timore di un assalto, sia personale sia al nostro patrimonio, ciò che avvolge l’esistenza del cittadino. Il cinismo non è l’antidoto giusto alla paura, ma la paura ha bisogno di armi potenti e diffuse per essere vinta. Decreto anticorruzione: dal prossimo 31 gennaio norme sul banco di prova di Giorgio Spangher Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2019 Dando attuazione alle indicazioni provenienti dagli organismi internazionali in materia di corruzione (Greco, Ocse, Osce, convenzioni Onu - cosiddetta “Convenzione di Merida”) il Governo aveva presentato un disegno di legge concernente “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione”. L’approvazione definitiva del progetto con la legge 9 gennaio 2019 n. 3 segna un passo importante nel contrasto al fenomeno. Il provvedimento è vigente dal 31 gennaio 2019. Ma per quanto riguarda l’entrata in vigore della riforma della prescrizione è fissata al 1° gennaio 2020. La “delicata” posizione dell’Italia nelle classifiche internazionali - Invero, come emergeva dalle statistiche europee e internazionali l’Italia manteneva una posizione del tutto insufficiente nelle valutazioni sulla percezione della corruzione e, parimenti, si faceva notare come fosse inadeguata la normativa finalizzata al contrasto del fenomeno. Del resto, il nostro Paese si mostrava largamente inadempiente rispetto agli obblighi sottoscritti a livello internazionale e spesso pure ratificati. In tal senso andava considerata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu il 31 ottobre 2003, firmata dallo Stato Italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con legge n. 116 del 2009. L’approvazione della legge 3/2019 e la logica del contrasto al fenomeno - La consapevolezza - come affermato nell’iniziale Relazione illustrativa allo schema del citato disegno di legge - che “la corruzione e gli altri reati contro la pubblica amministrazione siano delitti seriali e pervasivi” e che costituiscono un fenomeno endemico che alimenta mercati illegali, distorce la concorrenza, ha indotto il legislatore a predisporre un intervento a vasto raggio con modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, al codice civile, alla disciplina penitenziaria, alla normativa in tema di responsabilità degli enti. Si tratta del consolidato arsenale normativo attraverso il quale si intraprende quell’azione di “lotta” e di “contrasto” con cui l’ordinamento risponde ai “fenomeni” criminali. Indubitabilmente in tal modo la giustizia penale diventa uno strumento di politica sociale chiamata a rimuovere le diverse situazioni di disagio che attraversano le società. E inevitabilmente si procede a un innalzamento delle pene e alla ridefinizione di alcune fattispecie. Le modifiche al cp. Divieto a contrarre con la Pa Con preciso riferimento alle modifiche introdotte al codice penale (articolo 1, comma 1, lettere a)-v) va innanzitutto evidenziato come il legislatore abbia individuato una serie di reati che costituiscono il riferimento in tutto o, in larga parte, di molte previsioni novellate: il riferimento è in particolare agli articoli 314, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis del codice penale. Innalzamento delle pene - Dunque si procede a un innalzamento delle pene (articolo 316-ter, primo comma, secondo periodo, del Cp; articolo 318, primo comma, del Cp; articolo 646, primo comma, del Cp) e alla ridefinizione di alcune fattispecie (abrogazione dell’articolo 346 del Cp e riformulazione contestuale dell’articolo 346-bis del Cp; riscrittura della fattispecie di cui all’articolo 322-bis del Cp e interpolazione dell’articolo 642-bis del codice penale). Si consolida - sempre per i citati delitti riconducibili ad attività corruttive - l’obbligo della riparazione pecuniaria, secondo i contenuti fissati dall’articolo 322-quater del Cp, e quello della confiscabilità dei beni, sempre in relazione ai citati delitti riconducibili ad attività corruttive, ai sensi dell’articolo 322-ter del Cp (in relazione ai quali il nuovo articolo 322-ter1 del Cp - articolo 1, comma 1, lettera p) - prevede il possibile affidamento in custodia giudiziale alla Pg); si modifica altresì l’articolo 578-bis, comma 1, del Cpp (articolo 1, comma 1, lettera f), relativamente all’applicabilità della confisca ex articolo 322-ter del Cp nel giudizio di appello, conclusosi con l’estinzione del reato a fronte di precedente condanna: a seguito della contestuale modifica della prescrizione potrebbe trattarsi di una previsione “precaria”. La novellata disciplina delle pene accessorie - Il vero fulcro della riforma in materia di contrasto alla corruzione è costituito dalla profondamente novellata disciplina delle pene accessorie: l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione (articolo 32-quater del codice penale) e l’interdizione dai pubblici uffici (articolo 32-bis del codice penale). La logica sottesa alla previsione è quella d’una misura perpetua (articolo 317-bis del Cp) con alcune varianti, peraltro, comunque fortemente penalizzanti. Nell’eventualità in cui dovesse essere inflitta una reclusione non superiore a due anni ovvero dovesse ricorrere la circostanza attenuante di cui all’articolo 323-bis, primo comma, del Cp la condanna alla pena accessoria sarà determinata per una durata non inferiore a cinque anni e non superiore a sette anni; nel caso della circostanza attenuante prevista al cpv. dell’articolo 323-bis del Cp, la durata delle pene accessorie non potrà essere inferiore a un anno, né superiore a cinque. Un ulteriore elemento della riforma è costituito dalla scissione tra il tempo della reclusione e quello della pena accessoria. Il dato trova riscontro nella disciplina della riabilitazione che non produce effetti sulla pena accessoria perpetua, salvo che, trascorsi almeno i successivi sette anni, il soggetto non abbia dato prova effettiva e costante di buona condotta (articolo 179, comma 7, del Cp e articolo 683, comma 1, del Cpp); in quella dalla sospensione condizionale (comunque condizionata al pagamento della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell’articolo 322-quater del Cp) (articolo 165, quarto comma, del Cp), in relazione alla quale il giudice può disporre che il provvedimento non estenda i suoi effetti alle pene accessorie (articolo 166, primo comma, del Cp) e, come si dirà, in relazione all’esito positivo dell’affidamento in prova che non estende i suoi effetti alle pene accessorie (articolo 47, comma 12, primo periodo, della legge 354/1975). È stata prevista (articolo 1, comma 1, lettera r) anche una forma di “immediato e spontaneo” pentimento che determina una speciale causa di non punibilità per chi entro quattro mesi dalla commissione del fatto, fornisce una fattiva collaborazione alle indagini mettendo a disposizione quanto percepito ovvero l’equivalente in danaro (articolo 323-ter del codice penale). Le altre novità su reati, soggetti coinvolti, sanzioni e prescrizione - A rafforzare la normativa alla lotta alla corruzione vanno altresì richiamate le disposizioni per le quali per alcuni delitti che sono indicati nell’articolo 1, comma 1, lettera a) e lettera b) della presente legge, in relazione agli articoli 9 e 10 del Cp, non è più necessaria la richiesta del ministro della Giustizia o l’istanza o la querela della persona offesa. In questo contesto si inserisce anche l’abrogazione degli articoli 2635, comma 5, e 2635-bis, comma 3, del Cc, in materia di società, consorzi ed enti privati per effetto della quale sono diventati procedibili d’ufficio i delitti di corruzione tra privati e di istigazione alla corruzione (articolo 1, comma 5). Vanno, infine, sottolineate le modifiche introdotte al Dlgs n. 231 del 2011 in materia di responsabilità amministrativa degli enti con le quali, attraverso l’inserimento dell’articolo 346-bis del Cp, tra quelli per i quali è consentito sanzionare le società, è aumentata la durata della sanzione interdittiva per i reati già previsti contro la pubblica amministrazione, ed è determinata una minore durata delle misure interdittive sempre per questi reati in caso di condotta collaborativa prima della sentenza di primo grado. Originariamente non prevista dal Ddl Atto Camera 1189, nel corso dei lavori parlamentari è stata inserita anche, a modifica di quanto previsto dalla riforma introdotta dalla legge n. 103 del 2017 (cosiddetta “legge Orlando”), una disciplina più restrittiva della prescrizione, della quale, peraltro, è stata differita l’operatività al 1° gennaio 2020. Si prevede, infatti, che la prescrizione sia definitivamente sospesa con la pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto penale di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna. Azioni sotto copertura e uso del “trojan” L’ultima analisi che affrontiamo è quella che riguarda l’ultizzo del “trojan”e del captatore informatico nella lotta alla corruzione; inoltre le novità in materia di benefici penitenziari e finanziamenti ai partiti politici. Uso del captatore informativo e azioni sotto copertura - Per quanto attiene al processo penale (articolo 1, comma 1, lettere a)-g), oltre alla previsione della nuova misura interdittiva del divieto temporaneo di contrarre con la pubblica amministrazione (articolo 289-bis del Cp), in relazione alla pena accessoria corrispondente, si segnala - in linea con la progressiva omologazione del fenomeno della criminalità da profitto a quella organizzata - l’estensione dell’uso del captatore informativo nei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata ai sensi dell’articolo 4 del Cpp anche tra presenti (articoli 266, comma 2-bis, del Cpp), con abrogazione (articolo 1, comma 4) della deroga prevista dalla legge Orlando in relazione ai luoghi di privata dimora (articolo 2, comma 2, dell’articolo 6 del Dlgs n. 216 del 2017). Contestualmente è stata estesa ai citati reati la disciplina operante per i reati di cui agli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater, in ordine alle modalità di svolgimento delle indagini con il captatore informativo (articolo 267, comma 1, terzo periodo, del Cpp). L’attività investigativa è potenziata attraverso il possibile ricorso ad azioni sotto copertura. Estendendo l’ambito di operatività dell’articolo 9, comma 1, legge n. 146 del 2006, lettera a), si prevede che in relazione ai citati reati riconducibili ad attività corruttive, i soggetti ivi indicati, nei limiti delle rispettive competenze, nel corso di specifiche operazioni di polizia, possono svolgere attività, espressamente e articolatamente indicate dalla legge, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai citati delitti. La restrizione sui benefici penitenziari e i partiti politici - Sempre in linea con la tendenziale omologazione dei reati qui considerati con il fenomeno del crimine organizzato, il già citato nucleo di reati a sfondo corruttivo sono inseriti (articolo 1, comma 6, lettere a) e b) nel regime penitenziario di cui all’articolo 4-bis della legga n. 354 del 1975, con conseguente esclusione di accesso ai benefici, fatta salva l’ipotesi della speciale causa di non punibilità di cui al già citato articolo 323-ter del codice penale. Si prevede (articolo 1, comma 4, lettere d) ed e), che la richiesta di patteggiamento per i già citati delitti di corruzione di cui all’articolo 317-bis del Cp possa essere condizionata all’esenzione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrarre la pubblica amministrazione nonché all’estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene (con potere del giudice di rigettare la richiesta) (articolo 444, comma 3-bis, del Cpp); si stabilisce che nell’ipotesi di patteggiamento di cui all’articolo 445 del Cpp, cioè, con pena non superiore a due anni, possano essere applicate le riferite pene accessorie (articolo 445, comma 1-bis, del Cpp); si precisa che le riferite previsioni operano anche per le decisioni pronunciate dopo la chiusura del dibattimento (articolo 445, comma 1, terzo periodo, del Cpp). La legge 3/2019 è completata con una articolata disciplina in materia di trasparenza e controllo dei partiti e movimenti politici. L’interdizione arriva fino a 7 anni Il “Daspo a vita per i corrotti” previsto dalla legge anticorruzione (la 3/2019, in vigore dal 31 gennaio) ha importanti ricadute anche per le persone giuridiche. Le nuove norme inaspriscono infatti le sanzioni interdittive che, in base al Dlgs 231/2001, colpiscono le persone giuridiche nel cui interesse o vantaggio sono stati commessi i reati per cui scatta, nei confronti della persona fisica, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità in perpetuo di contrattare con la Pa. Il giro di vite - Con la legislazione attuale (e cioè fino al 31 gennaio) la durata massima delle misure interdittive per la persona giuridica (tra le quali rientra il divieto di contrattare con la Pa, l’esclusione da agevolazioni o finanziamenti e la revoca di autorizzazione e licenze) è di 2 anni: da giovedì 31, il termine di 2 anni diventa invece la soglia minima, mentre quella massima sale a 7 anni. Per le persone giuridiche il limite di 2 anni rimane invece per i reati commessi a suo favore in materia ad esempio di criminalità organizzata, terrorismo, riciclaggio internazionale, o contro l’ambiente e la salute pubblica, che il legislatore ritiene quindi meno gravi della corruzione. Le novità toccano direttamente anche gli studi professionali associati organizzati in forma societaria (in linea con quanto stabilito dalla Cassazione con la sentenza 4703/2012), tra cui anche le “società tra avvocati”, in seguito alle modifiche apportate dalla legge 124/2017. L’assorbimento del reato di “millantato credito” ( ora soppresso) nel delitto di “traffico di influenze illecite” estende l’incidenza delle sanzioni interdittive per le categorie professionali che hanno a che fare con la Pa per conto dei loro clienti: la legge 3/2019 prevede infatti che il nuovo reato faccia scattare sia l’interdizione perpetua per la persona fisica che le sanzioni pecuniarie per la persona giuridica. Gli inasprimenti per le persone giuridiche non sono però accompagnati dalla possibilità di godere dei nuovi benefici previsti in caso di “ravvedimento” per il corrotto e il corruttore: la legge 3/2019 introduce infatti la non punibilità dei reati di corruzione - e di quelli, spesso collegati, di turbativa degli incanti - per la persona fisica che, entro 4 mesi dalla commissione del fatto, lo denunci volontariamente, restituisca il profitto e fornisca indicazioni per assicurare la prova del reato e individuare gli altri autori. Lo sconto di pena - La persona giuridica che collabora - per di più eliminando le carenze dei modelli organizzativi che hanno determinato il reato - ha solo uno sconto di pena, che rischia però di non produrre effetti concreti: per il Codice degli appalti, infatti, una sentenza di condanna, o patteggiamento, riportata da un amministratore, socio, membro di organo di controllo o vigilanza, procuratore, direttore tecnico costituisce causa di esclusione da una gara per almeno 1 anno dalla cessazione dell’interessato dalla carica. Si tratta di un pregiudizio ulteriore che potrebbe verificarsi nel caso in cui l’autore del reato, per beneficiare della nuova causa di non punibilità, si “penta” chiamando in correità uno dei soggetti di cui sopra, che sarebbe inevitabilmente spinto - anche solo per una ragione di mera opportunità - alle dimissioni non appena avuta notizia dell’indagine. Per le persone giuridiche, le nuove norme sembrano quindi puntare quasi esclusivamente sull’aspetto sanzionatorio, senza premiare concretamente il ravvedimento: al contrario, la natura sempre più afflittiva delle misure interdittive (cui si aggiungono rilevanti sanzioni economiche) dovrebbe invece imporre la previsione di forme adeguate di riabilitazione. In questo senso si sono mossi altri ordinamenti stranieri, prevedendo la non punibilità degli enti che, dopo un periodo di messa alla prova monitorato dalla magistratura, dimostrino di avere raggiunto un pieno ravvedimento (vedi il Sole 24 Ore del 26 novembre 2018). Dalla Cedu sì alla sanzione per l’avvocato che ritarda il processo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2019 Il legale che non vede accolta la propria istanza di rinuncia all’incarico e ritarda il procedimento può essere condannato a versare una sanzione pecuniaria. E questo anche se la multa gli viene inflitta nel corso del processo principale e in sua assenza. A patto, però, che durante la fase dinanzi alla Corte suprema possa fornire prove e nuovi documenti. Lo ha chiarito la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dato ragione all’Islanda (ricorso n. 68273/14) e respinto il ricorso di due legali. Questi ultimi erano stati designati come difensori in un processo penale ma avevano chiesto di essere sostituiti perché, a loro dire, l’accusa non forniva il materiale necessario per il processo. Il tribunale aveva respinto la domanda e inflitto un’ammenda di circa 6.200 euro ciascuno sia per i ritardi provocati sia per l’oltraggio alla Corte. Di qui il ricorso a Strasburgo che, però, non l’ha accolto e ha condiviso la posizione dell’Islanda. È vero - osserva la Corte europea - che in un primo tempo la sanzione era stata decisa in assenza dei due legali, ma nel ricorso dinanzi alla Corte suprema i ricorrenti avevano potuto presentare documenti e testimonianze, con un nuovo esame delle questioni non solo di diritto, ma anche di merito. Pertanto, per la Corte non si è realizzata una violazione dell’articolo 6 della Convenzione che assicura l’equo processo. Esclusa anche la violazione dell’articolo 7 che afferma il principio nulla poena sine lege. Questo perché la sola circostanza che il diritto interno non fissi l’importo massimo di un’ammenda non è contrario alla Convenzione. Reati: il concorso di circostanze aggravanti a effetto speciale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2019 Reato - Circostanze - Concorso di circostanze aggravanti - A effetto speciale - Ipotesi in cui la recidiva sia la circostanza meno grave - Aumento di pena - Disciplina applicabile. In tema di concorso di circostanze aggravanti a effetto speciale, alla recidiva che concorre con altra aggravante speciale e rispetto a questa ritenuta meno grave si applica integralmente la disciplina di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen., con la conseguenza che il giudice, quand’anche la recidiva sia di natura obbligatoria e comporti un aumento predeterminato della pena, può procedere all’ulteriore aumento di pena e, ove ritenga di apportarlo, è vincolato al limite di cui al combinato disposto degli artt. 63, comma quarto, e 64, comma primo, cod. pen. (“fino a un terzo della pena prevista per il reato commesso”). - Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 18 gennaio 2019 n. 2212. Reato - Circostanze del reato - Aggravanti - A effetto speciale - Concorso con la recidiva qualificata - Criteri di prevalenza - Valutazione - Determinazione dell’aumento di pena - Individuazione. Nel caso di concorso tra recidiva qualificata e altra o altre aggravanti a effetto speciale, dovendosi fare applicazione della regola generale dettata dall’art. 63, comma IV, c.p. ne consegue che ove la recidiva sia ritenuta circostanza più grave, dovrà farsi luogo all’aumento di pena per essa previsto dall’art. 99 c.p. con facoltà, per il giudice, di operare un ulteriore aumento per l’altra o le altre circostanze in misura complessivamente non superiore a un terzo; ove sia invece ritenuta più grave una circostanza diversa dalla recidiva, dovrà applicarsi l’aumento di pena a essa relativo, e l’ulteriore aumento per la recidiva, se applicato, non potrà neppur esso superare il limite di un terzo. - Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 marzo 2018 n. 13843. Reato - Circostanze - Concorso di circostanze aggravanti - A effetto speciale - Regola dell’applicazione della circostanza più grave - Individuazione della maggiore gravità nel caso in cui una delle due circostanze sia la recidiva - Criteri - Fattispecie. In tema di concorso di circostanze aggravanti speciali, per valutare la maggiore o minore gravità della recidiva rispetto a una concorrente circostanza aggravante, occorre procedere a una verifica in concreto, che consideri anche gli effetti dello sbarramento di cui all’art. 99 comma sesto, cod. pen.(Fattispecie nella quale la recidiva reiterata è stata considerata meno grave rispetto all’aggravante di cui all’art. 416 bis, comma quarto, cod. pen., in quanto l’aumento per la recidiva, in astratto pari alla metà della pena base prevista per il reato di associazione di tipo mafioso non poteva superare la misura di un anno e mesi quattro di reclusione ed euro 154,91 di multa, pari al cumulo delle precedenti condanne). - Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 4 marzo 2015 n. 9365. Reato - Circostanze - Concorso di circostanze - Di aggravanti - Pluralità di circostanze a effetto speciale - Modalità di calcolo. Allorché concorrano due circostanze a effetto speciale (nella specie, recidiva specifica di cui all’art. 99, comma secondo, cod. pen. e aggravante di cui all’art. 585 stesso codice), è illegittima l’applicazione di distinti aumenti di pena, dovendosi, in base al disposto dell’art. 63, comma quarto, cod. pen., applicare solo l’aumento connesso alla circostanza più grave, con la possibilità, per il giudice, di aumentare la pena così stabilita. - Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 17 maggio 2010 n. 18513. Roma: il Cappellano di Rebibbia “il sistema punisce di più chi non ha nessuno” di Carlo Cefaloni Città Nuova, 28 gennaio 2019 Intervista a don Roberto Guernieri. Da quando ho iniziato a collaborare con la Cappellania di Rebibbia (per la precisione sono un prete volontario ex art. 17) molti mi hanno chiesto cosa significhi fare il cappellano lì e come siano le condizioni dei carcerati. La risposta migliore la dà don Roberto Guernieri, che oggi compie 60 anni. Cappellano nel carcere di Rebibbia da 26 anni, don Roberto Guernieri si definisce un “prete scomodo”, da sempre a contatto con le fragilità del nostro tessuto sociale. Incontro don Roberto in una palazzina modesta riservata ai cappellani accanto al grande carcere che è una piccola città parallela al quartiere Tiburtino. Quanti sono i detenuti in questo momento a Rebibbia? Circa 2630, comprese 350 donne con una ventina di bambini da 0 a 7 anni. Siamo 6 cappellani. Tre sono dedicati al complesso più grande con 1500 detenuti per tutte le tipologie di reati. Esistono poi altre strutture più piccole dedicate, ad esempio, ai collaboratori di giustizia e alla lunga detenzione, i semiliberi e quelli da avviare ai centri per il recupero dei tossicodipendenti. Si dice che i delinquenti veri restino poco in carcere, mentre i soggetti più poveri sono indifesi ed esposti alla scuola della violenza? È così. Proprio in questi giorni mi sto occupando del caso di alcuni ragazzi fragili, “sfigati” anche nel senso della giustizia, perché sperano in qualche forma di attenuante della pena, ma ne vengono esclusi. Anche per i reati minori sono previste pene detentive. Chi non ha reti amicali e familiari rischia di restare impigliato nella macchina della giustizia e finisce per stare in carcere più del dovuto. E il sovraffollamento? Esiste e produce problemi gravissimi. La convivenza forzata tra persone che non si sono certamente scelte ma costrette a vivere a stretto contatto per tutta la giornata non può non produrre tensioni e problemi. Consideri 6 persone in una stanza 3 per 4 metri, con annesso bagno comune, dove cucinano, mettono le loro cose e fanno i loro bisogni. Una piccola televisione. Non c’è spazio per muoversi se consideriamo il tavolo al centro con gli sgabelli. Insorgono gravi problemi di salute in un ambiente dove non vige la fiducia ma il sospetto, con la speranza che viene meno facilmente. Ci sono telecamere dappertutto, anche in chiesa. Per qualsiasi necessità bisogna fare una richiesta scritta, anche per lo spazzolino o la carta igienica. Il numero dei detenuti in Italia, circa 60mila, è molto basso se pensiamo ad altre nazioni. Ma il carcere riesce ad essere un luogo di riabilitazione per chi ha commesso un delitto? No. Purtroppo non è tale. Il carcere può avere una funzione per contenere i casi pericolosi e irriducibili come i mafiosi, che non vogliono cambiare in alcun modo. Può servire per mettere da parte gli autori dei reati sessuali che restano separati da tutti gli altri. Sono gli stessi detenuti “normali” che vogliono punire gli autori dei crimini contro donne e bambini. Ma per tutti gli altri reclusi che vogliono cambiare vita non serve a niente. Adesso è un parcheggio dove ci sono tante iniziative sostenute dai volontari e dalla stessa amministrazione, ma la speranza è fuori da queste mura. La scuola interna è comunque un bel servizio… L’accesso dalle elementari all’università è realmente garantito. Sono accessibili le biblioteche di reparto e quella centrale, ovviamente il tempo necessario a scegliere il libro da portarsi in cella. Anche quotidiani e periodici sono accessibili. Cosa è necessario per favorire il reinserimento nella società? Coltivare un rapporto libero e gratuito in vista della speranza di una vita diversa che consiste in due cose molto elementari: alloggio e lavoro. Lei prenderebbe in casa un ex carcerato, gli darebbe anche solo una stanza e la possibilità di un lavoro? Casa e lavoro, tuttavia, mancano anche a chi è fuori. Non servirebbero istituzioni per questo? Certo, ma c’è anche hi lo fa nonostante tutto. Con il mio ordine religioso ad esempio diamo possibilità di alloggio ai detenuti in permesso premio con le loro famiglie nella Casa del pellegrino al santuario del Divino Amore. C’è la Caritas. O la realtà promosso da Alfonso Di Nicola che segue 170 famiglie. Ma servirebbero tante altre esperienze. A Roma c’è il caso Salvatore Buzzi, ex detenuto modello e poi imprenditore del sistema denominato Mafia Capitale. Non è la conferma del fatto che certe persone sono inemendabili? Posso dire che non è così. Può capitare il singolo caso ma la realtà è diversa. Purtroppo esiste una forma mentis forcaiola, anche tra i cattolici, alimentata, come è comprensibile, dalla paura, ma soprattutto da una concezione pessimistica della natura umana. Esistono poca fiducia nella società e un diffuso senso di solitudine. Per cui, alla fine, davanti a tante contraddizioni si crede che si risolva tutto mandando le persone in galera. E io, invece, in questi 26 anni di lavoro in carcere ho capito una cosa. Ho imparato a non giudicarli. Non giudicare, perché sono persone che hanno bisogno di tutto. Hanno magari avuto un momento nella loro vita che rischia di comprometterli per sempre. E poi per molti di loro la vita è partita male sin dall’inizio, con familiari già in carcere e la strada a fare da insegnante per sopravvivere. Poi, ultimamente, è emerso il fenomeno della dipendenza dell’azzardo che conduce a spingere atti estremi. C’è chi nasce in contesti mafiosi e a contatto con traffici di ogni tipo. Ci sono bambini di 12 anni che ricevono come regalo una busta con duemila euro e una pistola con l’invito a usarla per uccidere qualcuno e trattenere i soldi. “La mafia dà lavoro”. Il carcere non rischia di rafforzare questa affiliazione? Dipende da cosa vuole davvero ogni persona. Per la mia esperienza posso dire che esiste sempre la possibilità del cambiamento. Cosa si può fare per coltivare questa speranza? Bisogna fare qualcosa in concreto per i detenuti che spesso non hanno alcun riferimento fuori dal carcere. A volte noi cappellani siamo gli unici a mantenere un rapporto con loro. Mi è capitato di celebrare da solo, io e la bara, i funerali di qualcuno che si era suicidato. La notte è il momento più brutto del carcere. Da avere paura. Succede che mi vengono a chiamare perché muore un detenuto e c’è da benedire la salma, riconoscerlo, cercare i familiari. La formazione del personale che lavora in carcere è cambiata in questi anni? Certo è cambiata, ma sono sottodimensionati e si lamentano per la durezza dei turni e il mancato pagamento degli straordinari. Vivono una condizione di durezza e di forte stress e noi siamo qui per tutti. Recentemente sono stati introdotti dei centri di ascolti dedicati agli agenti di custodia. Rebibbia nasce nel 1965 come “carcere modello” diverso da quello più restrittivo, ad esempio, di Regina Coeli, ma le maglie si stanno restringendo anche qui. Cosa proporrebbe di alternativo al carcere? Per la maggioranza dei detenuti, non pericolosi come già detto, vedo bene il lavoro in una azienda agricola come attività rieducativa, mantenendo i legami con la famiglia quando esiste e quindi un ponte con l’esterno. Alcuni criminali, comunque, vanno tenuti e sorvegliati in carcere… È difficile credere a una capacità di emendarsi da hi ad esempio uccide qualcuno e poi lo taglia a pezzi per metterlo in una valigia. Si rimane sconcertati. C’è l’abisso del male con la M maiuscola che miete tante vittime. Ma allo stesso tempo tutti noi come cristiani, e io parlo da cappellano di un carcere, siamo portatori del messaggio della presenza del Signore che salva e non abbandona nessuno. A Rebibbia di sono cappellani di altre confessioni o religioni? C’è il pastore ortodosso che segue i detenuti rumeni. Alcuni evangelici che fanno i colloqui. E poi ci sono, in tutta Italia, 450 ministri di culto dei Testimoni di Geova dedicati alle carceri e riconosciuti come tali dal ministero di Grazie e giustizia. Noi cappellani cattolici siamo in tutto 260 a livello nazionale. E voi come fate in così pochi? Il sabato e la domenica facciamo 13 Messa ma vengono ad aiutarci diversi preti che studiano a Roma e poi un bel numero di volontari. A spanne quale è la percentuale di detenuti stranieri? Il 45% di provenienza prevalente dall’Est Europa. Chi segue i detenuti musulmani? Assieme alla Comunità di Sant’Egidio organizziamo ogni anno la festa del Ramadan e allora viene il loro imam che, di solito, non li segue in carcere. In genere si crede che arrivino aiuti sufficienti da tante reti di solidarietà in una grande città come Roma. Ma così non è. C’è bisogno di tutto dentro queste mura. Anche un panettone a Natale che può sembrare, qui diventa importante. Alcuni non hanno niente. L’amministrazione consegna all’inizio il materiale delle pulizie o le posate, tutto in plastica ovviamente, e poi basta. Facciamo tante raccolte e le cose non bastano mai. Chi è poverissimo non ha da lavarsi. Per questo dico che la prima cosa è non schifarsi di nessuno ma accogliere tutti. Certo, sono situazioni in cui bisogna esercitare un forte equilibrio perché, di fronte a una grande richiesta di affetto, si rischia di uscirne prosciugati. Come fate a difendervi? La preghiera per me è una fonte di ricarica, ma sono anche richiesti periodi di pausa. Da cosa è nata la sua vocazione specifica a essere cappellano di un carcere? Sono una persona fortunata perché ho fatto sempre ciò che mi piaceva. Nato nel mantovano, a Ostiglia, sono stato sempre un prete scomodo. In seminario non volevano che facessi il sacerdote. Mi hanno mandato anche dallo psicologo ma non hanno trovato anomalie. Mio padre non condivideva il motivo di questa mia scelta, ma alla fine ha chiesto a un suo amico, per nulla praticante che lavorava a Roma, se poteva cercare qualcuno che mi aiutasse. Ha parlato con il cappellano della Coldiretti che conosceva i preti del Divino Amore (storico santuario della capitale collocato nell’agro romano, ndr) e così sono diventato sacerdote e, alla fine, sono stato ordinato dal vescovo di Roma 34 anni fa. Ma prima ho fatto l’obiettore di coscienza alla Caritas di don Luigi Di Liegro e aperto, ormai da prete, alla stazione Termini, il centro di accoglienza dei minorenni a rischio. Lavoravo giorno e notte. Poi andavo in una comunità di accoglienza per tossicodipendenti e al reparto infettivo del Gemelli per accompagnare i giovani malati negli ultimi giorni della loro vita terrena. Ero molto forte allora, dormivo tre ore a notte. Adesso sono malato ma vado avanti. I detenuti mi vogliono bene e mi coccolano. In carcere mi ha chiamato a starci il cardinal Ruini nel 1992. Mi ha fatto telefonare per poi farmi attendere tre giorni in cui mi son chiesto cosa avessi fatto mai. La sua proposta l’ho subito accettata perché in linea con le mie scelte di sempre. E dopo tutti questi anni si è abituato a Roma? La città, come si dice qui, è un “gran casino” ma io mi trovo bene. Ogni anno poi al mio compleanno organizzo una gran cena mantovana con amici cuochi che vengono dalle mie parti. L’ultima volta c’erano 640 persone che hanno fatto un’offerta destinata a sostenere i più poveri che si trovano in questo carcere. Se mi lascia il suo numero la invito. Milano: morto suicida a San Vittore, per la famiglia è stato ammazzato iene.mediaset.it, 28 gennaio 2019 Alessandro Gallelli è stato trovato morto impiccato nella sua cella a San Vittore. Ma l’ipotesi del suicidio non convince. Veronica Ruggeri ci spiega perché. Alessandro Gallelli è morto a 21 anni il 18 febbraio del 2012 nel carcere di San Vittore a Milano. Si sarebbe impiccato alla grata della sua cella facendo un nodo alla sua felpa. I familiari e i loro periti non credono a questa versione, perché troppe cose non tornano. “Per noi non è un suicidio ma un omicidio”, dice il fratello. Veronica Ruggeri ha ricostruito gli ultimi momenti della vita di Alessandro. I buchi della grata a cui Alessandro avrebbe attaccato la felpa con la quale si è strozzato sembrano davvero troppo piccoli per farci passare la stoffa spessa della felpa e annodarla per creare il cappio. Tutto questo in pochissimo tempo perché Alessandro si trova in isolamento nel reparto di osservazione neuropsichiatrica ed è sorvegliato a vista dalle guardie. La guardia si sarebbe allontanata solo cinque minuti prima di ritornare e trovarlo morto. Alessandro era in carcere perché, come ci racconta il fratello, “quando non stava bene usciva di casa e faceva danni”. Alessandro purtroppo è fuori controllo e ruba motorini, infastidisce le ragazze e dà una testata a un poliziotto che gli aveva chiesto il biglietto del treno. Così viene portato a San Vittore. “Per due volte due avvocati ci hanno detto di stare tranquilli, che in due settimane sarebbe uscito”, racconta il fratello. Invece Alessandro da quel carcere non è mai uscito. Le settimane diventano mesi e Alessandro è sempre più agitato, inizia a litigare con gli agenti e viene spostato nel centro di osservazione neuropsichiatrica del carcere. “Era da solo, nella cella in fondo”. Lo mettono in isolamento con una sorveglianza continua. Ma dopo qualche giorno ai genitori di Alessandro arriva una telefonata: “Suo figlio è morto”. La famiglia fin da subito pensa a un omicidio. La Iena ricostruisce i dubbi sulla morte di Alessandro, che sono tanti. “Vogliamo che si apra un processo”, dice il fratello. Qualche settimana fa i familiari hanno portato tutte le nuove prove in tribunale. Ora un giudice dovrà decidere se riaprire il caso. “Se siamo ancora qui è perché siamo convinti che nostro figlio non si è fatto del male”. Milano: decesso a San Vittore, sindacato Polizia Sappe contro il servizio delle Iene affaritaliani.it, 28 gennaio 2019 “Il carcere di S. Vittore a Milano, come altre strutture detentive, ha oggettive difficoltà strutturali che meriterebbero urgenti interventi di manutenzione da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Ma, e va detto con forza, questo non pregiudica le condizioni di sicurezza dell’Istituto e la dignità della detenzione dei ristretti. A San Vittore, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato. Altro che le gravi accuse contenute nel video mandato in onda su Le Iene”. Lo afferma in una nota Alfonso Greco, segretario regionale per la Lombardia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - Sappe, commentando un servizio de “Le Iene” sul decesso di un detenuto a S. Vittore. “Mi stupisco, tra l’altro, che chi ha fatto quel servizio neppure sa come si chiamano gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria”, commenta ancora Greco. La vicenda è quella di Alessandro Gallelli, morto il 18 febbraio 2012: il giovane era stato trovato impiccato alla grata della sua cella, strangolato con la sua felpa annodata. Caso archiviato come suicidio, ma c’è una nuova denuncia dei familiari del 21enne per omicidio volontario o preterintenzionale, basata su una recente consulenza medico legale. Per i familiari si tratterebbe di “omicidio mediante strozzamento” con successiva “manopolazione colontaria della scena del crimine”. Tra gli elementi che non tornerebbero, i buchi della grata a cui Alessandro avrebbe attaccato la felpa con cui si è strozzato, troppo piccoli per farci passare la stoffa spessa della felpa e annodarla per creare il cappio. E tutto questo in pochi attimi, dato che il giovane si trovava in isolamento nel reparto di osservazione neuropsichiatrica ed era sorvegliato a vista dalle guardie. E a sua volta Donato Capece, segretario generale del Sappe, dice: “L’impegno del primo sindacato della Polizia Penitenziaria è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una “casa di vetro”, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci “chiaro”, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente, lo ripeto, con professionalità, abnegazione e umanità dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria. La prima fondamentale e imprescindibile considerazione che il Sappe intende fare è che ai detenuti delle carceri italiane e lombarde sono assicurate e garantite ogni tipo di tutela e garanzie, a cominciare dai diritti relati all’integrità fisica, alla salute mentale, alla tutela dei rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale. Diritti per l’esercizio dei quali sono impegnati tutti gli operatori penitenziari, la magistratura ed in particolare quella di sorveglianza, l’avvocatura, le associazioni di volontariato, i parlamentari ed i consiglieri regionali (che hanno libero accesso alle carceri), le cooperative, le comunità e tutte le realtà, che operano nel e sul territorio, legate alle marginalità”. Per Capece, “particolarmente preziosa, in questo contesto, è anche l’opera svolta quotidianamente dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria. Donne e uomini in divisa che rappresentano ogni giorno lo Stato nel difficile contesto penitenziario, nella prima linea delle sezioni detentive, con professionalità, senso del dovere, spirito di abnegazione e, soprattutto, umanità. Per tutto questo, respingiamo al mittente le gravi illazioni sulla morte di un detenuto a San Vittore a Milano, rispetto alle quali mi auguro che anche l’Amministrazione penitenziaria adotti adeguati provvedimenti per tutelare l’onorabilità della Polizia penitenziaria”. Il sindacato dei Baschi Azzurri torna quindi a evidenziare che “la Polizia penitenziaria che lavora nel carcere di S. Vittore è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante lavoro credono nella propria professione, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano ogni giorno”. Alba (Cn): Giulia e Clara nel mondo del carcere gazzettadalba.it, 28 gennaio 2019 I pregiudizi si possono superare, anche quando sono insiti nella società e legati a paure condivise dalla maggior parte delle persone. Per riuscirci bisogna avere il coraggio di mettersi in gioco e la volontà di scoprire una realtà sconosciuta, per coglierne gli aspetti più umani. È il percorso che sono riuscite a portare a termine Giulia Leone e Clara Riverditi, entrambe studentesse al liceo delle scienze umane Da Vinci di Alba. Nell’ambito del programma di alternanza scuola-lavoro, le due ragazze hanno scelto di varcare i cancelli della casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba e di seguire le attività educative a contatto con i detenuti. Il progetto, proposto per il secondo anno, è stato sviluppato dall’amministrazione del carcere, dall’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno e dal Da Vinci. A colpire nel racconto delle due studentesse, che hanno terminato il loro percorso al Montalto il 17 gennaio, è prima di tutto l’entusiasmo, come traspare dalle parole di Clara: “Questa esperienza è stata straordinaria, ci ha aperto gli occhi e ci ha formate. Il primo giorno non sapevamo come comportarci ed eravamo piuttosto intimorite. Ma varcati i cancelli, grazie all’educatrice penitenziaria Valentina Danzuso, abbiamo scoperto una realtà inaspettata”. Le due ragazze si sono impegnate nelle varie attività educative, come chiarisce Giulia: “Dal corso di alfabetizzazione per gli stranieri a quello di ceramica, dal disegno al bricolage, abbiamo seguito le diverse attività. Ci ha colpito molto il laboratorio di teatro, tanto che abbiamo intenzione di proseguire il nostro impegno come volontarie. In più, abbiamo potuto conoscere tutti gli altri aspetti della realtà del carcere, a contatto con le figure professionali, come gli agenti penitenziari”. Giorno dopo giorno, le due ragazze hanno superato i loro pregiudizi, come aggiunge Clara: “I detenuti ci hanno accolte nel migliore dei modi e in certi casi si sono confidati con noi, raccontandoci parte delle loro storie e parlandoci delle loro famiglie. Dal punto di vista umano sono stati momenti molti intensi, che ci hanno permesso di superare tutti i preconcetti; abbiamo scoperto una micro-comunità di uomini che si impegnano, studiano e si mettono in gioco, con tutte le loro fragilità: anche se chi è fuori tende a dimenticarselo, i detenuti sono persone come tutti noi”. Giulia e Clara non hanno ancora le idee chiare sul loro futuro, ma l’esperienza in carcere potrebbe aver delineato una strada da seguire: “Ci piacerebbe studiare per diventare educatrici penitenziarie, ma potremmo anche intraprendere il percorso per diventare agenti”. È soddisfatto Domenico Albesano, presidente dell’associazione Arcobaleno: “Per il secondo anno siamo riusciti a portare avanti quest’iniziativa. In collaborazione con la Caritas, le due ragazze hanno potuto impegnarsi per alcune ore anche nel centro di prima accoglienza di via Pola e all’emporio solidale, scoprendo altre due realtà”. Milano: “Parole liberate, oltre il muro del carcere” riparte da palazzo Marino lsdmagazine.com, 28 gennaio 2019 “Parole liberate: oltre il muro del carcere”, il Premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane che nel 2016 fu promosso da Carlo Conti nel corso della serata finale del Festival di Sanremo, riparte da Milano con un importante appuntamento, patrocinato dal Comune, che vedrà la partecipazione dell’Assessore Lorenzo Lipparini e di artisti come Enrico Maria Papes (storica voce de “I Giganti”) e Virginio. L’appuntamento è per martedì 29 gennaio 2019 alle ore 17 presso la Sala Alessi di Palazzo Marino, in piazza della Scala. È stato invitato a intervenire il Sindaco Giuseppe Sala. “Parole liberate” è una iniziativa di impegno sociale e civile senza scopo di lucro, che vuole contribuire a dare concreta espressione all’articolo 27 della Costituzione, sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni nelle quali le persone detenute oggi scontano la pena e richiamare l’attenzione sulla necessità di impegnarsi quanto più possibile per l’effettivo reinserimento sociale - innanzitutto attraverso il lavoro - di coloro che abbiano finito di scontare la pena. L’idea originale di “Parole liberate” è quella - mai tentata prima in Italia - di chiedere ai detenuti non semplicemente di “scrivere una poesia”, ma di divenire co-autori di una canzone: il bando prevede infatti che la lirica vincitrice sia affidata a un “big” della musica italiana, perché la trasformi in Canzone. Il big della Prima edizione (58 testi in gara) è stato il cantautore Ron, che ha musicato “Clown Fail” di Cristian Benko in arte Lupetto, allora detenuto presso il carcere di San Vittore. Il big della seconda edizione (129 testi in gara) è stato Virginio Simonelli, già vincitore di Amici e Sanremo Giovani, autore di livello internazionale che vanta collaborazioni con artisti del calibro di Celine Dion, Nora Jones e Laura Pausini. Virginio ha musicato la lirica “P.S. Post scriptum” di Giuseppe Catalano, all’epoca detenuto presso il carcere di Opera, e includerà il brano nel suo prossimo album. Il big della Terza edizione è Enrico Maria Papes, che ha musicato la lirica “Frammento” di Pietro Citterio (anch’egli dal carcere di Opera). Nel corso dell’evento del 29 Enrico Maria Papes presenterà per la prima volta al pubblico il brano “Frammento”, mentre Virginio eseguirà il brano “P.s. Post scriptum”. Verrà inoltre presentato in anteprima il Bando della IV Edizione, in corso di approvazione presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Interverranno inoltre Alessandra Naldi (Garante delle persone detenute), Anita Pirovano (Presidente della Sottocommissione Carceri), Michele De Lucia, Riccardo Monopoli e Duccio Parodi (fondatori di Parole liberate), Barbara Rossi e Paolo Bersano (per le associazioni Leggere Libera-Mente, Volontari penitenziari di Ivrea e Liceo Musicale di Rivarolo Canavese, i cui laboratori hanno espresso i vincitori delle ultime due edizioni di Parole liberate), Donatella Massimilla (Presidente del Cetec-Centro europeo teatro e carcere, che si occuperà della diffusione del nuovo bando in particolare nelle sezioni femminili), Giampaolo Pape Gurioli (pianista di fama internazionale) e i vincitori delle ultime due Edizioni, Giuseppe Catalano e Pietro Citterio. Il Premio Parole liberate è promosso in collaborazione con: A buon diritto, Ancot (Associazione nazionale consulenti tributari), Antigone, Associazione Ram Dass, Cetec (Centro europeo teatro e carcere), Fed.I.M. (Federazione Italiana Musicoterapia), La Ribalta - Centro studi Enrico Maria Salerno, Ristretti Orizzonti, Storieria.com. Media Partner del Premio è Radio radicale. Parole liberate è su Facebook all’indirizzo @paroleliberate. Cosenza: “Amore sbarrato 3”, riparte l’esperienza del laboratorio teatrale per i detenuti di Giuseppe Di Donna comune.cosenza.it, 28 gennaio 2019 Riparte dalla prossima settimana, all’interno della Casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza, l’esperienza del laboratorio teatrale promosso per un gruppo di detenuti dall’attore e regista cosentino Adolfo Adamo e frutto di una stretta sinergia tra l’Amministrazione comunale che sostiene il progetto e la stessa Casa circondariale che ha ancora una volta aderito all’iniziativa. Obiettivo di “Amore sbarrato 3- Il ritorno”, questo il titolo del nuovo laboratorio, è, come nelle due precedenti edizioni, culminate in altrettante rappresentazioni teatrali che ebbero come protagonisti proprio i detenuti (nel 2014 al Teatro “Rendano” e nel 2015 al Teatro “Morelli”) quello di abbattere il loro stato di invisibilità, accorciando le distanze tra il mondo esterno e l’universo carcerario e favorendo quei percorsi rieducativi e riabilitativi che devono riguardare le persone private della libertà personale. Il nuovo progetto sarà presentato domani, lunedì 28 gennaio, alle ore 12,00, nel corso di una conferenza stampa in programma nella sala capitolare del Chiostro di San Domenico. Parteciperanno il Vicesindaco e Assessore alla Cultura, On.Jole Santelli, l’Assessore alla comunicazione Rosaria Succurro, il Direttore della Casa circondariale di Cosenza Maria Luisa Mendicino, il Comandante di reparto della polizia penitenziaria Paolo Cugliari, la dottoressa Tiziana Giordano, funzionario giuridico-pedagogico della Casa circondariale e, naturalmente, l’attore e regista Adolfo Adamo che cura la direzione del laboratorio teatrale. Il diritto europeo impone alla sharia il rispetto delle libertà individuali di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 28 gennaio 2019 Alcuni giorni orsono vi sono stati giornali di orientamento nazionalista antieuropeo, che hanno denunciato una sentenza della Corte europea dei diritti umani, sostenendo che con essa veniva introdotta e legittimata la Sharia in Europa. Invece che pericolosamente laicista, questa volta un’istituzione europea veniva indicata come incline a piegarsi a regole e costumi religiosi, purché islamici. Veniva così sventolata l’ombra dell’incubo descritto da Michel Houellebecq di una società europea divenuta islamica per la viltà di chi dovrebbe difenderne il carattere civile e democratico. Non era vero niente, naturalmente. Quella sentenza, resa nei confronti della Grecia, aveva invece condannato quel Paese perché era stata applicata la legge della Sharia invece che il testamento civile che era stato scelto dal defunto, un greco appartenente alla comunità musulmana della Tracia. Le autorità greche avevano applicato norme derivanti da trattati conclusi con la Turchia e riguardanti le minoranze greche e turche nei rispettivi territori e il rispetto dei loro costumi religiosi. Quei trattati, nei confronti degli appartenenti alla minoranza islamica, riconoscevano ai muftì la competenza a decidere cause in materia di famiglia secondo la legge islamica. La Corte europea ha detto che quelle norme, discriminatorie in danno delle donne, non potevano essere applicate e che certe specificità riconosciute alle minoranze su base religiosa, potevano esserlo solo se liberamente accettate da ciascuno degli appartenenti a quella minoranza. Si trattava di una causa molto particolare e la decisione ha riguardato solo il ricorso presentato dalla ricorrente, ma la Corte non ha mancato di stigmatizzare il fatto che in Grecia, su una parte del territorio, possa applicarsi la Sharia. D’altra parte, la Sharia, non come complesso di regole religiose, ma quando si pretende che diventi norma dello Stato, era da tempo già stata ritenuta dalla Corte “incompatibile con le esigenze di una società democratica”. Alla giurisprudenza della Corte europea e a una serie di prese di posizione di altre istituzioni europee, si è ora richiamata una Risoluzione della Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (non si tratta dell’Unione europea, ma dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa), occasionata dalla adesione di alcuni Paesi europei alla Dichiarazione del Cairo sui diritti dell’uomo nell’Islam del 1990: si tratta dell’Albania, dell’Azerbaijan e della Turchia. In quella Dichiarazione, come in altri testi analoghi, dichiarano la loro fonte esclusiva nella legge religiosa islamica, così contraddicendo il carattere laico e neutrale che gli Stati europei devono mantenere rispetto al fenomeno religioso. Nel merito quei documenti islamici si presentano in contraddizione con diversi diritti e libertà che sono propri delle società europee e sono stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti umani, testo fondamentale dell’identità culturale dell’Europa. La risoluzione del Consiglio d’Europa elenca in proposito innanzitutto il divieto di discriminazione, specificamente sulla base del sesso e della religione, e poi menziona il divieto della pena di morte, il divieto della tortura e dei trattamenti inumani, il diritto a un processo equo, il diritto al rispetto della vita privata e famigliare, la libertà religiosa e di espressione, la libertà di matrimonio e l’eguaglianza dei coniugi e altri ancora. A parte i tre Paesi europei che hanno dimostrato la loro simpatia per il diritto della Sharia, sono preoccupanti e criticati dall’Assemblea del Consiglio d’Europa anche fenomeni come quello presente nel Regno Unito; tollerati dallo Stato, operano tribunali islamici che in linea di principio dovrebbero decidere controversie e operare solo quando le parti in litigio liberamente vi consentono. In realtà la libertà delle parti e delle donne in particolare è fortemente limitata dalla pressione esercitata dal gruppo cui appartengono. Senza arroganza, senza sventolare contrapposti simboli religiosi, ma con fermezza il Consiglio d’Europa ha riaffermato che la doverosa tolleranza religiosa e culturale si accompagna alla chiara definizione dei limiti: limiti che riguardano, definiscono e difendono la democrazia, i diritti e le libertà individuali. Migranti. In Italia 10.787 minori non accompagnati, dove sono? di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 28 gennaio 2019 È entrata nella rada di Siracusa la Sea Watch. A bordo anche 13 minori, di cui 8 non accompagnati. Dovrebbero sbarcare per essere accolti nelle strutture dedicate, ma la risposta del Viminale è: no, perché fra loro c’è chi fa finta di essere minore. Questione complessa poiché, come succede per quasi tutti i migranti, sono privi di documenti, e per l’accertamento dell’età nei casi dubbi serve un’équipe formata da interpreti, pediatri, neuropsichiatri, radiologi, psicologi. I costi sono alti, e Regioni e Ministero dell’Interno se li rimpallano, i team scarseggiano e rimane alto il rischio di mandare adulti tra i ragazzini. Infatti, negli ultimi 3 anni, in 45.159, approdati sulle coste italiane e non accompagnati, si sono auto-dichiarati minorenni, mentre il numero di minori accertato è stato poi di 36.878. Dove sono? Gli scomparsi - In 20.862 hanno compiuto i 18 anni, dunque, sono usciti dalle statistiche. E tutti gli altri? Le autorità hanno segnalato la fuga dai centri di accoglienza di 5.229 ragazzini e ragazzine, tuttora irreperibili. La maggior parte di loro, di nazionalità eritrea o afgana, voleva raggiungere i parenti nel nord Europa; altri, egiziani, cercavano di arrivare a Milano per unirsi ai connazionali, attivi soprattutto nella ristorazione. Si pensa che l’eccessiva durata delle procedure di ricongiungimento familiare li abbia spinti ad allontanarsi per ritrovare in autonomia i familiari. Le cronache raccontano di 12/13enni morti durante il viaggio verso il confine; fra gli altri, molti, per procurarsi velocemente denaro necessario a proseguire il viaggio, si suppone siano finiti nel giro dello spaccio e in quello della prostituzione, attivo nel reclutare le giovani nigeriane. Cosa dice la legge - Dal 6 maggio 2017 in Italia è in vigore la legge Zampa, una delle migliori normative al mondo in fatto di tutela: equipara il “minore solo” a quello italiano senza genitori. Significa che deve essere dato in affido, o accolto in una casa famiglia, oppure in centri dedicati in grado di garantire la sua crescita e l’inserimento sociale, con l’affiancamento costante di un tutore. Cosa succede in realtà? I censiti ad oggi - 10.787 minori non accompagnati risultano censiti al 31 dicembre 2018. Dovrebbero essere “tutti” sotto tutela, invece non è possibile individuare dove siano stati collocati 869 di loro. Soltanto 461 sono stati dati in affido, soprattutto a parenti e connazionali. Nonostante sia la soluzione migliore, sia per il benessere del bambino che per i costi contenuti, stimati intorno ai 500 euro al mese, i numeri restano bassi, per la scarsa sensibilizzazione promossa dalle istituzioni. La prima destinazione - 3.032 minori sono nei centri di prima accoglienza, dove vengono ospitati subito dopo lo sbarco. In queste strutture accreditate dai Comuni e Regioni è previsto un tempo massimo di permanenza di 30 giorni, perché è elevato il rischio di essere adescati dalla criminalità con la promessa di soldi facili. In realtà i tempi sono più lunghi: si arriva anche fino a nove mesi. I minori dovrebbero essere collocati nei centri presenti in tutte le regioni, ma di fatto ben 1.748 minori sono concentrati in Sicilia dove la normativa consente la deroga agli standard previsti: dal numero massimo di minori per struttura, a quello minimo di operatori dedicati. Poi un centinaio si trovano nei centri di accoglienza straordinaria (Cas), autorizzati dai prefetti solo per le situazioni di massima emergenza. La chiusura di 70 centri - Il 27 marzo scadrà il finanziamento del ministero dell’Interno a 70 Centri di prima accoglienza. Ne rimarranno aperti 7 in Sicilia e 1 in Molise. La buona notizia è che i minori che oggi stanno nei Centri di prima accoglienza saranno trasferiti dove dovrebbero già stare, cioè nelle strutture di seconda accoglienza, dove viene insegnato l’italiano, e garantito il percorso di crescita e integrazione. La cattiva notizia è che i posti per ospitarli non bastano. Dove i minori dovrebbero stare - La seconda accoglienza contempla gli Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Oggi ospitano 3.087 minori; ognuno costa 80/100 euro al giorno, stanziati dal Fondo asilo migrazione e integrazione del Ministero dell’Interno. Il 24 gennaio il Viminale ha annunciato che incrementerà la disponibilità di posti di 400 unità. Ma siccome i minori da trasferire superano i 3.000, è evidente che i ragazzini rimarranno “concentrati” in Sicilia, nonostante i ripetuti inviti del Garante Nazionale dell’Infanzia a smistarli in tutta Italia, proprio per consentire una migliore integrazione. E infatti le percentuali parlano da sole: in Lombardia l’8%, in Emilia Romagna il 7,5%, in Sicilia il 38%. Casa famiglia - Sul totale dei minori non accompagnati, 3.338 stanno nelle case famiglia allestite su base volontaria dai Comuni, ma sempre più sindaci si rifiutano di accoglierne altri, anche per motivi economici: il rimborso che ricevono è di 45 euro al giorno pro capite, a fronte di spese doppie. Risultato: le adesioni sono talmente poche che non vengono neppure utilizzati i soldi a disposizione. Sui 170 milioni del 2016 erogati dal Fondo minori ne sono stati utilizzati solo 125,5; sui 170 del 2017 poco più di 156. I tutori che non ci sono - Per legge ciascun minore deve avere un tutore, e ogni tutore può occuparsi di tre minori. I cittadini che hanno dato la disponibilità ad assumere l’incarico a titolo volontario sono 5.501, ma quelli effettivamente nominati dai Tribunali dei minorenni oggi sono decisamente meno. Così c’è ancora la tutela di massa, come denunciava lo scorso maggio la Garante per l’Infanzia Filomena Albano. I maggiorenni a rischio - Cosa ne sarà poi dei 6.492 minori che diventeranno maggiorenni nel 2019? La protezione umanitaria, alla quale è stata fin qui legata una gran parte dei permessi di soggiorno al compimento dei 18 anni, non è più prevista dal Decreto sicurezza. Prima della sua entrata in vigore, i minorenni che presentavano domanda di asilo, se non c’erano i presupposti per la protezione internazionale, considerata la particolare condizione di vulnerabilità, potevano accedere alla protezione umanitaria. Ora che il decreto l’ha abolita, i minori che hanno fatto richiesta di asilo, e si vedranno notificare il diniego a ridosso della maggiore età, o a 18 anni compiuti, diventeranno irregolari. Per rimpatriarli non ci sono gli strumenti. In conclusione, dopo averli illusi attraverso il percorso di integrazione, fatto di diritti e doveri, li abbandoniamo, costruendo così un potenziale bacino di reclutamento per la criminalità comune, e di odio verso la società che dovrebbe integrarli. Migranti. Sea Watch, Salvini contro i parlamentari che “violano la legge” La Repubblica, 28 gennaio 2019 La giurista lo smentisce: “Tutto regolare”. Il ministro dell’Interno minaccia denunce contro i tre deputati d’opposizione saliti a bordo della nave della Ong che ha salvato 47 migranti. Ma la docente della Luiss Angela del Vecchio: “Esercitano le loro prerogative, l’imbarcazione è in acque italiane”. “Parlamentari italiani (fra cui uno di Forza Italia) non rispettano le leggi italiane e favoriscono l’immigrazione clandestina?” si chiede sibillino Matteo Salvini, a proposito del blitz sulla Sea Watch3 che ha visto protagonisti l’azzurra Stefania Prestigiacomo, il Leu Nicola Fratoianni e l’esponete di +Europa Riccardo Magi. Pronta la replica dei deputati. “Salvini ci denunci” lo sfida Magi. “Noi non abbiamo violato un bel niente”, taglia corto Prestigiacomo. Entrambi d’accordo nel sostenere l’esercizio delle “prerogative parlamentari costituzionalmente protette, che prevedono di poter svolgere ispezioni in un luogo da giorni nel limbo del diritto e dell’umanità. Sarebbe stato semmai illegale impedirci l’ispezione e le motovedette, se avessero voluto lo avrebbero potuto fare. E questa è già una risposta”. Ma chi ha ragione? Codice alla mano, dalla parte del torto sarebbe il vicepremier leghista. “La Sea Watch3 si trova a un miglio dalla costa, è nelle acque territoriali italiane ed è sottoposta al controllo dello Stato Italiano. I parlamentari hanno la possibilità di andare nelle carceri e negli ospedali per verificare situazioni che ritengono pericolose, non vedo perché fare eccezione per una nave che è nelle acque italiane”, spiega Angela Del Vecchio, professore di Diritto internazionale e Giurisdizione internazionale presso la facoltà di Giurisprudenza della Luiss. “Sembra che noi navighiamo in un mondo senza norme, sia internazionali sia dell’Unione europea”, insiste. “Le norme internazionali non hanno più valore se chi deve rispettarle non le applica”. A gestire il caso della Sea Watch, osserva ancora la giurista, “dovrebbe essere il ministro delle Infrastrutture e del Trasporti, perché la competenza sulle navi in mare è delle Capitanerie di porto controllate dal Mit. Il Viminale ha competenza quando i migranti sono sul territorio italiano. Fino a quel momento la competenza è di Toninelli”. Che potrebbe tutt’al più condividerla col ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi dal momento che “ci sarebbero anche problemi di rapporti internazionali”. E pure l’interpretazione su cosa debba intendersi per “porto sicuro” non è così scontata. “Il presupposto - aggiunge la professoressa Del Vecchio - è sempre il diritto del mare. Il “porto sicuro” dipende sì dalle condizioni della nave e dalle condizioni meteorologiche, e può essere il porto più vicino, ma deve anche essere un porto dove le persone possano trovare la tutela dei diritti umani”. Perché alla fine è sempre una questione di conoscenza delle materie di cui si parla: “I politici si muovono in una rete intessuta di norme dove c’è il diritto del mare, il diritto della navigazione, il diritto commerciale e il diritto internazionale”, conclude la giurista: “Il diritto serve proprio per gestire situazioni difficili come queste”. Le carceri in Slovenia e il modello scandinavo di Charles Nonnes balcanicaucaso.org, 28 gennaio 2019 Con i suoi 1.400 detenuti, la Slovenia è tra i Paesi europei con il più basso tasso di detenuti per abitanti. Ma il sovraffollamento rimane un problema e gli esperti chiedono politiche di reinserimento sociale. Niente fa capire al visitatore che sta per entrare in un penitenziario. Lasciando la via principale di Ig, piccola città a sud di Lubiana, una stretta strada asfaltata serpeggia attraverso file di conifere senza incontrare alcuna barriera, guardia o dispositivo di sicurezza. L’edificio massiccio assomiglia ad uno tra le centinaia di forti medievali del territorio sloveno: residenza nobiliare fino al 1717, ha attraversato rivolte contadine, gli attacchi degli Ottomani, la villeggiatura dei carabinieri italiani, l’incendio innescato dai partigiani. Solo le sbarre delle finestre tradiscono il fatto che il castello di Ig, vecchio più di sei secoli, è una delle sei prigioni della Slovenia e l’unico centro di detenzione femminile nel paese. Il penitenziario ha 50 dipendenti e 75 detenute, divise in zone chiuse, semi-aperte o aperte. Le quattordici detenute di quest’ultima categoria possono liberamente fare telefonate, usare i loro computer, Internet e camminare nel parco vicino alla fortezza. Le uscite avvengono senza intoppi. “C’è una buona convivenza con la popolazione locale”, sottolinea Tadeja Glavica, direttrice della prigione. Con un tasso di occupazione di solo il 72,82%, Ig risulta sicuramente un carcere modello. Per Tadeja Glavica la principale difficoltà sta nell’utilizzo dell’edificio, in qualche suo aspetto poco adatto alla funzione che svolge: “C’è solo uno spazio molto piccolo per le madri che ricevono visite dai propri figli, non abbiamo un posto dedicato per le visite e le detenute spesso dormono in ampie sale comuni senza alcuna intimità”. Ci sono solo sei carceri in Slovenia. Data l’assenza di grandi centri urbani, il tasso di criminalità rimane inferiore rispetto ad altri paesi della regione. Il 60% delle condanne a reclusione sono legate a furti, furti con scasso o traffico di droga. L’ergastolo è in vigore dal 2008, ma la pena massima rimane de facto di 30 anni di reclusione. “Spiegando a un collega messicano che la Slovenia aveva solo 1.500 detenuti, inizialmente pensò che avevo dimenticato degli zeri”, sorride Damjana Žist, penalista e giornalista giudiziaria per il quotidiano di Maribor Vecer. Nel 2016, il tasso medio di incarcerazione in Slovenia era del 63,4 per 100.000 abitanti, a fronte dei 117 come media europea. Dall’inizio del secolo il vecchio continente è l’unica macroregione al mondo a conoscere una riduzione della popolazione carceraria. Una tendenza che si spiega con gli sviluppi positivi in Russia e in Europa centro-orientale. Invece in Italia si registra un aumento del 13% in tre anni, e si fa notare il problema del sovraffollamento. Un’analisi del network Edjnet Il paese ha 1398 prigionieri per 1339 posti disponibili, con un tasso di occupazione quindi del 104%. La realtà è però più contrastata: la prigione di alta sicurezza di Dob, 60 chilometri a est di Lubiana, ospita 497 detenuti per 449 posti, nonostante la costruzione di una nuova ala nel 2012. La piccola prigione di Capodistria ospita 146 detenuti per 110 posti. Inoltre la popolazione carceraria è in aumento, in particolare tra le donne, e il tasso di recidiva raggiungerebbe il 50% tra i detenuti di età superiore ai 18 anni. Il problema è amplificato dalla precarietà di strutture che inizialmente non erano state concepite come prigioni. Lubiana rimane la pecora nera: “Fino al 2014 c’erano ancora prigionieri stipati in celle dove i bagni e la doccia erano separati dal resto della cella da una tenda”, sottolinea Damijana Žist. Condanne internazionali - La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) viene regolarmente adita da detenuti sloveni che denunciano l’angustia e l’insalubrità delle loro celle: tra il 2012 e il 2018, lo stato ha pagato più di 173.277 euro di danni e interessi a detenuti ed ex detenuti. A questi si aggiungono i 119.204 euro erogati a seguito di procedimenti giudiziari intentati nei tribunali sloveni. L’ombudsman slovena Vlasta Nussdorfer, che ha in ogni caso sottolineato evidenti miglioramenti negli ultimi anni, rileva “condizioni di vita ancora negative nella maggior parte delle strutture. I prigionieri non devono essere privati ??della loro dignità umana”. Ogni anno, il suo ufficio pubblica raccomandazioni come la possibilità di lavorare per i detenuti che ne facessero richiesta, una migliore assistenza per i gruppi più vulnerabili e la ristrutturazione delle celle. Il fenomeno è aggravato dalla carenza di personale: “Siamo in situazioni in cui un solo poliziotto accompagna un detenuto in tribunale e siamo talvolta obbligati a rinviare le udienze”, afferma Damjana Žist. Il personale di altre carceri deve a volte dare man forte a quello di Lubiana, in un contesto di spossatezza denunciato dai sindacati: tra gennaio e luglio 2018, ogni guardia ha lavorato in media 91 ore di straordinario. Le falle del sistema sono state messe a nudo nel caso dell’evasione nel gennaio 2019 di due detenuti dalla prigione di Capodistria, fuggiti dopo aver segato le sbarre della loro cella e aver utilizzato dei bidoni della spazzatura impilati nel cuore della notte. La loro fuga è stata scoperta solo il giorno successivo, a colazione. L’incidente è costato al direttore della prigione un pensionamento immediato, oltre a un rapporto al vetriolo della commissione di inchiesta. Pene alternative - Da oggi al 2023, saranno investiti più di 100 milioni di euro per la costruzione di un nuovo penitenziario nei pressi della capitale. Avrà una capacità di 388 posti, più del doppio della prigione di Lubiana, che andrà a sostituire. Ig sarà ristrutturato e ampliato. L’ombudsman Damjana Žist si felicita di queste misure pur rilevando che “il problema del sovraffollamento non può essere risolto con la semplice costruzione di nuove prigioni”. Il governo sta addirittura pensando di poter riassegnare i soldati che sono oltre i 45 anni alla sorveglianza penitenziaria. Per Damjana Žist, il problema è l’indurimento delle pene. “I penitenziari sarebbero meno affollati se i giudici usassero più spesso punizioni alternative”, come servizi alla comunità, arresti domiciliari e il carcere nel fine settimana. Tuttavia, questi ultimi sono accessibili solo per reati punibili con la reclusione fino a tre anni e su richiesta dell’imputato. L’alternativa spesso è solo tra carcere e assoluzione. “La costruzione di carceri era assolutamente necessaria, ma è solo uno spegnere l’incendio quando le luci di emergenza lampeggiano”, sottolinea Mojca Plesnicar, ricercatrice presso l’Istituto di criminologia della facoltà di diritto di Lubiana. Al di là della questione delle pene alternative, Plesnicar evidenzia la mancanza di omogeneità nelle politiche in campo penale. “I segnali inviati dal ministero della Giustizia non sempre sono coerenti. Spesso si dipende dall’iniziativa personale dei giudici”. Inoltre, in assenza di linee guida specifiche, la gestione di ciascun carcere dipende dallo stile del suo direttore. Il sistema scandinavo - Il quadro rimane comunque positivo se lo si compara al contesto internazionale. Il tasso di affollamento è inferiore rispetto ad altri paesi come la Francia o il Belgio. Le condanne dei giudici di Strasburgo per trattamenti umanitari o degradanti riguardano solo il carcere di Lubiana. I rari casi di strutture obsolescenti dovrebbero essere risolti con i recenti investimenti. Il concetto di “regime aperto” ricorda tra l’altro le prigioni aperte in gran numero in Svezia. “In verità - dice Mojca Plesnicar - non siamo così lontani dal modello scandinavo. Ci sono ovviamente fattori che dipendono dal PIL del paese, ma il divario fondamentale tra gli stati del nord e la Slovenia è più legato alla concezione del regime carcerario. La Slovenia rimane combattuta tra la visione punitiva del sistema anglosassone e il sistema riabilitativo scandinavo, incentrato sui bisogni e sulla reintegrazione dei detenuti”. E Mojca Plesnicar poi tira fuori una sorprendente fonte di ispirazione: la Jugoslavia negli anni 80, che avrebbe promosso il sostegno umano per i detenuti piuttosto che l’asprezza della sorveglianza. “All’epoca, la socioterapia era parte integrante del sistema carcerario. Le autorità erano consapevoli dell’importanza di aprire il carcere. Ig era a quei tempi un modello: quasi tutte le detenute erano collocate nell’area aperta. In contatto quasi permanente con il mondo esterno”. Venezuela. Maduro contro la Ue: nessuno ci dà ultimatum di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 28 gennaio 2019 Maduro respinge l’ultimatum europeo, Washington minaccia reazioni, dietro le quinte si tratta. L’avvertimento è di una durezza senza precedenti: “Qualsiasi tipo di violenza o intimidazione contro il personale diplomatico americano, il leader democratico Juan Guaidó o l’Assemblea nazionale provocherebbero una risposta significativa da parte degli Stati Uniti”. Il messaggio di John Bolton, consigliere dalla Sicurezza nazionale di Washington, cade all’improvviso nel mezzo di una domenica di tregua nella crisi venezuelana. Erano passate poche ore dalla scadenza teorica di un ultimatum, quelle 72 ore che Nicolás Maduro aveva dato all’ambasciata americana per chiudere e ai diplomatici per fare le valigie. Il governo venezuelano, in verità, aveva già fatto dietro front. Sabato sera - alla scadenza del termine - il ministero degli Esteri aveva emesso una nota allungando le 72 ore in 30 giorni, e lanciato l’idea di riprendere un minimo di relazioni diplomatiche sostituendo l’ambasciata con un ufficio di interessi, come quello che c’è stato a Cuba per mezzo secolo. Fatta la sparata, insomma, a Caracas hanno fatto due conti di quel che avrebbe significato la rottura totale con gli americani. Dal punto di vista economico, per esempio, sarebbe catastrofica per il peso che hanno le esportazioni petrolifere e i dollari Usa su un’economia già in ginocchio. Con l’avversario in chiaro affanno, la Casa Bianca ha quindi deciso l’affondo. Ora non solo avverte il regime chavista a non toccare i propri cittadini a Caracas, come è ovvio, ma allarga la protezione al “suo” presidente Guaidó, l’unico che riconosce come legittimo, e a tutto il Parlamento venezuelano, l’unica istituzione rimasta sotto il controllo dall’opposizione. In tutto questo è cominciato il conto alla rovescia per un altro ultimatum, gli otto giorni dati a Maduro da alcuni Paesi europei (ma non l’Italia) affinché convochi elezioni libere e pulite. Al termine dei quali anche l’Europa riconoscerebbe Guaidó come presidente legittimo, aumentando l’isolamento del regime. Ieri si è alzata forte anche la parola di papa Francesco, dal vicino Panamá: “Ho pensato molto al popolo venezuelano, al quale mi sento particolarmente unito in questi giorni. Davanti alla grave situazione che attraversa, chiedo al Signore che si cerchi una soluzione giusta e pacifica per superare la crisi rispettando i diritti umani e desiderando il bene di tutti gli abitanti del Paese”. Maduro aveva trascorso la domenica assistendo ad esercitazioni militari, Guaidó è andato a una messa in ricordo dei caduti per la libertà. Il primo intende mostrare a reti unificate la fedeltà assoluta delle forze armate, in risposta alle sirene dell’opposizione che sognano di dividerle; il suo rivale va in onda solo su YouTube, spunta come tutti i giorni in una piazza di Caracas a caso con il minimo di preavviso, arriva e se ne va seguito da una squadra di motociclisti guardaspalle. Le parole d’ordine restano le stesse - i due fronti si negano legittimità a vicenda - ma i dettagli raccontano un’altra storia. Nessuno sembra volere davvero uno show down finale, il che significa che la crisi venezuelana si sta avviando probabilmente verso un negoziato. E non mancano segnali di incontri segreti avvenuti negli ultimi giorni. Venezuela. Il Papa: “Soluzione pacifica nel rispetto dei diritti umani” di Paolo Rodari La Repubblica, 28 gennaio 2019 “In questi giorni a Panama ho pensato molto al popolo venezuelano, mi sento particolarmente vicino a loro. In questo momento di difficoltà chiedo al Signore che si possa cercare una soluzione giusta e pacifica per superare la crisi rispettando i diritti umani e cercando il benessere di tutti i cittadini del Paese”. Così Francesco dopo la preghiera dell’Angelus recitata oggi presso la Casa Hogar El Buen Samaritano a Panama, nell’ultimo giorno della sua permanenza nel Paese centroamericano in occasione della Giornata Mondiale dei Giovani, affidando il popolo venezuelano alle preghiere alla Vergine di Coromoto, patrona dello stesso Venezuela. Il Papa rompe il silenzio sulla crisi venezuelana dopo che due giorni fa in un comunicato la Santa Sede aveva fatto sapere che “il Santo Padre, raggiunto a Panama dalle notizie provenienti dal Venezuela, segue da vicino l’evolversi della situazione e prega per le vittime e per tutti i venezuelani”. Insieme il comunicato Vaticano spiegava che la “Santa Sede appoggia tutti gli sforzi che permettano di risparmiare ulteriore sofferenza alla popolazione”. Le parole di Francesco arrivano dopo confronti continui fra la segreteria di Stato vaticana, la nunziatura di Caracas e i vescovi del Venezuela. Molti dei presuli locali hanno chiesto in queste ore che si rispetti il diritto della popolazione alla protesta, e sono scesi loro stessi per primi in piazza coi manifestanti. Le parole di Bergoglio sono in ogni caso più prudenti e mostrano la costante preoccupazione della diplomazia pontificia per una soluzione pacifica senza entrare direttamente dentro le vicende politiche. È un momento di commozione particolare per Francesco la preghiera nell’Hogar che fornisce assistenza ai giovani e adulti privi di sostegno economico e affetti dal morbo dell’Hiv-Aids. Francesco decide di rivolgere qui le sue preghiere anche per le vittime dell’attentato terroristico nelle Filippine avvenuto nel duomo, mentre si celebrava messa: “Condanniamo questa violenza che colpisce questa comunità cristiana. Prego il Signore, principe della pace, affinché converta i cuori dei violenti e garantisca agli abitanti di quella popolazione una pacifica convivenza”, dice. E ancora ecco un’altra preghiera per “il riposo eterno e la pace” dei 21 giovani cadetti uccisi nell’attentato terroristico dello scorso 17 gennaio in Colombia e che non hanno potuto essere presenti a Panamá. Francesco chiede il permesso ai presenti di poter leggere i loro nomi pubblicamente e li pronuncia lentamente, uno a uno, nel silenzio dell’Hogar. E, infine, prega anche per le vittime della diga crollata in Brasile (un centinaio già recuperate, ma si arriverà forse a 500). Il post Angelus dura in tutto dieci minuti, un momento nono breve e vissuto intensamente dal Papa e anche con commozione. Ed è anche l’occasione per il Papa, nella Giornata internazionale della commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto, per pronunciare un forte appello contro il rischio che la Shoah sia dimenticata aprendo così la porta a nuove analoghe tragedie. “Dobbiamo mantenere vivo il ricordo del passato e imparare dalle pagine nere della storia in modo da non ripeterlo, non fare mai più gli stessi errori”, dice. E ancora: “Continuiamo a sforzarci, instancabilmente, a coltivare la giustizia, aumentare la concordia e sostenere l’integrazione, essere strumenti di pace e costruttori di un mondo migliore”. Poco prima della preghiera dell’Angelus Francesco ha celebrato invece la messa domenicale al Campo San Juan Pablo II. Con lui c’erano 700mila giovani. Al termine è stato il cardinale Kevin Farrell ad annunciare a tutti che la prossima Gmg si terrà nel 2022 a Lisbona, in Portogallo. Durante la messa il Papa ha spronato i giovani a vivere la loro età non come in una “sala d’attesa”, preparando un futuro che arriverà. “Cari giovani - ha detto , non siete il futuro, ma l’adesso di Dio”. E ancora: “Vi tranquillizziamo e vi addormentiamo perché non facciate rumore, perché non facciate domande a voi stessi e agli altri, perché non mettiate in discussione voi stessi e gli altri; e in questo ‘frattanto’ i vostri sogni perdono quota, cominciano ad addormentarsi e diventano illusioni rasoterra, piccole e tristi”. Afghanistan. Accordo vicino fra Taleban e Usa: “Ritiro Nato entro 18 mesi” di giordano stabile La Stampa, 28 gennaio 2019 Patto contro Al-Qaeda e Isis: “Li combatteremo”. Oggi l’incontro dell’inviato americano con il presidente Ghani. Svolta nei negoziati fra gli Stati Uniti e i Taleban nei negoziati che puntato a mettere fine a 17 anni di guerra. Un tweet dell’inviato speciale della Casa Bianca per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, dall’aereo che lo riportava da Doha a Kabul ha dato il via a una girandola di indiscrezioni. “Dopo sei giorni di colloqui in Qatar - annunciava Khalilzad - sono diretto in Afghanistan per consultazioni. Gli incontri sono stati molto più produttivi che in passato. Abbiamo fatto progressi significativi su questioni vitali. Abbiamo creato il clima giusto e presto i colloqui riprenderanno”. Khalilzad incontrerà il presidente afghano Ashraf Ghani per sottoporgli la bozza di intesa. È lo scoglio più difficile, perché il governo di Kabul è stato escluso dai colloqui per il vedo dei jihadisti e serve anche il suo consenso. E infatti Khalilzad ha avvertito alla fine: “Nulla è concluso finché tutto non è concluso, è tutto include il dialogo infra-afghano” cioè fra il governo di Kabul e i Taleban. In ogni caso l’ultima tornata di colloqui a Doha, dopo anni di stallo, è stata quella della svolta. I rappresentati dei Taleban hanno fatto filtrare i primi dettagli dell’accordo, non confermati ma neppure smentiti dalla diplomazia americana. Prevedono il ritiro delle “forze straniere”, cioè delle truppe della Nato “entro 18 mesi” dalla firma dell’accordo. Ci sarà un governo “transitorio” che dovrà vegliare sul rispetto degli accordi, soprattutto da parte dei jihadisti. In cambio i Taleban concentreranno le loro forze “contro Al-Qaeda e l’Isis”, come ha rivelato il Wall Street Journal in contatto con fonti americani vicine ai negoziatori. I Taleban non imporranno uno “Stato islamico” sul modello del regno del terrore del mullah Omar ma una forma di legge islamica più moderata simile a quella in vigore in Pakistan. Le fonti talebane hanno ribadito che non sarà mai più permesso “ad Al-Qaeda o all’Isis di fare dell’Afghanistan una base per attaccare gli Stati Uniti”, come fece invece il Mullah Omar con il suo appoggio a Osama bin Laden, che dal suo rifugio afghano ideò il massacro delle Torri Gemelle. È questo il punto che sta più a cuore a Washington, che ha combattuto per 17 anni contro Al-Qaeda e i Taleban alleati sulle montagne che già videro la disfatta dell’esercito sovietico, e ha perso oltre duemila soldati nella guerra. I colloqui hanno raggiunto un nuovo livello con l’arrivo del co-fondatore del gruppo jihadista, Abdul Ghani Baradar, che nel 1994 ha creato il gruppo degli studenti barbuti assieme al Mullah Omar. Baradar è stato arrestato nel 2010 e rilasciato dalle autorità pachistane lo scorso ottobre, proprio per facilitare le trattative con gli Usa. Baradar tratterà nella fase finale con l’inviato della Casa Bianca Zalmay Khalilzad, cittadino Usa ma anche lui di origini afghane pashtun, come la maggior parte dei talebani. Segno che Washington, Islamabad e i Taleban fanno sul serio.