Anno giudiziario, monito del presidente Mammone: evitare regressioni sui diritti umani di Liana Milella La Repubblica, 26 gennaio 2019 Salvini, alias il ministro dell’Interno, in Cassazione non c’è. Alle 11, presenti invece il capo dello Stato Mattarella e il premier Conte, nel “palazzaccio” di piazza Cavour a Roma, s’inaugura l’anno giudiziario. Ecco la sfilata di toghe rosse, ecco Bonafede il Guardasigilli, ed Ermini il vice presidente del Csm. Non manca nessuno degli ospiti tradizionali. Non c’è solo lui, Salvini, il protagonista dell’ultimo scontro tra toghe e politica. Stavolta, rispetto ai tempi di Berlusconi, di mezzo non c’è una legge per salvarsi da un processo, c’è quella che il ministro Bongiorno, salviniana di ferro, seduta accanto a Bonafede, definisce “una scelta politica condivisa dal governo”. C’è, per il tribunale dei ministri di Catania, l’aver sequestrato sulla Diciotti uomini e donne per 5 giorni. Diritti umani in pericolo. Un tema che ormai da mesi percorre il dibattito tra i giudici. Pagine e pagine di “Questione giustizia”, la rivista online di Magistratura democratica. Convegni di Area, il cartello delle toghe progressiste. La preoccupazione dell’Anm, rivelata più volte dal segretario Francesco Minisci. Ed ecco ieri due pagine destinate a diventare storiche di Giovanni Mammone, il primo presidente della Corte di Cassazione, giudice di Magistratura indipendente, una corrente tutt’altro che “rivoluzionaria”. Due pagine che aprono la sua relazione sulla giustizia. Una frase della Costituzione molto significativa, soprattutto in questo momento: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti” che suona identica a quelle contenute nella Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Onu nel 1948. Chiosa Mammone: “Evitare ogni regressione in materia di diritti umani è un compito che si è dato la comunità internazionale. È compito degli Stati moderni apprestare strumenti idonei per dare risposte alla richiesta di tutela che gli individui, cittadini e non, richiedono per i loro diritti”. Prosegue Mammone: “Le moderne Costituzioni predispongono a strumento istituzionale di tutela i giudici, e, più in particolare, le strutture giudiziarie, come sono articolate nei vari settori della giurisdizione e nei gradi di giudizio”. Il che vuol dire che quando il procuratore di Agrigento Patronaggio fa la sua ispezione sulla Diciotti compie il suo dovere. Altrettanto hanno fatto i giudici del tribunale dei ministri di Catania che, diversamente dal procuratore Zuccaro, hanno chiesto l’autorizzazione a indagare su Salvini. Come dice Minisci per l’Anm “la magistratura ha delle prerogative, noi rispettiamo quelle di tutti, ma chiediamo rispetto. Sulla tutela dei diritti vogliamo poter fare serenamente il nostro lavoro, richiamando i principi della Costituzione”. Il boom degli asili - La Suprema corte, sui migranti, fa già il suo dovere. Ecco il boom dei ricorsi sulle richieste di asilo, a seguito della legge Minniti del 2017, che numericamente già segnano un + 512,4%. Un dato che scatena subito l’aggressiva replica di Salvini, pronto a dire che “il decreto sicurezza pone un limite a questi ricorsi, spesso palesemente infondati, e che servono ad arricchire pochi avvocati specializzati in questo settore e a intasare i tribunali”. Salvini giunge alla conclusione che “i ricorsi palesemente infondati saranno carta straccia”. Si vedrà cosa decideranno i magistrati. Ma intanto anche il vice presidente del Csm Ermini si preoccupa sul fronte dei magistrati necessari considerato “il crescente carico dei procedimenti in materia di protezione internazionale e immigrazione”. Ben vengano i 600 giudici in più promessi da Bonafede, ma è evidente che il contenzioso sull’immigrazione apre un nuovo fronte di impegno per la magistratura. E anche per l’avvocatura, tant’è che il presidente del Consiglio nazionale forense Mascherin, applaudito da Mattarella, ricorda e ringrazia “le migliaia di avvocati in pericolo nel mondo per la difesa dei diritti fondamentali, come quelli che in Egitto si stanno adoperando in aiuto della famiglia Regeni”. I tempi della giustizia in Italia - Ovviamente in Cassazione non si è parlato solo di diritti umani, ma anche di un bilancio sui numeri della giustizia. Ecco quella civile: calano i processi, “dai 6 milioni del 2009 ai poco più di 3 milioni e 600mila al 30 giugno 2018, con una riduzione del +4,85% rispetto al 2017. Diminuiscono anche i procedimenti penali, -4,1nei confronti di autori noti. Calano i nuovi procedimenti, -2,6 per gli iscritti e -4,7 per quelli definiti. Quanto alla durata media, a cavallo del 2017-2018, si passa da 369 a 396 giorni in primo grado, da 906 a 861 in appello. Quanto ai magistrati, rispetto a un organico di 10.751, la copertura è per 9.921 posti (7.430 giudici e 2.491 pm), oltre alle 217 toghe fuori ruolo. Le donne rappresentano ormai il 53 per cento. Il presidente della Cassazione definisce “importante” l’apporto dei 3.518 magistrati onorari (giudici di pace, giudici onorari di tribunale, vice procuratori onorari, giudizi ausiliari in appello e in Cassazione), senza i quali oggi la giustizia stessa non andrebbe avanti. Toghe sporche - È il pg Fuzio a mettere in guardia però sulle toghe sporche. Scrive che “suscita allarme la gravità e la frequenza degli episodi che di recente hanno visto coinvolti diversi magistrati, perché ciò determina un indebolimento della fiducia dei cittadini nell’indipendenza e nell’imparzialità della funzione penale”. Basti pensare agli arresti di Lecce, o all’inchiesta di Salerno sulla Calabria. Il vice presidente del Csm Ermini ricorda che “è compito dei singoli magistrati guadagnarsi ogni giorno, sul campo, la fiducia dei cittadini nel cui nome sono pronunciate le sentenze”. La prescrizione - “È in calo” annuncia Mammone, e conferma che essa matura “nella maggioranza dei casi nel giudizio di appello e nella fase delle indagini preliminari”. La legge Orlando (orologio fermo per 18 mesi in appello e 18 in Cassazione) “non ha maturato effetti”. Quella di Bonafede (prescrizione bloccata dopo il primo grado) entrerà in vigore a gennaio 2020. Ma il procuratore generale Fuzio raccomanda che essa non sia una misura “isolata”, ma richiederà che “siano rimodellati tutti i tempi ragionevoli del processo, da quelli dell’impugnazione per risalire a quelli dell’azione”. I dato sul 2014-2016 registrano 129.613 prescrizioni nel 2014, 129.531 nel 2015 e 136.120 nel 2016. Colpisce il dato delle prescrizioni davanti ai giudici per le indagini preliminari: 74.150 nel 2014, 66.880 nel 2015, 72.840 nel 2016. Solo 646 nel 2018 le prescrizioni in Cassazione. La riforma penale e civile - Sulla prescrizione il Guardasigilli Bonafede va avanti. Di fronte alle toghe annuncia che “a febbraio sarà pronta la delega unica sia per il civile che per il penale”. Per approvarle poi ben prima del gennaio 2020. L’allarme carcere - Infine, sempre da Bonafede, ancora una volta preoccupazioni sul carcere: “Non è accettabile che in uno Stato di diritto detenuti e agenti di polizia penitenziaria vivano e lavorino in condizioni fortemente sotto la minima soglia della dignità” dice il Guardasigilli e rileva lo scarto esistente a oggi tra il numero dei detenuti, 59.947, a fronte di una capienza regolamentare di 50.569 posti. Diritti umani e durata dei processi, i moniti di Mammone e Fuzio di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2019 Inaugurazione dell’anno giudiziario. Le relazioni del primo presidente e del procuratore generale della Cassazione. Due relazioni dense, ricche di dati sullo stato della giustizia ma anche forti nei toni e decise nel richiamare la democrazia ai suoi principi inderogabili. I vertici della Cassazione, il primo presidente Giovanni Mammone e il procuratore generale Riccardo Fuzio, danno un messaggio che sollecita anche la politica ad adempiere al proprio compito. A cominciare da due emergenze. I “diritti umani”, di cui la comunità internazionale, ricorda il primo presidente, “è tenuta ad assicurare la tutela”, e che sono fissati al cardine del nostro ordinamento dalla Costituzione. L’altro punto cruciale dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è in un passaggio della relazione di Fuzio, che si sofferma sulla prescrizione e sulla lunghezza dei processi: “Spesso la durata eccessiva di un giudizio fa più male di un verdetto sfavorevole. E in una situazione del genere essere sotto processo può essere diventare una condizione permanente”. Parole che rimandano alla necessità di intervenire sul codice penale senza limitarsi allo stop dei termini di estinzione dei reati, perché “il processo è un tutto armonioso e le modifiche non possono essere isolate”. Il primo presidente - Mammone non fa riferimento, com’è ovvio, alle vicende degli sbarchi né alle nuove norme introdotte con il decreto sicurezza. Ma sui diritti umani ammonisce che “bisogna evitare qualsiasi regressione: gli Stati moderni devono apprestare gli strumenti idonei ad assicurare la loro tutela”. E rispetto agli impegni che l’Italia ha con i Trattati internazionali e con “la Dichiarazione universale dei diritti umani, di cui è appena ricorso il 60esimo anniversario” vale il rispetto di un’altra condizione imprescindibile dell’ordinamento: “La cessione, da parte dell’Italia, di parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione”. E la funzione della magistratura, anche nella sua espressione più alta, qual è appunto la Cassazione, non è solo “quella di affermare i diritti, ma anche nel sollecitare ciascuno, nella scrupolosa attuazione della legge, ad adempiere ai doveri, richiamando i soggetti pubblici e privati, individuali e collettivi, all’assolvimento dei loro compiti”. Un passaggio del primo presidente, che con il procuratore generale è anche componente di diritto del Csm, riguarda “la formulazione dei pareri”, da parte di quest’ultimo, “sui provvedimenti” in materia di “ordinamento giudiziario e funzionamento della giustizia”. Altro tema che pare non casualmente affrontato all’inizio del discorso inaugurale, considerate le polemiche che hanno accompagnato, per esempio, il documento del Consiglio superiore sulla legge Spazza corrotti: “Si tratta di una tra le funzioni più delicate, ma si tratta di uno strumento di natura tecnica” reso disponibile grazie “alle competenze dei laici e dei togati”. E a proposito delle riforme, anche il primo presidente si sofferma su alcuni interventi in campo penale. A partire dalla prescrizione, che continua a incidere in prevalenza sull’appello e sulle indagini. Nella prima di queste due fasi sono decisivi i tempi non di definizione del giudizio ma “di mero attraversamento”, cioè del passaggio fra il primo e secondo grado. Ed è per questo che “la risposta deve essere in maggiori risorse e in un loro migliore utilizzo”. Non si possono ancora percepire “gli effetti della sospensione introdotta con la riforma Orlando, pur positiva, né a maggior ragione quelli dello stop appena introdotto”. Rispetto al quale però anche il primo presidente si raccomanda per “interventi mirati ad accelerare il corso dei processi”. Non manca l’ampio passaggio sui dati dell’arretrato in generale e presso la Suprema corte in particolare: dove diminuisce per il penale “per il 18,6%” ma cresce nel civile “per il 4,1%”, soprattutto perché si sono impennate le impugnazioni “in materia di protezione internazionale, a causa della riforma che ha eliminato la ricorribilità in appello”. Il procuratore generale - A Riccardo Fuzio tocca soffermarsi su una delle emergenze più allarmanti: “La gravità e la frequenza degli episodi che di recente hanno visto coinvolti diversi magistrati: ciò determina un indebolimento della fiducia dei cittadini nell’indipendenza e imparzialità della funzione penale”. Non si può, avverte il procuratore generale, “delegittimare il pubblico ministero né tanto meno il giudice nel momento in cui emette la decisione”. Nel ricordato passaggio sulla prescrizione, Fuzio ricorda che “è corretto ricercare antidoti volti a evitare che essa corroda la vicenda processuale dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, ma sostenendo sistematicamente tale intervento”, appunto, “con altri riguardanti l’intero processo”. Le direttrici suggerite comprendono tra le altre due ipotesi sostenuta l’una dalla magistratura associata, l’altra dall’avvocatura: “Il pensiero va, ad esempio, a correttivi importanti al giudizio di appello”, anche con “meccanismi di raffreddamento di un suo uso improprio e inflazionato: si è proposta, da taluni (l’Anm, ndr) l’abolizione del divieto di reformatio in peius”; ma Fuzio evoca anche un possibile intervento “a maglie più strette” sui “tempi delle indagini preliminari, rimeditando sul problema della tempestività dell’iscrizione”. Rilievo coraggioso perché riguarda un ambito lasciato finora a una evidentemente eccessiva discrezionalità proprio dei magistrati dell’accusa, di cui il pg di Cassazione rappresenta, di fatto, l’espressione più elevata. Colpiscono, nella relazione di Fuzio, anche i passaggi rivolti ad alcune emergenze criminali specifiche del Paese, in particolare a quella della malavita a Napoli: “La camorra cittadina si impone e intimidisce con una violenza sfacciata, spesso gratuita e comunque volutamente esibita”, ricorda il pg di Cassazione. “Essa appare priva di regole e per ciò solo risulta anche difficilmente controllabile, prevedibile e, quindi, più allarmante e pericolosa. Il capoluogo campano”, nota Fuzio, “vive uno scenario unico a livello nazionale, diverso, quanto meno sotto il profilo della sicurezza del singolo cittadino, da quello presente in altre realtà metropolitane, nelle quali non si è esposti al rischio di agguati e sparatorie in pieno centro, nelle ore pomeridiane e in zone affollate da turisti”. Il presidente della Cassazione: “Restiamo umani” di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 26 gennaio 2019 Apertura dell’anno giudiziario nel segno del dovere di garantire i diritti anche ai non cittadini. Effetti critici dal decreto Minniti-Orlando: +500% dei ricorsi in Cassazione in materia di protezione internazionale. Mentre a Siracusa una nave con 47 migranti è tenuta ferma a due miglia dal porto, a Roma nell’aula magna della Corte di cassazione la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 parte dai diritti. Nella relazione del primo presidente della Corte, Giovanni Mammone, è il primo paragrafo: “È compito degli Stati moderni apprestare strumenti idonei per dare risposta alla richiesta di tutela che gli individui, cittadini e non, richiedono per i loro diritti”. “Le moderne costituzioni predispongono a strumento istituzionale di tutela i giudici”, aggiunge Mammone, e immediatamente viene da pensare al fatto che sono stati tre giudici, a Catania, a non fermarsi davanti a un ministro per provare a garantire i diritti dei sequestrati sulla nave Diciotti. Giudici ai quali Salvini ha risposto che per occuparsi di lui avrebbero dovuto prima farsi eleggere. “Evitare ogni regressione in materia di diritti umani è un compito che si è dato la comunità internazionale”, è invece l’aggiunta di Mammone. Che di nuovo non parla di “cittadini” ma di “esseri umani”: “Tutti nascono liberi e uguali in dignità e diritti, nella nostra Costituzione l’individuo è centro e punto di riferimento di ogni diritto”. Si torna a parlare di migranti quando Mammone, scalando la rituale montagna di dati e cifre che testimoniano di una giustizia sia civile che penale ancora in profondo affanno, si sofferma su una statistica clamorosa. Il peso dell’arretrato civile sulla Cassazione l’anno scorso è aumentato a causa della mostruosa crescita dei ricorsi in materia di protezione internazionale: +512%. Immediata la spiegazione: il decreto Minniti-Orlando, ministri dell’interno e della giustizia del governo Gentiloni, ha dimezzato il diritto alla difesa dei richiedenti asilo. Che dalla metà del 2017, in caso di bocciatura della richiesta di asilo da parte delle commissioni territoriali, non hanno più - come hanno tutti - la possibilità di rivolgersi a due gradi di giudizio civile (tribunale e corte d’appello) ma solo al primo grado, fermo restando il ricorso in Cassazione, che è costituzionalmente garantito. Un diritto dimezzato per una categoria di persone e un carico di lavoro imprevisto e pesantissimo per la suprema Corte. Con una serie di conseguenza sulla effettività della giustizia per tutti da riprendere nel capitolo dedicato alla prescrizione. Nel commentare la notizia della crescita abnorme dei ricorsi di legittimità nelle cause per il riconoscimento dell’asilo, il ministro Salvini perde l’occasione di scaricare le responsabilità sui predecessori, forse ricordando di essere stato a favore del decreto Minniti-Orlando. Dice che “i ricorsi ci sono sempre stati, ma il decreto sicurezza pone un limite ai quelli palesemente infondati che servono ad arricchire pochi avvocati specializzati. Saranno carta straccia”. A parte l’antipatia, comprensibile in Salvini, verso gli avvocati che si occupano di difendere i migranti, il riferimento del ministro dell’interno è alla strumentale abolizione del gratuito patrocinio nel caso in cui i ricorsi civili vengano giudicati inammissibili: un modo per scoraggiare i meno abbienti dal tentativo di vedere riconosciuti i loro diritti. E anche a questo che probabilmente pensava il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, intervenuto anche lui alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, quando ha detto che “il processo deve essere ancorato alle garanzie e ai diritti non comprimibili, quale il diritto di tutti, ma soprattutto dei più deboli, alla difesa”. La fotografia in cifre del sistema giustizia offerta dalla relazione del presidente Mammone restituisce in sintesi un allungamento dei tempi dei processi penali in primo grado e una piccola accelerazione in appello, che pure in media dura due anni e cinque mesi. Di conseguenza è in questo grado di giudizio che la prescrizione incide per il 25% dei procedimenti definiti. Prescrizione, che per effetto delle scelte di questo governo, dal gennaio prossimo non decorrerà più dopo la sentenza di primo grado. Per Mammone sarebbe stato il caso di vedere prima gli effetti della riforma Orlando, che arriveranno tra alcuni anni. Mentre per il procuratore generale della Cassazione Fuzio si sarebbe dovuto contemporaneamente “rimodellare tutti i tempi del processo”. Cosa che il ministro Bonafede si è impegnato a fare entro l’anno ma, novità, con un solo disegno di legge delega sul processo sia penale che civile. In arrivo, ha detto, a febbraio. Bonafede promette: “Per la giustizia sarà l’anno della svolta” di Giulia Merlo Il Dubbio, 26 gennaio 2019 Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha esordito il suo intervento, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario presso la corte di cassazione, con un ringraziamento a tutti gli operatori del mondo della giustizia: “Donne e uomini che pretendono e rivendicano attenzione da parte dello Stato rispetto ad un settore, quello della giustizia, che rappresenta un pilastro fondamentale della nostra democrazia”. Il Guardasigilli ha voluto indicare questo come l’anno che deve “necessariamente e improrogabilmente rappresentare una svolta per la Giustizia italiana, sia per quanto concerne alcuni interventi immediati e urgenti, sia per quanto attiene alla realizzazione delle fondamenta per un armonico piano di miglioramento strutturale di tutto il sistema- giustizia; un sistema che, finalmente, deve restituire centralità alle istanze e ai diritti dei cittadini, nei confronti dei quali la giustizia deve recuperare la sua credibilità”. Ha proseguito, quindi, elencando la road map del suo dicastero, a partire da quanto già realizzato: Sul versante degli organici (con il reclutamento nel 2019 di 3000 amministrativi; 360 magistrati nonché di ulteriori 600 nuovi ; 35 dirigenti per gli istituti penitenziari e 1300 agenti di polizia penitenziaria), ma anche su quello della digitalizzazione e telematizzazione dei procedimenti giudiziari, “con l’avvio del portale dei servizi telematici, delle notifiche telematiche del Giudice di Pace (entro giugno 2019) e la digitalizzazione in Cassazione (entro l’anno 2019 si raggiungerà la prevalidazione preliminare al deposito delle sentenze e sarà varato il desk del Consigliere)”. Le riforme - Quanto agli obiettivi per il 2019, Bonafede ha elencato “le riforme della procedura penale e della procedura civile, che nel mese di febbraio saranno oggetto di un unico disegno di Legge delega”. Il ddl ha spiegato il ministro - tenderà “alla costruzione, da un lato, di un procedimento penale improntato a canoni di speditezza, efficienza e snellimento per garantire la piena attuazione dell’art. 111 Cost; dall’altro lato, di un processo civile che miri all’efficienza della giustizia, quale fattore decisivo per la piena tutela dei diritti dei cittadini nonché per la ripresa economica del Paese”. Nello stesso orizzonte, infine, si colloca anche uno schema di disegno di legge “in materia di patrocinio a spese dello stato, che verrà presentato in uno dei prossimi consigli dei ministri”. Bonafede ha poi ricordato la recente approvazione del “Codice Rosso”, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, perché “Il coraggio di denunciare, da parte delle donne vittime di violenza, non deve più rimanere orfano dello Stato”. Infine, sul fronte degli interventi normativi, ha sottolineato la riforma del diritto fallimentare, che “rappresenta un cambiamento di prospettiva fondamentale che, da un lato, sarà in grado di recuperare la fiducia del ceto creditorio e, dall’altro lato, di garantire una chance di reinserimento dell’imprenditore in difficoltà”. Ha poi posto l’accento su una novità molto cara al suo dicastero: l’apertura di Uffici di Prossimità sul territorio, “al fine di garantire, soprattutto, una risposta di giustizia alle fasce deboli della popolazione”. Prescrizione - Bonafede ha rivendicato poi il disegno di legge “spazza-corrotti”, che riforma la prescrizione, “finora vissuto statisticamente come uno strumento di filtro e bilanciamento dell’eccessivo numero di procedimenti pendenti nel settore penale”. Invece, “La scelta di sospendere la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, soltanto a partire da gennaio 2020, muove dalla consapevole necessità di fare andare a regime i primi investimenti previsti nella Finanziaria e di provvedere alla sopra richiamata riforma del processo penale”. Carcere - Il ministro ha sottolineato “l’emergenza” in cui versano le carceri e, per farvi fronte, ha annunciato “l’incremento delle risorse umane”, ma anche “fondi all’edilizia penitenziaria, alcuni dei quali saranno spesi nel corso del 2019”. Quanto alle nuove previsioni legislative, ha ricordato la norma a tutela dei figli delle madri detenute e i nuovi protocolli per incentivare il lavoro dei detenuti, “nella convinzione che il lavoro rappresenti la migliore forma di rieducazione”. Bonafede ha poi citato l’arresto di Cesare Battisti tra i risultati della cooperazione internazionale favorita dal ministero, che punta anche “alla stipula di sempre più numerosi accordi bilaterali tesi a garantire l’esecuzione della pena nel Paese di origine di condannati stranieri” presenti nei penitenziari italiani. Cassazione. Gli immigrati che fanno ricorso sono saliti del 550% di Valentina Errante Il Messaggero, 26 gennaio 2019 Il risultato dell’abolizione dell’impugnazione in secondo grado per i permessi di soggiorno. Di migranti, di fatto si parla, anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario. E non solo perché i ricorsi in Cassazione sono aumentati del 550 per cento, per effetto della legge che ha abolito il ricorso in appello in caso di bocciatura delle domande di protezione internazionale. Il primo presidente della Corte, Giovanni Mannone, comincia ricordando il settantesimo anniversario della proclamazione della dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, preceduta di un anno dalla nostra Costituzione e sottolinea che “Evitare ogni regressione in materia di diritti umani è un compito che si è dato la comunità internazionale”. Nella sua relazione, Mammone, spiega quali siano concretamente gli effetti della riforma voluta dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando che, nel 2017, per accelerare i procedimenti in materia di protezione internazionale, decisero di istituire, presso i tribunali distrettuali, sezioni speciali in materia di immigrazione, con competenza a decidere sui procedimenti amministrativi. Quel decreto, convertito in legge, stabiliva anche che i dinieghi del diritto d’asilo non fossero più reclamabili, ma dopo l’esame dei Tribunali, l’unico ricorso possibile fosse in Cassazione. Così, in un anno, piazza Cavour è stata sommersa. “Tale disposizione - spiega Mammone - ha comportato un improvviso quanto inaspettato aumento dei ricorsi in materia di protezione internazionale, gravando la Corte di 6.026 cause, con una percentuale in aumento del 550 per cento. Tale afflusso, nonostante l’impegno anche organizzativo della sezione interessata (la prima civile) per lo smaltimento dei nuovi ricorsi - ha continuato il presidente - ha comportato un aumento considerevole della pendenza generale dei ricorsi”. Nel 2017 i ricorsi erano stati 1.089. I nuovi ricorsi civili, che negli anni precedenti si erano andati stabilizzando per numero, con una progressiva riduzione dell’arretrato, sono così aumentati in maniera inattesa, nella misura del 21,7 per cento. Ma la tutela dei diritti è il punto di partenza della relazione di Mammone: “È compito degli Stati moderni - dice - apprestare strumenti idonei per dare risposta alla richiesta di tutela che gli individui, cittadini e non, richiedono per i loro diritti. Le moderne costituzioni - dice il primo presidente - predispongono a strumento istituzionale di tutela di tutela i giudici e, più in particolare, le strutture giudiziarie, come articolate nei vari settori della giurisdizione e nei gradi di giudizio”. Processo per la morte di Stefano Cucchi, “i depistaggi continuano ancora” di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 gennaio 2019 Il comandante della caserma Appia: “Alla Cecchignola una seconda riunione al vertice dell’Arma”. L’avvocato Fabio Anselmo: “Stanno emergendo fatti inquietanti e gravi che si stanno verificando al di fuori di questo processo. Possiamo anche voltarci dall’altra parte ma è inaccettabile in uno Stato di diritto”. Il tentativo di insabbiamento della verità e di depistaggio delle indagini sulla morte di Stefano Cucchi - riuscito per molti anni - emerge ogni volta più nitido, man mano che avanza l’inchiesta integrativa al processo bis aperta dal pm Giovanni Musarò e che cresce il relativo faldone con prove e testimonianze portate davanti alla I Corte d’Assise di Roma. Tentativi mai interrotti, che continuano a tutt’oggi, come è emerso durante l’udienza di ieri e in particolare come confermato dal capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, che conduce le indagini su questo secondo filone di indagine. “Stefano Cucchi non voleva stare nelle celle di sicurezza perché aveva paura di essere picchiato di nuovo”, avrebbe ammesso il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, in una delle intercettazioni della polizia riferite da Silipo. Colombo Labriola è lo stesso che in altre telefonate ascoltate dagli inquirenti commentava con l’appuntato Gianluca Colicchio l’iscrizione sul registro degli indagati appena ricevuta, e ricostruiva il destino dei falsi verbali prodotti. A conferma del fatto che molti, all’interno della catena di comando dell’Arma, sapessero del pestaggio subito dal giovane geometra romano - arrestato per droga il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto protetto dell’ospedale Pertini - e si mossero per mettere tutto a tacere. E ieri in aula a riferire di un’altra riunione al vertice tra carabinieri dedicata alla vicenda è stato il maggiore Emilio Bucceri, a quel tempo comandante della stazione Appia dove Stefano venne condotto per il fotosegnalamento e dove venne picchiato, secondo la testimonianza di Francesco Tedesco, uno dei cinque militari imputati nel processo bis. Bucceri non era in servizio quella sera, sostituito dal suo vice, il maresciallo Roberto Mandolini, altro imputato; nel suo caso con l’accusa di falso e calunnia. Non solo dunque la riunione del 30 ottobre, a ridosso della morte di Cucchi, che si tenne nel comando provinciale di Roma, in Piazza San Lorenzo in Lucina, ma anche un’altra, che si svolse alla Cecchignola il 12 novembre 2009. Anche quest’ultima, come la prima, convocata dall’allora comandante provinciale dell’Arma, il generale Vittorio Tomasone, preoccupato questa volta di quanto stava emergendo sui media in merito al caso dell’allora presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, vittima di un’estorsione da parte di quattro carabinieri che sono stati condannati nel novembre scorso. “L’unica riunione alla quale ho partecipato fu un briefing indetto dall’allora comandante provinciale in una nostra caserma alla Cecchignola - ha riferito Bucceri - C’erano il comandante provinciale e, scendendo la scala gerarchica, i comandanti di gruppo, quelli di compagnia e quelli delle stazioni. Da poco c’era stato anche l’accadimento Marrazzo, dove erano coinvolti dei carabinieri per una vicenda estorsiva e fu fatto riferimento dal generale Tomasone a questi due fatti e alla gestione del personale”. “State attenti al personale”, disse in quell’occasione Tomasone, secondo quanto riportato dal maggiore. Il pm chiede come mai i vertici dell’Arma concedessero tanta attenzione ai casi Marrazzo e Cucchi. “C’era stata risonanza mediatica, per questo erano interessati”, risponde Bucceri. Il comandante della stazione Appia ricorda anche le parole con le quali il suo vice Mandolini tentò di addossare alla Polizia penitenziaria la responsabilità del pestaggio: “Mi disse: glielo l’abbiamo consegnato che era sano… ci vogliono tirare dentro”. Ieri avrebbe dovuto testimoniare anche il prof. Carlo Masciocchi che ha firmato la perizia con la quale è stata appurata la frattura “recente” della vertebra L3 sul corpo di Cucchi. Frattura che era stata invece negata e perfino “nascosta”, secondo la famiglia di Stefano, nelle precedenti perizie medico legali. Masciocchi non ha potuto essere presente e la sua deposizione è stata rinviata. Ma Ilaria Cucchi e il suo avvocato Fabio Anselmo hanno ricordato anche ieri che i tentativi di “insabbiamento continuano, su tutti i fronti”. “Stanno emergendo fatti inquietanti e gravi che si stanno verificando al di fuori di questo processo. Testimoni che vengono avvicinati, depistaggi che si stanno protraendo nel tempo e continuano mentre è in corso questo procedimento”. “Possiamo anche voltarci dall’altra parte - conclude Anselmo - ma esprimo tutto il mio rammarico rispetto alla reiterazione di questi episodi in queste forme illecite e inaccettabili in uno Stato di diritto”. Sardegna: una sola Rems con tanto di lista d’attesa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2019 Il ricorso della magistratura di sorveglianza alla misura di sicurezza presso la Rems è minimo, creando così le lista d’attesa dove i pazienti, in attesa che si liberino un posto, rimangono illegalmente nelle carceri. L’assistenza sanitaria in carcere, non garantisce l’effettiva tutela della salute nei confronti dei detenuti, c’è una mancata differenziazione di reparto tra ristretti con problemi di salute fisica con quella psichica e il personale infermieristico ha contratti precari, condizione che incide alla qualità del lavoro. Al carcere di Bancali, le donne hanno segnalato che non solo vengono tradotte in ospedale con le manette (quelle con la catena), ma spesso le manette sono lasciate anche durante le visite e vengono tolte solo dopo la richiesta del medico. Parliamo del capitolo del rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà dedicato alla tutela della salute nella regione Sardegna. Al carcere di Nuoro sono state segnalate criticità e attriti con la farmacia ospedaliera per l’intempestivo e inadeguato approvvigionamento dei farmaci: per esempio si legge nel rapporto, i farmaci per i pazienti cronici vengono mandati all’Istituto in quantitativi non sufficienti, e non di rado devono essere acquistati con la ricetta del servizio sanitario per sopperire alla mancanza. Molte poi - sempre secondo il rapporto - le carenze e molti gli ostacoli organizzativo-burocratici segnalati: il ritiro dei referti in ospedale avviene spesso con grandissimo ritardo; le richieste di invalidità non possono essere inviate via internet; manca la sterilizzatrice da almeno due anni; il defibrillatore non funziona. Inoltre, la delegazione ha rilevato che non è prevista una scheda della terapia di ciascun paziente e che manca il registro delle lesioni. La delegazione del Garante ha potuto constatare che durante l’isolamento disciplinare delle persone detenute, il medico non redigeva la certificazione medica di idoneità all’isolamento e ciò va contro l’articolo 39 dell’ordinamento penitenziario. Altra grave criticità riscontrata riguarda la conservazione dei fascicoli sanitari delle persone detenute, così come la delegazione ha avuto modo di riscontrare in presenza degli addetti all’area sanitaria, “era assolutamente deprecabile, con pagine mancanti o strappate”. Nel carcere di Uta, invece, il reparto dedicato ai detenuti con problemi di salute ordinaria e quello dedicato alla salute mentale, sono in realtà all’interno dei medesimi spazi e quindi indistinguibili. “Ciò - sottolinea il Garante non permette un adeguato approccio terapeutico individualizzato, trasformando il reparto in un “cronicario” dove vengono ospitate persone con problemi - e bisogni - molto molto diversi: al momento della visita, per esempio, la delegazione ha potuto incontrare persone ultrasettantenni, così come neomaggiorenni con rilevanti patologie legati all’abuso di sostanze stupefacenti o ancora pazienti in attesa di trasferimento in Rems”. Gli stessi operatori hanno riferito alla delegazione del Garante, che non sono a conoscenza dell’esistenza del reparto dedicato esclusivamente ai detenuti con problemi di salute mentale. Per quanto riguarda la Rems, c’è n’è solo una in Sardegna, la struttura sembra adeguata alle esigenze del territorio, ma dal 2017 risulta che si è registrato invece un lieve aumento di misure di sicurezza detentive disposte dalla magistratura, che ha portato alla creazione, per la prima volta, di una “lista di attesa”. La delegazione ha potuto osservare che c’è un paziente che proviene dall’Umbria e ciò crea un problema non solo dal punto di vista territoriale, ma anche dal punto di vista di reinserimento nella società, visto che è lontano dal suo luogo di origine. Per questo il Garante nazionale ha riaperto (già fatto nel passato, ma senza risposta) il dialogo con la Presidenza della Regione per sanare questa situazione anomala. Fermo: detenuto semilibero di 40 anni muore suicida in cella Leggo, 26 gennaio 2019 Un detenuto di 40 anni, Oscar Errera, originario di Santo Domingo, è stato trovato morto in cella nel carcere di Fermo. Secondo quanto trapela l’uomo si sarebbe suicidato legandosi con un laccio al tubo di scarico del water all’interno della cella che occupava da solo. La scoperta è stata fatta dal personale della casa circondariale fermana durante il consueto giro di controlli e ha lanciato subito l’allarme. Sono subito arrivati i sanitari del 118 ma quando hanno provato a rianimarlo per l’uomo purtroppo ormai non c’era più nulla da fare. Sul posto oltre al personale sanitario anche quello della casa circondariale che ha avviato le indagini per ricostruire quanto è successo. Il corpo del quarantenne è stato portato all’obitorio dell’ospedale dove il medico legale ha effettuato una prima ispezione cadaverica. La salma è stata quindi messa disposizione della magistratura per gli accertamenti di rito. Oscar Errera stava scontando una pena a 15 anni di carcere e sarebbe dovuto uscire tra circa tre. Da tempo godeva del regime di semilibertà, al mattino usciva dal carcere per svolgere alcuni lavori di pulizia nella città di Fermo e poi faceva rientro in cella. Era uno dei circa sessanta detenuti che ospita il carcere fermano che non aveva mai creato alcun problema. Il fatto che al mattino era libero di lavorare fuori dal carcere a contatto quindi con il mondo esterno gli aveva dato qualche motivazione in più e nulla faceva quindi presagire quanto invece è posi successo. Venezia: “Così Sissy denunciò i segreti del carcere” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 26 gennaio 2019 Il giallo dell’ultima lettera dell’agente. Ecco il testo integrale. Il papà: “Verità”. I dubbi sul pc, restituito completamente resettato e con una data antica all’accensione: 25 dicembre 2007. Quasi nove anni prima dei fatti. Gli interrogativi sulle denunce “mai prese in considerazione”, sull’assenza delle tracce di dna e di sangue sulla pistola incriminata. E ancora i tanti perché, le “porcherie che Sissy stava scoprendo e che la direttrice del carcere voleva tenere nascoste”. Fino alla domanda principe: “Chi ha sparato quel colpo? Perché si parla troppo facilmente di suicidio?”. Punti oscuri che affollano la mente di Salvatore Trovato Mazza, il papà di Maria Teresa, l’agente di polizia penitenziaria del carcere femminile della Giudecca, morta il 12 gennaio scorso dopo due anni e due mesi di coma per un colpo sparato l’1 novembre 2016 all’interno di un ascensore del reparto di Pediatria dell’ospedale Civile di Venezia. Dubbi, quelli di Salvatore, che nascono da una lettera scritta da Sissy - così la chiamavano - il 30 settembre 2016, un mese e un giorno prima di quel colpo che aveva cambiato tutto. Nella lettera (ora agli atti) indirizzata all’allora direttrice del penitenziario femminile di Venezia, Gabriella Straffi, l’agente Trovato Mazza fa nomi e cognomi di detenute che le avevano “raccontato fatti gravi che riguardano le mie colleghe”. Temi di cui lei aveva parlato con un’ispettrice (citata per nome nei due fogli, ndr) che a sua volta l’aveva consigliata di parlarne “al più presto” con la stessa direttrice. Anche perché il 29 settembre 2016 (“in data di ieri”, si legge testuale nella lettera) Sissy raccontava di essere stata fermata da altre quattro detenute (di cui fa i nomi) “che singolarmente mi hanno raccontato alcuni fatti”. Confessioni tramutate in appunti “per non dimenticare quanto mi hanno detto” e avvertendo la direttrice Straffi che una delle stesse detenute “ha anche firmato quanto scritto”. “Ieri (dalla data della lettera si capisce che Sissy fa riferimento al 29 settembre 2016, ndr) ho chiesto di potermi fermare sperando di poter parlare con la signoria vostra (la direttrice, ndr). Tutte le detenute hanno raccontato di essere a disagio per quanto hanno visto”. Che per lei si trattasse di informazioni di primaria importanza, lo si capisce dalla firma. Prima di vergare, in corsivo, con il suo nome, Maria Teresa Trovato Mazza, scrive “per dovere”, come a sottolineare l’urgenza di un colloquio mai avvenuto. Ma di cosa voleva parlare alla sua direttrice? Contattata dal sito Fanpage.it, una detenuta ha spiegato come l’agente avesse scoperto un giro di cocaina all’interno del carcere della Giudecca, introdotta attraverso le lenzuola che vengono lavate dalle detenute per conto di molte strutture veneziane. E in lavanderia avrebbe scoperto lo stupefacente che poi veniva nascosto nelle plafoniere della cella 2, dove i cani antidroga non potevano arrivare. Un mese dopo quella lettera, Sissy veniva trovata agonizzante nell’ascensore del Civile. Era, quello, l’inizio di un calvario senza fine con la morte di Maria Teresa divenuta il sale su una ferita profonda e già lacerata. “Cerco solo la verità, verrò a Venezia e sono disposto a darmi fuoco in piazza per Sissy, per la verità”, ha confessato ieri il padre. “Mi chiedo come mai siano state disposte delle indagini soltanto ora. Sono passati ventisei mesi. Il pc era dentro il carcere il giorno della disgrazia, era il suo computer di lavoro, su cui si annotava ogni cosa e noi l’abbiamo trovato a casa sua: chi l’ha portato lì? Chi l’ha ripulito? Siamo stati noi a metterlo in mano agli inquirenti ancora due anni fa”. Un immobilismo di cui ora la famiglia di Sissy chiede conto: “A Venezia non devono fare le indagini, da lì non verrà mai fuori la verità: non perché non siano in grado, ma perché c’è qualcuno che vuole coprire - ha spiegato Salvatore Trovato Mazza - Tutti sanno cosa succede alla Giudecca, dove un medico ha patteggiato perché faceva sesso con le detenute. La direttrice, che Sissy voleva a tutti i costi incontrare, però ce l’aveva con mia figlia perché stava portando a galla cose che lei aveva nascosto”. Quello a cui i genitori della ragazza non credono, è l’ipotesi di suicidio: “Il proiettile è entrato da dietro l’orecchio, non può aver fatto da sola, qualcuno le ha sparato. Ma non sono state fatte le indagini, anche la perizia medico-legale dopo lo sparo è stata fatta sulle carte, senza guardare i segni di bruciatura sulla testa di mia figlia. I rilievi fotografici sono stati fatti solo dopo, quando quella parte di cute era stata tolta. Per questo ci siamo scagliati contro il medico legale quando è venuto a Reggio Calabria per l’autopsia. La mancanza dei rilievi fotografici sulle bruciature dello sparo sono stati l’inizio dei punti oscuri di questa inchiesta”. Ora la battaglia, è tutta per far emergere la realtà dei fatti. “È Sissy che mi dà la forza di lottare - ha concluso Salvatore. Di lei mi resta tutto, è viva in me”. E nei giorni scorsi gli amici di Sissy hanno lanciato una petizione online (che ieri ha sfondato il muro delle 2.400 firme) diretta al Presidente Sergio Mattarella, al ministro dell’Interno Matteo Salvini e al comando dei carabinieri di Venezia per far luce sulla storia. Viterbo: piano di prevenzione delle condotte suicidarie a tutela dei detenuti tusciaup.com, 26 gennaio 2019 Ieri mattina, alla Cittadella della salute di Viterbo, il direttore generale della Asl, Daniela Donetti, e il direttore della Casa circondariale di Viterbo, Pierpaolo D’Andria, hanno firmato il Piano locale di prevenzione delle condotte suicidarie, a tutela dei detenuti ristretti nel carcere di Mammagialla e ricoverati nel reparto di Medicina protetta - Malattie infettive dell’ospedale di Belcolle. Il protocollo, frutto di un’intensa attività collaborativa fra le amministrazioni penitenziaria e sanitaria, in seno al tavolo di lavoro costituito dalla Asl nel 2018, dà attuazione al piano nazionale di prevenzione, di cui all’accordo in conferenza unificata Stato Regioni del 27 luglio 2017. Il documento contribuisce ad affinare e a potenziare, attraverso una sinergia fra gli operatori interessati alla prevenzione del fenomeno, gli strumenti tesi alla intercettazione e alla valutazione dei fattori di rischio nei soggetti più fragili. Tra le azioni contenute nel protocollo figurano l’intervento immediato in ottica medico-custodiale, e la presa in carico dei casi a rischio da parte di una équipe multidisciplinare composta da medici, psicologi, psichiatri, educatori, unità di Polizia penitenziaria, considerando, inoltre, la pronta ed efficace gestione delle emergenze-urgenze e la formazione specifica del personale sanitario e penitenziario coinvolto. “Il protocollo - commenta il direttore generale della Asl di Viterbo, Daniela Donetti - conferma, inoltre, l’obiettivo generale delle due amministrazioni, nell’ambito delle rispettive competenze, di sviluppare quei positivi fattori ambientali che contribuiscono a prevenire le situazioni di rischio. Tra questi: il miglioramento del complessivo quadro delle relazioni delle persone private della libertà (si pensi al sostegno alla genitorialità dei detenuti padri), la garanzia dei diritti soggettivi delle persone detenute, fra cui un adeguato livello di assistenza sanitaria, e la costruttiva occupazione del tempo della detenzione con attività di studio, di formazione professionale, di lavoro, in alternativa a condizioni di ozio e passività”. “In questo modo - aggiunge il direttore della casa circondariale di Viterbo, Pierpaolo D’Andria, anche attraverso gli strumenti del piano locale di prevenzione, la Asl di Viterbo e la Casa circondariale, nel consolidato clima di rispetto dei ruoli e di attenzione al coinvolgimento della comunità locale, intendono proseguire la proficua collaborazione verso un’esecuzione penitenziaria che possa realizzare, nella realtà viterbese, adeguate condizioni di umanità, dignità della pena e utili percorsi di risocializzazione. Roma: la seconda vita dei detenuti, in 170 per occuparsi di buche, rifiuti, verde di Salvatore Giuffrida La Repubblica, 26 gennaio 2019 Rebibbia, accordo con il Comune. Si parte il 29 con le strade. In carcere corsi di scrittura. I detenuti di Rebibbia si occuperanno della manutenzione delle strade di Roma, nuovamente martoriate dalle buche dopo le piogge e le gelate di questi giorni. Una squadra di 30 detenuti non socialmente pericolosi della sezione G8 (pene definitive) inizierà a lavorare martedì, dopo una formazione di tre mesi curata dai tecnici di Autostrade: i detenuti, volontari gestiti dal Comune in due squadre da 15, ripareranno tutti i giorni le buche con asfalto a caldo, puliranno i tombini e le strisce pedonali: si inizia con le strade del VI municipio, poi di XI, XV e gli altri. Quindi altri detenuti si occuperanno di servizi pubblici: entro marzo almeno 75, di cui 50 della sezione G8 e 25 di altri reparti, tutti non socialmente pericolosi, andranno a raccogliere i rifiuti per strada. Si aggiungono ai 40 detenuti che ogni mattina escono dal carcere per pulire le aree verdi e i parchi della capitale per 4 ore al giorno. È un servizio alla comunità, ma anche agli stessi detenuti perché possano reinserirsi nella società e avere una pena rieducativa. Ma anche per combattere i problemi cronici delle carceri, dove a volte può diventare difficile anche farsi una doccia, convivere con i vicini di cella, curare malattie e patologie. È il senso emerso da un incontro al teatro di Rebibbia dove il direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Francesco Basentini, la direttrice di Rebibbia, Rosella Santoro, la garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, e giornalisti come Enrico Bellavia, hanno parlato dell’importanza dei lavori di pubblica utilità; presente anche il Comune che sta portando avanti i progetti, alcuni finanziati dalla Chiesa valdese, come il corso appena concluso sulla scrittura creativa. “Questi progetti sono essenziali, l’impegno è di creare sempre occasioni di reinserimento”, spiega Basentini presidente del Dap. “La pena deve essere rieducativa - sottolinea la direttrice di Rebibbia - qui ci sono ci sono tre poli universitari con più di 100 detenuti, da un anno alcuni si stanno occupando del verde e a breve rimetteranno a posto le strade della nostra città. E ci sono altri progetti come la sartoria o la torrefazione”. Entrando nel carcere romano, un mondo dove vivono 1.500 detenuti, il primo impatto che ti accoglie è l’odore di caffè non solo vicino alla torrefazione ma anche nei corridoi dell’istituto. Nel teatro del carcere incontriamo Luciano, quasi 60 anni e da 28 a Rebibbia. Alcuni andranno a riparare le strade di Roma, lui ha scelto di scrivere un libro, accetta di parlare e si emoziona quando il tema è la scuola: “Ti insegna tante cose. Sto scrivendo un libro sulla mia esperienza e ho scritto poesie. Il carcere ti può offrire tante cose”. Pisa: Sarti (Si) “serve uno spazio per i detenuti riservato all’Ospedale Cisanello” gonews.it, 26 gennaio 2019 “Tra le tante criticità del carcere Don Bosco di Pisa, è urgente intervenire sull’assistenza medica e sanitaria ai detenuti. Sarebbe importante creare uno spazio predisposto per l’accoglienza della popolazione carceraria al Cisanello, o recuperando quello che era stato incluso nella progettazione dell’ospedale pisano, o riservandone uno ex novo in quello che sarà il terzo lotto”. È la proposta del consigliere regionale di Sì-Toscana a Sinistra, Paolo Sarti che ha visitato il Don Bosco, questa mattina, assieme a Luca Barbuti (Prc), Tiziana Nadalutti (Una Città in Comune) e una volontaria dell’associazione Controluce. “Il personale sanitario fa i miracoli ma -continua Sarti- si muove tra mille difficoltà, dovute anche alla sovrapposizione burocratica tra ministeri, da una parte, e Asl, dall’altra. Per quanto riguarda il Don Bosco nel suo complesso, a due anni dalla nostra ultima visita, non abbiamo notato grandi differenze, anche se alcuni lavori di ristrutturazione sono in corso: celle fatiscenti e sovraffollate, bagni indecorosamente a vista. Colpisce poi la quasi totale assenza di attività per i detenuti, attività che siano ricreative, culturali, formative, che sia a socializzare tra di loro che a trascorrere con più dignità il tempo della pena, investendo magari sul proprio futuro. Le pochissime iniziative sono affidate a qualche associazione di volontariato. Si deve alla buona volontà di singole persone se, ad esempio, alcuni detenuti riescono a portare avanti i percorsi universitari”. “Siamo molto preoccupati anche per il trasferimento temporaneo della trentina di donne, di cui la stessa direzione non sembra avere delle certezze sulla loro destinazione, in attesa del completamento dei lavori in questa sezione, che dureranno, nella migliore delle ipotesi, almeno sei mesi. Complessivamente, purtroppo, il Don Bosco si dimostra una struttura inadeguata. Tanto per la popolazione carceraria quanto per il personale che vi lavora. In assenza di condizioni minime di vivibilità, il regolare rapporto umano e professionale è messo a grave repentaglio. Per questo è facile immaginare - conclude Sarti - che le tensioni che nei mesi scorsi hanno portato a rivolte e a suicidi, possano ripetersi”. Palermo: corso di meccanica al carcere minorile “Malaspina” italpress.com, 26 gennaio 2019 Avviata la seconda edizione del corso professionale di meccanica per i giovani detenuti al “Malaspina” di Palermo. L’iniziativa è frutto di un partenariato tra l’Istituto Penale per i minorenni e il nucleo di Polizia Economico-Finanziaria del Comando Regionale Sicilia della Guardia di Finanza, ideatore del progetto. La nuova edizione del corso si svilupperà in dieci lezioni di tre ore ciascuna. Come docenti, ci saranno due agenti della Guardia di Finanza e, come discenti, i ragazzi ristretti nel Malaspina, appunto. Rispetto allo scorso anno, il modulo didattico sarà arricchito con approfondimenti riguardanti l’auto ibrida e i propulsori nautici e aeronautici. Previste pure delle video proiezioni e una parte pratica, con la possibilità di avere un contatto diretto per la conoscenza degli organi meccanici e dei materiali impiegati per dare vita ai motori. Saranno anche impartite lezioni di sicurezza stradale e di corretti comportamenti alla guida di moto e auto. Durante il corso, oltre al test di ingresso, saranno somministrati dei questionari di verifica di apprendimento. Prevista anche una verifica finale, con la consegna di un certificato di frequenza. I contenuti del progetto sono stati presentati nel corso di un incontro cui hanno partecipato il presidente del Tribunale dei minorenni di Palermo, Francesco Micela; il procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo, Maria Vittoria Randazzo; la direttrice del Centro Giustizia minorile, Rosanna Antonia Gallo; la direttrice dell’Istituto, Clara Pangaro; il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Palermo, generale Giancarlo Trotta; il comandante del Reparto Operativo Aeronavale della Guardia della Finanza di Palermo, colonnello Alessandro Carrozzo; ed il comandante del Nucleo di Polizia economico-finanziaria, colonnello Cosmo Virgilio. Lo scorso anno, il corso è stato frequentato da sette ragazzi. Al “Malaspina” sono ristretti 25 giovani. Ascoli: a Marino del Tronto i detenuti cucinano con gli chef lanuovariviera.it, 26 gennaio 2019 “Oggi cucinate con noi”, i detenuti del carcere di Marino del Tronto ai fornelli con gli chef delle Marche. Iniziativa promossa dalla Regione e all’Unione regionale cuochi. Casini: “Progetto di agricoltura sociale” Sono partiti da una pietanza, tutto sommato abbordabile, come la “Panzanella” (piatto tipico dell’Italia centrale), per planare sul più impegnativo “guazzetto”, con il quale il baccalà va a nozze. Accompagnati da quattro chef dell’Unione regionale cuochi Marche, guidati al presidente Luca Santini, una quindicina di detenuti della Casa circondariale di Marino del Tronto hanno partecipato, nel pomeriggio, a un laboratorio dimostrativo di cucina. L’iniziativa è stata sostenuta dalla Regione Marche che, insieme all’Assam (Agenzia per i servizi agricoli), ha realizzato un orto nell’istituto di detenzione, nell’ambito delle attività di agricoltura sociale previste dal Psr (Programma di sviluppo rurale). Il tema era la stagionalità degli alimenti, in particolare quella orticola, per consentire di portare a tavola quanto prodotto dall’orto dell’istituto che i reclusi hanno cominciato a coltivare. Hanno iniziato con la “Panzanella con i profumi del vostro orto”, hanno proseguito con i popolari “Gnocchi alla romana” e chiuso con una doppia versione culinaria del Baccalà: al forno con patate e verdure di stagione, in guazzetto. Ai fornelli, insieme a Santini (docente all’Istituto alberghiero Panzini di Senigallia), Simone Baleani e Marino Martelli (del ristorante “Il Molo” di Portonovo, Ancona) e Serena D’Alessio (ristorante Marchese del Grillo di Fabriano). Chef anconetani in quanto l’Associazione provinciale cuochi Ancona cura, per conto dell’Unione regionale, un progetto di educazione alimentare nelle scuole e, in mattinata, hanno incontrato, ad Ascoli, quattro classi della scuola media D’Azeglio. “La Regione Marche tiene molto alle questioni legate all’agricoltura sociale - ha commentato la vicepresidente Anna Casini, assessore all’Agricoltura - A Marino abbiamo già realizzato l’orto e piantato alberi da frutto, i cui prodotti, in maturazione, sono stati oggi simbolicamente impiattati dagli chef, allo scopo di dare continuità a una bella esperienza formativa e ricreativa per i detenuti coinvolti”. Pontremoli (Ms): una mostra con le opere delle detenute nel carcere minorile voceapuana.com, 26 gennaio 2019 Il 26 gennaio alle ore 18.30, presso il Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo, verrà inaugurata l’esposizione artistica delle opere realizzate dalle giovani detenute dell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli nell’ambito di un progetto per celebrare la Giornata della Memoria. Le opere pittoriche, infatti, sono ispirate a tematiche attuali, come il razzismo, la violenza di genere, i diritti e la libertà. Il progetto “Officine In arte per la Memoria”, voluto dall’Ipm di Pontremoli e sostenuto dal Ministero della Giustizia e dai Fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese, è stato portato avanti dall’Associazione Culturale La Poltrona Rossa che da diversi anni svolge le sue attività presso questo ed altri istituti minorili, in collaborazione con gli attivisti del collettivo Archivi della Resistenza-Circolo Edoardo Bassignani di Fosdinovo. Durante il percorso sono state organizzate presso l’Istituto, proiezioni di testimonianze con Simona Mussini di Archivi della Resistenza e attività di gruppo, come laboratori di scrittura creativa, giornalismo e pittura, con la collaborazione delle operatrici Cristiana Carmignani, Manuela Ribolla e Ivana Parisi, affrontando con le detenute i temi della Resistenza, della liberazione dal nazifascismo, della lotta delle donne partigiane della Lunigiana, della deportazione nei campi di concentramento e in particolare di quella dei Rom e dei Sinti. Le opere pittoriche realizzate sono ispirate a tematiche attuali, come il razzismo, la violenza di genere, i diritti e la libertà. Il titolo della mostra, “Officine In arte per la Memoria”, prende il nome dal progetto stesso. Se l’Europa ci considera un Paese razzista evidentemente un problema c’è di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 gennaio 2019 L’assemblea dei parlamentari del Consiglio d’Europa ha approvato un documento nel quale sono scritte parole molto preoccupate sull’Italia. Non sulla sua condizione economica ma sul rischio razzismo. In Italia - dice il documento - c’è ‘ un aumento dei discorsi d’odio da parte dei politici e un aumento degli atteggiamenti razzisti, della xenofobia e delle posizioni anti Rom nel discorso pubblico, in particolare sui media e su Internet’. Più avanti si esprime preoccupazione per la chiusura dei porti. Il Consiglio d’Europa è un organismo forse non importantissimo, sul piano politico - nel senso che non ha grandi poteri - ma molto prestigioso. È stato fondato subito dopo la fine dell’ultima guerra, prima ancora che nascessero gli embrioni della Unione Europea, e raccoglie non solo i paesi dell’Ue ma quasi tutti i paesi dell’Europa geografica. Il suo scopo assai complesso - è quello di diffondere e allargare i valori della democrazia e della libertà. Il documento che “maltratta” l’Italia (ma non solo l’Italia) è stato votato a maggioranza. Hanno votato a favore anche alcuni deputati italiani (del Pd di Forza Italia e dei 5 Stelle), mentre hanno votato contro altri parlamentari (dei 5 stelle di Forza Italia e di Fratelli d’Italia: la Lega era assente). Naturalmente l’approvazione di questo documento (che contiene anche diversi apprezzamenti per il nostro paese) ha suscitato delle polemiche. Specialmente da parte della Lega, che appare il principale bersaglio politico di questa iniziativa, in quanto partito di riferimento delle forze anti-stranieri. Oltretutto, nel documento, la Lega è definita “partito di estrema destra”. Si può decidere di passare sopra a questo documento e accettare l’idea che sia solo il frutto di una scarsa conoscenza, da parte dei parlamentari europei, della situazione reale in Italia. Oppure si può prendere atto con preoccupazione di due fatti. Il primo è che comunque in Europa si sta affermando l’idea che l’Italia è diventato il paese guida delle forze razziste. Il secondo è che è indubitabile che un clima d’odio si sta diffondendo, nel nostro paese, e che i vettori di questo odio sono i giornali, le Tv, i partiti politici. Odio e razzismo sono la stessa cosa? Diciamo che tra i due fenomeni c’è una fortissima interdipendenza, specialmente nelle moderne società multietniche. Negli Stati Uniti il reato razziale è chiamato hate crime, cioè reato dell’odio. Odio e razzismo, anche sul piano legale, vengono equiparati. Negli Stati Uniti il reato dell’odio è molto diffuso. Le vittime sono principalmente i neri, subito dopo vengono gli ebrei (in proporzione alla popolazione gli ebrei vittime di questo reato sono addirittura più dei neri) e poi gli omosessuali. È un problema o no, in questo caso, quello della percezione? Il fatto che in Europa l’Italia venga considerato uno dei paesi più razzisti, e tra i grandi paesi largamente il più razzista, in contrasto aperto con la sua storia, anche recente, e con la sua millenaria civiltà, è un fatto che merita di essere analizzato, o invece è giusta un’alzata di spalle? Io penso che sia sbagliato non occuparsene, quantomeno per capire quali siano le ragioni di questa percezione. Le ragioni di una percezione di massa, in genere, sono facili da identificare: i giornali, le Tv, la politica. Ed è difficile contestare il giudizio del Consiglio d’Europa sul ruolo di oggettivo incitamento al razzismo, o alla xenofobia, che spesso viene dalla nostra stampa e da una parte significativa della nostra televisione, oltre che dal mondo politico. Va bene così o bisogna intervenire? Io non penso che abbia un senso nessun intervento illiberale. Di proibizione. Il razzismo è un fenomeno autoritario e proibizionista, ed è assurdo, ingiusto e controproducente combatterlo con l’autorità e con la proibizione. Però questo non vuol dire che sia giusto restare a guardare rassegnati. Quest’anno si è celebrato l’ottantesimo anniversario della nascita di Martin Luther King. King è stato il trascinatore di una battaglia antirazzista che ha stravolto, in pochi anni, l’intera cultura americana. Gli Stati Uniti erano uno dei paesi più razzisti del mondo, soprattutto nel Sud, ma non solo (fino alla guerra di Corea, negli anni 50, nell’esercito vigeva il segregazionismo, per impedire che un ufficiale nero potesse avere il comando su soldati bianchi), e in pochi anni la battaglia nonviolenta di Luther King cambiò nel profondo prima il partito democratico e poi gran parte del paese. 40 anni dopo la morte di King l’America ha avuto il suo primo presidente nero. Cosa vuol dire? Che non c’è nessun bisogno di proibire titoli o articoli xenofobi o razzisti ai giornali della destra e neppure alle trasmissioni Tv, né tantomeno vietare il linguaggio xenofobo agli esponenti politici. C’è solo bisogno di contrapporre a quello schieramento xenofobo o razzista uno schieramento liberale, convinto delle proprie idee, deciso a non trattare né in cambio di consenso, né di simpatia, né di copie vendute, né di voti. Voglio dire che probabilmente sono state più gravi le scelte di chi - pur non essendo neppure sfiorato da sentimenti di odio verso i migranti - ha rinunciato a votare la legge sullo Ius Soli, quando aveva la maggioranza per farlo, piuttosto che le parole odiose che tante volte leggiamo sui giornali o sentiamo pronunciare dagli esponenti della Lega. Io penso che se dei leader politici, o dei giornali, usano l’espressione “taxi del mare”, per i gommoni che trasportano profughi poveri e sfortunati, e nessuno reagisce, allora si crea razzismo. E la colpa è quantomeno da dividersi tra chi usa quel linguaggio d’odio e chi non osa contrastarlo. Può darsi che mi sbaglio, ma non credo. E credo che il documento approvato dal Consiglio d’Europa abbia proprio questo scopo: dare una svegliata ai partiti, agli intellettuali, ai giornalisti, che non sopportano il razzismo, ma poi cedono, si intimidiscono, si rassegnano, e in questo modo lasciano che lo spirito pubblico si sposti sempre di più su posizioni estremistiche di odio per gli stranieri. Rafforzare l’argine contro l’odio antisemita di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 26 gennaio 2019 Evitiamo l’indifferenza e l’ipocrisia; facciamo attenzione alla sottovalutazione di discorsi e pregiudizi che sembravano sepolti. Una frontiera di decenza si stava sbriciolando, un argine al debordare dell’antisemitismo rischiava di essere travolto. Quando un senatore della maggioranza presta orecchio alla menzogna dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, uno dei falsi più clamorosi della propaganda di odio antiebraico fabbricato dalla polizia segreta zarista e divulgato dai nazisti, è un bene che le istituzioni si muovano. E per fortuna, alla vigilia della Giornata della Memoria, il presidente Sergio Mattarella ha messo in guardia la cittadinanza dall’uso disinvolto e micidiale di “teorie cospirative” che indicano nell’ebreo demonizzato l’oscuro burattinaio di indicibili complotti. Ma se si infrange la barriera della menzogna, se circolano con disinvoltura discorsi e pregiudizi che sembravano sepolti, allora la ricorrenza del Giorno della Memoria assume un valore impensabile fino a poco tempo fa. Ma attenzione all’ipocrisia, al doppio standard, alla giustificazione del silenzio con cui noi in Europa abbiamo assistito a un odio antiebraico di tipo nuovo, che salda antichi pregiudizi e una smisuratezza antisionista che sconfina nell’antisemitismo più becero, fatto proprio da potenti Stati che con l’annientamento dell’”entità sionista”, lo Stato di Israele, vorrebbero gettare gli ebrei nel mare. O ucciderli nel cuore della civiltà europea, dove vengono attaccate scuole ebraiche, cimiteri, sinagoghe, supermercati kosher, quartieri popolati dai “maiali ebrei”. Una saldatura. Una connessione emozionale e sub-culturale che unisce in un circuito antiebraico i berci antisemiti degli stadi dove il nome di Anne Frank risuona addirittura come un insulto, agli spettacoli in Francia di un bieco antisemita come Dieudonné che fa crepare dalle risate oscene il popolo delle banlieue sbattendo sul palco un povero figurante rivestito con gli stracci di un deportato di Auschwitz. Una sotterranea contiguità tra chi non sente più come un limite invalicabile il richiamo alla più trita simbologia hitleriana (con grottesche magliette, nei raduni di Predappio, dove si esalta lo sterminio ebraico e si mette in ridicolo Auschwitz) e chi macchia la legittima solidarietà con il popolo palestinese con una sloganistica truce in cui l’odio per lo Stato di Israele fa tutt’uno con l’ostilità per gli ebrei in quanto tali. Attenzione all’ipocrisia, all’indifferenza, alla paura. Poche voci si sono sollevate quando l’Unesco (altro che la nomina di Lino Banfi che ha suscitato tanto scandalo tra i benpensanti) sotto la pressione degli odiatori antisemiti annidati nei suoi organi direttivi ha avuto l’ardire di negare il carattere ebraico della città di Gerusalemme: una vergogna che getta una luce fosca su un organismo che dovrebbe diffondere pace e cultura e che si è ridotto a portabandiera della più vieta ignoranza antisemita. Poche e flebili voci. E chi si ricorda di Ilan Halimi, il ragazzo ebreo che a Parigi, nel 2006 venne rapito, torturato per giorni e giorni, e bruciato vivo vicino a un binario della ferrovia, con gli inquirenti che fino alla fine hanno voluto negare la matrice antisemita di un delitto così atroce? Pochi se lo ricordano. Se lo ricordano gli ebrei francesi, però, che infatti in migliaia e migliaia hanno abbandonato in questi anni l’Europa perché l’aria si è fatta sempre più irrespirabile per loro, senza che l’Europa, a cominciare dalle sue istituzioni sonnacchiose e tremebonde, porgesse loro una parola di solidarietà e di allarme: perché lì il nemico è potente, ha alle spalle Stati, eserciti, gruppi armati, centrali del terrore, risorse economiche, meglio non risvegliare ostilità troppo pericolose. Attenzione all’ipocrisia, all’indifferenza. Negli Stati arabi circola una serie tv tratta dai “Protocolli” citati senza pudore da un senatore Cinque Stelle della Repubblica italiana: anche questo fa paura. In Iran si è tenuta per anni una fiera internazionale per premiare la migliore vignetta antisemita, a contorno di convegni in cui si voleva fare a pezzi la “menzogna dell’Olocausto”: anche questo fa paura, e le cancellerie internazionali fanno finta di niente, magari ostentando con finta pietas un minuto di silenzio nella Giornata della Memoria. Attenzione alla sottovalutazione di segnali, accettati per quieto vivere. Per dire: la Malaysia rifiuta la partecipazione degli atleti israeliani alle Paralimpiadi che dovrebbero valere per la selezione a quelle previste per Tokyo nel prossimo anno. Sarebbe bello se tutti gli organismi internazionali boicottassero questa discriminazione. E se l’Italia desse il buon esempio e si rifiutasse di mandare i nostri atleti in Malaysia se non viene revocata con atto solenne la messa al bando degli atleti israeliani. Sarebbe un buon segnale, certamente in linea con l’allarme lanciato con la sua autorevolezza dal presidente della Repubblica. Attenzione all’ipocrisia. Ricostruire una barriera, un argine. Non far finta di niente se la critica legittima al banchiere Soros diventa la demolizione del banchiere “ebreo” Soros. Non far finta di niente se in campo qualche calciatore si rifiuta di dar la mano a un calciatore ebreo. Se gli atleti israeliani vengono boicottati. Se il leader della comunità ebraica tedesca esorta gli ebrei a non indossare la kippah per non diventare bersaglio degli energumeni antisemiti. Se negli stadi si bercia “ebrei merde”. Ricordarselo sempre, non solo nella Giornata della memoria. Evitare l’ipocrisia, l’indignazione a singhiozzo, il quieto vivere, persino la presa di distanza dagli ebrei che “fanno troppo le vittime”. Evitarla sempre, non solo il 27 gennaio. Migranti. La questione giudiziaria e quella morale di Antonio Gibelli Il Manifesto, 26 gennaio 2019 La richiesta di rinvio a giudizio di Salvini da parte del Tribunale dei ministri ha puntualmente innescato, come per un riflesso condizionato, l’annosa diatriba sul tema “a chi giova” e quella parallela sui rapporti tra giustizia e politica. È una diatriba che registrò un’impennata nel 1994 (quando a pochi mesi dal suo insediamento il capo del governo Berlusconi ricevette il famoso avviso di garanzia), divenendo pressoché endemica per tutta l’epoca in cui il padrone della Fininvest è stato al centro della politica italiana, ma riproponendosi periodicamente anche dopo. Niente di male che ci si domandi se e come una vicenda giudiziaria influisca sulla vita politica. Per fare un esempio, il quesito intorno agli effetti della vicenda di Tangentopoli sulla storia politica italiana è non solo legittimo ma del tutto pertinente. Il problema nasce quando si sottintende che le iniziative della magistratura siano in tali casi mosse precisamente dall’intenzione di esercitare in un senso o nell’altro questa influenza, cosa che può essere talvolta vera ma non lo è automaticamente. Ancora peggio quando se ne fa discendere il corollario (esplicito o implicito) che i magistrati farebbero bene ad astenersi dall’intraprendere azioni di questo tipo, e ciò allo scopo esattamente opposto di evitare questa influenza: un corollario aberrante, che dimentica l’obbligatorietà dell’azione penale vigente in Italia e che suggerisce al giudice di fare proprio quello che gli si rimprovera: ossia di muoversi in funzione non della legge ma delle dinamiche politiche. Tutt’altra cosa - questa sì condivisibile - è la critica rivolta alle forze politiche che si affidino all’azione giudiziaria delegando ad essa il compito di metter fuori gioco i loro avversari: che è in effetti quantomeno un’ammissione di impotenza. Resta invece legittimo discutere politicamente e moralmente sulla natura degli atti compiuti da uomini di governo anche nei termini della loro eventuale valenza criminale, pur rimettendosi su questo punto agli esiti dell’azione penale ma sempre ricordando - come da qualche tempo si sforza con sofferenza di far capire Massimo Cacciari - che esiste una legge umana universale al di sopra del diritto positivo. Nel caso in questione, è drammatico che la decisione del tribunale sia destinata a potenziare il profilo di Salvini come uomo forte, a espandere il suo consenso e a giovargli nella contesa elettorale tra lui e il suo partner di governo. Ciò non impedisce di dire che il ministro stia commettendo un crimine contro l’umanità, nel senso sostanziale se non tecnico: come chiamare altrimenti il prolungamento delle sofferenze, anche solo dei disagi, di persone in fuga dalla povertà, dalle torture, dalle vessazioni di ogni tipo, già esposte al rischio della vita propria e dei propri figli anche piccoli, talvolta neonati e quindi più fragili, impedendo loro di raggiungere presto, subito, una meta sicura a portata di mano o (come i altri casi) lasciando aperta la possibilità che siano ricondotte là da dove sono fuggite per salvarsi? E cosa dire se questo prolungamento è fatto allo scopo di esercitare una pressione politica su altri stati europei? Non assomiglia tutto ciò a un sequestro di persona a scopo di ricatto? È esattamente questo che è accaduto nel caso della Diciotti ed è questo che sta nuovamente accadendo sotto i nostri occhi. Chi conosce il mare sa cosa significa la classificazione di “forza 7” nella scala Beufort che va da 0 (mare calmo) a 12 (uragano). Chi consulta il meteo sa che in questi giorni il Mediterraneo e i mari italiani sono battuti da venti forti o fortissimi. La Sea Watch sta cercando un riparo, si avvicina alle coste sottovento per evitare il peggio, si dirige verso aree portuali nella speranza di approdare. Intimarle di dirigersi a Marsiglia mentre si trova nel mare di Sicilia orientale significa costringerla a un’operazione carica di incognite, di rischi e di ulteriori sofferenze e paure. Sì, diciamo che Salvini sta commettendo un crimine, quali che siano le sue motivazioni: compresa quella di proteggere gli italiani da un’inesistente minaccia. Migranti. I pm: giù i minori dalla Sea-Watch. E l’Italia apre il fronte con l’Olanda di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 26 gennaio 2019 I vicepremier: nave con vostra bandiera, prendeteli. La replica: non spetta a noi. No di Salvini: hanno 17 anni e restano a bordo. Fate sbarcare i minorenni. Una richiesta formale quella inviata dal procuratore dei Minori di Catania, Caterina Ajello, nel giorno in cui alla Sea-Watch 3 viene concesso di entrare in rada a Siracusa e la tempesta che ha investito i 47 naufraghi soccorsi in acque libiche si fa internazionale. Con i vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, impegnati in uno scontro diplomatico senza mezze misure: “In Italia posto non ce n’è. Bandiera olandese, Ong tedesca: aprano i porti di Rotterdam o di Amburgo”, sintetizza Salvini. E Amsterdam che risponde picche: “II governo olandese ha risposto alla mia richiesta dicendo che non spetta a loro. O si prende la responsabilità o ritira la bandiera”, accusa Di Maio. “Si apprende che i minori in totale sarebbero 13 di cui otto non accompagnati”, scrive il magistrato a Salvini, a Di Maio, al ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, e al prefetto di Siracusa. E ricordando la necessaria tutela dei diritti “elusi a causa della permanenza a bordo poiché quantomeno non possono beneficiare di strutture di accoglienza idonee e sono costretti a permanere in una condizione di disagio sino a quando la situazione politica internazionale non sarà risolta”, ne chiede lo sbarco. Ma dal Viminale si fa sapere che c’è il sospetto che “sia un escamotage” e che ci sono approfondimenti in corso per capire se chi dice di avere “17 anni e mezzo” sia davvero minorenne. Un braccio di ferro che ricorda il caso della nave Diciotti che ha portato giovedì alla richiesta del Tribunale dei Ministri di Catania di autorizzazione a processare Salvini per sequestro di persona e di minori. Lui, come da annuncio, non cambia linea. Anzi. Valuta di denunciare i membri dell’equipaggio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E chiama gli altri Paesi europei, in particolare Olanda e Germania, ad assumersi le proprie responsabilità. “Abbiamo preso atto della richiesta italiana, ma la Sea-Watch 3 non è di nostra responsabilità”, fanno sapere dal ministero degli Esteri olandese. Il portavoce Margaritis Schinas ricorda che la posizione della Commissione europea “è chiara: la sicurezza delle persone a bordo deve essere la nostra prima preoccupazione e priorità”. Ma Di Maio ribatte che il governo italiano ha assicurato supporto e assistenza sanitaria. Il punto non è quello. Lo aveva detto in mattinata anche Toninelli. “Dato il presupposto giustissimo di salvare vite umane”, aveva spiegato il ministro competente dei porti, e “dato che la Sea-Watch 3 ha disatteso l’obbligo previsto dalla convenzione internazionale sottoscritta da tutta la Ue che impone in acque libiche di far richiesta di intervento alla Guardia Costiera di Tripoli, ora della nave ne deve rispondere l’Olanda. In primis, poi, dovrebbe essere Macron a intervenire e dire “venite dalla mia parte”. Intanto si moltiplicano gli appelli. Il primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, in apertura dell’anno giudiziario, raccomanda che “evitare ogni regressione in materia di diritti umani è un compito che si è dato la comunità internazionale”. “E compito degli Stati moderni apprestare strumenti idonei per dare risposta alla richiesta di tutela che gli individui, cittadini e non, richiedono per i loro diritti”. Migranti. Sea Watch, linea dura del Viminale: non sbarcherà nessuno di Cristiana Mangani Il Messaggero, 26 gennaio 2019 La prima reazione è di chiedere alla prefettura di informarsi per sapere nomi e nazionalità di chi sta a bordo della Sea Watch 3, per capire quanti siano realmente i minori ospitati. Viene subito spedita una mail con la quale vengono chiesti i dati di tutti i presenti. Salvini ribolle di rabbia. In due giorni è la seconda volta che la magistratura prova a fargli lo sgambetto. La storia si ripete, e il mercantile della Ong tedesca accolto in rada davanti a Siracusa con l’ok della Capitaneria di porto, è praticamente diventato una nuova Diciotti. Ma anche questa volta, il ministro non intende mollare. Nelle ultime settimane ha dovuto mandare giù qualche rospo e adesso, sostenuto dal resto del Governo, non rinuncia alla linea dura. Lancia fendenti in giro: minaccia denunce contro l’equipaggio della nave, insieme con l’altro vice premier Luigi Di Maio, che ipotizza anche il sequestro dell’imbarcazione. Il motivo - secondo il ragionamento che viene fatto al Viminale - è evidente: perché Sea Watch 3 che stava davanti a Malta, nei giorni successivi al soccorso dei 47 migranti, ha dovuto dirigersi verso l’Italia? “È chiaramente una provocazione”, non ha dubbi il ministro, che insiste: “Sea Watch batte bandiera olandese, la Ong è tedesca. Aprano i porti di Rotterdam o Amburgo, in Italia posto non ce n’è”. Migranti. Ecco perché non esiste il “porto chiuso” di Armando Spataro La Repubblica, 26 gennaio 2019 Vorrei provare a spiegare le ragioni per cui non è ammissibile che il governo italiano dica “porti chiusi!” alle navi che trasportano migranti, neppure per convincere un’Europa riluttante a varare politiche condivise. La vicenda della Diciotti (con la richiesta di autorizzazione a procedere per sequestro di persona aggravato contro il ministro Salvini inoltrata al Senato dal Tribunale dei ministri di Catania) e l’appello della Sea Watch per poter approdare in un porto sicuro italiano e sbarcare i naufraghi consentono una riflessione sul regime giuridico del soccorso in mare, sugli obblighi cui gli Stati sono tenuti e sui limiti all’esercizio della discrezionalità politica che non può certo essere sottratta al controllo di legalità. Prescindendo dall’esame del diritto d’asilo previsto, tra l’altro, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del dicembre del 1948 e dalla nostra Costituzione, va sintetizzata la sequenza procedurale prevista, oltre che dalla normativa nazionale e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, da varie altre convenzioni internazionali. Tali convenzioni (tra cui quella di Amburgo del 1979), sono state sottoscritte anche dall’Italia, in tema di soccorso e salvataggio: ne deriva una serie di obblighi collegati in capo agli Stati aderenti e ai rispettivi governi. I Paesi devono innanzitutto dichiarare l’area marittima di competenza denominata Sar (Safety and research, cioè Area di ricerca e salvataggio), che è più ampia delle acque territoriali, e dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento e di appositi piani operativi. Gli Stati costieri devono anche costituire un servizio permanente di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea. Il primo centro che riceve la segnalazione di un pericolo per la vita umana (per esempio un natante in fase di naufragio o in difficoltà) coordina con urgenza le necessarie operazioni di salvataggio finché quello della Sar più vicina non ne assume la direzione. Il Centro di coordinamento competente deve allora segnalare ai soccorritori o a chi si trova in pericolo il porto sicuro verso il quale dirigere la nave che ha effettuato il soccorso. Qui sarà quindi organizzato lo sbarco che deve avvenire quanto prima e in tempi ragionevoli. Dopo l’attracco, come da normativa nazionale, è prevista la fase di controllo medico per verificare la presenza a bordo di persone malate o portatrici di patologie infettive (cui devono essere assicurate le necessarie cure), seguita da quella dello sbarco vero e proprio che segna la conclusione del soccorso. I migranti vengono a quel punto avviati verso un punto di accesso di prima accoglienza (gli hotspot) per le operazioni di polizia e di sicurezza, a partire dalla loro identificazione. Sono loro fornite anche informazioni sulle norme vigenti in tema di immigrazione. Segue la fase di trasferimento in strutture di accoglienza dei minori non accompagnati, delle donne vittime di violenza e di chi abbia già richiesto asilo nelle sue varie forme o dichiari di volerlo fare. Per costoro è previsto il diritto a vedere vagliata dalle autorità competenti la loro richiesta, fino all’esaurimento delle relative procedure che includono - in Italia - il ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria contro l’eventuale rigetto delle istanze deliberato in primo grado dalle commissioni territoriali. In assenza di richieste di asilo, invece, può essere avviata la procedura di rimpatrio. Durante tali fasi, può essere limitata la libertà di circolazione e spostamento dei migranti per motivi di sicurezza e ordine pubblico da individuare specificatamente. Tutti questi passaggi integrano gli obblighi di soccorso in nome dei diritti umani, incluso il divieto di respingimento. Non si tratta di obblighi condizionati dalla reciprocità. Se, per esempio, Malta li viola, ciò non esime l’Italia dal rispettarli. Ecco perché, obbedendo alle leggi dell’uomo se non a quelle dei sentimenti e della solidarietà, il ministro Matteo Salvini e il governo, specie in assenza di ragioni di ordine pubblico, non possono né “chiudere porti”, né indirizzare le navi giunte nelle nostre acque territoriali verso porti di altri Stati. Un conto è la condivisibile richiesta all’Europa di studiare e applicare sanzioni politiche verso gli Stati inadempienti, altro è dire “passo anch’io con il semaforo rosso, visto che lo fanno in molti”. Ci sono limiti giuridici e non solo che in un Paese civile la politica non può oltrepassare. Egitto. Conte: “Su Regeni impegno mio e del governo” La Stampa, 26 gennaio 2019 Ma la maggioranza è spaccata sulla linea da seguire. Terzo anniversario della morte del giovane ricercatore friulano ucciso in Egitto. Fico scrive ai parlamenti Ue: “Chi non si arrende mai non potrà mai essere sconfitto”. Tre anni sono passati, ma c’è ancora molto da fare. Il terzo anniversario della morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano ucciso in Egitto, si apre con un tweet della mamma, Paola Deffendi: “25 gennaio 2019... Oggi e sempre, il giallo! Non molliamo, caro Giulio. Truth for Giulio Regeni”. In una foto, allegata al post, l’immagine di alcuni fiori gialli in un giardino imbiancato dalla neve, Al centro un cartello dello stesso colore con la scritta: “Verità per Giulio Regeni”. Nella giornata simbolo, si rincorrono gli impegni. Ma il governo è diviso sulla linea da tenere nei confronti dell’Egitto, Paese con il quale l’Italia ha numerosi progetti e interessi economici. C’è chi vorrebbe una posizione più dura, di muro contro muro. E chi invece caldeggia una via diplomatica, lontana dai riflettori, nella speranza di ottenere di più dal Cairo. In serata è il premier Giuseppe Conte a intervenire con una lettera al presidente di Amnesty Italia, Antonio Marchesi. “Tre anni di attesa della verità sono lunghi, sono troppi - scrive - Nel mio ruolo di presidente del Consiglio sento fortemente la responsabilità di riuscire a far sì che sia resa finalmente giustizia sulla tragica fine di Giulio Regeni”. Conte parla di impegno suo e del governo nel cercare di infrangere il muro di silenzio che impedisce di individuare i responsabili “di un’azione assurda e criminale”. Simbolicamente anche il premier accenderà una candela per ricordare Regeni, partecipando così all’iniziativa lanciata da Amnesty. Vuole un impegno maggiore, invece, il presidente della Camera Roberto Fico che già in passato aveva assunto iniziative per cercare di forzare la mano all’Egitto. La nuova linea intrapresa da Fico è quella di un coinvolgimento di tutta l’Europa in modo che l’Italia non resti isolata. In quest’ottica nei giorni scorsi ha scritto una lettera a tutti i presidenti dei Parlamenti Ue. “Sappiamo che l’Egitto non ha voluto concedere niente all’Italia - scrive l’esponente del M5S - Noi andremo avanti, sicuramente il governo farà la sua parte, il Parlamento e tutti i cittadini italiani. Chi non si arrende mai non sarà mai sconfitto, questo è il messaggio che lanciamo all’Egitto”. Fico ha partecipato alla fiaccolata a Fiumicello, il paese natale di Giulio Regeni. Nel frattempo la Camera ha inserito nel calendario dei lavori di marzo la proposta di legge per istituire una commissione d’inchiesta parlamentare. Ad annunciarlo è stato Erasmo Palazzotto di Sinistra Italiana e deputato di LeU. Libia. Nuove cronache dall’orrore di Paolo Lambruschi Avvenire, 26 gennaio 2019 Ancora foto choc dai campi di detenzione di Bani Walid, dove i trafficanti torturano e ricattano le vittime. Prigionieri di criminali efferati, 150 profughi subiscono violenza da mesi, nel silenzio di autorità e governi. Nuove foto mandate dagli stessi criminali documentano le torture sui profughi subsahariani nei lager dei trafficanti, inaccessibili all’Onu e alle agenzie umanitarie. Ancora orrore senza fine dalla Libia: immagini di pistole puntate alla testa, corpi in catene macilenti e annichiliti come bestie. E vergogna per l’indifferenza dei governi europei. È una delle tante prove della catastrofe umanitaria in Libia, denunciata da Acnur e da diverse organizzazioni per i diritti umani. Le immagini provengono direttamente dall’inferno di Bani Walid, distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli. Sono state mandate ai familiari dai trafficanti di esseri umani per indurli al pagamento del riscatto per rilasciarli. Da sei mesi ogni giorno i detenuti subiscono minacce, percosse, torture e le donne spesso vengono stuprate dai guardiani. Tutti hanno cicatrici e bruciature per la plastica fusa gettata su arti e schiena. Ma la cifra chiesta dai libici - 4 o 5mila dollari- è troppo alta perché i parenti hanno già dovuto pagare le diverse tappe del viaggio e ora stanno chiedendo aiuto ai conoscenti. Come ha scritto di recente anche il Corriere della Sera, nel caos libico lo scontro tra il governo centrale di Serraj e quello di Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ha lasciato senza paghe i dipendenti pubblici, tra cui i guardiani delle galere. Questa situazione, particolarmente in Tripolitania, ha dato impulso ai sequestri di migranti e alle torture per incassare in fretta i soldi della liberazione. Sono circa 150 i profughi eritrei da circa sei mesi nelle mani di un clan di trafficanti libici guidato da un tale Abdellah. Sono entrati all’inizio del 2017 nel Paese nordafricano dal Sudan, partendo da Khartoum e attraversando il Sahara pagando quattro trafficanti loro connazionali, in gruppi, tempi e circostanze diversi. I criminali, probabilmente parte dell’organizzazione di Abduselam Ferensawi, detto “il Francese” - trafficante eritreo tra i più potenti sulla rotta africana orientale sia per le alleanze in Sudan che con i clan libici - li hanno rapiti una volta varcato il confine. La costa era già stata sigillata dagli accordi con il governo italiano, quindi hanno cercato di “massimizzare” i profitti. Li hanno tenuti prigionieri per oltre un anno in località diverse. Per liberarli i banditi chiedevano alle famiglie fino a 6mila dollari. Ma queste non riuscivano a pagare e verso la fine dell’estate 2018 i trafficanti eritrei hanno ceduto i 150 profughi - pare in cambio di una cifra non alta - a una gang di libici. La vicenda è stata seguita e denunciata in Italia da Abraham Tesfay, giovane rifugiato e attivista per i diritti umani. Tesfay è in contatto con alcuni familiari dei rapiti-una parte sono in Africa, altri profughi in Israele o rifugiati in Europa - e sta cercando di convincerli a testimoniare davanti a un giudice. “Secondo i prigionieri - racconta Tesfay- sono libici i miliziani di guardia e il capo. Del resto, una volta finiti nelle mani di questa nuova organizzazione, i 150 sono stati subito trasferiti a Bani Walid”. Luogo sinistro. Un anno e mezzo fa la Corte di Assise di Milano ha condannato all’ergastolo Osman Matammud, il somalo 23enne accusato di aver torturato per oltre un anno a Bani Walid 17 persone che lo hanno poi riconosciuto e fatto arrestare il 26 settembre 2017 a Milano. L’Asgi, i giuristi che assistono i migranti, ha pubblicato sul suo sito le motivazioni della sentenza. Il somalo usava le stesse modalità: torture in diretta telefonica con i parenti cui mandava le foto per indurli a pagare. “I mercanti di esseri umani - prosegue Tesfay - probabilmente tengono i 150 in gruppi separati in una struttura collegata al centro statale di detenzione noto per la brutalità. Infatti nella tarda primavera scorsa ci fu un’evasione in massa e le guardie spararono ad altezza d’uomo. Un massacro, si salvò chi riuscì a raggiungere il presidio ospedaliero di Medici senza frontiere o chi trovò rifugio nelle case del villaggio”. Gojtom, eritreo di 27 anni e nome di fantasia, è uno dei 150 prigionieri dei trafficanti a Bani Walid. Ha uno smartphone e parla inglese. Via whatsapp racconta la sua vita quotidiana nel lager: scarse razioni di cibo (pessimo), acqua razionata, mancanza di servizi igienici e di assistenza. “Le guardie di sera sono spesso ubriache, picchiano e sparano a chi reagisce o protesta o anche per capriccio”. Lavora gratis peri banditi libici, come altri, tutti schiavi. Traslochi, edilizia, lavori nei campi. “Almeno mi conoscono e mi trattano meglio”. Ha trascorso oltre un anno tra Kufra e Sebha, è arrivato qui a fine estate. Nel suo hangar ci sono 19 detenuti, tra cui 8 ragazze. Tre di loro hanno figli piccoli. “Faccio una vita brutta perché non ho i soldi per andarmene e raggiungere mia moglie e mio figlio a Tripoli. Ma le donne qui stanno peggio”. Secondo i testimoni, nel gruppo sarebbero morte di stenti 5 persone, tra cui un bambino. I corpi dei cristiani sono stati fatti sparire nel Sahara. Pressing della Libia: “In 500 mila rinchiusi nei nostri centri, servono soldi per gestirli” di Michela Allegri Il Gazzettino, 26 gennaio 2019 L’ambasciatore di Tripoli e il messaggio a Roma: abbiamo fermato l’80% delle partenze ma ci servono più aiuti. Cinquecentomila persone rinchiuse nei centri di detenzione e di accoglienza, pronte a partire. La Libia diventa sempre di più una minaccia per la stabilità dell’Italia. E se fino a questo momento erano Ong e Onu a parlare dei rischi, ora a riferire il dato allarmante è l’ambasciatore libico a Roma, Omar Tarhuni. Una fonte autorevole, dunque, che chiarisce quale sia la reale situazione del paese africano. “Lo scorso anno - afferma - la Libia ha bloccato 1’80% delle partenze di migranti verso l’Europa”. Un lavoro che ha richiesto un grande impegno, e infatti - aggiunge Tarhuni - “abbiamo bisogno di aiuti per mantenere queste persone nei centri e per i rimpatri”. L’ambasciatore è chiaro e diretto: senza soldi e senza il rispetto di quegli accordi che l’Europa aveva fatto con la Libia, c’è il rischio che la situazione precipiti. “In questi mesi - rimarca il diplomatico - la nostra Guardia costiera ha fatto un gran lavoro. Ma abbiamo chiesto all’Italia, all’Europa e alle Nazioni Unite di aiutarci economicamente per rimpatriare i migranti. La Libia non è in grado di mantenere tutte queste persone, nel 2018 sono arrivate circa 500 mila persone. Si sono fermate le partenze verso l’Europa, ma non gli arrivi nel nostro Paese”. Tarhuni parla anche del ruolo dell’Italia in Libia, sottolineando come a Tripoli non siano preoccupati del dialogo avviato con il generale Khalifa Haftar. L’Italia “non sta né con Serraj né con Haftar, ma con i libici - afferma - Sta cercando di aiutare il popolo a trovare una soluzione per uscire dal caos di questi anni”. C’è di vero che “le trattative” avviate in passato con milizie e capi tribù ormai languono. Il dossier Libia sembra essere passato in secondo piano per l’Italia, che ha delegato interamente il compito all’inviato dell’Onu Ghassam Salame. E lo stesso Salame non naviga in buone acque, soprattutto tra gli uomini dí Khalifa Haftar, che lo considerano troppo sbilanciato verso il governo di Tripoli. Così le ultime partenze, anche con il mare grosso, sono solo i primi effetti di “una guerra” interna, ma anche molto orientata verso il nostro paese, da parte delle fazioni di Misurata, le stesse che agitano il governo di Fayez al Serraj. Misurata vuole essere al centro della stabilizzazione, vuole contare. E così, gli effetti di questa “disattenzione” dell’Italia sul territorio libico stanno facendo imbarcare su gommoni di fortuna, le prime centinaia di migranti. Non è un caso, infatti, che siano partiti tutti da Garabulli, a est di Tripoli. O anche da Sabrata, che non è lontana dal confine tunisino, ma che sembra essere proprio sotto “l’influenza” della città Stato di Misurata. Da qui è partita anche l’offensiva contro al Serraj. Sono legati a Misurata i tre membri del consiglio presidenziale che vorrebbero sfiduciare l’attuale premier, misuratine sono alcune delle milizie che gestiscono la sicurezza a Tripoli e che da giorni annunciano di non eseguire più gli ordini del ministro dell’interno, Fathi Bisghaga (anch’esso misuratino). Ed è proprio per questa situazione di confusione che le milizie legate ad al Sarraj, anche se di influenza di Misurata, potrebbero aver allentato i controlli sui clan che ad est di Tripoli gestiscono il traffico di esseri umani. Del resto non è una novità che il business dei disperati sia il principale sostentamento per Garabulli. E se a questo si aggiunge che la Guardia costiera libica è essa stessa divisa in fazioni, tra chi continua a contrastare i traffici e chi invece li alimenta, c’è da preoccuparsi parecchio per l’arrivo della bella stagione. Turchia. Leyla libera, la lotta continua di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2019 Una bella notizia finalmente. Sotto pressione per l’ampia mobilitazione internazionale suscitata dallo sciopero della fame di Leyla Guven e di centinaia di altri prigionieri politici, le autorità di Ankara (consapevoli di non potersi permettere - almeno qui e ora - una “Bobby Sands” curda) hanno rimesso in libertà la deputata di Hdp prigioniera. Tuttavia, le accuse contro di lei rimangono sul tappeto. Tra le prime reazioni, quella del Pcf (Parti communiste francais). Nel comunicato di oggi, 25 gennaio si legge: “Leyla Guven viene liberata dopo 79 giorni di sciopero della fame. Il movimento di cui lei aveva preso l’iniziativa, seguita da oltre 250 prigionieri politici curdi, intendeva ottenere la fine dell’isolamento del leader curdo A. Ocalan. Arrestata ingiustamente per il suo impegno democratico, come altri parlamentari, sindaci e militanti di HDP, Leyla Guven rimane profondamente segnata da questa prova, ma lei ha dimostrato che era possibile piegare la tirannia di Recep Tayyip Erdogan. La lotta continua nel solco tracciato da Leyla Guven. Lei incarna questa mirabile lotta di emancipazione del popolo curdo per far prevalere la giustizia, la democrazia e la pace in Turchia e anche in Rojava, minacciato dalla barbarie del regime turco e dei suoi alleati jiadisti. Le diverse forma di mobilitazione, dallo sciopero della fame di Strasburgo a quella dei comunisti in tutto il paese (in riferimento alla Francia ndr) deve spingerci ad ampliare la lotta”. E il comunicato conclude segnalando che oggi, 25 gennaio “la responsabile dei rapporti internazionale del Pcf, Lydia Samarbakhsh e Sylvie Jan, presidente di France-Kurdistan, sono presenti al tribunale di Diyarbakir in questo giorno di vittoria per esprimere il sostegno incondizionato del Pcf al popolo curdo e a tutti i democratici della Turchia”. Ovviamente la liberazione di Leyla Guven non rappresenta la soluzione del problema che stava all’origine della sua radicale, estrema protesta: la fine dell’isolamento carcerario imposto all’esponente curdo Abdullah Ocalan. Ugualmente, rimangono aperte altre due questioni fondamentali: la liberazione di tutti i prigionieri politici e la ripresa dei colloqui-trattative di pace tra le autorità turche e il Pkk. Per questo il popolo curdo mantiene la sua mobilitazione a sostegno delle richieste avanzate dai militanti ancora in sciopero della fame. Tra le manifestazioni previste in Europa per il 25 gennaio vanno segnalate quella di Place Schuman a Bruxelles (ore 14), di Atene (Piazza dell’Accademia, ore 18), di Monaco (davanti a Arnulfstrasse Mercedes, ore 18,30), di Parigi (Place de Chatelet, ore 14). Per oggi, 26 gennaio, sono previste altre manifestazioni a Mannhein (Paradeplatz, ore 14), Francoforte (Stazione centrale, ore 14), Hannover (di fronte alla stazione centrale, ore 14), Kiel (sempre davanti alla stazione, ore 16), Friburgo (Alte Synagogen Square, ore 16), Stuttgart (via Lautenschlager, ore 14), Norimberga (Chiesa di Lorenz, ore 16), Dusseldorf (di fronte alla stazione centrale, Dgb Haus, ore 13,30), Berlino (via Bernauer, ore 15), Karlsruhe (Stephans Square, ore 15), Brema (davanti alla stazione centrale, ore 13), Darmstadt (Luizenplatz, ore 14), Oldenburg (raduno di bambini, Marktplatz, ore 14,30), Vienna (Museumsqaurter Vienne, ore 16,30), Graz (Griesplatz, ore 15), Bregenz (in riva al lago, ore 15), Copenaghen (Vesterbros Torv - DR Emil Holms Kanal, ore 13), Amsterdam (Waterrlooplein 1011 PG Amsterdam, ore 13). Altre iniziative in Svizzera (a Bale e a Berna, rispettivamente in Claramarkt, ore 16 e davanti al Parlamento, ore 14). A San Gallo e a Lugano, davanti alla rispettiva stazione, entrambe alle ore 16. Ad Aarau alle ore 17. In Svezia, a Stoccolma (Norabantoget, ore 13,30) e a Goteborg (Gotapatsen, ore 13,30). Egitto. A 8 anni dalla rivoluzione i detenuti digiunano per denunciare la repressione di Alessandra Fabbretti dire.it, 26 gennaio 2019 Alcuni attivisti e intellettuali incarcerati in Egitto hanno cominciato lo sciopero della fame: un modo per commemorare gli otto dai moti di piazza Tahrir. A otto anni dai moti di piazza Tahrir, al Cairo che portarono alla fine del regime trentennale di Hosni Mubarak, in Egitto alcuni attivisti e intellettuali incarcerati stanno commemorando l’anniversario con uno sciopero della fame. A rilanciare l’iniziativa sono varie organizzazioni per i diritti umani egiziane, tramite i principali social network, anche per denunciare la repressione del dissenso da parte dell’attuale governo di Abdel Fattah Al-Sisi. Lo sciopero è stato avviato da Islam Khalil, Galal al-Behairy, Shady Ghazaly Harb, Ahmed Sabry Abu Alam e Abdel Fattah Saeed al-Banna, le vicende dei quali sono state raccontate da quotidiani arabi e internazionali. La detenzione di Khalil, iniziata a marzo per via del suo attivismo politico, l’8 gennaio è stata estesa di altri 45 giorni. Anche Amnesty International dà notizia del caso, sostenendo che in carcere il giovane si è visto negare l’assistenza medica di cui avrebbe bisogno. Al-Behairy è un poeta, finito in manette perché nell’ultimo libro che ha pubblicato avrebbe espresso critiche e insulti contro l’esercito. Processato da un tribunale militare, a luglio si è visto comminare una sentenza a tre anni di reclusione. Harb è stato invece incarcerato per “diffusione di notizie false, atti terroristi e adesione a un gruppo terrorista”. L’attivista è stato denunciato dopo aver pubblicato tweet in cui criticava la cessione delle due isole egiziane di Tiran e Sanafir da parte del governo del Cairo all’Arabia Saudita. Harb è in carcere da oltre 200 giorni. Abu Alam e Al-Banna fanno invece parte di un’ondata di arresti di intellettuali avvenuta ad agosto. Entrambi sono docenti universitari che si sono visti contestato il reato di adesione a gruppi terroristi e attività criminali. Secondo i loro legali, i giudici non avrebbero rivelato le ragioni di tali accuse. Arresti, torture ed esecuzioni in carcere. Così l’Iran reprime le rivolte per il pane di Giordano Stabile La Stampa, 26 gennaio 2019 Rapporto di Amnesty fa il bilancio del giro di vite dopo le proteste del 2018. Giornalisti, studenti e attiviste fra le vittime. Centinaia condannati a pene detentive e alla fustigazione. Il regime piegato dalle sanzioni Usa, ma l’economia resiste. Il 2018 è stato per l’Iran l’anno della grande repressione, con settemila persone arrestate. Le manifestazioni perla crisi economica sono state stroncate a gennaio, ma la macchina delle forze di sicurezza ha continuato a lavorare a pieno ritmo contro altre forme di protesta, come quelle delle attiviste peri diritti umani. Un clima cupo che ha segnato il secondo mandato del presidente riformista Hassan Rohani, messo all’angolo dalle nuove sanzioni americane e dall’erosione della sua base di consenso, che ha favorito il ritorno dei metodi oltranzisti. I numeri del giro di vite sono stati rivelati da un rapporto di Amnesty International. Nel corso dell’anno sono state arrestate settemila persone. Fra loro “studenti, avvocati, giornalisti, ecologisti, sindacalisti e attivisti per i diritti delle donne”. Centinaia sono “stati condannati a pene detentive e alla fustigazione”. Nove sono morti in prigione, 26 sono stati uccisi durante le proteste. Lo spettro sociale degli arrestati mostra anche la vastità del malcontento, come ha sottolineato il direttore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa, Philip Luther: “Dagli insegnanti che non ricevono lo stipendio agli operai delle fabbriche che faticano a nutrire le loro famiglie, tutti quelli che osano chiedere il rispetto dei loro diritti pagano un prezzo alto”. La repressione è stata dura nei confronti dei lavoratori salariati, i più toccati dalla crisi e dall’inflazione. Almeno 467, compresi insegnanti, camionisti, operai delle fabbriche sono stati arrestati e decine hanno ricevuto condanne pesanti. Trentotto anche la fustigazione. Il giro di vite non ha però fermato le proteste, che hanno assunto altre forme. Migliaia di donne che hanno cominciato a togliersi il velo in pubblico e 112 sono state arrestate. Fra loro l’attivista Nasrin Sotoudeh, accusata di reati contro “la sicurezza nazionale”. Mercoledì anche il marito Reza Khandan, che si è battuto per la sua liberazione, è stato condannato a sei mesi di prigione. Accanto alle femministe sono cresciuti i movimenti ecologisti, anche questi nel mirino del regime. Almeno “63 attivisti e ricercatori” sono stati arrestati. Sono accusati in genere di “spionaggio”, cioè di raccogliere “dati sensibili” nelle aree investite dalle proteste, per esempio vicino a dighe che hanno devastato l’ambiente. Cinque di loro - Morad Tahbaz, Niloufar Bayani, Houman Jokar, Sepideh Kashani, Taher Ghadirian sono statti accusati di “mofsed-e-filarz”, cioè di “spandere corruzione sulla Terra”, una imputazione con sfumature religiose che può condurre alla pena capitale. Stesso rischio corrono duecento persone della confraternita sufi dei Gonabadi, protagonisti di una protesta lo scorso febbraio. Uno di loro, Mohammad Salas, è stato giustiziato a giugno per aver investito e ucciso tre poliziotti con il suo pullman. Altri 20 sufi sono stati condannati a lunghe pene detentive e alla fustigazione, così come il giornalista azero Mohammad Hossein Sodagar, accusato di diffondere “fake news”. Con l’inizio del 2019, mentre la Repubblica islamica si prepara a festeggiare il 40esimo anniversario della Rivoluzione khomeinista, le proteste sembrano soffocate. A dare il fiato al regime, anche se il presidente Rohani è indebolito, sono alcuni miglioramenti economici. Le sanzioni americane hanno incluso “eccezioni” per l’export di petrolio a otto Paesi. Anche se, secondo i dati ufficiali, le esportazioni sono calate da 2,5 milioni di barili al giorno dello scorso aprile ai 1,3 milioni di dicembre, quelle reali, secondo il sito specializzato Cargo Metrics, sono vicine ai 2 milioni e questo dà fiato all’economia. Un altro spiraglio di speranza è stata l’elezione a novembre del riformista Pirouz Hanachi a sindaco di Teheran. Potrebbe essere il nuovo volto dell’Iran. Panama. Il Papa confessa in un carcere minorile. Prima volta in una Gmg di Domenico Agasso jr La Stampa, 26 gennaio 2019 Papa Francesco nell’istituto del quartiere Pacora. “Ognuno è molto di più delle sue “etichette”. Fa male una società che si concentra nel mormorare piuttosto che per una trasformazione”. “Tutti abbiamo un orizzonte. Se qualcuno pensa di non averlo allora apra la finestra”. “Ognuno è molto di più delle sue “etichette”. Non ha dubbi Papa Francesco, e incoraggia così i ragazzi detenuti nel Centro de Cumplimiento de Menores Las Garzas de Pacora. È la prima volta che un pontefice alla Gmg confessa ragazzi detenuti dentro una prigione. Avviene oggi qui a Panama, dove denuncia: “Fa male una società che si concentra nel mormorare piuttosto che per una trasformazione!”. Il Pontefice ha percorso 42 chilometri in auto per raggiungere Pacora, in cui confesserà 5 giovani detenuti, 4 maschi e una femmina - ovviamente senza immagini - e rivolgerà un saluto ai 450 che scontano lì le loro condanne e parteciperanno alla liturgia penitenziale. Arrivando il Papa ha percorso un tratto in papamobile passando come segno di vicinanza alla gente che vive in questa area di periferia. Il Vescovo di Roma nell’omelia dice: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”, abbiamo appena ascoltato all’inizio del brano evangelico. È ciò che mormoravano alcuni farisei e scribi piuttosto scandalizzati e infastiditi dal comportamento di Gesù”, ricorda. Con questa espressione cercavano di “squalificarlo e screditarlo davanti a tutti, ma non fecero che evidenziare uno dei suoi atteggiamenti più comuni e distintivi: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Gesù non ha paura di avvicinarsi a coloro che, “per mille ragioni, portavano il peso dell’odio sociale, come nel caso dei pubblicani - ricordiamo che i pubblicani si arricchivano derubando il loro stesso popolo, suscitando molta, molta indignazione - o il peso delle loro colpe, degli errori e degli sbagli, come i cosiddetti peccatori”. Cristo si comporta così perché “sa che nel Cielo si fa più festa per un solo peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. E mentre “quelli si limitavano solo a mormorare o sdegnarsi, bloccando e chiudendo così ogni possibile cambiamento, conversione e inclusione, Gesù si avvicina, si compromette, mette in gioco la sua reputazione e invita sempre a guardare un orizzonte capace di rinnovare la vita e la storia”. Due sguardi ben diversi che si contrappongono, osserva il Papa. Uno sguardo “sterile e infecondo - quello della mormorazione e del pettegolezzo - e un altro che chiama alla trasformazione e alla conversione: quello del Signore”. Francesco nota che “molti non sopportano e non amano questa scelta di Gesù, anzi, prima a mezza voce e alla fine gridando manifestano il loro disappunto cercando di screditare il suo comportamento e quello di tutti coloro che stanno con Lui”. Non accettano e contestano questa scelta di stare vicino e di “offrire nuove opportunità”. Con la vita della gente “sembra più facile dare titoli e etichette che congelano e stigmatizzano non solo il passato ma anche il presente e il futuro delle persone - denuncia il Papa - Etichette che, in definitiva, non producono altro che divisione: di qua i buoni, di là i cattivi; di qua i giusti, di là i peccatori”. Questo atteggiamento “inquina tutto - attacca - perché alza un muro invisibile che fa pensare che emarginando, separando e isolando si risolveranno magicamente tutti i problemi. E quando una società o una comunità si permette questo, e non fa altro che bisbigliare e mormorare, entra in un giro vizioso di divisioni, rimproveri e condanne; entra in un atteggiamento sociale di emarginazione, di esclusione e di opposizione tale da far dire irresponsabilmente come Caifa: “È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera”“. E normalmente “il filo si spezza nel punto più sottile: quello dei più deboli e indifesi”. Ma poi c’è lo sguardo di del Figlio di Dio: ricorda che “tutti abbiamo un orizzonte. Se qualcuno pensa di non averlo allora apra la finestra. Tutti, tutti abbiamo un orizzonte”. Francesco esclama: “Come fa male vedere una società che concentra le sue energie nel mormorare e nello sdegnarsi piuttosto che nell’impegnarsi, impegnarsi per creare e opportunità e trasformazione!”. Invece, tutto il Vangelo “è segnato da quest’altro sguardo che nasce né più né meno che dal cuore di Dio. Il Signore vuole fare festa quando vede i suoi figli che ritornano a casa. Così ha testimoniato Gesù manifestando fino all’estremo l’amore misericordioso del Padre”. Un amore che non ha tempo per mormorare, “ma cerca di rompere il cerchio della critica inutile e indifferente, neutra e imparziale e si fa carico della complessità della vita e di ogni situazione; un amore che inaugura una dinamica capace di offrire strade e opportunità di integrazione e trasformazione, di guarigione e di perdono, strade di salvezza”. Mangiando con pubblicani e peccatori, Gesù rompe la logica che separa, esclude, isola e divide “falsamente tra “buoni e cattivi”. E non lo fa per decreto o solo con buone intenzioni, nemmeno con volontarismi o sentimentalismo, lo fa creando legami capaci di permettere nuovi processi; scommettendo e festeggiando ad ogni passo possibile”. Così “rompe anche con un’altra mormorazione non facile da scoprire e che “perfora i sogni” perché ripete come un sussurro continuo: non puoi farcela, non puoi farcela. È il mormorio interiore che emerge in chi, avendo pianto il proprio peccato, e consapevole del proprio errore, non crede di poter cambiare”. È quando si è intimamente certi che “chi è nato “pubblicano” deve morire “pubblicano”; e questo non è vero”, assicura il Papa. Francesco poi incoraggia con forza: “Amici, ognuno di noi è molto di più delle sue “etichette”. Così Gesù ci insegna e ci chiama a credere. Il suo sguardo ci provoca a chiedere e cercare aiuto per percorrere le vie del superamento. A volte la mormorazione sembra vincere, ma non credeteci, non ascoltatela”. Invece bisogna cercare e ascoltare “le voci che spingono a guardare avanti e non quelle che vi tirano verso il basso”. La gioia e la speranza “del cristiano - di tutti noi, anche del Papa - nasce dall’aver sperimentato qualche volta questo sguardo di Dio che ci dice: “tu fai parte della mia famiglia e non posso abbandonarti alle intemperie, non posso lasciarti per la strada, sono qui con te”. Qui? Sì, qui”. E così Gesù trasforma “la mormorazione in festa e ci dice: “Rallegratevi con me!”“. Il Papa sottolinea anche che “una società si ammala quando non è capace di far festa per la trasformazione dei suoi figli; una comunità si ammala quando vive la mormorazione che schiaccia e condanna, senza sensibilità”. Una società invece è feconda “quando sa generare dinamiche capaci di includere e integrare, di farsi carico e lottare per creare opportunità e alternative che diano nuove possibilità ai suoi figli, quando si impegna a creare futuro con comunità, educazione e lavoro. E anche se può sperimentare l’impotenza di non sapere come, non si arrende e ritenta di nuovo”. Il direttore ad interim della Sala stampa della Santa Sede Alessandro Gisotti definirà particolarmente “commovente” l’incontro nel carcere minorile di Pacora. In particolare quando il Papa ha confessato un ragazzo senza una gamba. Le confessioni sono state celebrate in confessionali costruiti dagli stessi ragazzi. Papa Francesco prima di andare al Carcere minorile di Pacora ha incontrato in forma privata un gruppo di 450 giovani cubani pellegrini della Gmg, nel Collegio Esclavas che si trova vicino alla Nunziatura apostolica. Il Papa è arrivato alla fine della messa, ha impartito la benedizione e ha rivolto un breve saluto ai presenti. All’incontro, durato circa 10 minuti, hanno preso parte oltre ai giovani anche due vescovi cubani. In precedenza il Pontefice aveva celebrato in forma privata alla Nunziatura apostolica. Alla celebrazione hanno preso parte fedeli e collaboratori dell’arcidiocesi di Panama.