L’azione penale e i troppi innocenti mandati a processo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 gennaio 2019 Un diluvio di dati solo quantitativi: questo, di solito, è la cerimonia dell’anno giudiziario, dove ogni capo ufficio rimarca quanto arretrato sia riuscito a smaltire, in quale frazione di minor tempo, con quante poche risorse. Mai, invece, uno straccio di dato qualitativo (complice sul punto l’afasia delle statistiche ufficiali): ad esempio, quante condanne o assoluzioni per 100 imputati mandati a giudizio. Forse perché la risposta non sarebbe indolore: a Milano due anni fa una rilevazione a campione fu tentata, e subito accantonata come inaffidabile o non significativa, dopo che era parsa rilevare tra il 28,5% e il 46,2% di assoluzioni già in primo grado a seconda dei tipi di giudizio. E dunque una novità che ieri si rompa il tabù. Il presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, al netto delle “direttissime” che “dopano” i dati al rialzo (visto che le condanne fioccano al pianoterra degli arrestati per strada la notte prima), segnala che subito in primo grado c’è più di i assolto su 3 nei dibattimenti a competenza collegiale del circondario, e addirittura i su 2 in quelli monocratici (diversi da quelli definiti con riti alternativi). Esiti ai quali sommare le ulteriori assoluzioni in Appello, e le prescrizioni. E anche a Venezia la presidente della Corte del distretto, Ines Marini, conteggia il 41% di assoluzioni in primo grado monocratico, in linea con l’artigianale “carotaggio” milanese e il dato torinese. Brutale la franchezza di Terzi: “Proiettati su base nazionale, vuol dire avere ogni anno 150.000 persone, cioè un milione e mezzo in dieci anni, che attendono in media 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti, non prescritti) all’esito del primo grado”. Ci vuole “un più efficace filtro all’inizio della “filiera” giudiziaria”, invoca Marini per stroncare il circolo vizioso tra intasamento dei tribunali e dilatazione dei tempi, mentre Terzi propone che, “abolita l’udienza preliminare, i pm esercitino l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee a convincere il giudice della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”. Da Milano, dove il pg Roberto Alfonso calcola che in teoria siano 121.000 le indagini da avocare perché non definite nei termini di legge, la presidente della Corte d’Appello, Marina Tavassi, rimarca cruciali i modelli di organizzazione degli uffici, perché a suo avviso “il problema principale del processo non è la prescrizione”, a Milano intervenuta “nel triennio 2015-2017 in 83 casi sui”) già prima dell’inizio del processo: laddove i processi non si celebrano non è “per colpa” della prescrizione - dice - i processi non si fanno per altre innumerevoli ragioni e allora si prescrivono, ma si prescrivono appunto laddove i processi non si fanno”. Ma neppure un’organizzazione da Nembo Kid può fare miracoli se il budget minimo di risorse (magistrati e soprattutto cancellieri) non è rapportato ai carichi reali: “Siamo con l’acqua alla gola - riassume a Roma il procuratore Giuseppe Pignatone: è un miracolo che si raggiungano i risultati nelle condizioni date”. L’allarme dai tribunali: 150mila innocenti processati ogni anno di Luca Fazzo Il Giornale, 27 gennaio 2019 All’apertura dell’anno giudiziario toghe turbate per la nuova prescrizione: ingiusta e inefficace. Le consuete lagnanze sulla mancanza di personale. Gli eterni allarmi sulla corruzione che sale, l’attenzione che scende, i soldi che sono sempre troppo pochi. Da un capo all’altro della Penisola, ieri le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario nelle ventisei sedi di Corte d’appello hanno riproposto con poche variazioni i temi di ogni anno. Con una sola eccezione, che viene da Torino, e che ha rischiato di perdersi nei milioni di parole che hanno sommerso le cerimonie. Ed è un peccato, perché - sfidando l’impopolarità - un giudice ha sostenuto che il vero scandalo non sono i cancellieri che scarseggiano. Il cuore del problema sono i milioni di cittadini che vengono inquisiti e processati pur essendo innocenti, e che devono attendere anni e anni per vedere riconosciuta la loro estraneità alle accuse. Il giudice controcorrente si chiama Massimo Terzi, è presidente del tribunale di Torino, e si è preso la briga di analizzare i dati della giustizia con i criteri con cui si analizza l’economia: e ha raggiunto la conclusione che “il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirsi, in gergo di rating, titoli spazzatura”. I dati, dice Terzi, non consentono altra valutazione: 596.426 processi pendenti davanti a giudici monocratici, quelli dei processi più semplici; altri 27.823 davanti a tribunali collegiali. “Salvo corsie preferenziali, dalla data di ipotetica commissione del reato alla emissione di una sentenza di primo grado, mediamente intercorrono 4/5 anni”. Tanti, ma non tantissimi, se l’impatto è colpevole. Il problema è che il sistema inghiotte un numero impressionante di innocenti. Terzi utilizza il dato di Torino (35% di assolti dai tribunali collegiali, 50% dai giudici monocratici), lo proietta su scala nazionale e conclude: “Ogni anno abbiamo 150mila indagati poi imputati che attendono quattro anni dalla notizia di reato per essere assolti. Un milione e mezzo ogni dieci anni. Sulla base di questi dati, dall’entrata in vigore del codice di procedura penale, trent’anni fa, abbiamo processato e assolto 4 milioni e mezzo di imputati”. Il rimedio? Serve un “radicale intervento chirurgico” ovvero “che il pm eserciti l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna, cioè idonee a convincere il giudice oltre ogni ragionevole dubbio”. E, prevenendo le critiche: “Se qualcuno volesse portare argomenti di civiltà giuridica contro tali proposte, lo inviterei a riflettere se è conforme a democrazia che nei prossimi trent’anni si continuino a processare, per poi mandarli assolti già all’esito del processo di primo grado, altri cinque milioni di imputati”. Una denuncia quasi esplosiva, che ieri invece cade nel nulla. Siti internet e telegiornali raccontano solo gli altri discorsi inaugurali, riproducibili senza modifiche l’anno passato e l’anno prossimo. Unica variante, la valutazione che dai vertici degli uffici giudiziari viene della riforma della prescrizione, varata tra molte polemiche dal governo 5 Stelle - Lega e destinata a entrare in vigore il prossimo gennaio. Una riforma di cui poche voci isolate come Gemma Cucca, presidente della Corte d’appello di Cagliari, mettono in discussione la civiltà (“una sanzione inflitta a distanza di anni è sempre ingiusta”) mentre più numerosi sono i magistrati che si limitano a dubitare della concreta efficacia. È il caso di Marina Tavassi, presidente della Corte d’appello di Milano, che segnala come la stragrande maggioranza delle prescrizioni, 1’83 per cento del totale, sia dovuta non alla lunghezza dei processi ma a quella delle indagini preliminari: e qui la riforma Bonafede, che stoppa il calcolo dopo la prima sentenza, non è destinata a incidere. Le toghe: “È morta la pietà”. Attacco alla linea Salvini di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2019 Alle cerimonie d’inaugurazione dell’anno giudiziario tensione tra magistratura e Governo sulle politiche di ordine pubblico. Nel mirino decreto sicurezza e misure sui migranti. Sale la tensione tra magistratura e Governo. Nelle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario, tradizionale termometro dello stato dei rapporti tra politica e toghe, sono le politiche di ordine pubblico a fare il pieno di contestazioni. Da Torino, “è morta la pietà”, a Bari, “il decreto sicurezza darà molto lavoro alla Corte costituzionale”, i capi degli uffici giudiziari mettono nel mirino le scelte fatte sui migranti, ma anche un clima che porta a una sempre più accentuata delegittimazione della magistratura. E il vicepresidente del Csm David Ermini contesta il populismo giudiziario: “il giudice non è un sacerdote o un portavoce della volontà popolare”. Nell’anno primo del governo gialloverde, la preoccupazione della magistratura è più per il verde che per il giallo. Più per le politiche di ordine pubblico che per quelle squisitamente giudiziarie. Più per le scelte fatte in materia di migranti e sicurezza che di prescrizione e anticorruzione. Almeno se si vuole ancora tenere fede a quel barometro del clima tra politica e toghe rappresentato dalla giornata di inaugurazione dell’anno giudiziario. Perché allora a restituire il tono della mattinata è Torino, dove il procuratore generale Francesco Saluzzo, a proposito del trattamento che i migranti subiscono nel nostro paese, avverte che “la pietà è morta, almeno quella declinata nel suo senso laico”. Per Saluzzo “la politica di contrasto all’immigrazione clandestina e di controllo del territorio è dovuta e sacrosanta” ma “al tempo stesso totalmente disinteressata al profilo umanitario”. Parole seguite da un lungo e desueto applauso; gli fa eco il presidente della Corte d’appello piemontese Edoardo Barelli Innocenti, che citando il torinese Primo Levi sui campi di sterminio, condivide la forte preoccupazione, per un tempo nel quale “se questo è accaduto può accadere di nuovo”. E, per il Procuratore generale di Roma Giovanni Salvi “legalità non è solo repressione. Occorre avere piena consapevolezza, ad esempio, della complessità della questione migratoria, che tanto impatto ha sia sulla percezione della sicurezza che sulle attuali politiche securitarie”. “Pare esserci abbondante materia di lavoro per la Corte Costituzionale sulla nuova normativa in materia di immigrazione”, sottolinea il presidente della Corte di appello di Bari, Franco Cassano. “La nostra Costituzione - spiega - assicura allo straniero il diritto d’asilo. La Cassazione aveva indicato nella misura del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie la soglia minima di attuazione del principio costituzionale. Il primo articolo del decreto sicurezza, invece, abroga la protezione umanitaria”. E sessanta magistrati emiliano-romagnoli hanno firmato un foglio, distribuito prima dell’inizio della cerimonia di inaugurazione, in cui vengono riportate le parole di don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera. “Dobbiamo insorgere quando vengono violati i più elementari diritti umani. Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità - si legge - come cittadini e come cristiani. Il primo grande naufragio è quello delle nostre coscienze”. Ma l’emergenza immigrazione mette anche sotto forte pressione organizzativa gli uffici giudiziari. Eloquenti i dati della Cassazione con l’esplosione dei ricorsi, dopo la soppressione dell’appello, sulla protezione internazionale, ma significativi, sul territorio, quelli di Milano, dove i procedimenti pendenti sono passati in 2 anni dai 291 del 2016 ai 1.651 della metà del 2018. Sulle tensioni con la politica in materia di sicurezza pubblica battono anche esponenti del Csm. “Allarme e preoccupazione” ha espresso, nel suo discorso a Roma, il consigliere Giuseppe Cascini, sugli attacchi a magistrati per decisioni non gradite “perché mettono a repentaglio valori fondanti dello Stato di diritto, come la soggezione del giudice solo alla legge”. Lo stesso vicepresidente del Csm, David Ermini, intervenuto ad Ancona, dopo avere criticato il rischio di “indebite pressioni” sul lavoro della magistratura soprattutto “se alimentate a livello istituzionale”, allargala preoccupazione a un visione del diritto e del giudice stesso “non come colui che applica la legge ancorandola ai principi generali della Costituzione e dell’ordinamento giuridico, ma piuttosto come il sacerdote, se non il semplice portavoce, del giudizio e della volontà popolare. Il rischio è quello di una delegittimazione sottotraccia. Il popolo, nel cui nome sono pronunciate le sentenze, vive infatti la sua sovranità entro la cornice delineata dalla Costituzione”. E un richiamo a una comunità della giurisdizione fondata sul rispetto dei ruoli, è stato fatto anche dal presidente del Cnf Andrea Mascherin. “Sicurezza, nuove leggi pericolose. E sono impuniti i reati economici” di Matteo Indice Il Secolo XIX, 27 gennaio 2019 Se le premesse sono queste, sarà un anno giudiziario come minimo complicato, sul fronte politico e specificamente in Liguria. Lo sarà perché il procuratore generale, pronunciando il discorso d’inaugurazione, demolisce in modo felpato due pilastri eretti o in costruzione da parte dell’attuale maggioranza di governo nella sua trazione leghista, definendoli sproporzionati all’attualità dell’emergenza ligure e nazionale. Nel mirino finiscono così la legge sulla legittima difesa, che procede a tappe forzate mentre i reati predatori calano senza soluzione di continuità, e la stretta sui permessi umanitari, che sempre in Liguria avevano rappresentato nell’ultimo triennio un viatico a forme d’integrazione non sempre strutturali e però sovente capaci di drenare l’emorragia verso la devianza più spinta: “La Costituzione dice altro”, insiste, senza lesinare bordate sull’incapacità dalla Spezia a Ventimiglia di colpire la criminalità economica. Ecco quindi che dopo aver snocciolato il calo di reati come furti, rapine ed estorsioni, il pg Valeria Fazio la mette giù cruda: “La riforma sulla legittima difesa rischia d’introdurre una forte asimmetria rispetto ad altre scriminanti, e un disequilibrio nel delicato bilanciamento tra i diritti tutelati dall’ordinamento”. Ancora: “Lo slogan della “difesa sempre legittima” a me pare introdurre una possibile smagliatura nella garanzia pubblica della tutela della sicurezza: un indebolimento del patto tra i cittadini e lo Stato che li deve difendere, che potrebbe in realtà non lenire ma amplificare il senso d’insicurezza della collettività. L’insicurezza percepita, a fronte del calo dei reati, costituisce lo sfondo di riferimento e la ragione del disegno di legge, e lo ricorda parlando di “una riforma a costo zero, destinata secondo gli osservatori a riscuotere un grande consenso”. Sullo specifico dei reati, oltre a un allarme per la devianza minorile, la disamina più significativa del magistrato è riservata alla sottostima della criminalità economica: “Appaiono relativamente poche le iscrizioni di procedimenti per gli addebiti societari, fallimentari e tributari: una conferma, resa plasticamente anche dai dati sulle presenze in carcere, che il nostro sistema penale a differenza di altri ordinamenti europei a democrazia matura, colpisce poco proprio questa branca”. Il fronte comune include pure la diramazione regionale dell’Associazione nazionale magistrati, impegnata in un volantinaggio all’esterno dell’aula magna in cui s’è tenuta la cerimonia, poi all’attacco per bocca del presidente ligure Domenico Pellegrini. “Riteniamo inappropriate - rilancia - riforme legislative che dettano regole automatiche e immodificabili. E vogliono impedire al giudice ogni spazio di manovra nell’applicare la regola generale al caso concreto (in ballo finisce di nuovo la legittima difesa, ndr)”. “Vogliamo ribadire - conclude Pellegrini - come il nostro lavoro sia e sarà sempre improntato a un rigoroso tecnicismo. E quindi sarà sempre avulso dalla ricerca della volontà popolare e impermeabile agli umori popolari, compresi quelli che oggi si esprimono attraverso Twitter, Facebook, Instagram”. Dal mondo dell’avvocatura genovese arrivano bordate molto di sostanza e assai poco di forma, condite da un dettaglio tutt’altro che trascurabile: anche il presidente della Corte d’appello Maria Teresa Bonavia, magistrato più alto in grado in Liguria, parlando per prima aveva tenuto a rimarcare la sua “vicinanza” ai legali, saldatura sul cui significato politico non si può sorvolare. E il presidente dell’Ordine genovese Alessandro Vaccaro mette nel mirino di fatto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Esprimiamo profondissima preoccupazione per il rischio che, dagli interventi in materia di giurisdizione conseguenti alle riforme già attuate e a quelle in itinere, possa conseguire una trasformazione in senso illiberale del sistema a tutela delle libertà individuali e dei diritti fondamentali, dati dal quadro costituzionale. È imbarazzante quando un avvocato si trova a pensarla alla stessa maniera di magistrati e del mondo accademico”. I giudici: inondati dai ricorsi dei profughi, sui migranti la linea Salvini è un boomerang La Gazzetta del Mezzogiorno, 27 gennaio 2019 Il tema dei migranti e dei diritti ma anche quello della prescrizione torna con insistenza nelle cerimonie svoltesi nelle varie corti d’appello in giro per l’Italia. Duro il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo: il contrasto all’immigrazione clandestina è “sacrosanto”, ma la politica è “al tempo stesso totalmente disinteressata al profilo umanitario: potrei dire che la pietà, declinata nel suo senso laico, è morta”. Parole che vanno al di là dei dati secchi provenienti dai tribunali, cifre che comunque segnalano il peso del tema immigrazione. Il distretto milanese, ha segnalato il presidente della corte d’appello Marina Tavassi, “è pesantemente interessato dai procedimenti” sulle richieste d’asilo: “In appello si è passati dai 291 procedimenti pendenti nel 2016 ai 2.509 del giugno 2017”, con “un residuo al termine dell’anno giudiziario di 1.651” che si conta di “smaltire nell’anno in corso”. E la presidente della corte d’appello di Salerno, Iside Russo, teme che le nuove norme in materia “provocheranno un consistente incremento dei ricorsi”. “Legalità non è solo repressione. Occorre consapevolezza della complessità della questione migratoria, che tanto impatto ha sulla percezione della sicurezza e sulle attuali politiche”, ha sottolineato il pg di Roma, Giovanni Salvi, che è anche tornato su un’altra vicenda di primo piano: l’uccisione tre anni fa di Giulio Regeni. “La Procura di Roma - ha detto - ha profuso molti sforzi nel tentativo di assicurare alla giustizia i suoi torturatori e assassini. Sin qui hanno ottenuto, quanto meno, che non si accettassero verità di comodo”. Ancora sul fronte migranti, da Palermo arriva la segnalazione del presidente della corte di appello, Matteo Frasca, di un vertiginoso aumento di “sbarchi fantasma”, eventi non censiti dalle statistiche ufficiali che parlano invece di un forte calo degli arrivi. Il vice presidente del Csm, David Ermini, lancia un appello a “coltivare la memoria quale imprescindibile anticorpo al risorgere di germi razzisti e antisemiti”. “Difficile negare che vi sia stato qualche intervento strumentale, demagogico o dal sapore propagandistico. Ritroviamo parole e comportamenti più misurati”, ha osservato. E sulla vicenda del ministro Salvini, che il tribunale dei ministri chiede di processare per sequestro di persona per il caso Diciotti, la nave bloccata ad agosto 5 giorni con 177 migranti a bordo, ricorda che “il Tribunale dei ministri con un provvedimento di oltre 50 pagine ha deciso che non può essere accolta l’istanza di archiviazione”. “Sceglierà il Senato sull’evidente invasione di campo di qualche giudice di sinistra che vuol fare politica - ribatte Salvini. Ho il cellulare pieno di messaggi di magistrati, avvocati, giudici e uomini di chiesa liberi. Avanti a testa alta con coraggio ed onestà”. Poi scherza: “Prendete le arance, se mi portano a San Vittore”. E ora questa contrapposizione potrebbe finire di fronte al Csm con una pratica a tutela delle toghe. Da Milano, a Firenze, a Roma, le critiche dei magistrati si sono concentrate poi su tempi e modi della riforma della prescrizione. Si rischia l’effetto opposto, denunciano in sostanza i presidenti delle Corti d’Appello. “Una giustizia lenta non è una giustizia giusta. Con la riforma del processo penale puntiamo alla speditezza, efficienza e snellimento per garantire la piena attuazione del giusto processo” replica, intervenendo a Firenze, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Davigo: “Basta appelli temerari e perditempo” Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2019 Pubblichiamo stralci dell’intervento pronunciato da Piercamillo Davigo, in rappresentanza del Csm, all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Torino. L’ex pm di Mani pulite ora al Csm: “Deterrenza contro chi fa causa sapendo di avere torto”. Il Consiglio superiore della magistratura si è insediato il 25 settembre 2018, ancora nuovissimo, ma la sua attività ha segnato delle discontinuità rispetto alla precedente consiliatura. Il primo dato di difformità riguarda le nomine degli incarichi direttivi e dei semi-direttivi degli uffici giudiziari. Il precedente consiglio, anche in conseguenza dell’abbattimento dell’età pensionabile da 75 a 70 anni, ha proceduto alla nomina di oltre mille direttivi. Si diceva durante la campagna elettorale per il Csm che questo sarebbe stato il consiglio delle conferme e non più il consiglio delle nomine. Purtroppo non è così perché sia per le continue vacanze determinate dall’età o dalle dimissioni, non soltanto ci sono più di cento nomine da effettuare, ma ce ne saranno altre cento. È intervenuto un atteggiamento più collaborativo nel rispetto delle regole e non nelle ripartizioni dei posti. Se c’era una cosa che io trovavo insopportabile erano le nomine all’unanimità nelle cosiddette nomine a pacchetto che qualche volta nascondevano l’oscuro patto: uno a me, uno a te e uno a lui. Siamo investiti anche dall’ondata di ritorno degli annullamenti da parte del giudice amministrativo di numerose nomine effettuate dal precedente consiglio. Anche qui è cambiata radicalmente la posizione del Csm: anziché cercare di resistere contro la decisione del giudice amministrativo limitandoci a rimotivare le delibere di nomina, riesaminiamo ex novo la pratica tenendo conto delle indicazioni dei Tar e del Consiglio di Stato senza però che questo possa significare l’azzeramento della discrezionalità del Csm. L’attenzione verso le esigenze dei distretti è massima. Per esempio invia d’urgenza è stata pubblicata la copertura delle vacanze del distretto di Genova dopo il luttuoso avvenimento che avrà conseguenze sul carico di lavoro giudiziario rilevantissime. Vorrei aggiungere che dovremmo fare bene a ricercare con pazienza una collaborazione stretta tra Csm, le singole corti e soprattutto col ministero della Giustizia per evitare che ottime intenzioni possano portare a guasti. Qualunque incremento di organico se non è accompagnato dall’arrivo effettivo dei magistrati ha come conseguenza l’aumento delle scoperture. Forse sarebbe il caso di rimeditare la norma che consente la pubblicazione dei posti vacanti e quelli che si renderanno vacanti nell’anno successivo. (...) Da quando un posto viene bandito a quando un magistrato inizia a esercitare passano quattro anni. Questo significa che abbiamo costantemente una scopertura d’organico. (...) Un’altra nota sulla giurisprudenza disciplinare. (...) C’è stata un’inversione di tendenza perché sono aumentate di molto le assoluzioni per i ritardi nel deposito di provvedimenti. Nella situazione della giustizia italiana a me sembra sia come contestare di avere le scarpe slacciate a chi è sopravvissuto a uno tsunami. Il più delle volte i ritardi nei depositi dei provvedimenti riguardano magistrati che lavorano più degli altri. In compenso c’è stato un particolare rigore nei confronti di comportamenti gravi. (...) Sento parlare di giustizia da quando ho cominciato a indossare la toga. Tutti gli anni si scopre che, salvo piccoli miglioramenti locali, la situazione è sempre la stessa. Addirittura quando c’erano risorse avevamo raddoppiato il numero di magistrati, del personale amministrativo e delle dotazioni finanziarie, ma il contenzioso è triplicato. Correre dietro a una domanda di giustizia patologica con l’aumento dell’offerta non serve a niente. Ogni incremento di produttività viene immediatamente riassorbito dalla crescita della domanda. Allora è necessario introdurre adeguate deterrenze contro chi agisce o resiste in giudizio sapendo di avere torto. (...) Non possiamo far finta che non esistano impugnazioni dilatorie e qualche volta temerarie. Sono stato per più di 30 anni in Cassazione e il 15% dei ricorsi erano contro sentenze di patteggiamento. È una cosa indegna. In altri Paesi comporterebbe conseguenze gravi per chi propone questo tipo di impugnazioni. E allora, se pur io approvo gli interventi normativi in materia di prescrizione, penso che non possano andare disgiunti dall’introduzione di efficaci rimedi contro la proposizione di impugnazioni dilatorie. Come avviene ad esempio in Francia, dove solo il 40% delle sentenze di condanna viene appellato, mentre in Italia pressoché tutte, per la semplice ragione che in Francia non esiste il divieto di “reformatio in peius”. Toscana: allarme sovraffollamento e suicidi nelle carceri controradio.it, 27 gennaio 2019 Lo ha detto il pg di Firenze Marcello Viola nella sua relazione all’apertura dell’anno giudiziario sottolineando che “va attuato il principio di certezza ed effettività della pena; ma occorre altresì rimuovere gli ostacoli, che ancora sussistono, alla possibilità di garantire un livello adeguato, per quantità e qualità, di interventi trattamentali a favore della popolazione detenuta e finalizzati alla elaborazione di coerenti progetti di recupero e di reinserimento sociale”. “È giusto ricordare che la situazione di alcuni Istituti, ed in particolare quella del carcere di Firenze-Sollicciano, il più grande istituto penitenziario della Toscana, è seria. Persiste un pesante indice di sovraffollamento (712 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 500) e continuano ad esistere gravi problemi di carattere strutturale nelle diverse sezioni che hanno finito anche per incidere sulle condizioni igienico-sanitarie e rendono ormai indifferibile l’avvio di consistenti lavori di manutenzione straordinaria”, inoltre “suscitano grande preoccupazione i suicidi e gli atti di autolesionismo nelle carceri ed il crescere del numero dei tentati suicidi, 91 casi in Toscana, di cui 28 a Firenze-Sollicciano”. Lo ha detto il pg di Firenze Marcello Viola nella sua relazione all’apertura dell’anno giudiziario sottolineando che “va attuato il principio di certezza ed effettività della pena; ma occorre altresì rimuovere gli ostacoli, che ancora sussistono, alla possibilità di garantire un livello adeguato, per quantità e qualità, di interventi trattamentali a favore della popolazione detenuta e finalizzati alla elaborazione di coerenti progetti di recupero e di reinserimento sociale”. “Voglio esprimere particolare apprezzamento - ha anche detto - per le iniziative da tempo assunte, con forza, dalla Camera Penale di Firenze, che ha aperto una seria e comune riflessione sulla condizione carceraria, sulla pena e sull’applicazione della riforma del braccialetto elettronico”. Viola ha anche segnalato che “dalla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ancora non si consolida lo spirito della riforma, per la revisione del sistema delle misure di sicurezza personali, attraverso l’individuazione di misure alternative alla detenzione, mediante un progetto terapeutico-riabilitativo individuale” e per detenuti psichiatrici “in molti casi non è stato possibile eseguire le misure di sicurezza provvisorie a causa della insufficiente capacità ricettiva delle cosiddette residenze Rems, essendo tuttora inadeguato il rapporto tra le esigenze degli Uffici giudiziari del distretto e le disponibilità dei posti nelle strutture esistenti sul territorio. Un passo importante in questa direzione è costituito dal “Protocollo d’intesa in tema di misure di sicurezza psichiatriche” sottoscritto fra Regione Toscana, Corte d’Appello, Procura Generale e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna”. Trentino Alto Adige: carceri, a Trento tre suicidi, a Bolzano sovraffollamento Il Trentino, 27 gennaio 2019 Dati tutt’altro che confortanti per le due strutture penitenziarie sul territorio. Il carcere di Trento, con capienza regolamentare di 418 posti e tollerabile di 439, nell’anno 2017-2018 ha fatto registrare la presenza media di 320 detenuti, comunque superiore ai 240 concordati tra la Provincia e il ministero. Si tratta comunque di una diminuzione del 6,43% rispetto all’anno precedente. I dati sono stati forniti dalla presidente della Corte d’appello di Trento, Gloria Servetti, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, che ha evidenziato come si sia verificato nel periodo un suicidio e e che invece nella fine del 2018 ce ne sono stati altri due. Ha parlato quindi della “necessità di approfondirne le ragioni e di eventualmente rivisitare con impostazione critica e programmatica la reale adeguatezza quantomeno dei servizi di sorveglianza, come noto in sofferenza a causa dell’esiguità dei contingenti di polizia penitenziaria. A Bolzano, che ha una capienza di 87 detenuti, erano presenti 90 detenuti, è stato segnalato il “sostanziale sovraffollamento”. “È rimasto inalterato - ha detto poi - il problema della vetustà dell’immobile, nonostante i risalenti accordi intervenuti tra il ministero della giustizia e la Provincia di Bolzano per la predisposizione di una nuova struttura, che avrebbe dovuto essere consegnata già nel 2016, mentre ancora oggi non sembra possibile neppure azzardare una qualsiasi previsione”. Di carcere ha parlato anche il procuratore generale, Giovanni Ilarda, che ha ricordato la rivolta del 24 dicembre scorso. “Un episodio gravissimo che ha provocato feriti e causato danni ingenti ad un complesso fra i più moderni d’Italia e che non ha avuto conseguenze più gravi solo per la capacità e la prontezza delle forze di polizia e di chi le ha dirette e grazie allo straordinario e personale intervento del Commissario del Governo”. Ma ha anche spiegato come “il supporto dell’Amministrazione provinciale è stato decisivo per porre termine ad uno spettacolo non degno di un Paese civile, la traduzione dei detenuti con i ferri ai polsi nella pubblica via, una mortificazione inaccettabile della persona ed un pericolo evidente per la sicurezza pubblica”. Napoli: detenuto di 33 anni muore nel carcere di Poggioreale vocedinapoli.it, 27 gennaio 2019 Florin Visitiu, 33 anni, lamentava da tre giorni forti dolori al petto È deceduto venerdì 25 gennaio nel padiglione “Roma”, riservato ai tossicodipendenti, del carcere di Poggioreale a Napoli. La denuncia arriva dall’attivista ed ex detenuto Pietro Ioia. “Qui per lo stato siamo dei numeri e no essere umani, vengono calpestati i nostri diritti e la nostra dignità” scrive un detenuto in una lettera inviata a Ioia e pubblicata da quest’ultimo su Facebook. Una denuncia dove vengono ricordati diversi casi di persone decedute in totale indifferenza. “Se non ti senti bene ti danno una pillola che noi detenuti chiamiamo “Padre Pio” e a malapena avvertono i tuoi familiari. Aiutaci per favore perché qui si vive in sofferenza e molte persone preferiscono la morte alla vita”. Nella lettera vengono poi ricordate le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere: “Siamo in celle 4×4, ammassati come sardine. I nostri familiari per venire agli incontri devono fare ore e ore di fila al freddo e al gelo”. Padova: sovraffollati i due istituti penitenziari, atti autolesionistici per 75 detenuti Il Gazzettino, 27 gennaio 2019 L’incremento delle misure alternative alla detenzione non ha risolto la spinosa questione del sovraffollamento carcerario che continua a caratterizzare i nove penitenziari veneti. Al 30 giugno 2018 il numero dei detenuti toccava quota 2.272, oltre trecento unità in più rispetto alla presenza regolamentare ma fortunatamente lontano dalla soglia di tollerabilità massima (2.925). Non si discostano dalle medie regionali i due istituti padovani. Negli ultimi dodici mesi la casa circondariale ha registrato una presenza media di reclusi pari a 209-215 unità (la capienza sarebbe di 171, la soglia di tollerabilità arriva a 231).Nella Casa di reclusione sono state ristrette mediamente tra le 579 e le 581 persone, parecchie in più rispetto alla capienza di 436 posti ma molto meno rispetto ad una soglia di tollerabilità fissata a quota 784. È evidente che di fronte a questi numeri la riforma dell’ordinamento penitenziario, più volte promessa, assume sempre più carattere d’urgenza. Servirebbe sicuramente a migliorare le regole di svolgimento della vita detentiva all’interno degli istituti di pena, oggi teatro di un sempre maggiore numero di atti autolesionistici, quasi mai legati a vere e proprie patologie di natura psichiatrica. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di disfunzioni comportamentali, interpretabili come richieste di attenzione più che come tentativi di suicidio. È un fenomeno in parte imputabile alla non facile integrazione tra gli operatori dell’area sanitaria, dipendenti dalle aziende sanitarie locali, e le guardie penitenziarie. Nei due istituti padovani non si sono registrati decessi negli ultimi dodici mesi. Il dispositivo di sorveglianza e di sicurezza delle guardie penitenziarie ha consentito di sventare la bellezza di 13 tentativi di suicidio (6 alla Circondariale, 7 alla Casa di reclusione). Elevato invece il numero di atti autolesionistici (30 alla Circondariale, addirittura 45 alla Casa di reclusione). I tre tribunali di Sorveglianza (Padova, Venezia e Verona) hanno concesso complessivamente 976 misure alternative (952 nei dodici mesi precedenti). Preoccupa però il numero dei provvedimenti oggetto di revoca per inosservanza degli obblighi: sono stati 188 contro gli 89 dell’anno 2016-17. L’Ufficio di Sorveglianza padovano ha ricevuto 192 istanze negli ultimi dodici mesi: 55 richieste sono state accolte, 79 quelle respinte. La pendenza finale è in linea con quella dell’anno prima: 16 domande a fronte delle 13. Tre le revoche sopraggiunte dopo la concessione dei benefici. In tema di organici i magistrati sono al gran completo (4 posti coperti su 4) mentre il personale amministrativo lamenta la mancata copertura di cinque posti (12 unità effettive a fronte delle 17 previste). Le direzioni degli istituti penitenziari stanno sollevando da tempo la questione dei Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. In Veneto esiste soltanto la struttura creata dalla Regione a Nogara, nel veronese. É un istituto in grado di ospitare non più di venti detenuti. Una capienza largamente insufficiente in rapporto alle necessità della popolazione carceraria dell’intera regione. Molti i reclusi attualmente in lista d’attesa, nella speranza che si liberi un posto al Rems. Rovigo: la giustizia va, nonostante i vuoti di Maria Elena Pattaro Il Gazzettino, 27 gennaio 2019 Il carcere non è in sovraffollamento, ma si sono registrati comunque 39 atti di autolesionismo e 13 tentati suicidi. Magistrati da integrare, 13 tentativi di suicidio all’interno del carcere e 39 atti di autolesionismo, ma anche meno notizie di reato rispetto all’anno precedente e un’impennata delle richieste di rito alternativo. Sono alcuni dei dati più significativi del bilancio dell’anno giudiziario del Tribunale di Rovigo contenuti nel report presentato ieri mattina alla Corte d’Appello di Venezia in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario. Spulciando i dati relativi alla macchina della giustizia polesana, il primo aspetto che salta all’occhio è la percentuale di scopertura media effettiva del personale, pari al 33,4%, percentuale che si riduce al 26,31 tra i magistrati. È una delle criticità che si riscontrano nell’intero distretto veneto, di cui fanno parte 7 tribunali (uno per provincia) e che è dovuta alla marginalità della regione nella distribuzione delle risorse destinate alla giustizia, nonostante il nostro sia il terzo distretto per popolazione residente (cui si aggiungono oltre 70 milioni di turisti all’anno).Sul fronte del processo telematico (che dovrebbe facilitare l’accesso agli atti), i vari settori del tribunale polesano viaggiano a velocità diverse. Se nell’ambito penale non si registra alcun passo in avanti rispetto all’anno precedente, in quello civile il deposito degli atti da parte dei magistrati non è uniforme: alcuni si sono convertiti quasi del tutto al deposito digitale, altri invece rimangono affezionati al cartaceo. Unica eccezione è il settore fallimentare, in cui il deposito telematico ha raggiunto quota 95%. Tirando le somme in materia di flussi dei procedimenti penali, il risultato è incoraggiante: i procedimenti definiti sono stati più di quelli sopraggiunti, cosicché il numero di pendenze finali è diminuito rispetto al 2017.A livello statistico si consolida l’incidenza dei reati economici come la bancarotta fraudolenta, effetto della crisi iniziata nel 2008. Una vera e propria impennata si registra invece nella richiesta di riti alternativi avanzata ai gip e gup polesani (più 33,5%) con una ricaduta positiva nell’intero sistema, visto che in questo modo soltanto un numero modesto di procedimenti giunge al dibattimento collegiale. Proprio il loro filtro ha permesso una riduzione nella durata dei procedimenti (meno 25%).In lieve calo anche le iscrizioni di notizie di reato, passate dalle 9.963 del 2017 alle 9.051 del 2018, fermo restando che nell’intero distretto i furti in abitazione e la guida in stato di ebbrezza si confermano anche quest’anno come reati più diffusi. Gettando uno sguardo invece alla situazione carceraria, a differenza delle case circondariali di Belluno, Venezia o Verona, quella di Rovigo non ha problemi di sovraffollamento. Le presenze medie nel periodo compreso tra luglio del 2017 e giugno del 2018 si aggirano sui 144 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 207 unità e di una capienza tollerabile di 305. Nonostante questo, dietro le sbarre polesane nell’ultimo anno ci sono stati 13 tentativi di suicidio e 39 atti di autolesionismo. Reggio Calabria: “il carcere è una polveriera pronta a scoppiare” di Maria Giovanna Cogliandro larivieraonline.com, 27 gennaio 2019 Da anni l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, consigliere della Camera penale “Gaetano Sardiello” di Reggio Calabria, si batte con determinazione e perseveranza per migliorare la vita delle persone detenute. Un impegno che la scorsa settimana gli è valso la prestigiosa nomina a responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, uno strumento fondamentale per monitorare lo stato dei diversi istituti penitenziari del nostro Paese, con facoltà di definizione delle linee di intervento politico e di proposta in sede legislativa per l’ordinamento penitenziario. Una delle attività principali dell’Osservatorio sono le visite nelle carceri al fine di rilevare le situazioni più degradanti per la dignità dei detenuti. A parte il sovraffollamento, quali sono le problematiche urgenti che non riescono a trovare spazio sui giornali? L’elenco rischia di essere lungo e rendere il quadro a tinte ancora più fosche. Le ferite aperte degli istituti penitenziari non possono in ogni caso essere disancorate dal sovraffollamento. Tutte assieme rendono il carcere una polveriera pronta a scoppiare. Le recenti rivolte di Sanremo, Busto Arsizio, Lucca e Trento costituiscono una drammatica conferma. Certamente, tra i problemi più rilevanti possiamo annoverare la tutela del diritto alla salute dei detenuti. Secondo gli ultimi dati statistici rilevati, sono almeno 77 i morti in carcere per ragioni di salute con casi attenzionati anche dalla magistratura inquirente. La grave carenza di personale in grado di favorire l’attività rieducativa dei detenuti. Gli educatori, infatti, sono solo il 2,17% di tutto il personale penitenziario. L’altro nervo scoperto, poi, è rappresentato dagli ostacoli, a volte insormontabili, al mantenimento dell’affettività. Sappiamo per certo che una completa ed effettiva rieducazione del detenuto passa soprattutto dalla necessità di mantenere, rafforzare e ricostruire, su nuove basi, il rapporto con i propri familiari e con il contesto sociale in cui si è vissuto e ha realizzato una sua identità. Purtroppo, specie nelle regioni meridionali, assistiamo a moderne “deportazioni” verso gli istituti penitenziari dell’estremo nord. Una pena aggiuntiva alla pena detentiva. Rispetto alla media nazionale, le carceri calabresi come si pongono? La Calabria appare perfettamente allineata con il resto del Paese. Sempre in negativo. Almeno 7 su 12 ovvero poco più della metà degli istituti penitenziari calabresi presentano un tasso di sovraffollamento che oscilla tra il 137,62% di Reggio-Panzera e il 107,22% di Rossano. E gli altri probabilmente non lo sono almeno per ragioni di interventi di ristrutturazioni edilizie che le rendono parzialmente utilizzate. Teniamo comunque conto che i dati ufficiali sul sovraffollamento sono in realtà sottostimati in quanto tarati sui posti-letto regolamentari e non certo su quelli realmente disponibili. Analogamente per le altre problematiche di cui abbiamo parlato. Basti pensare che gli educatori in Calabria sono un terzo in meno di quelli previsti in pianta organica. Ma lo stesso si potrebbe dire sul personale di polizia penitenziaria se non addirittura sul numero di magistrati di sorveglianza. Nel contratto per il “governo del cambiamento” si prova a rispondere al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari con un piano per l’edilizia penitenziaria. È questa la soluzione per contrastare il trend di crescita della popolazione carceraria? Proporre la costruzione di nuove carceri quale soluzione al sovraffollamento e ai crescenti suicidi è un atto di inaudita ipocrisia oltre che di grave irresponsabilità anche perché occorrerebbero risorse finanziarie ingentissime e qualche lustro per vederle in funzione. Per la costruzione di un nuovo istituto da 300 posti si ipotizza siano necessari 2.530 milioni di euro e un periodo di tempo ricompreso tra 7 e 10 anni. Nel frattempo avremo la deflagrazione del sistema e la condanna nelle sedi internazionali dell’Italia come ai tempi della sentenza “Torreggiani”. Più volte si è fatto notare che l’amministrazione penitenziaria potrebbe essere la più grande impresa italiana e che la detenzione basata sulla produzione potrebbe dare grandi risultati. Cosa pensa in proposito? Fin quando avremo un sistema imperniato sul carcere come luogo di sofferenza e di espiazione dolorosa non credo che riusciremo ad avere una produttività sociale o economica della detenzione. D’altro canto cosa ci si può aspettare da un sistema basato sull’ostatività della pena ovvero l’impossibilità per chi ha commesso un reato di criminalità organizzata di accedere a trattamenti finalizzati al reingresso nella società? Se un Ministro della Repubblica Italiana, che va per la maggiore oggi, candidamente diffonde il messaggio alla pubblica opinione che una persona debba “marcire in galera” possiamo sperare in un carcere produttivo? Altro punto del contratto di governo riguarda le pene alternative, considerate come gentili e imperdonabili concessioni alle persone detenute. Eppure oggi ogni detenuto costa 137 euro al giorno e appena 95 centesimi sono destinati alla rieducazione… Fingono di non sapere che l’esistenza e soprattutto l’applicazione diffusa di misure alternative in grado di preparare il rientro del detenuto nella “società dei liberi”, oltre a essere una corretta applicazione del principio di risocializzazione della pena consacrato nell’art. 27 della Costituzione, rappresenta un beneficio per la società più che per il detenuto. Un detenuto gradualmente reinserito e accettato dalla società è un soggetto che difficilmente tornerà a delinquere. Gli automatismi e le preclusioni oggettive introdotte dalle eterne logiche emergenziali e che oggi impediscono ai magistrati di sorveglianza di valutare caso per caso la possibilità di concederle o meno rendono l’Italia meno sicura e meno civile. Altro motivo di arretramento, per una società civile, contenuto nel contratto è la proposta di abrogare la cosiddetta norma “Consolo” con cui oggi viene consentito a chi è sottoposto a regime di 41-bis di poter avere colloqui con i propri familiari e abbracciare i propri figli, mogli, padri, madri e nipoti. Proibire un abbraccio servirà a sconfiggere la mafia? Il terrore non potrà mai sconfiggere un fenomeno complesso che non è solo criminoso. L’applicazione sistematica delle leggi emergenziali introdotte prima per il terrorismo e poi normalizzate per la mafia non sono servite né servono a debellare il fenomeno mafioso. Quante volte abbiamo sentito in tv o letto sui giornali che un boss dopo decenni di 41 bis è ancora in grado di comandare solo con lo sguardo? Se ciò è vero vuol dire che il 41 bis è inutile, se non lo è vuol dire che il mantenimento di esso lo è altrettanto. Simili affermazioni fatte da magistrati di prim’ordine dimostrano che il 41 bis è una tortura gratuita e contraria ai principi fondamentali della civiltà occidentale. Rimango fermamente convinto che il delitto si debba affrontare con il diritto e non certo praticando altro delitto. Di recente è stata approvata in via definitiva la legge “Spazza corrotti”, iniziativa del guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede. La legge in realtà spazza via alcuni principi elementari del diritto a cominciare dalla fine della prescrizione anche per l’imputato che fosse assolto. Qual è il suo giudizio in merito a questa legge? È una modifica incostituzionale, inutile e soprattutto dannosa. Incostituzionale perché stravolge la presunzione di non colpevolezza costituzionalmente prevista dall’art. 27. Inutile perché non aggredisce l’eccessiva durata dei processi e il fatto che oltre la metà dei reati si prescrivono durante le indagini preliminari. Dannosa perché rende ognuno di noi potenziale “imputato a vita”. È l’ennesima riprova che ogni modifica sul processo penale e sul sistema penale in generale serve più ad aizzare le viscere degli italiani che a migliorare le cose. Sino ad oggi ci siamo battuti e ci batteremo contro il fine pena mai, adesso dovremo batterci anche contro il fine processo mai. Ogni anno in Italia 1.000 persone vengono risarcite dallo Stato per essere stati in carcere da innocenti. Com’è possibile incorrere in così tanti errori giudiziari e cosa propone per evitare che un innocente finisca dietro le sbarre? È un dato sottostimato. Non considera, infatti, quanti subiscono una detenzione ingiusta ma non hanno avanzato domanda di indennizzo oppure non è stato loro riconosciuto. Si limita a quelli positivamente indennizzati. È un problema culturale non solo e non tanto normativo. Le norme che consentono di ridurre l’applicazione delle misure cautelari esistono, magari non per tutti i reati, ma esistono. Purtroppo se un giudice non accoglie le richieste di centinaia di arresti fatte da un pubblico ministero rischia di finire sulla graticola di un’opinione pubblica che costruisce di giorno in giorno le forche a cui un giorno si ritroverà appesa. La custodia cautelare dovremmo chiamarla piuttosto carcerazione preventiva. A chi dice che il codice di procedura penale introdotto sulla scia emotiva del caso Tortora sia un codice ipocrita bisognerebbe ricordare che la sua applicazione concreta lo ha fatto diventare! Perché non è prevista alcuna azione disciplinare, alcun procedimento penale per chi ha fatto finire dietro le sbarre un innocente? Anche qua, le norme esistono, magari annacquate, ma esistono. Certo la concreta applicazione di esse ci induce ad affermare e invocare norme più restrittive, se i casi sanzionati dall’introduzione della legge sulla responsabilità dei magistrati ad oggi si possono contare sulla punta della mano. E ciò induce un sentimento diffuso di malcontento e uno spirito di corporazione mal sopportato. Rimane comunque un problema culturale e ordinamentale. La separazione delle carriere favorirebbe il giusto processo. In Italia c’è una sorta di lobby dei periti: i processi più importanti vengono affidati a professionisti che hanno instaurato un particolare rapporto con il magistrato. Non sarebbe il caso di evitare che la competenza nell’assegnazione degli incarichi venga affidata ai giudicanti o ai titolari delle indagini? Basterebbe maggiore trasparenza e possibilità effettiva di sindacare l’attribuzione degli incarichi di periti e amministratori giudiziari per rendere più lineari tali attività di supporto al giudice. Senza trasparenza non ci può essere controllo e senza controllo il rischio di andare oltre i binari è alto. Prima che della giustizia, si diventa prigionieri della stampa: molte inchieste giudiziarie sostituiscono l’accertamento giudiziario con la condanna sociale. Come si può ovviare a questa deriva culturale del nostro sistema giuridico? È un dramma e la misura dell’imbarbarimento della nostra società. Il circo mediatico-giudiziario come recita uno splendido libro di un avvocato francese, Daniel Soulez Lariviere, serve spesso a puntellare un’accusa prima ancora di una verifica nel contraddittorio tra le parti. Rappresentare un uomo come un mostro, scandagliare ogni suo vizio, certamente irrilevante per l’accusa, sputtanarlo davanti alla società è una amara preparazione verso un processo già gravato da forti emozioni. Anche qua le norme esistono. Difficilmente però si assiste a un loro ossequioso rispetto. A partire dall’arresto delle persone che sfilano alle 9 del mattino davanti a telecamere e taccuini anche se in quei luoghi sono stati portati magari 6/7 ore prima. Oppure mettere in rete prima ancora della verifica stralci di conversazioni intercettate per solleticare la morbosità della gente. Non è facile risolvere un problema che tocca l’intero sistema dell’informazione. Un sistema malato che confonde il giornalismo d’inchiesta con il riciclaggio delle informative. Tutto ciò dimostra quanto sia malato quel sistema in cui una durissima pena sociale viene espiata prima ancora che intervenga una decisione di condanna emessa da un Tribunale se non addirittura un’assoluzione processuale. Venezia: caso Sissy Trovato Mazza, parla l’ex direttrice del carcere femminile di Tomaso Borzomì Il Gazzettino, 27 gennaio 2019 “Le posso dire che non c’è mai stata un’occasione in cui qualsiasi situazione mi sia stata portata all’attenzione non abbia avuto il suo corso”. Queste le poche parole che Gabriella Straffi, ex direttrice del carcere femminile alla Giudecca, si è sentita di rilasciare sul caso Sissy. Parole che fanno intendere come l’ex superiore della poliziotta morta pochi giorni fa, si senta sicura del suo operato quando si trovava alla guida della casa circondariale femminile veneziana, sebbene non voglia entrare nel merito della questione. Infatti, la stessa Straffi ha ribadito che preferisce non intervenire in merito alla lettera, datata 30 settembre 2016 e pubblicata ieri dal Gazzettino, in cui Sissy chiede di “parlare al più presto con la signoria vostra” perché “avvicinata da molte detenute che hanno raccontato fatti gravi che riguardano le mie colleghe”. Le uniche considerazioni della Straffi sono di fiducia nelle istituzioni, affidandosi alle indagini in corso: “Credo che la magistratura stia lavorando, preferisco non rilasciare alcuna dichiarazione, mi sembra sia stato detto di tutto e di più senza aspettare che le indagini abbiano fatto il suo corso. Penso che sia molto importante attendere”. In futuro l’ex direttrice non nega di essere disponibile al confronto, ma per il momento preferisce il silenzio, in attesa che le indagini proseguano e pongano la parola fine sulla vicenda. Le ombre che riguardano la morte dell’agente Maria Teresa Trovato Mazza sono tante. L’ultima puntata di Chi l’ha visto ha sollevato dubbi su cosa sia accaduto veramente, sottolineando la presenza di alcuni segni sui polsi di Sissy, come se qualcuno l’avesse forzata a compiere un gesto che forse non avrebbe voluto fare. Dalle registrazioni delle telecamere, avvenute nell’ospedale Civile di Venezia, non è semplice risalire a quanto accaduto, se non cercare di far luce su quanto possa esser successo poco prima della morte di Sissy. Chi però non ha mai creduto alla storia che l’agente avesse potuto scegliere di farla finita è stato il padre Salvatore, che ha ribadito, al Gazzettino e anche alle Iene, la necessità di fare chiarezza su un fatto che per lui non può essere archiviato come suicidio. E per questo motivo continua a chiedere con forza ulteriori approfondimenti alla vicenda. Una richiesta che dimostra la tenacia di un uomo che non si piega ad una versione per lui inaccettabile, che riguarda la perizia sul computer dell’agente, oltre che dell’uso del telefonino da parte della figlia. A puntare il dito contro il computer è stato proprio il padre, che si chiede come mai, nonostante fosse lo strumento di lavoro di Sissy, questo si trovasse all’interno del carcere il giorno della tragedia. Ma anche chi l’avesse portato lì e chi l’abbia poi ripulito. A gestire le indagini sarà direttamente il procuratore capo della Procura veneziana Bruno Cherchi, a cui è stato affidato il compito di far luce sull’intricata vicenda. A lui toccherà chiarire i tanti misteri che con il tempo si stanno sollevando sul caso. Non ultimo, quello che emerge dalla stessa lettera di Sissy indirizzata all’ex direttrice, in cui dice: “Non so se ho fatto bene, ma ho scritto, per non dimenticare, quanto mi hanno detto le detenute”. Resta da capire dove siano finite quelle rivelazioni. Cagliari: raddoppia il servizio di parrucchieria, più cura per le detenute sardanews.it, 27 gennaio 2019 Non più una volta al mese. La parruccheria della Casa Circondariale di Cagliari-Uta sarà operativa due volte al mese e permetterà alle detenute di avere cura della propria persona e non solo. Nel frattempo sono ripresi anche i colloqui settimanali con i ristretti delle diverse sezioni. Le volontarie dell’associazione, coordinate dalla vice presidente Elisa Montanari, e le cinque parrucchiere si alterneranno nel taglio e nella piega offrendo gratuitamente il servizio. Il programma, che si avvale dell’autorizzazione del Direttore Marco Porcu e del supporto dell’Area Educativa, inizierà lunedì 28 gennaio, alle 9.30. La giornata all’insegna della serenità e della cura della persona lunedì mattina nella sezione femminile vedrà impegnate le parrucchiere Alessia Nicole Logiudice e Viola Pibiri nonché le volontarie di “Socialismo Diritti Riforme” Elisa Montanari, Katia Rivano e la maestra di ricamo Ama Piscedda. “Anche per il 2019 - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - l’associazione, che quest’anno compie dieci anni, garantirà l’apporto solidale ai ristretti e agli operatori del Penitenziario cagliaritano tenendo in piedi il progetto “Benessere dentro e fuori” e i colloqui con le persone private della libertà. L’impegno prevede colloqui con i detenuti e familiari nonché il sostegno per gli indigenti. L’intento è quello di favorire la serena convivenza nella sezione destinata alle donne all’interno del Villaggio Penitenziario attivando percorsi di più attenta conoscenza di sé delle detenute e di scambio di conoscenze. Fondamentale la collaborazione con le Agenti Penitenziarie che, con sensibilità e umanità, offrono un insostituibile supporto”. Palermo: teatro e carcere, detenuti al lavoro sugli abiti di scena di Teresa Valiani Redattore Sociale, 27 gennaio 2019 Macchine da cucire all’opera nel carcere Pagliarelli di Palermo dove l’associazione Baccanica ha dato vita a una piccola sartoria teatrale. La regista Daniela Mangiacavallo: “Avviati anche altri corsi di formazione sui mestieri dell’arte”. Non solo palcoscenico, prove, testi, scrittura. Il teatro è anche dietro le quinte, con i suoi allestimenti, le scenografie e la sartoria. E ricominciano proprio da ago e filo, per rimettere insieme i tasselli di vite spezzate, i detenuti del carcere Pagliarelli che, grazie al progetto messo in campo nell’ambito delle attività della compagnia teatrale ‘Evasioni’, hanno dato vita a una sartoria per costumi teatrali oltre le sbarre. L’obiettivo è mettere su uno spettacolo interamente realizzato dal lavoro dei detenuti e l’avvio della sartoria costituisce uno dei tasselli più importanti. Sulle orme di esperienze consolidate, come quelle che arrivano dalle carceri di Modena, Milano Opera, La Spezia, Torino e Volterra, anche al Pagliarelli hanno fatto il loro ingresso le macchine da cucire, i modellini e tutta l’attrezzatura necessaria a confezionare gli abiti di scena. “All’inizio, quando è arrivata la macchina da cucire, i ragazzi la guardavano con sospetto, come un lavoro da femminucce” racconta Daniela Mangiacavallo, regista e presidente dell’associazione Baccanica attiva da anni con i corsi di teatro all’interno dell’istituto e promotrice del progetto. “E anche questo è importante - sottolinea la regista -: ribaltare i pregiudizi per restituire, forse inconsapevolmente, un grande insegnamento. In questi ragazzi esiste un’inossidabile speranza nel futuro, all’interno di un mondo fatto anche di solidarietà che spesso al di là delle sbarre è difficile immaginare”. Il progetto, che segue anche l’input lanciato dal Coordinamento nazionale Teatro in Carcere sulla formazione, negli istituti di pena, di arti e mestieri legati al mondo dello spettacolo, è finanziato dalla Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio spa) nell’ambito del piano pilota “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la bellezza e la cultura”. “E ci vede protagonisti - prosegue la regista - con i detenuti del Pagliarelli dove per la prima volta abbiamo portato quattro corsi di formazione professionale sui mestieri del teatro, proprio come accade all’interno della trentennale compagnia della Fortezza di Volterra di Armando Punzo con la quale collaboriamo da tempo. L’intento è di giungere un passo alla volta al nostro obiettivo finale: mettere in scena uno spettacolo teatrale interamente realizzato dal lavoro dei detenuti”. Scenografi, costumisti, drammaturghi e registi, l’associazione ha creato un vero e proprio focus sui mestieri dell’arte con lezioni tenute da professionisti del settore per imparare lavori creativi che possano facilitare il reinserimento nel mondo esterno. Il corso di recitazione e regia è condotto da Daniela Mangiacavallo, quello di drammaturgia dallo scrittore e drammaturgo Rosario Palazzolo mentre Giulia Santoro guida il laboratorio di costumi e scenotecnica. “Il sogno sta prendendo forma - conclude la regista. Dai primi approcci all’uso della macchina da cucire, che ha già portato i detenuti a realizzare piccoli e semplici lavori, fino ad arrivare alla completa messa in scena dello spettacolo. Una piccola sartoria è nata dentro il carcere. Un obiettivo nell’obiettivo: stimolare e liberare la fantasia dei detenuti che partecipano al corso, donare loro la possibilità di credere nelle proprie potenzialità artistiche, fuori dagli stereotipi di genere”. La Spezia: “Incendi”, i detenuti della Casa circondariale in scena al Dialma gazzettadellaspezia.it, 27 gennaio 2019 Uno spettacolo, curato dall’Associazione Gli Scarti, che andrà in scena giovedì 31 gennaio e venerdì 1 febbraio, promosso da Acri e sostenuto da un nucleo di Fondazioni, tra cui Fondazione Carispezia Il progetto sperimentale “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso da Acri e sostenuto da un nucleo di Fondazioni, tra cui Fondazione Carispezia, presenta alla Spezia il primo evento finale con lo spettacolo teatrale “Incendi”, che coinvolge un gruppo di detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino”. Lo spettacolo, curato dall’Associazione Gli Scarti, andrà in scena giovedì 31 gennaio e, in replica, venerdì 1 febbraio al Centro Culturale Dialma Ruggiero, in via Monteverdi 117 (inizio ore 21.00, ingresso gratuito - obbligatoria la prenotazione al 346 4026006 / 375-5714205 o preferibilmente a: teatro@associazionescarti.it). “Per aspera ad astra” parte dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, raggiungendo livelli di eccellenza. L’iniziativa nasce con l’obiettivo di tracciare un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. L’esperienza di Armando Punzo - che sarà presente nella serata di giovedì 31 gennaio alla Spezia per incontrare il pubblico al termine dello spettacolo - testimonia come sia possibile lavorare in questi contesti nell’”interesse del teatro e delle arti e dei mestieri del teatro”, oltre che per le finalità rieducative e risocializzanti. La divulgazione e la promozione del “teatro in carcere” significa anche permettere di abbattere la separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile, così da creare un clima di consapevolezza rispetto al compito che essi assolvono: operare per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop realizzati all’interno degli Istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di Polizia e del personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. Alla Spezia sono stati coinvolti nei laboratori teatrali, di scenografia e scenotecnica, avviati nel mese di settembre e guidati dall’Associazione Gli Scarti, 16 detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino”, con la collaborazione della direzione, di operatori sociali e polizia penitenziaria. Lo spettacolo “Incendi” rappresenta quindi l’esito finale di questo primo anno di lavoro sul territorio spezzino, nell’ambito dell’iniziativa sperimentale nazionale, e vedrà in scena i detenuti, non solo in quanto destinatari di un progetto educativo, ma quali attori non professionisti il cui difficile vissuto contribuisce a creare un teatro capace comunque di generare cultura e bellezza e dove il non professionismo più che un limite può costituire un’opportunità. “Per aspera ad astra” è un progetto promosso da Acri (Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio) e sostenuto da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Con il Sud, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. “Le radici psicologiche della disuguaglianza”, di Chiara Volpato recensione di Mariapia Veladiano La Repubblica, 27 gennaio 2019 Si fa presto a dire “disuguaglianze”. La povertà va di pari passo con una particolare forma di fragilità: “l’enigma dell’accettazione della sottomissione” lo chiamano gli psicologi sociali. Non ci si ribella alla propria condizione perché non la si riconosce. Come fare allora? Bisogna favorire l’istruzione, spiega Chiara Volpato. La disuguaglianza uccide. Innumerevoli ricerche empiriche che hanno indagato società di epoche e luoghi diversi e con diversi gradi di sviluppo lo dimostrano: le severe differenze di reddito danneggiano la salute, avvelenano il clima sociale, producono violenza, incrementano la paura, rendono infelici. La povertà porta mille vulnerabilità. Eppure lo sconcio della disuguaglianza aumenta in tutti i Paesi. Chiara Volpato è docente di psicologia sociale all’Università di Milano Bicocca e da sempre si occupa dei meccanismi psicosociali che vedono gli oppressi consenzienti rispetto all’oppressione o all’emarginazione. È quello che gli psicologi sociali chiamano l’enigma dell’accettazione della sottomissione. Se il vero, immenso, epocale problema della nostra modernità è la disuguaglianza perché la maggioranza oppressa non si ribella? O almeno, là dove è possibile, non vota meglio di come vota e si affida invece a populismi che non intaccano di un millimetro la distanza fra straricchi e poverissimi? Non si può soggiogare le masse solo con la violenza. Perché l’operazione abbia successo servono veri e propri “miti di fondazione e legittimazione” che, una volta condivisi, rendano tollerabili e anche bene accette le disuguaglianze. Fra questi il più potente moderno mito di legittimazione delle disuguaglianze è la meritocrazia. Un mito pericolosissimo perché rende acquiescenti i poveri, persuasi che ognuno abbia quel che si merita. Il che sarebbe vero solo se tutti partissero dallo stesso stato sociale (ricchezza), culturale, di salute (poter diagnosticare e curare le malattie), ma non è così. In epoche anche vicine la politica ha lavorato energicamente per compensare le disuguaglianze di nascita e permettere al merito di affermarsi. Oggi no. “L’esistenza di un’ingiustizia sociale non è un motivo sufficiente per scatenare resistenze, proteste, tentativi di cambiamento” scrive Chiara Volpato, che raccoglie una coorte imponente di studi. Bisogna che l’ingiustizia sia vista e pensata. Ma anche questo non basta perché la vergogna, un sentimento che la psicologia sociale riconosce da sempre potente, inibisce le legittime reazioni. Bisogna anche che l’ingiustizia venga elaborata collettivamente e condivisa e che ci sia una sia pur minima percezione dell’efficacia dell’azione di protesta. Capito un poco il meccanismo per il quale i poveri accettano le disuguaglianze, la domanda fondamentale è cosa fare per contrastare quella che oggi è una vera ostentata manipolazione dei poveri che produce infelicità globale, perché nemmeno i ricchi sono poi così felici dal momento che i poveri rimangono una minaccia sia per il numero che per la cattiva coscienza che la loro stessa presenza obbliga ad assumere. Vivere felici alla faccia dell’infelicità di quasi tutto il resto del mondo è un ossimoro ed è interessante che su questo punto psicologi sociali ed economisti della felicità (Easterlin, Sen, Nussbaum, in Italia Bruni, Becchetti, Smerilli) concordino. Risposte il libro ne dà. Serve istruzione. Tutte le ricerche dimostrano che aumentare il grado di istruzione aumenta la possibilità di ridurre le disuguaglianze. Poi serve attenzione al linguaggio della comunicazione, che può modificare radicalmente le percezioni individuali dell’ingiustizia. Poi servono pratiche di avvicinamento ai poveri. L’avvicinamento aiuta il riconoscimento della comune umanità e riattiva l’empatia. Poi bisogna redistribuire le risorse. Si può andare avanti come oggi e far finta di niente ma anche l’attuale fase neoliberista finirà, scrive Chiara Volpato, o per un risveglio delle coscienze o per una catastrofe immane, come spesso è accaduto, ed è il caso di avere qualche idea per uscirne vivi e anche più giusti. La sottocultura dell’odio è ancora fertile di Moni Ovadia Il Manifesto, 27 gennaio 2019 Giorno della memoria. Il ventre della sottocultura dell’odio è ancora fertilissimo in ogni parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli emigranti e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una legge razziale come la legge dello stato nazione che discrimina i palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di passaporto israeliano. Il giorno della memoria è diventato con il procedere degli anni sempre di più un topos della cultura celebrativa del mondo occidentale e, a misura che i testimoni diretti dello sterminio ci lasciano per ragioni anagrafiche, la responsabilità delle nuove generazioni si configura come una sfida a tenere fermo e adamantino il senso autentico di quella memoria. Il rischio che incombe sul futuro si presenta con molteplici aspetti fra i quali: la retorica, la falsa coscienza, il negazionismo, la banalizzazione, la ridondanza, l’uso strumentale, la sacralizzazione. Primo Levi, pose al più celebre e diffuso volume della sua opera di testimonianza e di riflessione sul genocidio e sul sistema concentrazionario della morte, il titolo “Se questo è un uomo”. Ecco, il più atroce crimine della storia è stato commesso da uomini contro uomini. È giusto indagare, conoscere, comprendere e trasmettere il sapere delle diverse modalità e specificità delle ragioni con cui lo sterminio fu preparato e perpetrato. Ma è imprescindibile sapere che si trattò della distruzione di esseri umani, dell’annichilimento della loro dignità e della loro integrità. La memoria di quell’orrore deve entrare a fare parte del delle più intime fibre della primissima formazione di ogni essere umano, nell’unica forma che possa garantire il non ripetersi della sottocultura dell’odio che fu il ventre gravido che generò la peste dello sterminio di massa e del genocidio, la consapevolezza culturale, interiore e psichica dell’universalità dell’essere umano, il cui statuto di titolarità è contenuto nella Carta Universale dei Diritti dell’Uomo, a partire dal primo articolo: “tutti gli uomini nascono liberi ed eguali pari in dignità e diritti”. Ma noi siamo lontani anni luce da un simile livello di coscienza, anzi siamo pesantemente regrediti riguardo ai principi fondativi delle grandi Carte dei Diritti, in particolare della nostra straordinaria Costituzione. Questa legge delle leggi, che definisce il carattere nazionale della nostra repubblica e su cui tutti i governi giurano, è costitutivamente antifascista senza se e senza ma. Ma in questi anni abbiamo visto crescere il revanscismo nostalgico o neofascista, le nostre televisioni si sono riempite di pseudo revisionisti miranti a riabilitare i peggiori criminali fascisti, a partire dal peggiore e più vile di essi, Mussolini. I conservatori di questo Paese hanno espunto lo studio della Costituzione dalle scuole superiori, invece di estenderla anche alle medie, alle elementari e persino alle materne. Le cosiddette sinistre riformiste hanno lasciato fare. Molti gazzettieri si sono baloccati con il mito fradicio e nocivo degli italiani brava gente, che oggi si ritrova sotto il nuovo e patetico maquillage “Gli italiani non sono razzisti” o sotto quello ridicolo “io non sono razzista, ma…”. Sia chiaro, in Italia ci furono ai tempi del fascismo tante brave persone e anche oggi milioni di italiani sono magnifiche persone generose, ma allora come adesso lo erano perché brave persone, non perché italiani. I fascisti italiani perpetrarono un genocidio in Cirenaica, uno sterminio di massa in Etiopia, 135.000 civili sterminati in due giorni con l’iprite e devastarono con massacri, pulizie etniche, campi di concentramento in cui si facevano morire civili di fame e malattie, le terre della Iugoslavia. Un popolo di brava gente non avrebbe permesso di cacciare bambini dalle scuole per poi destinarli allo sterminio solo per la colpa di essere nati e si sarebbe comportato come i bulgari e i danesi che salvarono tutti i loro ebrei opponendosi ai criminali nazisti. Ecco il grande nemico di una memoria che può edificare un futuro di giustizia sociale e uguaglianza, la retorica propagandistica e auto assolutoria che porta alla vile indifferenza di massa. Il ventre della sottocultura dell’odio è ancora fertilissimo in ogni parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli emigranti e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una legge razziale come la legge dello stato nazione che discrimina i palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di passaporto israeliano. Non basta mettersi uno zucchetto in testa una volta all’anno per ottenere il certificato di buona condotta. Migranti. Centri Accoglienza Straordinaria. È caos sui bandi: penalizzata l’integrazione di Antonio Maria Mira Avvenire, 27 gennaio 2019 Per effetto del decreto sicurezza, il Viminale blocca il rinnovo delle convenzioni per la gestione dei Cas. Con le nuove regole molti gestori potrebbero non partecipare: “Incertezza per tutti”. Nuovo diktat del ministro Salvini. Stop alla firma delle convenzioni per il 2019 per la gestione dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria, ndr) prevista dai bandi pluriennali fatti a partire dal 2017. Dovevano durare due anni, col rinnovo della convenzione all’inizio di quest’anno, a metà percorso, ma le prefetture non hanno avuto l’autorizzazione del Viminale. Bisogna fare nuovi bandi, sulla base del nuovo capitolato, quello che riduce i costi da 35 euro a 21-26, tagliando tutti i servizi all’integrazione. Uno degli obiettivi più volte sbandierati dal ministro. Una strategia partita con lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto e che ora colpisce i Cas. Uno stop al rinnovo delle convenzioni che non era mai successo. Un tempo i bandi avevano una durata di un anno, poi sono stati portati a 2-3 anni, per assicurare continuità ai servizi di integrazione, per dare più tempo al percorso verso l’autonomia. Ogni anno doveva essere firmata una nuova convenzione, ma non erano mai sorti problemi. Una procedura voluta dalle prefetture anche perché risolve il problema di rifare ogni anno i bandi per cercare luoghi e enti per accogliere gli immigrati. Così anche quest’anno gli enti gestori dei Cas hanno inviato comunicazioni alle prefetture per conoscere la data per la firma della convenzione. Ma quest’anno è scattato lo stop, come ad esempio ci spiega Simone Andreotti, presidente della cooperativa InMigrazione che insieme a Acisel gestisce un piccolo Cas a Roma, nella zona di Centocelle. La risposta è stata che l’accordo “avrebbe potuto essere firmato solo previa autorizzazione ministeriale” che non c’è stata mentre è arrivato l’invito a “bandire le procedure di gara per l’anno 2019 a nuove condizioni e nuove basi d’asta”. Cioè taglio dei 35 euro e dei servizi di integrazione. Per ora si andrà avanti in proroga col vecchio bando fino al 31 marzo ma, sottolinea Andreotti, “ci vorranno mesi prima di predisporre il nuovo bando, fare la gara, esaminare le domande e assegnare i richiedenti asilo. Potremmo addirittura arrivare a settembre, andando avanti con proroghe mensili”. Che certo non aiutano i progetti di integrazione. E in questi mesi si continuerebbe ad applicare il vecchio capitolato, quello dei 35 euro. Nessun risparmio, ma l’importante è averlo annunciato, soprattutto in campagna elettorale. Potrebbe crearsi una grande confusione. Il nuovo capitolato deciso per ridurre i costi, tagliando i servizi, non piace a molti gestori, soprattutto quelli dei piccoli centri o ad accoglienza diffusa. Infatti per questi i costi sarebbero più alti rispetto ai grandi centri che risulterebbero così favoriti, malgrado le assicurazioni del ministro di voler chiudere proprio le grandi strutture. E infatti è uno dei motivi sbandierati per il blitz a Castelnuovo di Porto. Il rischio molto concreto è che molti non presentino domanda e così non si riesca a coprire tutti i posti messi a bando. Aggravando una situazione già carente. Ad esempio l’ultimo bando della prefettura di Roma è riuscito a coprire solo 5.573 posti su 8.199 necessari. Quello nuovo dovrebbe essere per 6mila posti, visto il calo degli sbarchi. Ma molti gestori potrebbero non partecipare, a Roma come in tutta Italia. Le prefetture saranno così obbligate a una nuova e lunga proroga dei vecchi bandi. Con due conseguenze. Il risparmio sarà molto inferiore all’annunciato. E poi ci troveremo di fronte all’assurdo che gli immigrati ospitati in base al nuovo bando non beneficeranno più dei servizi ma solo di vitto e alloggio, mentre quelli in proroga continueranno ad avere i servizi di integrazione. Un evidente disparità dei diritti, un’accoglienza di “Serie A” e una di “Serie B”. Una questione che non riguarda piccoli numeri. Parliamo, infatti, di 1.470 gestori che garantivano nel 2017 53.557 posti, pari al 77% del totale dei gestori e al 32% del totale dei posti: 473 fino a 20 ospiti (il 25%), 611 fino a 50 ospiti (il 32%), 386 fino a 100 ospiti (il 20%). Proprio su questi centri, numerosi e virtuosi, è calata più forte la scure dei tagli imposta dal ministro dell’interno. Tutti i centri, grandi è piccoli, prima partecipavano a bandi che prevedevano 35 euro al giorno per persona. Ora, con le nuove linee guida le cifre cambiano. Per i centri collettivi con 300 ospiti si scende 25,25 euro, con un taglio del 28%. Stessa cifra è stesso taglio per quelli fino a 150 ospiti. Si risale a 26, 35 per i centri da 50 e 20 ospiti, con un taglio del 25%.? Pesantemente penalizzata l’accoglienza diffusa in appartamenti, considerata la più efficiente in termini di integrazione?. Ebbene questi Cas diffusi scendono a 21,35 euro a persona al giorno con un taglio addirittura del 39%. Con questi tagli diventa molto difficile fornire un adeguato servizio. Dopo la cura dimagrante degli Sprar, che si stanno svuotando per effetto del decreto sicurezza, ora tocca ai piccoli e medi Cas che potrebbero chiudere per i tagli decisi dal ministro Salvini. Perché i costi non potrebbero più essere sostenibili, ora che si è scesi da 35 euro a 21-26. Secondo un’analisi della cooperativa InMigrazione, i tagli sono stati fatti riducendo soprattutto i costi del personale, e quindi i servizi alla persona e per l’integrazione, e non sono proporzionali. Così tanto più una struttura è grande, e quindi riceve più fondi, tanto più forte è il taglio del personale, in termini di ore, imposto dal nuovo capitolato elaborato dal Viminale. E quindi in proporzione calano i costi del gestore. I centri collettivi fino a 20 ospiti, col vecchio capitolato (bandi del 2018) prevedevano 180 ore settimanali di personale, con quello nuovo 125, con un calo del 30%. Quelli collettivi fino a 50 ospiti e ad accoglienza diffusa in appartamenti (50 ospiti), dovevano fornire 260 ore settimanali di personale, ora anche loro 125, con un taglio del 52%. I centri collettivi fino a 150 ospiti prevedevano 670 ore settimanali, mentre ora solo 238, con un calo del 64%. Infine i centri collettivi fino a 300 ospiti sono precipitati da 1.398 ore settimanali a 418, con un crollo del 70%. È evidente che questo incide non solo sui costi ma anche sui servizi erogati. A svantaggio dei piccoli centri e dell’accoglienza diffusa. E, infatti, più piccolo è il centro e più i costi del personale incidono sul finanziamento ricevuto. Anche perché tutte le altre voci di spesa sono proporzionali al numero di ospiti e quindi uguali per tutti. Secondo le nuove linee guida del ministero, il totale del finanziamento annuo per un centro collettivo con 20 ospiti è di 192.355 euro, il costo medio annuo del personale è di 88.642 euro, che incide per il 46% sul totale. Una percentuale che cala al crescere delle dimensioni dei centri. Così quelli in accoglienza diffusa in appartamenti (50 ospiti) e quelli collettivi fino a 50 posti, hanno lo stesso costo per il personale dei più piccoli, cioè 88.642 euro l’anno, ma ricevono rispettivamente 389.637 e 480.887 euro, con un’incidenza dei costi per il personale del 23% e del 18%. Un calo ancor più forte per i centri collettivi fino a 150 e fino a 300 ospiti. I primi ricevono 1.382.437 euro l’anno e ne spendono per il personale appena 168.776, con un’incidenza del 12%. Gli altri incassano 2.764.875 euro ogni anno spendendone per il personale 296.422, pari ad appena l’11%. “Alla luce di quanto descritto - spiegano ancora gli esperti di InMigrazione - e visto che per i centri di piccola e media dimensione viene meno la sostenibilità, con tutta probabilità, ai prossimi bandi coloro che gestivano centri collettivi piccoli e a accoglienza diffusa, potrebbero non partecipare, tagliando di molto la capacità di prima accoglienza, vista anche la chiusura dei Cara, rendendo necessarie proroghe tecniche delle vecchie convenzioni a 35 euro”. Un servizio che dunque peggiorerebbe senza neanche raggiungere l’obiettivo, tanto sbandierato dal ministro, del taglio dei costi. Mentre sicuramente si perderebbero tanti posti di lavoro. Migranti. Perché va fermata la campagna anti ong di Elena Stancanelli La Repubblica, 27 gennaio 2019 L’iniziativa “Non siamo pesci” che mobilita scrittori e intellettuali ha raccolto migliaia di firme in poche ore. Domani alle 17 davanti a Montecitorio il presidio. Mors tua mors mea, vita tua vita mea, scrive Alessandro Bergonzoni raccontando la sua adesione all’appello che “prende sempre più corpo per prendere corpi”: “Non siamo pesci”, promosso da Luigi Manconi e Sandro Veronesi. Quasi un miracolo: migliaia di firme in poche ore. Contro la politica cinica ma soprattutto inefficace, che ha preso a ostacolare in tutti modi le Ong che fanno salvataggio in mare. Provando ad accusarle di ogni nefandezza, a partire dalla più spaventosa: di essere causa di ciò che combattono, arginano, provano a mitigare perché non diventi l’olocausto che minaccia di essere. “Fattore di attrazione”, “taxi del mare”, e altre amenità simili vanno e vengono su bocche deformate da un livore che non si spiega se non con ragioni di consenso spicciolo, di elettorale miopia. Io sto affogando, qualcuno tende la mano e tu provi a tagliargliela: e se quello in mare fosse tuo fratello? Rimaniamo senza fiato per giorni, pensando a un bambino caduto in un pozzo profondo, ma dove va a finire la nostra empatia quando si parla di naufragi, centinaia, migliaia di persone che muoiono coperte di benzina, strette l’una all’altra nelle stive orrorose delle navi, a poche miglia dalla terra? Nello stesso mare in cui, vacanzieri, facciamo il bagno felici. Ci sarebbe solo una spiegazione, ma anche soltanto nominarla è nefando: pensiamo che quelle persone che affogano valgano meno di noi. Perché sono stranieri, neri, poveri, disperati… Ma non è vero, non lo pensiamo. E se non lo pensiamo, dobbiamo salvarli e poi farli scendere dalle navi in cui sono sequestrati senza alcuna colpa. “Non siamo pesci”, come ha detto Fanny fuggita dalla guerra in Congo e rimasta per 19 giorni sulla nave di Sea Watch, senza capire perché non li facessero sbarcare. Domani lunedì 28 gennaio alle 17, davanti a Montecitorio. Un presidio che sostiene la proposta di una commissione d’inchiesta e una missione in Libia. Che chiede conto delle scelte compiute dal nostro governo. Prima fra tutti quella di lasciare consumare energia e carburante, vagando su e giù per il Mediterraneo, a barche cariche di uomini, donne e bambini. Infreddoliti e spaventati, in fuga. Immaginando, di nuovo in modo cinico e soprattutto inefficace, che questa ordalia serva di lezione. L’Italia, l’Europa, pensano di convincere a non partire persone disposte a mettersi in mare di notte su un gommone sgonfio pieno all’inverosimile, mostrando loro la fermezza delle braccia incrociate davanti a un piatto di fettuccine. Apriamo i porti, ma soprattutto accendiamo il cervello. Migranti. Salvini minaccia la SeaWatch: “Mando la polizia a bordo” di Leo Lancari Il Manifesto, 27 gennaio 2019 Adesso Matteo Salvini vuole mandare la polizia a bordo della SeaWatch 3. “Ci stiamo lavorando”, assicura il ministro degli Interni. “Stiamo valutando nelle prossime ore il fatto che si possa salire a bordo per acquisire tutti gli elementi utili per indagare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina le persone che aiutano nei fatti gli scafisti”. Salvini ribadisce la linea dura verso la ong proprio mentre dalla procura di Siracusa, città al largo della quale la nave è alla fonda, smentisce che al momento ci siano elementi tali da giustificare un intervento. Niente porto sicuro dunque per la nave di SeaWatch, e niente sbarco per i 13 minori non accompagnati (uno di 8 anni, sei di 14 e quattro di 17) che si trovano a bordo nonostante l’ordine arrivato due giorni fa dalla procura dei minori di Catania. “Possono indagarmi e minacciarmi, ma io non cambio idea. In Italia si entra rispettando leggi e regole”, ha ripetuto anche ieri il ministro che ha anche chiesto all’Olanda di ritirare la bandiera alla nave. A bordo di SeaWatch 3 la situazione, già pesante, rischia di aggravarsi ulteriormente. Per proteggere i migranti dal freddo l’equipaggio li ha riuniti tutti nell’unico luogo coperto on esposto alle intemperie, alle temperature rigide di questi giorni, ma si tratta di una stanza, e neanche grande, nella quale vivono ammassati ormai da giorni. Ma sono soprattutto le condizioni psicologiche a destare preoccupazione: “I migranti sono stremati e debilitati”, hanno spiegato ieri i volontari della ong. “Raccontano lunghi mesi trascorsi nelle prigioni libiche e riportano traumi seri per gli abusi e le torture subite”. Come testimonia A., un sedicenne originario della Guinea. “In Libia le milizie mi hanno costretto a lavorare senza interruzione per 12 ore al giorno”, ha raccontato all’equipaggio. “Mi hanno minacciato puntandomi contro le pistole al lavoro. Alla fine della giornata spesso non mi davano da mangiare. Hanno ucciso uno dei miei amici perché una mattina non poteva alzarsi per andare a lavorare”. “Chiediamo lo sbarco immediato di tutti i naufraghi”, ha ripetuto ieri la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi. Lo sbarco parziale di una parte di essi costituirebbe un’azione traumatica per il resto delle persone tra cui un ragazzo gambiano di 24 anni che ha profonde cicatrici sulle mani e sul corpo per le torture subite in Libia. Veniva legato e preso coltellate. È stato quasi squartato mentre veniva filmato con le mani legate al soffitto”. Ieri alcuni parlamentari hanno tentato inutilmente di salire a bordo della nave. Per ore Riccardo Magi (+Europa), Nicola Fratoianni (Leu) e Stefania Prestigiacomo (Forza Italia) hanno atteso ore che dalle autorità arrivasse il permesso di verificare le condizioni dei migranti e dell’equipaggio. Alla fine è stato consentito loro solo un giro intorno alla nave. “Di fatto è stato impedito a dei parlamentari italiani l’esercizio delle proprie prerogative sul territorio nazionale. Questo è gravissimo e va ben oltre le questioni legate al governo dell’immigrazione”, ha commentato ieri sera Magi. “Assistiamo a un rimpallo di responsabilità tra autorità marittima e prefettura. Insisteremo perché siano garantite prerogative costituzionali di chi rappresenta i cittadini italiani e tutelati i diritti fondamentali delle persone a bordo della nave”. Ieri a chiedere di sbarcare subito i migranti sono state anche l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e l’Unicef. “È urgente che ai migranti e rifugiati sulla SeaWatch3 sia garantito immediatamente lo sbarco nel porto più vicino”, hanno scritto le tre organizzazioni. “È allo stesso tempo necessario che, fino a quando la Libia non sarà considerata un porto sicuro, tutti gli Stati europei dimostrino finalmente senso di responsabilità e di solidarietà per i migranti e rifugiati che rischiano di morire in mare e che quindi l’attuale approccio “nave per nave” venga superato e sia sostituito da un meccanismo di sbarco sicuro e ordinato nel Mediterraneo centrale”. Pacificazione interna, in Libia serve un’iniziativa urgente di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 gennaio 2019 Giuseppe Buccino Grimaldi arriverà a Tripoli a inizio febbraio. La Farnesina ha scelto di attendere quasi sei mesi ad inviarlo dal richiamo a Roma il 10 agosto del suo predecessore, Giuseppe Perrone (ora destinato a Teheran). È un’agenda fitta e delicata quella che attende il 57enne ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi per il suo arrivo a inizio febbraio a Tripoli. La Farnesina ha scelto di attendere quasi sei mesi ad inviarlo dal richiamo a Roma il 10 agosto del suo predecessore, Giuseppe Perrone (ora destinato a Teheran), dopo la controversa intervista che questi rilasciò ad una televisione libica, scatenando critiche dure sia in Tripolitania che dall’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. Ma la Libia per l’Italia costituisce un nodo troppo cruciale per lasciare la sede sguarnita. Un’urgenza accresciuta dopo che la Francia ha inviato la propria ambasciatrice in ottobre. Buccino del resto conosce bene i dossier. Fu lui a riavviare l’ambasciata dopo il crollo del regime di Muammar Gheddafi già il 15 settembre 2011, quando ancora per le strade del Paese si consumavano le ultime battaglie della rivoluzione “assistita” dalla Nato. Gheddafi sarebbe stato trucidato a Sirte 35 giorni dopo. Fu ancora lui a chiuderla nel febbraio 2015 a causa dell’insicurezza dominante. Toccò poi a Perrone riaprirla nel gennaio 2017. La questione migranti resta centrale. L’inviato italiano si troverà a dover affrontare lo scontro di potere tra il premier di Tripoli, Fayez Sarraj, assieme al suo ministro degli interni, Fathi Bashaaga, e le milizie legate a Misurata in rivolta perché assolutamente contrarie al nuovo dialogo con Haftar rilanciato alla Conferenza di Palermo in novembre. L’inefficienza dell’intervento in mare evidenziata dai guardiacoste in Tripolitania, che pure sono ampiamente finanziati dall’Italia, è anche conseguenza di quelle tensioni. A ciò si aggiunge la ripresa degli scontri armati a Tripoli e l’intensificarsi degli attentati di Isis. Buccino è stato presente agli ultimi incontri a Roma tra l’inviato dell’Onu, Ghassan Salameh, e il premier Conte nel contesto della preparazione della Assemblea Nazionale libica destinata a facilitare la pacificazione interna. Ma l’iniziativa resta in alto mare. Nel Brasile di Bolsonaro iniziano le minacce contro gli oppositori di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 gennaio 2019 “Conservare la vita è comunque una strategia di lotta in vista di tempi migliori. Abbiamo fatto tanto per il bene comune e faremo molto altro quando arriveranno tempi nuovi, non importa se lo faremo in un altro modo”. Con questo messaggio pubblicato su Twitter, seguito da un’intervista, il deputato federale di sinistra Jean Wyllys, unico dichiaratosi gay, si è dimesso dal parlamento a causa delle ripetute minacce di morte ricevute e ha annunciato l’esilio. Contemporaneamente è arrivata al gruppo 100 Autori, associazione dell’autorialità cinetelevisiva, una mail inquietante dalla regista Regiana Queiroz: “Cari amici miei! Purtroppo in Brasile siamo sotto un governo criminale paragonato alle peggiori dittature. La mia vita è in pericolo a causa del mio nuovo documentario che racconta l’ascensione di questa estrema destra autoritaria criminale strutturato come Salò di Pasolini (come potete vedere nel teaser). Sono qui per chiedere aiuto. Non solo per la mia libertà di espressione è in pericolo, ma la mia vita. Sono tutto il tempo minacciata di morte per il mio lavoro. Vorrei chiedere la divulgazione di questa situazione sconvolgente. Se vengo a mancare sarà stato responsabilità dell’attuale governo, gli stessi che hanno ammazzato Marielle Franco. Chi può aiutarmi con asilo politico, chi può gentilmente raccontare al mondo la mia situazione o chi può, per favore, fare la divulgazione del teaser di The Bag, chiedo, disperata, che lo faccia”. Jair Bolsonaro si è insediato da neanche un mese. In campagna elettorale ha fatto dichiarazioni di una gravità inaudita, minacce incluse. Sta iniziando a mantenere gli impegni? I governi amici gli diranno qualcosa? Venezuela. Un Piano Marshall contro il regime di Omero Ciai La Repubblica, 27 gennaio 2019 Per valutare seriamente quello che sta accadendo in Venezuela bisogna ricordare quale era la situazione nel Paese caraibico prima del putsch dell’opposizione. Gli eredi di Hugo Chavez (il caudillo è morto di cancro nel marzo 2013) hanno in pochi anni trascinato il Paese in una disastrosa crisi economica, civile, umana e morale. La situazione è ormai da mesi insostenibile. È tale che, non solo la fame è sempre più diffusa, ma è impossibile anche curarsi, trovare medicine di base. Nelle farmacie alcuni medicinali come l’aspirina sono venduti di contrabbando, a qualsiasi cifra. Tre milioni di venezuelani hanno lasciato il Paese. E a loro bisogna pensare oggi. Quello che possono fare Europa e Stati Uniti è approntare un piano Marshall di aiuti come dopo la sconfitta del nazismo al termine della Seconda guerra mondiale. Un programma di interventi economici per risollevare il Paese. Le altre emergenze sono fermare la corruzione, molto diffusa tra i militari e i funzionari dei governi bolivariani a tutti i livelli, e processare tutti quelli che si sono macchiati di crimini contro i diritti umani, dai generali responsabili delle polizie agli stessi alti dirigenti del governo. Combattere il narcotraffico che arricchisce l’esercito. Non lasciare senza giustizia le vittime delle manifestazioni contro Maduro. Bonificare i servizi segreti e impedire che continuino a torturare nelle carceri gli oppositori politici. Avviare un processo elettorale sotto l’egida delle organizzazioni internazionali in modo da garantire che i risultati non siano il frutto di una manipolazione, come le ultime volte. È sacrosanto ricordare che c’è un governo legittimo. Ma quel governo ha commesso così tanti errori e nefandezze da aver perso il diritto di essere considerato legittimo. Come il paradosso di Brecht che nel 1953 parlando della leadership comunista nella Germania orientale scrisse ironicamente: “Non sarebbe più semplice allora che il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?”.