In carcere arrivano le stanze ad hoc per le visite ai giovani detenuti di Dario Martini Il Tempo, 25 gennaio 2019 I giovani detenuti potranno godere di un po’ d’intimità in più quando riceveranno visite. La novità è contenuta nella relazione annuale sull’amministrazione della giustizia presentata mercoledì dal ministro Alfonso Bonafede al Senato. Si legge testuale: “È stato introdotto l’istituto innovativo della visita prolungata, che consentirà ai giovani detenuti visite all’interno dell’Istituto, in luoghi specificatamente deputati costituiti da unità abitative appositamente attrezzate, della durata compresa tra le quattro e le sei ore, per un numero massimo di quattro visite prolungate mensili, con particolare favore per quei detenuti che non fruiscono dei permessi”. Gli spazi per la “cura degli affetti”, poi ribattezzati “love rooms”, erano state previste nel ddl di riforma del processo penale in discussione nella scorsa legislatura. Allora, il sindacato Sappe si oppose. Nella relazione si spiega anche che chi non ha “riferimenti affettivi sul territorio nazionale” potrà incontrare “volontari autorizzati”. E chi ha familiari molto lontani, magari in un altro Paese, potrà vederli collegandosi a Skype. Sempre riguardo ai colloqui in carcere, il decreto legislativo 121 del 2 ottobre 2018, apporta altri cambiamenti. “Le nuove disposizioni prevedono otto colloqui mensili” (prima erano sei) e “la durata delle chiamate viene estesa a venti minuti” (prima erano dieci). Il carcere non è solo sconto della pena ma anche rieducazione. I detenuti che lavorano sono molti. La situazione al 30 giugno dell’anno scorso evidenziava che sono ammessi al lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria 15.643 detenuti, mentre quelli alle dipendenze di imprese e cooperative sono 2.293; di questi ultimi, 877 sono impegnati all’interno degli istituti, mentre 757 sono ammessi al lavoro all’esterno e 659 al regime della semilibertà. Tra i Comuni che si sono avvalsi del lavoro dei carcerati c’è anche Roma. Qui i detenuti si sono occupati di “pulizia e decoro urbano” e sono stati impiegati nel parco di Colle Oppio, nel Parco Schuster alla Basilica di San Paolo, al Gianicolo e in zona Ardeatina. Divise ai politici e non agli agenti in carcere di Filippo Merli Italia Oggi, 25 gennaio 2019 A Torino mancano le uniformi: il ministero della Giustizia annuncia interventi È il fascino della divisa. Il primo a indossarla “con orgoglio” è stato Matteo Salvini: “Onoro il lavoro delle forze dell’ordine”. E alle critiche, ai meme più o meno sarcastici che circolano sul web, il ministro dell’Interno ha replicato con un secco “me ne frego”. Dopo il capo del Viminale è stato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a seguire la moda dell’outfit di Stato. E a farsi ritrarre con l’uniforme della polizia penitenziaria. Proprio quella che manca agli agenti delle carceri. Circostanza per la quale, da Roma, hanno annunciato interventi immediati. A denunciare lo scarso rifornimento delle divise, con una lettera inviata al guardasigilli, è stata l’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. “Le divise ci sono quando a doverle indossare sono i politici”, ha incalzato il sindacato, “ma mancano per chi con quegli abiti deve lavorare ogni giorno”. Secondo l’Osapp, quasi tutti gli allievi che frequentano i corsi di formazione nelle carceri indossano “abiti borghesi”. Il caso più eclatante si è registrato a Torino, dove i giovani agenti, invece della divisa, sono stati dotati di un semplice tesserino di riconoscimento: “Ministero della Giustizia, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, direzione casa circondariale Lorusso e Cutugno, Torino”. Oltre a Bonafede, il segretario generale del sindacato, Leo Beneduci, si è rivolto ai vertici dell’amministrazione penitenziaria per evidenziare “l’estrema gravità della situazione” e per chiedere “provvedimenti urgenti per evitare l’ennesima figuraccia per la polizia penitenziaria e i suoi appartenenti”. “Questo sindacato, da almeno un anno, se non da più tempo, ha evidenziato l’estrema gravità della situazione rispetto al problema delle uniformi e degli effetti di vestiario mancanti o usurate e non sostituite”, ha sottolineato Beneduci in una nota pubblicata dall’edizione locale della Stampa. Il responsabile del sindacato della polizia penitenziaria aveva sollevato la questione della mancanza della divise anche lo scorso giugno. “Dopo svariati anni di ritardo, e dopo numerosi e tutt’altro che sereni solleciti, si è riunita la commissione paritetica per il vestiario”, aveva spiegato Beneduci. “Si è appreso che sarebbe in corso l’iter contrattuale per la fornitura di 20 mila tute di servizio estive, 25 mila scarponcini e 5 mila tute di servizio invernali, mentre la fornitura di 40 mila uniformi ordinarie sarebbe stata contestata in sede di collaudo”. Un paio di mesi dopo, l’Osapp aveva interpellato per la prima volta il ministero della Giustizia. Che ieri, dopo il sollecito di Beneduci, è intervenuto. “Col decreto sicurezza è stata autorizzata la spesa di 4.635.000 euro per l’approvvigionamento di nuove uniformi e di vestiario”, si legge in una nota ufficiale. “Con i fondi messi a disposizione dal governo sarà possibile acquistare oltre 5 mila uniformi ordinarie invernali e altrettante estive, nonché circa 16 mila uniformi operative per gli uomini e le donne del corpo. A breve gli allievi agenti di polizia penitenziaria, costretti in questi giorni a effettuare il periodo di formazione in abiti borghesi, riceveranno il loro vestiario e il materiale accessorio”. Consiglio d’Europa: “I politici italiani incitano all’odio” di Ilario Lombardo La Stampa, 25 gennaio 2019 Rabbia della Lega: insulti, non ha senso restare. Nella relazione su cui si basa il rapporto si esprime preoccupazione anche per la chiusura dei porti italiani ai migranti. Un aumento dell’incitamento all’odio da parte dei politici, e del razzismo e xenofobia nel discorso pubblico, particolarmente nei media e su internet preoccupa l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. È scritto nel rapporto di monitoraggio sull’Italia votato a Strasburgo, e che la delegazione italiana, bipartisan, voleva cambiare con emendamenti tutti però rigettati. Nella relazione su cui si basa il rapporto si esprime preoccupazione anche per la chiusura dei porti italiani ai migranti. Nel rapporto, che contiene anche una valutazione di quanto fatto da altri Paesi membri del Consiglio d’Europa, sono dedicati all’Italia dodici paragrafi, su flussi migratori, lotta al razzismo, libertà dei media, giustizia, corruzione. Se nel testo non mancano le critiche e gli inviti a fare meglio, ci sono anche diversi apprezzamenti per quanto sinora fatto per allinearsi con gli standard dell’organizzazione. Così sul fronte della gestione dei flussi migratori mentre si esprime preoccupazione “per le recenti iniziative per impedire alle navi di soccorso di attraccare nei porti italiani” allo stesso tempo si plaude alla fine delle politiche di respingimento. La delegazione italiana compatta nel proporre e difendere gli emendamenti su ogni paragrafo dedicato al Paese si è spaccata al momento dell’approvazione dell’intero testo. I 4 componenti Pd presenti, Andrea Orlando, Elena Boschi, Piero Fassino e Roberto Rampi hanno votato a favore assieme al deputato di Forza Italia Francesco Scoma. I restanti membri presenti appartenenti a Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e al gruppo misto del Senato hanno votato contro, con l’eccezione dell’astensione del deputato dei 5 stelle, Francesco Berti. Tutti i componenti della delegazione della Lega non erano in aula. Lega: scandaloso - “È scandaloso e inaccettabile che nella risoluzione in discussione al Consiglio d’Europa, sul monitoraggio sull’Italia - dove si scrive che il governo è formato da un movimento di estrema destra, la Lega, e da uno anti sistema, i Cinque Stelle - si accusi il nostro Paese di una serie di gravi comportamenti razzisti, xenofobi e anti umanitari”. Lo affermano i parlamentari della Lega nella delegazione italiana al Consiglio d’Europa, Paolo Grimoldi, Alberto Ribolla e Manuel Vescovi, aggiungendo “Non possiamo accettare che nella relazione sull’Italia il relatore scriva, in tema di politiche migratorie, di essere seriamente preoccupato perché le politiche del governo ostacolano il lavoro delle Ong, mettendo a rischio vite umane e violando norme umanitarie fondamentali ed esprima preoccupazione per la recrudescenza di atteggiamenti razzisti, della xenofobia e di incitamenti all’odio da parte di responsabili politici”. “Rafforzare la libertà dei media” - Sulla libertà dei media l’assemblea “si felicita per la riforma della Rai che ha lo scopo di migliorarne l’indipendenza, efficienza e sostenibilità”. Ma allo stesso tempo chiede di rafforzare la libertà dei media, di affrontare la questione della concentrazione della proprietà dei mezzi di comunicazione e di depenalizzare la diffamazione introducendo anche un principio di proporzionalità per le sanzioni. Nel rapporto si accolgono positivamente anche le riforme della giustizia penale “inclusa quella sull’estensione della prescrizione” ma le autorità sono chiamate a intervenire anche sull’uso eccessivo della detenzione preventiva e la lentezza della giustizia. Sul fronte della corruzione, che secondo l’assemblea “rimane diffusa e legata al riciclaggio e al crimine organizzato di stampo mafioso”, si riconosce anche come passo avanti la creazione dell’autorità nazionale anti corruzione, l’approvazione della legge sul whistle-blowing del 2017 e l’adozione del codice di condotta e le regole sui lobbisti della Camera dei deputati. Legittima difesa, la legge fermata da un errore di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 gennaio 2019 Il provvedimento bandiera della Lega, alla camera per la seconda lettura, deve tornare al senato per correggere uno sbaglio firmato da un senatore ultras di Salvini. Che rischia così di veder sfumare la sua promessa di approvare entro febbraio le nuove norme sulla libertà di reazione armata. Il 19 ottobre dell’anno scorso il senatore Andrea Ostellari, avvocato leghista e presidente della commissione giustizia, si presentò in tv brandendo un mattarello. Voleva con questo rivendicare la legge sulla legittima difesa, di cui era l’entusiasta relatore. Il giorno prima aveva commesso l’errore che costringerà adesso il provvedimento a tornare di nuovo al senato. Probabilmente rovinando la festa a Salvini, che aveva annunciato l’approvazione della legge entro febbraio. La commissione giustizia della camera ieri è stata costretta ad approvare una modifica alla legge sulla legittima difesa. Il provvedimento è pronto per l’aula, ma dovrà aspettare la fine dell’esame della riforma costituzionale. E il passaggio del decreto semplificazioni, fermato per lo scontro sulle trivelle. E poi dovrà tornare al senato per la necessaria doppia approvazione conforme. Colpa anche degli annunci di Salvini che all’epoca dell’incidente, ottobre 2018, annunciava ancora che la legittima difesa in versione leghista - un tentativo di predeterminare l’esito delle indagini, stabilendo che è “sempre” legittimo reagire armati alle intrusioni in casa - sarebbe stata approvata entro la fine dell’anno (scorso). E così il relatore Ostellari pensò bene di inserire una previsione di spesa per coprire i costi derivanti dalla legge nell’anno appena concluso. Il penultimo articolo del provvedimento, infatti, stabilisce che le spese legali per chi deve difendersi dall’accusa di eccesso colposo di legittima difesa e viene poi assolto sono a carico dello stato. Una storica battaglia delle associazioni delle “vittime”, intendendo per vittime chi ha subito il tentativo di rapina e non i morti o i feriti a causa delle reazioni armate. Dei fondo stanziati con l’emendamento 8.100 chiesto dalla commissione bilancio del senato e proposto da Ostellari, approvato in commissione il 18 ottobre 2018, gran parte sono a copertura delle spese previste negli anni successivi, a partire da questo 2019. Ma una piccola somma, 98 mila euro, era indicata anche per gli ultimi giorni del 2018. Solo che la legge, a causa del pasticcio combinato tra 5 Stelle e leghisti sul disegno di legge anticorruzione, a dicembre dell’anno scorso fu costretta a rallentare il passo. Precedenza al cosiddetto “spazzacorrotti”, bandiera dei grillini. I costi per il 2018 sono così diventati un’incongruenza, di cui nessuno in commissione giustizia si era accorto fino a martedì, quando è arrivato il parere della commissione bilancio. Ora la legge potrebbe essere riaperta, modificata dall’aula per raccogliere le preoccupazioni presenti anche tra i deputati M5S. Ma il Movimento giura che non porrà problemi all’alleato e che con un paio di settimane in più (ma difficilmente entro febbraio) si arriverà alla stessa conclusione. Con quanto entusiasmo lo spiega la presidente M5S della commissione giustizia Giulia Sarti: “È una legge che non serve più di tanto, ma è nel contratto di governo”. Legittima difesa, tentazione 5Stelle sul ddl rinviato: possiamo cambiarlo di Marco Conti Il Messaggero, 25 gennaio 2019 Il gioco dell’oca impazza a palazzo Chigi e si scarica sul Parlamento. Nella casella “costi benefici” è ferma da molti giri la Tav. In quella verde della “prigione” sosta la legittima difesa, di poco oltre la legge sull’Autonomia ferma nella casella del “labirinto”. Tanti scontri e qualche “svista”. Come quella che costringerà alla terza lettura la “libertà di sparo”. “Mancanza di coperture”, “errore tecnico”, sostengono nella maggioranza, ma il terzo passaggio a palazzo Madama impedisce alla Lega di rinviare i festeggiamenti previsti per il mese prossimo. Nel provvedimento ci sono le coperture finanziarie anche del bilancio 2018 (oltre quelle per il 2019 e 2020) ma sono inutili, perché l’esame della legittima difesa è partito alla Camera a inizio 2019. Tre passi indietro e tutto da capo, o quasi. Nel M5S non sono pochi coloro che storcono il naso quando si parla di legittima difesa e lo stop della Commissione Bilancio di Montecitorio ha ora dato nuovo coraggio a coloro che pensano di cambiare il provvedimento. “Nessun giallo, solo un errore formale”, sostiene il capogruppo leghista in Commissione Giustizia Roberto Turri. “Se c’è un iter va rispettato, è stato fatto un errore può capitare”, taglia corto anche la leghista Maura Tomasi componente della Commissione Bilancio. Ieri, per rimediare, i relatori di Lega e FI hanno presentato un emendamento che è stato approvato dalla maggioranza chiudendo così la partita in commissione Giustizia. Tranquilla anche la ministra Bongiorno: “Sulla legittima difesa posso garantire che anche il ministro Bonafede e tutti i nostri parlamentari sanno che è un testo equilibrato. Sarà un deterrente per chi vuole aggredire”. “Niente di grave, si tratterà di aspettare una o due settimane in più”, sminuisce Riccardo Marchetti della Lega che smentisce anche l’idea della solita “manina” per boicottare una delle leggi care a Salvini. “No, credo sia solo una svista, forse perché si è andati veloci quando si discuteva il bilancio”. Stessa valutazione la presidente della commissione Giustizia, la grillina Giulia Sarti che assicura lealtà e zero emendamenti, perché la misura “è nel contratto di governo e, come alleati, terremo fede a quel contratto”, anche se ricorda i tanti dubbi di opportunità sollevati dagli eletti del Movimento. Resta l’opposizione di Pd e Forza Italia, anche se le ragioni sono opposte. I Dem ripresenteranno emendamenti soppressivi al provvedimento, mentre Forza Italia spinge per una normativa più stringente sperando di rimettere in discussione il testo specie nella parte che prevede l’annullamento dell’indennizzo per l’aggressore e l’inversione dell’onere della prova. “La legittima difesa è una priorità: se serve, lavoriamo anche nei weekend”, twitta la capogruppo Mariastella Gelmini. “Ora il provvedimento non è più blindato”, sostiene l’azzurra Giusi Bartolozzi. Sulle barricate pure LeU che in Aula presenterà una pregiudiziale di costituzionalità. “Crediamo che l’automatismo per cui l’aggressione stessa ai beni materiali legittimi di fatto una reazione, sia molto grave ed è fuori dalla Costituzione”, spiega Federico Conte. La giustizia e l’autonomia della politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 25 gennaio 2019 La decisione del Tribunale dei ministri di Catania di chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini arriva inattesa, perché, dopo la motivata richiesta di archiviazione della locale Procura e l’assenza di fatti nuovi, la questione sembrava, almeno giuridicamente, risolta. Ora invece viene riaperta nel modo più incerto perché le sottostanti problematiche giuridiche sono complesse, e nel momento politicamente più difficile, perché i flussi libici sono ripresi, le polemiche stanno infuriando di nuovo, e per di più siamo entrati in clima elettorale. Speriamo che tutti, a cominciare dall’irruento ministro degli Interni, evitino di reagire in modo emotivo e scomposto, ed attendano una conclusione che sarà inevitabilmente politica e che potrebbe anche finalmente chiarire la reale posizione del governo e del Parlamento. Dal punto di vista giuridico vi sono in effetti molte incertezze da chiarire. La motivazione di Catania poggia sul principio che “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati, e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. Verissimo. Solo che qui la vita non c’entra nulla, perché i naufraghi erano stati salvati. Quanto al sequestro di persona, esso non minaccia affatto la vita, ma la libertà di movimento, che è di competenza esclusiva dello Stato e delle sue leggi. Pensiamo a un naufrago con la peste bubbonica: è lo Stato, e non le norme internazionali, a decidere se vada o no messo in quarantena. In ogni caso, il trattenere i migranti a bordo della nave è stata una decisione politica: discutibile fin che si vuole, sul piano umano, etico, e religioso, ma sempre politica. Come del resto ammette lo stesso Tribunale, affermando che “qui il sindacato deve necessariamente fermarsi costituendo tale materia prerogativa esclusiva della Camera di appartenenza del ministro”. E qui arriviamo al secondo punto. L’autorizzazione a procedere per il reato ministeriale non riguarda quello che una volta si chiamava il “fumus persecutionis”, cioè la valutazione se il magistrato agisca in odio al parlamentare o comunque per pregiudicarne l’attività. Riguarda, secondo l’articolo 9 della Legge Costituzionale la “valutazione insindacabile che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio di governo”. La Costituzione, in pratica, riconosce che il comportamento di un ministro, ancorché costituente reato, possa non esser perseguito quando è stato commesso per proteggere un bene ritenuto superiore, e che questa valutazione sia squisitamente politica. Qual è dunque la conseguenza della richiesta del Tribunale dei Ministri alla luce della disposizione costituzionale? Che dell’intera vicenda sarà investito il Senato, che dovrà dare un giudizio tutto politico; cioè dovrà dire, a maggioranza assoluta, se Salvini ha fatto bene o male a impedire lo sbarco dalla “Diciotti”. Ecco perché la vicenda va ben oltre l’aspetto giudiziario. Perché qui non si tratta più dell’annosa polemica se le toghe rosse o nere pretendano di interferire con la politica, e se mirino o meno a delegittimare questo o quel ministro. Anzi, a leggere attentamente il provvedimento, il Tribunale delinea rispettosamente i confini di competenza della Giurisdizione del Parlamento. E non sarà più il ministro a dover spiegare le ragioni della sua decisione in seno a un governo dove qualcuno ha vissuto questo iter con una certa esitazione, se non addirittura con disappunto. Ma sarà proprio un ramo del Parlamento, nella pienezza della sua autonomia e della sua responsabilità a decidere se Salvini abbia o no deciso nel supremo interesse dello Stato. Possiamo immaginare le conseguenze. In un argomento come l’immigrazione, è assai improbabile che i pentastellati lascino libertà di voto secondo coscienza, come se si trattasse di un tema etico o ambientale. D’altro canto il centrodestra, che già è sembrato pronunciarsi sul tema, probabilmente sosterrà il ministro. A questo punto o i grillini votano contro l’autorizzazione, e la posizione intransigente di Salvini viene avallata per il passato e rinforzata per il futuro; oppure votano a favore, e allora cadono il contratto, il governo e probabilmente la legislatura. In ogni caso il dibattito al Senato si dovrà svolgere entro sessanta giorni, e quindi in pieno clima elettorale, incendiando gli animi che già scoppiettano sotto le braci. Valeva la pena di arrivare a tanto? Mah. Fiat iustitia, pereat mundus. Salvini non poteva bloccare la Diciotti, “va processato” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 25 gennaio 2019 Il tribunale dei ministri accusa il vicepremier leghista di sequestro di persona, aggravato dalla presenza di minori a bordo. Inviata al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere. Sul “caso Diciotti”, Matteo Salvini ha abusato del suo potere. Per questo motivo, sostiene il Tribunale dei ministri di Catania, va processato. Per i giudici, che hanno avanzato al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del capo della Lega (e senatore), il ministro dell’Interno non poteva bloccare, come ha fatto, per cinque giorni i 177 migranti impedendogli di scendere dalla nave, ormeggiata nel porto di Catania. Ponendo “arbitrariamente il proprio veto all’indicazione del Pos (Place of safety, un porto di sbarco sicuro, ndr) da parte del competente dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione” ha determinato “la forzosa permanenza dei migranti a bordo della Diciotti, con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale per un arco temporale giuridicamente apprezzabile e al di fuori dei casi consentiti dalla legge”. Sequestro di persona è il reato che gli viene contestato, aggravato dall’abuso di potere e perché era consapevole che sulla nave militare c’erano 27 minori non accompagnati. Anche perché, sostengono i giudici, non c’era “un problema cogente di ordine pubblico per diverse ragioni” e in particolare perché in concomitanza con il caso Diciotti, “si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento”. Non solo. “Nessuno dei soggetti ascoltati dal tribunale - si legge nella richiesta a Palazzo Madama - ha riferito, come avvenuto invece per altri sbarchi, di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di ‘persone pericolosè per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale”. Non c’era alcun motivo, dunque, per trattare in quel modo i migranti costretti a ripararsi sotto tendoni di fortuna allestiti sul ponte per ripararsi dalla pioggia e dal sole d’agosto. Il ministro ha agito “per volontà meramente politica di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri”. Insomma, Salvini avrebbe usato la Diciotti per il braccio di ferro politico con Bruxelles. Ma le scelte politiche “non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti”. Perché “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”: concetto che ribalta di netto la motivazione con cui il capo della procura di Catania, Carmelo Zuccaro, aveva chiesto l’archiviazione per Salvini sostenendo che “una scelta politica non è sindacabile dal giudice penale”. Il provvedimento inviato al Senato ricorda che anche la “stessa Corte Costituzionale, in diverse circostanze, ha avuto modo di evidenziare che la discrezionalità nella gestione dei flussi migratori incontra chiari limiti, sotto il profilo della conformità alla Costituzione e del bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale, nella ragionevolezza, nelle norme di trattati internazionali che vincolano gli Stati contraenti e, soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale (articolo 13 della Costituzione), trattandosi di un bene che non può subire attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati”. Per i giudici “la decisione del ministro ha costituito esplicita violazione delle Convenzioni internazionali in ordine alle modalità di accoglienza dei migranti soccorsi in mare”. Salvini sceglie la linea dura, attaccando i giudici. “Ci riprovano - dice in una diretta Facebook - Torno ad essere indagato per sequestro di persona e di minori, con una pena prevista da 3 a 15 anni. Manco fossi uno spacciatore o uno stupratore”. Spavaldo, aggiunge: “Lo ammetto, lo confesso e lo rivendico, ho bloccato lo sbarco. E mi dichiaro colpevole dei reati nei mesi a venire, perché non cambio”. Contesta persino la tempistica del Tribunale dei ministri, che ha deliberato il 7 dicembre, comunicando la decisione il 24 gennaio. “I giudici facciano i giudici, i ministri fanno i ministri ed esercitano i loro poteri”, rincara salvini invitando il “popolo” a fare scudo: “Chiedo agli italiani se ritengono che devo continuare a fare il ministro, esercitando diritti e doveri, oppure se devo demandare a questo o a quel tribunale le politiche dell’immigrazione. Le politiche dell’immigrazione le decide il governo, non i privati o le Ong, se ne facciano una ragione”. Prova a smascherare il ministro, Pietro Grasso: “Come membro della giunta per le immunità del Senato dovrò esaminare la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania: Salvini ha dichiarato a tutta pagina, non più tardi di qualche mese fa, che avrebbe rinunciato all’immunità e chiesto al Senato di farsi processare. Ripete continuamente di essere uno che mantiene la parola: non ho dubbi che lo farà anche in questo caso. Vero?”. Combattere le scelte di Salvini è legittimo. Processarle è folle di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 gennaio 2019 Personalmente trovo odiosa (o disumana, come mi pare di capire abbia detto Fabio Fazio) la scelta politica che fece Matteo Salvini nello scorso agosto di bloccare per una settimana i profughi eritrei a bordo della nave Diciotti. Cioè di impedirgli di scendere a terra. Quei profughi eritrei erano in mare da più di dieci giorni, avevano sofferto le pene dell’inferno, tra loro c’erano anche molti bambini piccoli: è chiaro che un ragionevole senso della solidarietà avrebbe indotto chiunque ad aprire loro le porte. Così, allo stesso modo, trovo odiosa (o disumana) la scelta di dare l’assalto al “Cara” di Castelnuovo di Porto. E di imporre il trasferimento (o la fuga, o l’espulsione) a più di 500 profughi che si erano integrati in paese, molti dei quali avevano trovato un lavoro, molti una scuola, uno faceva il sacrestano, uno il centravanti della squadra di calcio. Il problema è che queste scelte politiche di Matteo Salvini sono, appunto, scelte politiche. Come tali vanno giudicate ed eventualmente combattute. C’è una parte non piccola - anche se probabilmente minoritaria - del popolo italiano che è contrario a queste scelte. E però non ha trovato espressione politica sufficiente. Al porto di Catania, ad agosto, non si sono viste oceaniche manifestazioni delle opposizioni. E anche l’altro giorno, a Castelnuovo, il corteo silenzioso è stato abbastanza smilzo. I partiti dell’opposizione arrancano. A Castelnuovo si è fatta vedere solo la coraggiosa deputata Moroni. Il suo gesto spavaldo, ma isolato, non ha avuto - non poteva avere - grande effetto. Le scelte politiche - le migliori come le peggiori - sono scelte politiche, non reati. Trasformarle in reati, per combatterle, è una decisione che può essere originata dalle migliori intenzioni di impegno civile, ma che lede in modo evidente lo stato di diritto e la divisione dei poteri. Quei settori, larghi, della magistratura, che credono di non avere il compito semplice e chiaro di giudicare i reati - i reati ma quello di guidare la politica e imporgli dei canoni etici o di comportamento, sbagliano e fanno danni. Talvolta questi magistrati aiutano e surrogano la sinistra, talvolta (vedi il caso Lucano) aiutano la destra. Il danno che producono è identico (anche se è difficile considerare identici Mimmo Lucano, sindaco di Riace, e il ministro Salvini). Riassumiamo la vicenda della Diciotti. Il 16 agosto la nave Diciotti prende a bordo 177 naufraghi eritrei a largo di Lampedusa. Malta non li vuole. La Diciotti si dirige a Catania, arriva il 20 agosto. Salvini blocca il porto. Dice che il suo compito è difendere i confini e che non sbarca nessuno. Il caso diventa un caso internazionale. Un sostituto procuratore di Agrigento decide che il caso è suo perché il primo soccorso è avvenuto in acque agrigentine. E stabilisce che nella decisione politica del ministro ci sono alcuni reati. Quali? Roba pesante: sequestro di persona aggravato, abuso di ufficio, arresto illegale. Il massimo della pena sfiora i vent’anni. Non ci vuole una laurea o un master per capire che i reati attribuiti a Salvini sono paradossali. La mia opinione è che Salvini sia un reazionario e un ministro dell’Interno non buono. E che la sua giaculatoria sulla difesa dei confini (manco fossimo in guerra) sia paradossale. Specialmente mi pare paradossale quando l’attacco avviene da parte di 170 profughi disarmati e disidratati. Ma questo non vuol dire che Salvini sia un gangster. Non vuol dire che è un rapitore, come sostiene il Pm agrigentino Patronaggio. A me questa sembra una follia. Il procedimento giudiziario avviato da Agrigento si sposta al tribunale dei ministri di Catania. Il Procuratore di Catania Zuccaro (famoso anche lui per avere voluto assumere la direzione della politica sull’immigrazione, al tempo del centrosinistra, incriminato e mettendo in fuga le Ong: l’incriminazione poi è caduta ma intanto le Ong erano sparite e molta gente era morta in mare) stavolta assume la posizione corretta: non tocca alla magistratura - dice - compiere e giudicare le scelte politiche, altrimenti si stravolge la distinzione tra i poteri. Dunque Salvini non è incriminabile e Zuccaro chiede al tribunale dei ministri di archiviare. È una presa di posizione decisamente in contrasto con le precedenti prese di posizione di Zuccaro, ma sembra inattaccabile. E invece il tribunale dei ministri di Catania l’attacca. Anzi, la rovescia, e chiede al Parlamento l’autorizzazione a procedere. Vuole mandare a processo il ministro dell’Interno. Ora il Parlamento (per la precisione il Senato) ha l’occasione per ribadire il diritto della politica a fare politica e per avvertire la magistratura che non deve uscire dai confini delle proprie competenze (ecco: qui difendere i confini è giusto). Lo farà? Molte volte in passato non lo ha fatto, anche sulla spinta dei grillini o del grillismo. Stavolta i grillini sono al governo, e una loro scelta anti- politica potrebbe avere conseguenze gravi. Torneranno sui loro passi? La speranza è che il caso Salvini possa finalmente portare la politica ad uscire dal suo atteggiamento tradizionale di subordinazione alla magistratura o - peggio - di uso della magistratura. Se non fosse così, se davvero Salvini fosse processato per le sue scelte politiche, lo Stato di diritto ne uscirebbe a pezzi. Ferito, ferito in modo mortale. Terroristi rifugiati in Francia, Parigi è pronta a riconsegnarli all’Italia di Anais Ginori La Repubblica, 25 gennaio 2019 Il passo formale non è stato ancora fatto ma ormai è questioni di giorni. I tecnici del ministero della Giustizia francese e gli omologhi italiani sono già in contatto per concordare il percorso che porterà il governo a chiedere l’estradizione di alcuni italiani condannati per reati di terrorismo e rifugiati in Francia. La procedura dovrebbe partire a febbraio, dopo che si sarà svolta la riunione di lavoro prevista negli uffici di place Vendôme, sede del Guardasigilli, con i consiglieri tecnici inviati dal ministro Alfonso Bonafede. Nonostante la crisi diplomatica tra Francia e Italia, la ministra Nicole Belloubet continua a dirsi disponibile a esaminare “caso per caso” le domande dell’attuale governo. La conferma di quest’apertura sono le discussioni preliminari in corso tra Roma e Parigi. I frequenti scambi hanno già portato a qualche risultato. Dalla lista di quindici nomi, comunicata dall’Italia subito dopo l’arresto di Cesare Battisti, i magistrati del ministero francese hanno per esempio suggerito di togliere il nome di Marina Petrella, l’ex brigatista arrestata nel 2008 per cui alla fine il decreto di estradizione è stato annullato per ragioni umanitarie. La lista di cui si discute si è ormai ristretta a quattordici nomi: Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin, Roberta Cappelli, Enzo Calvitti, Paolo Ceriani Sebregondi, Salvatore Cirincione, Maurizio Di Marzio, Paola Filippi, Gino Giunti, Giorgio Pietrostefani, Ermenegildo Marinelli, Sergio Tornaghi, Raffaele Ventura, Enrico Villimburgo. I tecnici francesi devono prima di tutto occuparsi di valutare in via preliminare l’ammissibilità delle richieste di estradizione portate da Roma. Come spiega Youssef Badr, magistrato e portavoce del ministero della Giustizia, “bisognerà verificare la regolarità giuridica” delle domande. Per la maggior parte dei casi esistono già dossier giudiziari su cui si erano intavolate discussioni con Parigi all’inizio degli anni Duemila. All’epoca era il leghista Roberto Castelli alla Giustizia e l’omologo francese era l’esponente di destra Dominique Perben. “Avevamo deciso di voltare pagina con la Dottrina Mitterrand senza nessuna ambiguità” ricorda adesso Perben parlando con Repubblica. Nominato Guardasigilli nel maggio 2002, fu lui a dare il via libera dopo pochi mesi all’estradizione lampo di Paolo Persichetti, l’unico latitante mai rinviato dalla Francia. Sempre il ministro Perben non si oppose alla richiesta di estradizione di Cesare Battisti nel 2004. “Purtroppo l’autorità giudiziaria concesse la libertà vigilata - ricorda - e Battisti ne approfittò per scappare”. In quegli anni, quando all’Eliseo c’era Jacques Chirac, ci furono diverse riunioni tra Roma e Parigi per mettere a punto i dossier giudiziari di altri latitanti. “Sul principio dell’estradizione - prosegue l’ex ministro francese - eravamo d’accordo, siamo sempre stati disponibili a lavorare insieme”. Dopo la fuga di Battisti, le altre procedure non andarono avanti. “C’erano spesso irregolarità giuridiche - conclude Perben - oppure non eravamo sicuri che alcune persone si trovassero effettivamente ancora in Francia”. È su questi dossier pregressi che i tecnici italiani vogliono appoggiarsi. Non sarà così facile. Il portavoce del Guardasigilli sottolinea che sulle richieste inviate negli anni Duemila i magistrati presso il Ministero dovranno “verificare la regolarità giuridica, la non prescrizione dell’azione pubblica o della pena secondo il diritto italiano”. Se la domanda si rivelerà giuridicamente fondata, verrà trasmessa alla procura generale, che a quel punto dovrà investire la Chambre de l’instruction, la sezione della Corte d’appello che si occupa delle richieste di estradizioni. In caso di accettazione della domanda, allora il governo dovrà decidere se adottare un decreto di estradizione. La battaglia giuridica si annuncia lunga e complessa. Presidente, non segua la scia di chi vuol far marcire in galera i condannati di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 25 gennaio 2019 Il Presidente della Repubblica ha sentito l’esigenza di dichiarare che i terroristi latitanti devono scontare “la pena loro comminata”. E questa dichiarazione merita di essere commentata, come non è stato fatto, da almeno due punti di vista. Il primo: dal punto di vista di un cittadino al quale ripugna di essere rappresentato da uno che fa questa mostra di non conoscere l’italiano. Signor Presidente, riferisca al giovanotto che le scrive i discorsi (tra parentesi: chi l’ha scelto? quando guadagna?) che la comminazione è disposta dalla legge, non dal giudice: il quale non commina, ma irroga la pena. Dice: e vabbè, stai a guardare il capello, non cade il mondo se uno fa uno sfondone. No, non cade il mondo, ma forse non è chiedere troppo che il capo dello Stato, il vertice della Repubblica, che oltretutto pare sia stato un giurista, non si abbandoni a un simile strafalcione. Un conto è se da mezzo analfabeta - che so? - dirigi un giornale, che dopotutto non rappresenta nessuno: dici “proseguio”, e buonanotte. La racconta lunga sul tenore culturale del Paese, ma amen. Se invece rappresenti l’unità nazionale, no: non si può tollerare. Salvo arrendersi all’idea, anzi alla pratica, che gli italiani siano uniti nel trionfo di questo abbrutimento. Il secondo punto di vista dal quale merita di essere commentata la dichiarazione del presidente della Repubblica è quello del cittadino che si domanda se per caso l’esternazione non sia stata comandata da un orologio politico ben tarato sulle attuali leve di formazione del consenso. Pressappoco: galera per tutti. Dice: se è stata irrogata una pena (irrogata, Signor Presidente, non “comminata”) bisognerà pure che sia scontata. No? E che male c’è a reclamarlo? Nessun male, ma appunto ci si domanda se tra i non pochi e non lievi problemi che affliggono la giustizia in questo Paese ci sia davvero in prima fila, e bisognoso di queste pompose rivendicazioni, il problema della mancata carcerazione di qualche antico condannato. Non si crede che sia “benaltrismo” osservare che la giustizia in Italia è innanzitutto offesa da una situazione delle carceri illegale e ignobile, dal sacrificio degli innocenti in custodia cautelare, dal ricorso sbrigliato alla repressione penale per dare soddisfazione alla pretesa di “ordine” dei cittadini, pretesa irresponsabilmente istigata da una schiatta di governanti che nemmeno offre festa, forca e farina: ma solo forca. Si potrebbe obiettare che il Presidente della Repubblica non ha l’obbligo di stendere l’elenco dei problemi italiani, e di astenersi dall’evocarne uno (i terroristi in fuga) solo perché ne esistono anche altri. È vero: forse non ne ha l’obbligo. Ma deve sapere che prescegliere un argomento determina conseguenze, e in questa temperie di ingiustizia bisognerebbe guardarsi dal finire sulla rotaia politica di chi vuol far marcire in galera i condannati. E se dichiari certe cose, magari in sé ineccepibili (per quanto in italiano claudicante), su quella rotaia vai a finire. A quel punto avremo ventisette carcerati in più: una cosa probabilmente necessaria, ma in un Paese e con una giustizia certamente non migliori. Difensori arrestati e uccisi? “L’incubo della Turchia non è così lontano” di Errico Novi Il Dubbio, 25 gennaio 2019 Gli avvocati ora hanno un manuale. Il titolo è “La difesa dei diritti”. È stato presentato ieri presso la sede del Cnf, nel convegno voluto per ricordare la “Giornata dell’avvocato minacciato”. Il volume porta la firma di due rappresentanti del mondo forense impegnati in prima linea nella campagna internazionale per lo stato di diritto: Barbara Spinelli e Roberto Giovene di Girasole. La straordinaria ricchezza documentale fa del loro libro un ammonimento non solo per gli “osservatori internazionali dei processi”, evocati nel sottotitolo. Il pro memoria, dice in apertura il presidente del Cnf Andrea Mascherin, “è rivolto anche a chi esclude che possa avvenire da noi quanto avviene in Paesi in cui non vi è un sistema democratico avanzato”. Difendere “gli avvocati che in Paesi come la Turchia sono vittime di feroci repressioni è una missione a cui l’avvocatura si sente naturalmente chiamata, in virtù di quell’amore per la difesa che ci accomuna in ogni parte del mondo”, ma è anche un modo per “restare vigili sul rispetto dei diritti in tutti i Paesi compreso il nostro”. A parlare del dramma degli avvocati perseguitati, arrestati e uccisi è anche una rappresentante del mondo forense turco, Benan Molu, esperta di diritto internazionale. “Dal 2015 la nostra situazione si è fatta drammatica”, dice. A chiudere la giornata è invece Elisabetta Zamparutti, ossia un’esponente di quel Partito radicale che non a caso continua a denunciare lesioni allo stato di diritto anche dalle nostre parti, dove pure, dalla Turchia, ci si sente lontani. Zamparutti ribadisce il concetto da cui si era partiti: “Non è che la deriva turca sia tanto estranea alla nostra realtà: tramutare le legislazioni emergenziali, lo stato d’eccezione, in forme giuridiche assorbite e stabilizzate nell’ordinamento, è un processo che dovrebbe suonarci familiare”. La rappresentante italiana nel Comitato per la prevenzione della tortura chiama in causa “le legislazioni speciali sul terrorismo e la mafia”. E in effetti il doppio binario nel processo penale, in Italia, si definisce a partire da quei due fenomeni. E il Codice antimafia, le sue iperboli sulle misure di prevenzione, per esempio, sono tuttora al loro posto, anche se dovevano essere, nota Zamparutti, “la risposta temporanea a situazioni eccezionali”. La “Giornata dell’avvocato minacciato” si celebra in tutto il mondo, ricorda Mascherin. In Italia ieri lo si è fatto in diversi Fori, grazie alle iniziative organizzate per esempio dalle Camere penali di Bologna, Milano e Venezia, oltre che con l’evento al Consiglio nazionale forense. Dove ci si è concentrati, come nella maggior parte delle altre occasioni, sulla situazione turca. Benan Molu descrive la progressione inesorabile con cui, nel suo Paese, si è passati “dall’assetto precedente al colpo di Stato del 2016, che pure non era considerato esemplare quanto a riconoscimento dei diritti, a una situazione veramente drammatica. Secondo i parametri di organizzazioni non governative come Freedom house eravamo uno Stato “mediamente libero”, ora siamo classificati come “non libero”“. Impressionanti la forme giuridiche della mutazione: “Si è partiti con la proclamazione, da parte del presidente Erdogan, dello stato di emergenza, che è stato rinnovato ben 7 volte. E la sua vigenza ha trovato concreta affermazione in ben 31 decreti emergenziali che hanno innanzitutto indebolito il diritto di difesa. È così”, spiega Molu, “che qualcosa come 1300 avvocati sono stati sottoposti a procedimento penale”. Centinaia sono tuttora in carcere, insieme con altrettanti magistrati e giornalisti. Alcune prime linee, come il presidente dell’Ordine forense di Diyarbakir, Tahir Elçi, sono state assassinate. Ma alla ferocia dell’omicidio di Stato è pari quella delle leggi, prosegue l’avvocata turca: “Si è cominciato con il potere del pm di negare al difensore l’accesso agli atti relativi al suo assistito. Quindi si è introdotta la norma, sempre emergenziale, per cui il magistrato può impedire per 5 giorni al difensore di vedere la persona arrestata”. Fino alla restrizione più perfida: “Un altro decreto ha stabilito che se un avvocato è sottoposto a procedimento non può più assistere l’indagato”. Ed è proprio in questo modo che sono stati prima neutralizzati “i difensori di Ocalan, al quale da 7 anni è vietato di vedere i propri legali”, ricorda Barbara Spinelli, “e poi è stato impedito a migliaia di persone di essere difese, con l’uso arbitrario della categoria di terrorista”. Spinelli, penalista bolognese coautrice del manuale presentato ieri, non ha un profilo da ordinaria cultrice dei diritti umani: nel gennaio 2017 è stata vittima di un vero e proprio “respingimento” da parte delle autorità frontaliere di Istanbul. Partita proprio per una missione da osservatrice internazionale nei processi agli avvocati turchi, è stata trattenuta in una sorta di cella temporanea dell’aeroporto con altri “indesiderati” e poi rimandata in Italia perché, appunto, sgradita. “Attenti quando anche nel nostro Paese vengono negati, per esempio, i diritti degli omosessuali: se decidiamo di tacere su queste menomazioni è meglio se appendiamo la toga al chiodo”. Anche perché, come dice Mascherin, “nel comprimere i diritti si comincia sempre da qualche parte”. Riecco le analogie fra i decreti enumerati da Molu e lo stato d’eccezione italiano. L’avvocata turca descrive un altro di quelle 31 leggi di Erdogan, quello con cui “al difensore può essere impedito di vedere privatamente il proprio cliente: i colloqui possono essere registrati, e comunque un agente non manca mai. Basta che il caso sia di sospetto terrorismo”. Ecco: quante differenze si possono davvero scorgere fra questo sistema e i vetri divisori con cui, fino a pochi mesi fa, i detenuti al 41 bis erano costretti a parlare pure coi figli piccoli? Un altro storico testimone dell’impegno dell’avvocatura in difesa dei diritti umani, Ezio Menzione, responsabile del relativo osservatori dell’Unione Camere penali, ricorda che “non è solo il processo il punto di attacco: in Egitto il diritti di difesa è più stabile, ma è a monte che lo Stato consuma le proprie violenze: il caso Regeni è la punta dell’iceberg delle 5.500 sparizioni degli ultimi anni”. Ed è ancora Roberto Giovene a rileggere le atrocità lontane in chiave domestica: “Le norme emergenziali, in Turchia sono state assorbite nel sistema col beneplacito della stessa Corte costituzionale. Della quale il governo nomina i quattro quinti dei componenti”. Basta tramutare l’eccezione in norma stabile, come in Italia con la legislazione antimafia, e poi un tratto di penna sulla Costituzione. È un incubo davvero così remoto? “Amanda aveva ragione”: Strasburgo condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2019 La Corte europea dei diritti umani ha riconosciuto come “siano stati violati i diritti della difesa”. L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la mancanza dell’avvocato difensore durante il primo interrogatorio, per aver utilizzato un interprete che non si è limitato al solo compito di traduzione e per la mancata inchiesta sui presunti maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine che si sarebbero svolti durante il primo interrogatorio. Parliamo della sentenza scaturita dal ricorso di Amanda Knox che, nel novembre del 2007, era finita tra i principali indiziati, insieme a Raffaele Sollecito, per l’omicidio della studentessa Meredith Kercher avvenuto in un’abitazione di Perugia. La Knox, nel ricorso presentato a novembre del 2013 e accolto dalla Cedu nel 2016, aveva sostenuto di aver subito un processo iniquo e di essere stata maltrattata durante l’interrogatorio. Nel dettaglio ha denunciato la violazione del diritto ad un equo processo, ai sensi dell’art. 6 della convenzione europea, la violazione del diritto di difesa ai sensi dell’art. 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e per violazione del divieto della tortura, di cui agli art. 3 Cedu e 4 della Carta dei Diritti Fondamentali Ue. Solo su quest’ultimo punto, la Cedu ha dichiarato infondato il ricorso, perché “non c’è alcuna prova che Amanda Knox sia stata soggetta al trattamento inumano e degradante del quale si era lamentata”. Le sarebbe però stato negato il beneficio di un’indagine approfondita, in grado di appurare i fatti e le responsabilità: secondo la Corte europea tutto questo può aver danneggiato l’intera procedura. Inoltre la Cedu ha sottolineato che le autorità italiane non sono state in grado di dimostrare il contrario. Ricordiamo che a causa di quella denuncia per maltrattamento, la Knox era stata accusata di calunnia. Aveva infatti sostenuto di essere stata “forzata” dagli investigatori a dire che era stata nella casa dell’omicidio insieme a Patrick Lumumba, che fu coinvolto nell’inchiesta proprio a causa delle frasi dell’americana e poi riconosciuto estraneo alla vicenda. Il procedimento avviato dalla procura di Perugia era stato poi trasmesso a Firenze, perché tra le persone offese dal presunto reato ci sarebbe stato anche l’ex pm Giuliano Mignini, titolare dell’indagine. Il pm di Firenze aveva chiesto per la Knox una condanna a due anni e otto mesi di reclusione. Ma è stata assolta e nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, il giudice ha scritto che la Knox fece il nome di Lumumba agli agenti perché “dando quel nome in pasto a coloro che la stavano interrogando così duramente, sperava di porre fine a quella pressione”. Il giudice ha ritenuto che le parole della studentessa di Seattle abbiano rappresentato “la narrazione confusa di un sogno, sia pure macabro” e “non la descrizione di una vicenda davvero accaduta”. Per il tribunale questo conferma lo stato in cui si trovava Amanda Knox in quel momento ed esclude che la sua finalità potesse essere di tacere il nome dell’effettivo autore del delitto. Il giudice di Firenze ha anche parlato in tale ambito di indagini caratterizzate da “numerose irritualità procedurali” e dalla durata ossessiva degli interrogatori. Sempre secondo il tribunale, il contesto nel quale sono state rese le dichiarazioni della Knox “era chiaramente caratterizzato da una condizioni psicologica divenuta” per lei “davvero un peso insopportabile”. È quindi “comprensibile - si legge nelle motivazioni - che cedendo alla pressione e alla stanchezza abbia sperato di mettere fine a quella situazione, dando a coloro che la stavano interrogando quello che in fondo volevano sentire dire: un nome, un assassino”. Di particolare interesse, sempre nella sentenza di condanna da parte della Cedu, c’è il ruolo chiave dell’interprete durante il primo interrogatorio. È accaduto che alle due di notte del 6 novembre 2007, la Knox era stata portata in una stanza per essere interrogata. Erano presenti tre agenti di polizia, con l’aggiunta di un dipendente della stazione di polizia che fungeva da interprete. Il suo comportamento è risultato anomalo, perché non si sarebbe limitato a tradurre ciò che la Knox diceva e le domande degli inquirenti, ma avrebbe svolto un ruolo di “mediatore” e “suggeritore”, quindi in completa violazione della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. La Cedu quindi condanna l’Italia per la violazione dell’articolo 6 della convenzione e l’articolo 3 sulla tortura, ma dal punto di vista procedurale visto che non c’è stata nessuna inchiesta sulle denunce di maltrattamento. Se lo Stato non ricorrerà in appello, tra tre mesi la sentenza sarà definitiva e dovrà risarcire la Knox di 10.400 euro per danni morali, in aggiunta di 8mila euro per le spese legali. Ventidue anni in carcere da innocente, chiede 66 milioni allo Stato (e ai carabinieri) di Irene Puccioni La Nazione, 25 gennaio 2019 L’avvocato: “È la prima volta in duecento anni di storia che l’Arma dei carabinieri viene citata per responsabilità penale”. Oltre 66 milioni di euro per aver scontato 22 anni di carcere da innocente. È il risarcimento chiesto da Giuseppe Gulotta, vittima di uno degli errori giudiziari più gravi della storia della Repubblica. Nell’atto, che verrà depositato al tribunale di Firenze dagli avvocati Baldassare Lauria e Pardo Cellini che hanno assistito Gulotta sin dal processo di revisione, viene citata l’Arma dei carabinieri per responsabilità penale, oltre ai rispettivi ministeri di rappresentanza (Difesa e Interno), al dicastero dell’Economia e alla presidenza del Consiglio. Gulotta venne arrestato nel gennaio del 1976 per l’omicidio di due carabinieri della stazione di Alcamo Marina, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Allora diciottenne, venne condannato all’ergastolo, ma dopo nove processi e 22 anni di carcere ingiusto, fu assolto nel marzo 2012 dalla corte d’Appello di Reggio Calabria che stabilì come la confessione venne estorta con sevizie e torture da parte dei militari dell’Arma. “È la prima volta in duecento anni di storia che l’Arma dei carabinieri viene citata per responsabilità penale - dice l’avvocato Lauria -. Ci sono due aspetti che sono contenuti nell’atto: il primo riguarda la responsabilità dello Stato come tale per non aver codificato negli anni il reato di tortura. Il secondo profilo è quello che attiene agli atti di tortura posti in essere in una sede istituzionale (la caserma dei carabinieri, ndr) da personale appartenente all’Arma che ha generato un gravissimo errore giudiziario”. Il legale ricorda anche che “è stata la stessa Cassazione a dire di rivolgerci all’Arma per il risarcimento del danno subìto per le torture, perché il giudice è stato indotto nell’errore dalla falsa confessione estorta”. Gulotta ha ottenuto un primo risarcimento di 6,5 milioni di euro per ingiusta detenzione, la cifra più alta che lo Stato italiano abbia mai sborsato per riparare a un errore giudiziario. Nella nuova richiesta, pari a 66.247.839,20 euro, vengono conteggiati tutti i danni non patrimoniali (morale ed esistenziale). Con il deposito su un conto non c’è autoriciclaggio di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 3608/18. Risponde di riciclaggio e non di autoriciclaggio l’imputata che versa su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, e poi preleva con assegni, il denaro provento dell’attività concussiva attuata dal marito. Lo stabilisce la sentenza n. 3608/19, con la quale la Cassazione ha delineato i non sempre nitidi confini tra ricettazione, favoreggiamento reale, riciclaggio e autoriciclaggio. I fatti sottoposti al giudizio della Corte vedevano imputata la moglie di un pubblico ufficiale che aveva versato su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, per poi prelevarlo mediante assegni, denaro proveniente dall’attività concussiva attuata dal marito, in danno di un imprenditore. La Corte di appello di Torino, investita della questione in sede di impugnazione della sentenza di primo grado, aveva qualificato la condotta posta in essere dall’imputata come riciclaggio. Di diverso avviso la difesa, che aveva impugnato la sentenza di appello, chiedendo di procedere alla riqualificazione del reato da riciclaggio in favoreggiamento reale (articolo 379 del codice penale) o, al più, in ricettazione (articolo 648 codice penale), puniti con pene più miti. La ricorrente riteneva inoltre censurabile la sentenza di appello nella parte in cui questa aveva ritenuto non riconducibile la condotta dell’imputata nel delitto di autoriciclaggio (articolo 648 1-ter codice penale). I giudici di legittimità, nel rigettare il ricorso, hanno evidenziato che il delitto di riciclaggio si distingue da quello di ricettazione “non tanto con riferimento ai delitti presupposti”, quanto piuttosto sulla base di elementi strutturali relativi sia all’elemento soggettivo che a quello materiale. Dal punto di vista psicologico, la ricettazione è punibile a titolo di dolo specifico mentre nel riciclaggio il dolo è generico. Diversa nei due casi è anche la condotta materiale, che nel riciclaggio ha riguardo alla “direzione della condotta ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene”, in presenza della quale l’intento di lucro, che è essenziale alla configurazione della ricettazione, “può valere a rafforzare, ma non ad escludere, il dolo generico del riciclaggio”. Resta preclusa, secondo la Cassazione, anche la possibilità di riqualificazione del fatto addebitato come favoreggiamento reale, dato il rapporto di sussidiarietà sussistente tra le due fattispecie: nel riciclaggio sono, infatti, presenti tutti gli elementi costitutivi del favoreggiamento reale con in più l’elemento specializzante del volontario compimento di operazioni volte ad ostacolare l’accertamento circa la provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità. Infine, la Corte di cassazione ha ritenuto non configurabile il delitto di autoriciclaggio, mancando in questo caso il requisito dell’impiego, della sostituzione o del trasferimento in attività economiche o finanziarie di denaro o di altre utilità di illecita provenienza. Secondo la Corte, infatti, il semplice deposito di una somma su un conto corrente o un libretto di deposito, non essendo attività finalizzata alla produzione di beni o alla fornitura di servizi non potrebbe riguardarsi come attività economica. Né potrebbe parlarsi di attività finanziaria, non essendo riconducibile la condotta contestata ad alcuna ipotesi di gestione del risparmio con individuazione degli strumenti per la realizzazione di tale scopo. Dopo la riforma del 2018 minaccia grave perseguibile solo con la querela di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 24 gennaio 2018 n. 3520. Dopo le modifiche introdotte dal Dlgs 36/2018 sulle condizioni di procedibilità per alcuni reati, per perseguire l’autore di una minaccia grave serve la querela di parte. A meno che la minaccia in questione non sia stata fatta a “mano armata” o da più persone. La Corte di cassazione, con la sentenza 3520, annulla senza rinvio il verdetto con il quale la Corte d’Appello aveva annullato la decisione del primo giudice di scegliere la via della non punibilità per la particolare tenuità del fatto, ritenendo che i fatti contesati non potessero ricadere nel raggio d’azione dell’articolo 131-bis del Codice penale. La Cassazione prende innanzitutto atto delle modifiche apportate dal Dlgs del 2018, direttamente applicabili in nome del principio genarle del favor rei sul quale è basato il sistema penale. La norma - in attuazione della delega prevista dalla cosiddetta riforma Orlando che ha rivisto il codice penale e di rito - impone, in caso di reato di minaccia grave, (articolo 612, comma 2 del Codice penale) la condizione della querela, salvo che questo sia stato commesso nelle ipotesi aggravate (articolo 339 del Codice penale). Nello specifico le persone offese, informate della possibilità di presentare una “domanda punitiva”, non avevano esercitato la facoltà. I giudici devono quindi annullare. Ma lo fanno non prima di aver rilevato che la minaccia era stata commessa da più persone riunite. Circostanza non richiamata nel capo di imputazione, neppure attraverso un riferimento all’articolo 339. Per la Cassazione l’ipotesi sarebbe fuori dal semplice concorso nel reato (articolo 110 del Codice penale). Una “svista” dei giudici di merito alla quale non si può più rimediare con il rinvio perché nel frattempo il reato è prescritto Bancarotta: omesso pagamento Iva, va provata la distrazione della somma di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2019 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 24 gennaio 2019 n. 3518. Il giudice che procede contro l’imprenditore fallito per il reato di bancarotta deve verificare se il pagamento dell’Iva - mai avvenuto e però registrato contabilmente nel libro giornale - riguardi sommme realmente esistenti o meno. La Corte di cassazione penale, con la sentenza n. 3518 del 24 gennaio, ha così accolto il ricorso contro la pronuncia dei giudici di merito che avevano ritenuto sottratta dall’imprenditore la somma del debito Iva oggetto di iscrizione contabile, ma mai eseguito a favore dell’Erario. Secondo il ricorso accolto non poteva ritenersi distratta dal patrimonio dell’impresa una somma di denaro che non risultava esistere nella disponibilità dell’impresa. Il fallito aveva, infatti, negato l’addebito perché di fatto il denaro corrispondente all’Iva da pagare in realtà non esisteva come dimostravano i saldi negativi dei rapporti bancari facenti capo alla società e confermati dal curatore. Secondo la sentenza di legittimità, è sì vero che, la distrazione o l’occultamento dei beni della società fallita possono anche essere desunti dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della loro reale destinazione; ma è anche vero che vada prima accertata l’esistenza reale del bene o del denaro nella disponibilità della società. Un pagamento annotato ma non eseguito, è circostanza che - dice la Cassazione - può invece essere letta dal giudice come appostazione mendace al fine di dare ai terzi l’immagine apparente di una gestione regolare. In realtà nel caso affrontato dalla Cassazione la contabilità era irregolare e lacunosa. Ma non al punto di impedire la verifica in sede di curatela dell’indisponibilità da parte della società della somma contestata. Al di là della mancata annotazione del versamento Iva nei mastrini, i giudici non hanno valutato la non corrispondenza del conto cassa contanti con i depositi bancari della società “essendo indiscutibile” dice la difesa “che le somme riscosse dalla società non potevano essere custodite in un cassetto”. In conclusione il mancato pagamento dell’Iva al Fisco non è sufficiente presupposto per dire che l’amministratore si sia intascato la corrispondente somma. Cnf, sanzioni legittime anche senza sezione disciplinare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 24 gennaio 2019 n. 2084. Piena legittimità della funzione disciplinare del Consiglio nazionale forense nei confronti degli avvocati iscritti all’albo. Le Sezioni Unite della Cassazione, sentenza n. 2084 del 24 gennaio 2019, respingendo il ricorso di un legale di Brescia sanzionato con “l’avvertimento”, per una serie di inadempienze nei confronti di tre diversi clienti, hanno confermato la natura “giurisdizionale” delle decisione del Cnf e la loro costituzionalità. L’avvocato - colpevole di non aver fornito adeguata assistenza ai clienti; di non averli correttamente informati ed infine di non avergli neppure restituito la documentazione - aveva lamentato l’assenza di una “apposita sezione disciplinare” all’interno del Consiglio. Per la Suprema corte però ciò “non incide sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, né sull’imparzialità e sull’autonomia dell’organo giudicante, le quali sono comunque assicurate dalla sua composizione collegiale e dalla natura elettiva dei suoi componenti”. Né la mera coesistenza di funzioni amministrative e giurisdizionali intacca l’indipendenza del Cnf. Infatti, spiega la Corte, “non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali”. Ma “tale posizione ed il correlativo rischio non sono riscontrabili” in quanto “le funzioni giurisdizionali sono esercitate dal Consiglio senza che sussista un rapporto di subordinazione verso alcun altro soggetto e quindi in piena autonomia: con l’evidente conseguenza che la loro coesistenza con quelle amministrative non importa il rischio sopra menzionato e pertanto non incide sull’indipendenza del Consiglio stesso né priva lo stesso delle funzioni giurisdizionali”. Del resto, come sottolineato dalla Corte Costituzionale (n, 284/1986), “anche gli organi della giurisdizione ordinaria, al pari del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, accanto alle funzioni tipiche, ne hanno altre di natura amministrativa (organizzazione degli uffici, vigilanza e controllo sul personale di cancelleria e subalterno, vigilanza sugli ufficiali dello stato civile, ecc.), senza che queste diminuiscano la loro indipendenza”. Non solo, la giurisdizione professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati e la Corte europea dei diritti de l’uomo ha riconosciuto, con riguardo ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici belgi, la sussistenza del requisito dell’indipendenza, sottolineando che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio non già come rappresentanti dell’ordine professionale, e quindi in una posizione incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a titolo personale e perciò in una posizione di “terzietà”. Riguardo invece la riunione dei tre diversi procedimenti, la sentenza osserva che “costituisce esercizio di poteri discrezionali del giudice disciplinare ed è giustificata, pur quando fra i fatti oggetto delle rispettive incolpazioni non vi sia connessione, dalla necessità di tenere conto della complessiva condotta dell’incolpato”. Oltre a rilevare che nel caso specifico non ha avuto alcun effetto “sfavorevole” per il ricorrente. Infine, con riguardo alla invocata prescrizione, la Corte afferma che essa non può ritenersi decorsa considerato che “la permanenza non può dirsi cessata” quantomeno rispetto all’omessa restituzione della documentazione al cliente. Piemonte: uno Sportello per aiutare i detenuti a trovare lavoro dopo il fine pena torinoggi.it, 25 gennaio 2019 I carcerati potranno partecipare ad attività di orientamento, accompagnamento al lavoro interno ed esterno, incrocio domanda-offerta. Uno sportello lavoro all’interno delle 13 carceri piemontesi per aiutare i detenuti vicini al fine pena nel reinserimento sociale e lavorativo. È questo l’obiettivo del protocollo, della durata triennale, firmato questa mattina dalla Regione Piemonte, dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per il Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta e all’Ufficio regionale del Garante dei detenuti. I carcerati potranno partecipare ad attività di orientamento, accompagnamento al lavoro interno ed esterno, incrocio domanda-offerta tramite sportelli istituiti internamente e gestiti da operatori dei servizi accreditati. Alle politiche attive potranno affiancarsi interventi socio-educativi, di mediazione linguistica e culturale o laboratori e seminari formativi. “Attualmente - ha spiegato il Garante Regionale Bruno Mellano - nei 13 istituti piemontesi ci sono 4.478 carcerati, la maggior parte con una pena a medio-breve termine.” “Nei prossimi 12 mesi - ha aggiunto - saranno oltre 800 coloro che usciranno dalle strutture: l’intesa si rivolge, nei prossimi 4 anni, ad una platea potenziale di circa 2.300 persone. È necessario costruire percorsi di uscita reale dal carcere, anche per una sicurezza generale dei territori”. “La pena - ha commentato il Presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino - deve essere pensata come istituto rieducativo, non come vendetta.” “Ogni riferimento a sceneggiate viste in questi giorni - ha aggiunto il governatore con riferimento all’arresto di Cesare Battisti - è voluto. Il protocollo firmato oggi è importante perché contribuisce a superare le difficoltà che ostacolano il pieno esercizio dei diritti dei detenuti”. A copertura dei costi delle attività, come ha spiegato l’assessore regionale al lavoro Gianna Pentenero, la Regione ha stanziato inizialmente 3 milioni di euro grazie a risorse provenienti dal Fondo sociale europeo. Fermo: tragedia in carcere, 40enne sudamericano si toglie la vita in cella informazione.tv, 25 gennaio 2019 Il dramma si è consumato ieri sera, poco dopo le 22.00, nella Casa di Reclusione di Fermo. La vittima, un uomo 40enne sudamericano, nato a Santo Domingo, si sarebbe tolto la vita impiccandosi mentre si trovava nella sua cella. Immediata è scattata la macchina dei soccorsi ma i sanitari del 118, giunti prontamente sul posto, non hanno potuto far altro che constatare il decesso dell’uomo. Saranno comunque gli inquirenti a stabilire con esattezza quanto accaduto. Rieti: formazione professionale, 17 detenuti sono diventati mastri pastai Il Messaggero, 25 gennaio 2019 L’Istituzione formativa della Provincia di Rieti ha offerto a chi ha commesso errori la possibilità di imparare a fare cose buone come il pane, la pizza, la pasta. Protagonisti 17 detenuti della casa circondariale nuovo complesso di Rieti che questa mattina, durante una intensa cerimonia, hanno ricevuto la qualifica professionale di operatore di panificio e pastificio, spendibile su tutto il territorio nazionale al termine del percorso finanziato dalla Regione Lazio Poi - Partecipazione, occupazione e integrazione. “Questo corso ha avuto una duplice valenza - ha sottolineato la direttrice del carcere Vera Poggetti - È spendibile e permetterà ai discenti di trovare una occupazione, ma allo stesso tempo ha permesso di attivare un importante percorso fatto di gioco di squadra: in un ambiente dove la convivenza è forzata avere avuto l’occasione di lavorare in gruppo e rispettarvi. Vi ringrazio perché siete stati bravi e la speranza è che ci siano altre occasioni importanti come queste”. Sottolinea l’entusiasmo e l’assidua partecipazione dei detenuti che hanno frequentato il corso il direttore dell’Istituzione Formativa Fabio Barberi. “Erano molti quelli che avrebbero voluto partecipare - spiega - Tanto che è stata necessaria una selezione. Speriamo di poter dare un seguito a questa prima collaborazione. Il ringraziamento va sicuramente ai miei collaboratori, alla direzione del carcere e alla Polizia penitenziaria”. Alcuni partecipanti al corso sono già usciti dal carcere. Uno è volato a Formentera, nelle Baleari, dove sta cercando di portare avanti questa esperienza nel mondo della panificazione, un altro ha già trovato un impiego in un forno della capitale. “Grazie per aver partecipato a questa occasione che lo Stato vi offre - ha detto il Prefetto Giuseppina Reggiani rivolta ai detenuti - L’attestato che oggi ricevete vi consentirà di avere una seconda vita e di intraprendere un percorso di integrazione sciale. Grazie all’Istituzione formativa di Rieti, una eccellenza di questo territorio, che ha offerto la possibilità di un migliore inserimento anche di chi ha sbagliato una volta, ma che non per questo deve essere messo ai margini. Vi auguro di trovare lavoro in un settore, quello del cooking, che oltre ad andare di moda ed è un aspetto fondamentale della nostra economia”. “Vedo persone motivate che hanno portato avanti un percorso culinario e di vita, questo è il successo migliore - ha aggiunto Licia Alonzi, presidente dell’Istituzione Formativa - Dopo un errore è possibile cambiare traiettoria. È quello che ci aspettiamo da voi. Ho fiducia in quello che vi è stato proposto, scappiatelo spendere bene. Grazie al personale del carcere e a tutti i collaboratori dell’Istituzione Formativa che si sono adoperati in maniera eccellente”. Partner del progetto Copagri. Ero entrato titubante - racconta Guido Colasanti, presidente della Copagri, che ha rivestito la carica di tutor tecnico - ne sono uscito carico di un bagaglio di emozioni e ricchezze. I partecipanti al corso mi hanno scritto lettere toccanti, non vedono l’ora di uscire per far vedere al mondo quello che hanno imparato. Ritengo sia stato un momento importantissimo per il loro futuro”. I docenti hanno passato tante ore accanto ai detenuti. Li hanno visti interessati al corso, sia perché ha rappresentato una alternativa alla vita monotona, sia perché ha permesso loro di guardare al futuro con occhi diversi. “Prima non conoscevo la cucina, ora ci passo le giornate tra crostate e ciambelloni. Per il futuro? Vorrei aprire una pizzeria insieme a mio figlio”, ha commentato un partecipante al corso. “Abbiamo messo tanto impegno e crediamo davvero che quello ottenuto oggi sia un certificato spendibile per il nostro futuro - ha aggiunto un collega - Grazie per averci dato la possibilità di rimetterci in gioco per una nuova vita e di capire l’errore che ci ha portati qui dentro, per ripartire. Grazie alle psicologhe e ai professori che ci hanno fatto sentire a nostro agio, offrendoci quella spinta che ci serviva per tornare a credere in noi stessi. Non vedo l’ora di uscire e cucinare per la mia famiglia”. “A 50 anni ho avuto una lezione di vita: è proprio vero che non si smette mai di imparare - ha aggiunto un terzo studente - Grazie a tutti coloro che ci hanno permesso di fare questa esperienza”. Nuoro: scatta l’ora X per la nomina del Garante dei detenuti di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 25 gennaio 2019 Il sindaco Soddu convoca per questa mattina la commissione dei capigruppo Il presidente nazionale Palma: “Vacante da un anno, subito l’incarico”. Un anno di vuoto e silenzio totali. Un lungo impasse politico. Un’estenuante attesa che soltanto stamattina avrà finalmente la sua soluzione. È ormai da dodici mesi, infatti, che il carcere di Badu e Carros è senza il Garante dei detenuti, riferimento certo e affidabile che fa da ponte tra il penitenziario e la società esterna. È dal 14 febbraio 2018 che Gianfranco Oppo è decaduto dall’incarico: il suo mandato aveva avuto già due proroghe (una nel 2017, per un anno; l’altra per un mese nel 2018). Da quel momento nessuno ha più messo piede nel penitenziario barbaricino in qualità di difensore civico dei reclusi. Questa mattina, invece, è molto probabile che il sindaco Andrea Soddu nomini il nuovo Garante. Il primo cittadino, infatti, ha convocato per le 12,30 nel palazzo civico la conferenza dei capigruppo. Giunge così a conclusione un iter burocratico che si è attorcigliato su se stesso, “allungando i tempi per diversi motivi” ha riconosciuto lo stesso sindaco davanti a un recente consiglio comunale. Soddu, infatti, a differenza dei suoi predecessori Alessandro Bianchi e Mario Zidda (che nel 2007 aveva istituito, primo in Sardegna, la figura del Garante comunale) ha evitato di procedere con la nomina diretta, ma ha preferito incaricare una commissione che gli portasse sul tavolo una rosa di tre nomi papabili tra quelli che avrebbero concorso alla manifestazione di interesse. L’ultima parola, infine, spetta solo e soltanto al sindaco. Chiamato in causa, e soprattutto sollecitato, in questi ultimi giorni, da Mauro Palma, presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Interpellato dal consigliere di minoranza Leonardo Moro, che ha sempre seguito in prima persona il caso di Badu e Carros, Palma ha scritto al sindaco chiedendogli di “accelerare la procedura di nomina del Garante locale ormai vacante da quasi un anno”. Un anno di vuoto. Un anno di interruzione dopo undici anni di fila andati lisci senza mai un intoppo (con la staffetta tra Carlo Murgia, il primo garante nuorese, e Gianfranco Oppo). Un anno che ora sarà parecchio difficile recuperare, sia dal punto di vista della fiducia dei detenuti nei confronti del Garante, sia dal punto di vista delle attività svolte e da mettere ancora in cantiere. Un anno, il 2018, conciso tra l’altro con l’aumento della popolazione carceraria presente a Badu e Carros, oggi a quota 220 detenuti, vista l’apertura della nuova sezione di alta sicurezza (che può ospitare fino a 90 detenuti). “La figura del Garante comunale - ha sottolineato non a caso Mauro Palma - è certamente molto importante in una città come Nuoro dotata di un carcere di rilievo che ospita quasi 400 persone”. Quattrocento persone tra detenuti, personale della polizia penitenziaria e personale civile. Un vero e proprio pianeta sociale all’interno della città, in un quartiere, Badu e Carros appunto, che ha ormai inglobato nel perimetro urbano il vecchio super-penitenziario nato in periferia. Venezia: agente Sissy, lettera alla direttrice del carcere “devo riferire di fatti gravi” Il Messaggero, 25 gennaio 2019 Un nuovo elemento potrebbe dare una direzione più precisa alle indagini sulla morte di Maria Teresa Trovato Mazza, per tutti Sissy, l’agente di polizia penitenziaria morta dopo quasi un anno e mezzo di coma in circostanze decisamente misteriose. Sissy Trovato Mazza, infatti, era rimasta gravemente ferita in seguito ad un colpo di pistola alla tempia, esploso in un ascensore dell’ospedale civile di Venezia. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio e ora il papà di Sissy, Salvatore, ha scoperto una lettera scritta dalla figlia che è stata acquisita nel fascicolo delle indagini contro ignoti per induzione al suicidio. Come ha riportato, per primo, Nicola Munaro del Gazzettino, il foglio è scritto a mano, in stampatello, ed è una lettera indirizzata alla direttrice del carcere della Giudecca: “La sottoscritta informa che negli ultimi giorni sono stata avvicinata da molte detenute che hanno raccontato fatti gravi che riguardano le mie colleghe. Essendo la cosa molto delicata, ho cercato di evitare di ascoltarle e ho riferito tutto subito all’ispettore”. La lettera sarebbe stata ritrovata in un cassetto e contiene, al suo interno, il nome dell’ispettore con cui Sissy avrebbe parlato. Fabio Anselmo, legale della famiglia di Sissy, ha confermato l’esistenza della lettera precisando di non sapere se questa è già stata allegata al fascicolo d’indagine aperto contro ignoti per induzione al suicidio dalla Procura di Venezia. Stamane, frattanto, sono stati conferiti gli incarichi ai periti per esaminare il dna rinvenuto sulla pistola che l’agente aveva con sè quando venne ritrovata agonizzante nell’ascensore dell’ospedale lagunare in cui si era recata per seguire una detenuta e il materiale custodito nel suo computer. Come spiega ancora Il Gazzettino, “Sissy, prima di venire trovata in fin di vita in un ascensore stava denunciando una serie di soprusi e di violazioni all’interno della struttura, avevano riferito più testimoni. Gli stessi che dicevano come le parole dell’agente calabrese non fossero però prese troppo in considerazione. Da qui la decisione di mettere tutto nero su bianco? Quello che resta da capire, e che ammanta di altro mistero una storia in cui sono più le ombre delle luci, è come mai quella lettera invece di trovarsi in un cassetto della direzione del penitenziario dell’isola di fronte a Venezia, Sissy l’avesse con sé”. Ascoli: “Scrittori in carcere”, Umberto Piersanti racconta i manicomi criminali cronachepicene.it, 25 gennaio 2019 Il poeta e scrittore urbinate presenterà il bel libro “Anime perse” in un doppio appuntamento previsto per il 26 gennaio; alle 11 presso la Casa Circondariale del Marino, nel pomeriggio da Rinascita, introdotto dai detenuti. Interverrà anche la direttrice del carcere. Un progetto che merita il plauso di tutti, e che da anni prova a tessere un filo tra l’esterno e l’interno, tra la libertà e la paura, tra due mondi che troppo poco si conoscono. Si chiama “Scrittori in carcere” e coinvolge i ragazzi della Casa Circondariale del Marino del Tronto diretta da Lucia Di Feliciantonio negli incontri che riguardano, a turno, nomi di richiamo della letteratura nazionale. Sabato 26 gennaio alle 18 presso la libreria Rinascita (fautrice del progetto), ad esempio, tocca a Umberto Piersanti, poeta e scrittore urbinate che presenterà la sua ultima creazione “Anime perse”, dove si narra di manicomi criminali (oggi chiamati centri di recupero) e delle storie di chi commette reati estremi per follia. “Da dove vengono, cos’è scattato nella loro testa, e cosa pensano ora, come vivono, al riparo dal mondo?” è la domanda che si pone Piersanti. Diciotto squarci di vita illuminanti raccolti da Ferruccio Giovanetti nei centri di recupero del Montefeltro. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con il Lions Club Ascoli Piceno Urbs Turrita; interverranno il presidente Annagrazia Di Nicola e la stessa Di Feliciantonio. Prima, però, la presentazione avverrà anche presso la Casa Circondariale, esattamente alle 11, dove Piersanti incontrerà i detenuti; nel corso del pomeriggio da Rinascita, poi, proprio i detenuti introdurranno l’autore e lo presenteranno al pubblico. Da qui la forza inclusiva di “Scrittori in carcere”, che mette al primo posto cultura (“i libri rendono liberi”), fratellanza e integrazione. Andria: (Bat): “Liberi di Parlare”, progetto di Migrantes dedicato ai detenuti stranieri andriaviva.it, 25 gennaio 2019 Al via lunedì 28 gennaio il nuovo servizio voluto dall’Ufficio Migrantes. Dopo l’avvio del primo corso d’Italiano L2 per donne migranti, lo scorso novembre 2018, prende avvio, lunedì 28 gennaio 2019, il corso d’Italiano L2, per detenuti stranieri, “Liberi di parlare”. Questo nuovo servizio voluto dall’Ufficio Migrantes della Diocesi di Andria è nato grazie alla collaborazione fra l’Ufficio Migrantes, l’Associazione di Volontariato Salah, che opera nel territorio della Bat ed ha come finalità servizi di prossimità e cura rivolti alle persone, attività di promozione e sensibilizzazione dei diritti umani, sociali e civili e la Casa Circondariale di Trani. Un progetto che ha visto una lunga gestazione e grazie al quale ora i detenuti stranieri del carcere di Trani, potranno usufruire di un corso di lingua italiana L2, tenuto da docenti specializzati, in modo da favorire l’inclusione socio-linguistica sia durante il periodo detentivo, che una volta scontata la pena. Durata del servizio-progetto: 60 ore in totale. Lezioni da 2 ore per 2 volte a settimana, per 15 settimane. I detenuti stranieri vivono quello che gli studiosi chiamano “surplus di sofferenza”, ossia un’ulteriore debolezza rispetto agli autoctoni, dovuta alle difficoltà linguistiche che incontrano. Per difficoltà linguistiche intendiamo la faticosa comunicazione con gli agenti, con gli operatori penitenziari, con gli psicologi, con i medici, con detenuti italofoni o di altra lingua, a cui si aggiunge la mancata comprensione dei sistemi normativi, l’ignoranza circa i propri diritti e così via. Per questo motivo, ci siamo sentiti in dovere d’intervenire. Obiettivo generale del progetto è insegnare ai detenuti stranieri l’italiano di base scritto e parlato e con questo, avvicinarli ai nostri costumi e alle nostre regole, spingerli a provare a comprendere una diversa realtà sociale, a instaurare rapporti con detenuti di altra nazionalità, ad assumere un atteggiamento più aperto e collaborativo. Un corso che terrà un occhio puntato sull’aspetto riabilitativo della pena, e che sarà dunque anche orientamento e percorso di conoscenza dell’Italia, sia dal punto di vista linguistico che di educazione alla cittadinanza. La burocrazia dei servizi, del mercato del lavoro e della formazione è il passaggio più difficile per chi, come i migranti, vede nell’Italia una nuova possibilità. Come è noto da tempo, ormai, il nostro l’Ufficio Migrantes, nello spirito di servizio evangelico e umano alle persone, si occupa di accoglienza degli stranieri, presenti sul territorio. Nostro proposito esplicito è affrontare tutte le sfide che presenta il difficile processo d’integrazione dei nuovi arrivati (comunitari ed extra-comunitari), senza lasciar fuori alcuna categoria. In quest’ottica, attraverso la collaborazione con l’associazione “Salah”, abbiamo voluto farci carico di una tipologia particolare come quella degli stranieri detenuti. Come ci ha spiegato Papa Francesco, durante il suo incontro con i carcerati del Regina Coeli qualche mese fa, “la pena senza speranza non è cristiana”. L’obiettivo del nostro impegno in questo caso è solo quello di dare una speranza in più di redenzione a persone. Uno strumento utile a chi, per vari motivi, ha smarrito la retta via. Ferrara: il Meis porta la memoria della Shoah nelle carceri mosaico-cem.it, 25 gennaio 2019 “Ma perché Hitler ce l’aveva così tanto con gli ebrei?”, “Perché lo Stato e la Chiesa non li hanno protetti, visto che erano cittadini italiani?”, ma soprattutto “Perché la storia si ripete?”. In queste domande è racchiusa la profonda partecipazione con cui, nel carcere di Ferrara, una trentina di detenuti ha commentato il film documentario di Ruggero Gabbai “La razzia. Roma, 16 ottobre 1943”, proiettato nella casa circondariale grazie all’iniziativa del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah - Meis. Una vera e propria anteprima, dal momento che la pellicola, prodotta per ricordare i 75 anni dal rastrellamento nel ghetto della capitale e gli 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziste, andrà in onda su Rai Uno domenica 27 gennaio, per il Giorno della Memoria, dopo essere stata in concorso all’ultimo Festival del Cinema di Roma. “Far vedere questo lavoro - ha introdotto Simonetta Della Seta, Direttore del Meis - ha un grande valore. Significa mostrare che cosa succede a una persona quando viene privata della sua libertà, della sua dignità. E l’incontro di oggi è per noi particolarmente significativo non solo perché il nostro Museo entra in una realtà così isolata come il carcere, ma anche perché l’edificio che ospita il Meis è stato esso stesso un luogo di reclusione e segregazione, che abbiamo trasformato in uno spazio aperto e di dialogo. Anche qui vogliamo dialogare”. L’anteprima, riservata esclusivamente ai detenuti, è stata realizzata dal Meis con il supporto degli operatori e delle educatrici del penitenziario cittadino. Al termine della proiezione, i carcerati, che si erano iscritti liberamente all’evento ed erano in larga parte musulmani, si sono rivolti al regista Gabbai, allo storico Marcello Pezzetti, autore del film insieme a Liliana Picciotto, e a Della Seta per cercare di comprendere la mostruosità degli eventi che “La razzia” documenta. Una raffica di domande che hanno fatto emergere quanto i contenuti della Memoria parlino anche a persone solo apparentemente distanti dal tema. Al punto che è stato proposto al Meis di organizzare altri incontri. Con “La razzia”, Gabbai ripercorre una delle pagine più tragiche della storia italiana attraverso le voci di chi l’ha vissuta. Quasi trenta i testimoni diretti coinvolti: alcuni intervistati venticinque anni fa, nell’ambito del progetto dell’Archivio della Memoria del Cdec (Fondazione Centro Di Documentazione Ebraica Contemporanea), e gli altri lo scorso aprile. È il 16 ottobre 1943, quando le forze naziste arrestano a Roma oltre 1.250 ebrei. Le vittime devono preparare le valigie e abbandonare le loro case in pochi minuti. Il 18 ottobre sono condotte alla stazione Tiburtina, ammassate in 28 carri bestiame e deportate nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Solo 16 di loro faranno ritorno. Il film è prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah e da Forma International, in collaborazione con Rai Cinema. Firenze: Arte a Sollicciano, il progetto a cura di Collettivo Fx e Nemo’s gonews.it, 25 gennaio 2019 Dopo aver lavorato nella Casa circondariale di Ariano Irpino, nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi e nella sezione Vega e nella sezione Andromeda della Casa circondariale di Rimini, il gruppo di “Non me la racconti giusta” ha fatto tappa nella Casa di reclusione di Firenze Sollicciano. Non me la racconti giusta è il progetto nato nel 2016 grazie alla collaborazione tra il magazine di arte e cultura contemporanea ziguline, gli artisti Collettivo Fx e Nemo’s, e il fotografo e videomaker Antonio Sena. L’obiettivo di tutto il progetto è esplorare la realtà carceraria italiana attraverso l’arte e riportare all’esterno impressioni, problematiche e il racconto di cinque giorni in cui gli artisti lavorano a stretto contatto con un gruppo di detenuti con i quali condividono la realizzazione di un murales all’interno delle mura del carcere. I propositi sono molteplici, infatti, Nmlrg vuole aprire una finestra che metta in comunicazione l’ambiente carcerario con l’esterno, alimentando la discussione su giustizia e carcere e coinvolgere i detenuti in un progetto culturale non calato dall’alto ma di cui siano i soli responsabili e i veri e propri project manager, responsabili dell’intero processo creativo. La struttura di Sollicciano è stata progettata seguendo lo schema di un giglio, simbolo di Firenze, il che la rende una struttura poco sicura, dove spostamenti e questioni amministrative diventano ancor più complicate. In questa bolgia di burocrazia, abbiamo lavorato con 12 detenuti della Sezione 13 - Emanuele, Gianluca, Franco, Bala, Luis, Kledian, Christian, Stefano, Renzo, Azfal, Issam - dipingendo all’interno dell’area comune. Il modus operandi è rimasto invariato e, dal brainstorming iniziale, sono emerse problematiche riguardano la burocrazia, un termine riduttivo che descrive bene però l’intero sistema carcerario e che, a Sollicciano, è un problema acuito dal sistema di sicurezza che prevede solo quattro ore al giorno fuori dalle celle, con tutte le piccole e grandi difficoltà quotidiane che ne derivano. Questo, insieme a una lettura individuale della situazione attuale di ognuno di loro, ha dato vita a due progetti paralleli. Da un lato, un simbolo di ciò che va cambiato nel carcere e nella propria vita e dall’altro un manifesto di denuncia contro la pressante burocrazia che rende invivibile la quotidianità tra quelle mura. Sul primo muro si trovano quattro telecomandi, in cui ogni tasto ha una forte valenza identificando in ogni parola l’assenza di qualcosa o la necessità di modificarne l’intensità. Cambiare, aumentare, diminuire, ripetere, sono tutti comandi importanti se legati, per esempio, al coraggio, alla pazienza, alla giustizia, alla tristezza. Sull’altra parete, un’imponente mano/timbro indica/giudica un uomo bloccato su un’altissima pila di documenti, pronta a marchiare una “domandina” (i moduli che i detenuti utilizzano per qualsiasi tipo di richiesta all’amministrazione) con un solenne “attendere”, a testimonianza della lentezza della burocrazia che opprime pesantemente il sistema carcerario. A Sollicciano finora, abbiamo riscontrato la partecipazione intellettuale più forte, il che probabilmente deriva dalla mancanza di qualsiasi tipo di attività ricreativa, escluso lo sport a cui possono accedere diverse volte a settimana. Il gruppo ha lavorato con molto entusiasmo, con interesse verso la forma d’arte proposta e verso i contenuti, e con complicità e collaborazione tra di loro e con noi. Il brainstorming finale ha evidenziato la voglia di mettersi alla prova e di potersi esprimere in altri progetti, mostrando anche la volontà di auto organizzarsi e proporre idee all’amministrazione nella speranza di alleviare la dura routine nella sezione. Lavorare in una sezione protetta ci ha offerto nuovi spunti di riflessione e dato vita a ulteriori visioni sul carcere e su come rappresenti un sistema complesso con enormi difficoltà nella gestione di un luogo così lontano e così vicino al mondo esterno. Alla quinta esperienza continuiamo a trovare lampante che l’opinione pubblica consideri ancora il carcere un problema lontano, ignorando o sottovalutando quanto sia una questione che ci riguarda da vicino sia dal punto di vista sociale che economico. Attraverso la diffusione del materiale prodotto all’interno del carcere e del racconto della nostra esperienza, stiamo cercando di abbattere il “muro” di pregiudizi e alimentare la discussione sull’argomento, nella speranza che possa contribuire nella costruzione di un sistema più efficiente e umano. “Malaspina”, il giallo mozzafiato scritto dai detenuti del Don Bosco di Pisa di Sara Ficocelli La Repubblica, 25 gennaio 2019 Terza tappa del corso di scrittura che da quattro anni MdS tiene all’interno della c+Casa circondariale. I diritti d’autore devoluti a iniziative di reinserimento in società dei reclusi. I romanzi sul carcere, di solito, parlano di libertà. Ma oltre la dicotomia tra vita in gabbia e possibilità di scelta, la ragione più seria e profonda che spesso spinge i detenuti a dedicarsi alla scrittura è il bisogno di esprimersi, di dare e ricevere amore, perché i cuori che battono dietro le sbarre fanno più rumore e vanno più veloci degli altri, affamati di tutto e pronti ad accogliere chi, come loro, ha sbagliato. Un giallo pisano. “Malaspina” (MdS Editore), romanzo curato da Michele Bulzomì e Antonia Casini e scritto a dieci mani da otto detenuti del carcere Don Bosco di Pisa, racconta questa fame di vita e di ascolto proponendo al lettore un viaggio nell’intimità di chi una vita privata non l’ha più, passando dai ricordi della famiglia a quelli del partner, fino alla presa di coscienza sofferta e dovuta di un percorso che per qualche ragione, da qualche parte, un giorno si è inceppato. Da dove ripartire? È questa la domanda alla quale i protagonisti cercano di rispondere in prima persona, guidati da due insegnanti attraverso la trama di un giallo tutto pisano, fortemente identitario e dal sapore agrodolce. La storia è semplice ma mozzafiato: tutto comincia con un articolo di giornale che denuncia la sparizione nella chiesa della Spina. Il mistero si snoda pagina dopo pagina coinvolgendo e legando chi è dentro a chi è fuori dal carcere. Voci di anime recluse, sospese, che faticano a sentirsi parte della città: eppure è proprio con essa che le voci narranti fanno i conti, tanto che il rapporto viscerale tra gli autori e Pisa si percepisce a partire dal titolo - “Malaspina”, richiamo a uno dei più famosi cognomi di famiglie italiane storiche e intricate, che subito rimanda alla splendida chiesa gotica di Santa Maria della Spina, che affaccia sui Lungarni. Il corso di scrittura. Il romanzo rappresenta la terza tappa di un progetto ambizioso e fin qui pienamente riuscito, ovvero il corso di scrittura che da quattro anni la casa editrice pisana tiene all’interno della casa circondariale Don Bosco. “In questi anni abbiamo ascoltato tante storie, ci siamo commossi e arrabbiati. Alcuni dei nostri studenti hanno trovato la morte, qualcuno - pochi, per fortuna - è tornato a delinquere, e c’è stato anche chi ha abbandonato tutto, le conquiste fatte, approfittando della libertà appena conquistata. Ma quelli che lottano per riacquistare un posto nel mondo sono tanti. E anche se uno solo ci riesce per noi è un piccolo miracolo”, commentano i due giornalisti curatori del romanzo. “Il più delle volte ci ritroviamo, dopo il lavoro, a dover scaldare una pentola per poterci togliere da dosso quella puzza di fatica e di stanchezza che ogni sera ci portiamo dietro. Un tegame pieno d’acqua, intiepidito su un fornello comprato nel magazzino a nostra disposizione: le docce non funzionano e spesso sono talmente gelate da toglierci il fiato”, scrive Andrea, uno degli autori. A introdurre “Malaspina” sono le parole dell’ex direttore del carcere pisano Fabio Prestopino, ora a Sollicciano, e dell’attuale direttore Francesco Ruello. Il progetto è stato realizzato con i patrocini di Comune, Camera penale e consiglio dell’ordine degli avvocati di Pisa. I diritti d’autore sono interamente destinati a progetti di reinserimento dei detenuti in società. L’esilio sistematico dell’umanità “in eccesso” di Claudio Vercelli Il Manifesto, 25 gennaio 2019 Giorno della Memoria. Una riflessione che interroga il passato per rivolgersi al presente, intorno ai concetti di inclusione ed esclusione. Quando i fantasmi dell’invasione rendono una parte di individui senza patria. Utilità e razionalità ma anche legittimità e, soprattutto, necessità sono termini che si accompagnano alla storia del campi di concentramento, così come allo sterminio di massa. Alla logica concentrazionaria, infatti, si lega non un difetto di norme bensì una loro produzione nell’ottica dell’”eccezione”. Laddove è condizione di eccezione quella in cui vige un diritto che si presenta come “rivoluzionario”, ossia capace di dare delle risposte innovative, dirette, immediate e quindi rassicuranti, a domande impellenti, inderogabili che altrimenti rischierebbero di rimanere inevase, lasciate a sé, senza una contropartita adeguata. Lo stato di eccezione, più volte richiamato nel Novecento, è quello in cui l’area della indeterminatezza, il senso dell’insicurezza, il timore di una minaccia incombente, si risolvono nel reclamo collettivo, rivolto alla politica, di una condizione supplementare di protezione. La quale trascina con se stessa l’identificazione di qualcosa e di qualcuno da interdire, da espellere dall’ambito delle relazioni sociali. Quindi da circoscrivere, da isolare, eventualmente da annientare. Il campo di concentramento, in quanto istituzione totale, ne deriva come una sorta di necessaria conseguenza. Si presenta come un ovvio completamento della trasformazione in atto, poiché imprigionando quei soggetti che sono identificati e stigmatizzati, di volta in volta, come minaccia nei confronti di un ordine costituito, diventa l’istituzione che, distruggendo le minoranze, garantisce la continuità della maggioranza. Nel campo sono imprigionati quanti - individui o gruppi - vengono considerati figure “dubbie”. Tali non perché abbiano necessariamente fatto qualcosa ma in quanto sospettati, per il fatto stesso di esistere, di potere alterare gli equilibri, presenti e a venire, della società, intesa come corpo biologico compatto e organico. La loro colpevolezza, in questo caso, sta in un’esistenza che diventa di per sé stessa indice di una identità criminale. Trattamento preventivo (come se si trattasse di una misura di igiene e profilassi pubblica), reclusione extragiudiziaria, misure straordinarie di prigionia, invenzione di una legalità “creativa” sottratta alla sfera del diritto ordinario, segretezza ma anche classificazione e divisione della popolazione tra gruppi pericolosi e modelli ideali - aderenti a un’unica, possibile tipologia di normalità, quest’ultima imposta ossessivamente come esclusivo criterio di riferimento - sono cose che si tengono insieme, alimentandosi e rafforzandosi vicendevolmente. Si conferma così il dato per cui nella politica contemporanea chi domina lo spazio dell’altrui incertezza esercita un potere tendenzialmente insindacabile, poiché assume le vesti di colui che rassicura, dà protezione, lenisce le paure, dispensa un orizzonte di futuro. Alla questione dei campi si ricollega, in immediato riflesso, il tema dell’eliminazione fisica degli indesiderati, pochi o molti che siano. L’elemento fondamentale, in questo caso è dato dal nesso, indissolubile nell’età della “nazionalizzazione delle masse”, tra politiche di Stato, consenso generalizzato e bisogno di rassicurazione. Se il moderno Stato turco nasce disintegrando la comunità armena, così la società internazionale nell’età della globalizzazione, nel mentre erode le frontiere, costruisce nuovi muri e luoghi di detenzione extra-giudiziaria, sospendendo i diritti elementari e rinnovando l’apolidia come condizione permanente di una parte dell’umanità. Per l’appunto, quella che viene dichiarata in eccesso. Tra esilio sistematico, imprigionamento senza diritti e morte in massa c’è quindi un nesso molto forte, che non si esaurisce nel passato. Detto per inciso: non si tratta di stabilire improbabili equivalenze tra ciò che è stato ed il presente, pretendendo che quel che oggi accade sia la ripetizione pedissequa di quanto è già avvenuto. Semmai si tratta di ragionare su come certi aspetti dei trascorsi si ripresentino all’interno di società di massa, dove gli imperativi alla soggettività, alla valorizzazione delle individualità coesistono con il rimando all’uniformazione, all’omogeneizzazione più spinta, alla visione dell’alterità in quanto alterazione e, quindi, come potenziale minaccia. Alla quale contrapporre la “sicurezza” che deriverebbe della protezione di uno Stato che si assume il diritto assoluto e primitivo di determinare chi può integrarsi e chi, invece, merita di essere espulso dal consesso civile. E qui torna un’altra questione di fondo, quella del destino delle “non persone”. Le quali sono tali perché prive di diritti, primo tra tutti quello di vedersi riconosciuta una terra di appartenenza. La vicenda dell’esclusione sociale, delle persecuzioni e, infine, dello sterminio dell’ebraismo europeo diventa allora paradigmatica poiché raccoglie in sé tutti questi fenomeni, articolandoli in una successione tanto brutale ed efferata quanto consequenziale. Ripercorrerla, pertanto, è utile proprio perché ci permette di leggere, in controluce, le dinamiche che, sia pure in forme differenti o discontinue, si sono ripetute in altri tempi. C’è un ulteriore nesso da mettere in evidenza, ed è quello che istituisce il trinomio tra fughe, o spostamenti forzati di popolazioni, migrazioni di massa e definizione dei confini all’interno del moderno sistema degli Stati nazionali, quello che va determinandosi tra il XVIII e il XX secolo, a fronte della crisi e poi della scomparsa degli Imperi multinazionali. Se la storia è attraversata, a volte quasi lacerata, dalle grandi migrazioni, non di meno il circuito degli Stati nazionali novecenteschi, soprattutto con la fine della Prima guerra mondiale e l’assestamento dei processi coloniali, sempre più spesso si definisce in contrapposizione alla persistenza di un grande numero di non aventi patria. Non è un fenomeno collaterale, quest’ultimo, perché chi è incluso - il “cittadino”, nell’accezione giuridica e politica novecentesca che si dà al termine - viene identificato in base al suo reciproco inverso, lo straniero. È straniero è colui che, attraversando i confini, ne minaccia la loro persistenza. Così facendo, pregiudica, per il fatto stesso di esistere, la coesione e la pace sociale. Il fantasma dell’invasione prende in tale modo corpo. Dà sostanza alle politiche di difesa, ovvero alla necessità di dotarsi di strumenti non ordinari, non abituali, come risposta al pericolo che è insito in ciò che è estraneo. L’ebreo è lo straniero per eccellenza, non solo perché porta con sé un’alterità secolare ma anche una minaccia di alterazione nei confronti del corpo sociale. Un ulteriore elemento da richiamare è quello che impone di pensare criticamente allo stato di cose e di relazioni che da due secoli è conosciuto come “nazione”. In questo caso soprattutto nei termini che rinviano ad un corpo collettivo fragile, dai tratti sfuggenti, nel quale si rispecchiano anche le paure di quanti ne sono parte. La nazione, per continuare ad esistere, in un mondo di stranieri potenzialmente pericolosi, deve liberarsi di tutti gli elementi perturbanti. In un’opera di purificazione permanente, senza la quale rischia di perdersi. Nazione e confine interagiscono ossessivamente, come dimensione materiale (la limitazione giuridica del territorio sul quale si esercita la giurisdizione della legge) e simbolica (lo spazio mentale nel quale ci si pensa omologhi, ovvero uguali se non identici). Di qui al discorso sulla purezza etno-razziale, quest’ultima intesa come mezzo per gerarchizzare la comunità nazionale, il passo può rivelarsi molto breve. Coesione e progresso sociale diventano così sinonimo di evoluzione tramite selezione. Nell’età contemporanea, all’interno di questa triste filosofia della storia e delle relazioni umane, la perversa saldatura tra campi e omicidi di massa è quindi istituita dal problema per eccellenza in un mondo fatto di Stati e abitato da nazioni, ossia la presenza di profughi che diventano apolidi. I campi di annientamento, come istituzioni peculiari della modernità, vanno quindi collocati in questa dimensione logica e cronologica. Non sono una patologia della modernità politica ma una sua possibile e plausibile evoluzione dal momento che essa dichiara l’esistenza di condizioni di eccezionalità, per le quali occorre porre rimedio adottando misure non abituali, ovvero creando un “diritto” esclusivo che deroga dai diritti umani. Egitto. Le pistole fumanti di al-Sisi? Gliele vendiamo noi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 gennaio 2019 Secondo un rapporto Ue, nel 2017 Roma ha autorizzato la vendita di 7,5 milioni di euro in armi al Cairo e ne ha esportate 17,7 milioni. Nuovo boom nel 2018. A metà gennaio al Copasir il procuratore Pignatone ha denunciato lo stallo nelle indagini su Regeni. Ma ci sono i primi nomi. Lo scorso agosto, in veste di ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio volava al Cairo (terzo di una sfilza, dopo i ministri Moavero Milanesi e Salvini). Con al-Sisi ha discusso dello sviluppo dei rapporti commerciali ed economici tra i due paesi del Mediterraneo. Sono oltre 150 le aziende italiane attive al Cairo e l’interscambio nel 2017 ha toccato quota 4,7 miliardi di euro (+2,5% rispetto al 2016) che fanno di Roma il quinto esportatore in Egitto e il secondo importatore. In attesa dei dati del 2018, ad agosto Di Maio aveva individuato il target: superare i 5 miliardi, soprattutto in vista della crescita demografica egiziana e dell’avvio delle estrazioni di gas naturale da parte dell’Eni nel mega giacimento sottomarino di Zohr. Tra i più assidui frequentatori del palazzo presidenziale egiziano c’è Claudio Descalzi, ad Eni e punta di lancia del business che avanza compatto. In tale contesto, la verità sull’omicidio di Giulio Regeni è d’intralcio. Per tutti e tre i governi dal 2016 a oggi. Lo dice la Relazione europea sull’export di armamenti, pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Ue il 14 dicembre scorso: nel 2017 Roma ha autorizzato l’esportazione in Egitto di 7.538.209 euro in armi mentre le aziende con licenza hanno esportato 17.764.174 euro in forniture militari. “Sia il governo precedente che l’attuale - ci spiega Giorgio Beretta dell’Osservatorio sulle Armi Opal di Brescia - hanno continuato a fornire armi al regime di al-Sisi anche dopo l’omicidio di Giulio Regeni. Dalla Relazione Ue risulta che nel 2017 il governo Gentiloni ha autorizzato l’esportazione all’Egitto di armi leggere, agenti chimici e antisommossa e apparecchiature elettroniche”. Nello specifico le licenze di export hanno riguardato armi ad anima liscia (38.674 euro), munizioni per armi leggere (3.599.536 euro), bombe, missili e siluri (18.250 euro), agenti chimici, biologici e antisommossa (2.848.921 euro) e apparecchiature elettroniche e spaziali (852.828 euro). “Sempre nel 2017 il governo Gentiloni ha permesso forniture di materiali militari all’Egitto per 17.764.174 euro - continua Beretta - superando ampiamente le esportazioni negli anni precedenti all’omicidio Regeni. L’attuale governo Conte non ha interrotto queste forniture”. Lo dicono i dati Istat: nel mese di luglio 2018 si è registrato il boom, quasi 2 milioni di euro di armi vendute da aziende italiane all’Egitto. Ora andrà seguito il probabile incremento dopo la fiera dedicata alla produzione militare che New Cairo ha ospitato tra il 3 e il 5 dicembre: sponsorizzata da esercito egiziano e presidenza della Repubblica, la Expo Defence Egypt ha visto la partecipazione di oltre 300 espositori, tra cui le italiane Beretta, Fincantieri, G&G, Iveco, Leonardo (che ha già firmato un contratto per fornire radar per la difesa), Telegi, Tesylab. Un intreccio insano che fa il paio con le parole che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha affidato dieci giorni fa al Copasir: a tre anni dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, la situazione investigativa è a un punto morto. L’Italia ha fatto tutto il possibile, ha aggiunto il capo degli investigatori della Procura di Roma, ma l’Egitto non collabora. Nulla di nuovo, Piazzale Clodio lo ripete da anni, indefesso come indefesso è stato finora il lavoro per giungere alla verità. L’omicidio - barbaro, inimmaginabile - di Giulio è questo. Un ripetersi di frasi, dichiarazioni, prese di posizioni. Granitiche nonostante le indagini abbiano dato un nome ad alcuni dei suoi aguzzini e nonostante i palesi depistaggi egiziani. Ogni attore ripete la sua lezioncina: il governo italiano (qualunque esso sia) continua a considerare Il Cairo del golpista al-Sisi, il più brutale e disfunzionale regime che l’Egitto moderno abbia avuto, “partner ineludibile” (l’ex ministro degli Esteri alfano) o “partner speciale” (l’attuale vicepremier Di Maio). Il Cairo ripete che quello di Giulio è “un caso isolato”, che le autorità politiche e giudiziarie egiziane sono impegnate al massimo nella ricerca della verità e che comunque è tutto un complotto di agenti stranieri (o erano i Fratelli Musulmani?) per minare gli storici rapporti tra i due paesi. Ma c’è un terzo attore, questo davvero ineludibile. Anche questo ribadisce, dal 3 febbraio 2016, quando il corpo di Regeni fu ritrovato, identica posizione. È quella parte di Italia che vuole verità e giustizia. La famiglia di Giulio, le associazioni per i diritti umani, i cittadini, le piazze dei comuni colorate di “giallo-Giulio”. E poi la Procura di Roma che è riuscita per quanto possibile a svicolare gli insabbiamenti del regime e a mettere nero su bianco almeno cinque dei 20 (forse 40) funzionari di polizia e servizi segreti coinvolti nel sequestro, la tortura e l’uccisione del giovane ricercatore. Sono i vertici della National Security Agency, la temibile agenzia di intelligence che ogni egiziano conosce e che nemmeno Tahrir è riuscita a seppellire. Turchia. 50 Premi Nobel firmano per Ocalan e Leyla Guven di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 25 gennaio 2019 “Il governo turco sta violando pesantemente i suoi impegni internazionali ed europei in materia di diritti umani; deve immediatamente porre fine alla prassi dell’isolamento carcerario, permettendo così ai detenuti in sciopero della fame di sospendere la loro azione solidale di lotta”. Con queste parole il premio Nobel per la Pace Adolfo Perez Esquivel - argentino ed ex prigioniero politico - aveva spiegato la sua adesione all’appello sottoscritto da 50 premi Nobel per la fine dell’isolamento per il leader curdo Ocalan. Fossero stati ancora in vita, avrebbero sicuramente firmato anche Arafat e Mandela (ma dal Sudafrica abbiamo il vescovo Desmond Tutu e F. W. De Klerk, il presidente bianco - successore del famigerato Botha - che contribuì alla fuoriuscita dall’apartheid). Tra i 50 Nobel firmatari non potevano infatti mancare quelli per la Pace (o almeno alcuni, Obama per esempio non c’è). Oltre ai già citati Perez Esquivel, Tutu e De Klerk, troviamo la fondatrice di International Campaign to Band Landmines Jody Williams, l’indipendentista ed ex presidente di Timor-est José Ramos-Horta, le pacifiste Leymah Gbowee (liberiana), Betty Williams e Mairead Corrigan Maguire (irlandesi), l’ex presidente del Costarica Oscar Arias e l’avvocato iraniano Shirin Ebadi. Gli altri (50 in totale) che hanno sottoscritto l’appello sono Nobel per la letteratura, l’economia, la chimica, la medicina, la fisica. Sicuramente allertati dalla drammatica situazione in cui versa Leyla Guven - la militante femminista curda detenuta a Diyarbakir, ormai all’ottantesimo giorno di sciopero della fame - hanno lanciato una precisa richiesta al governo turco: mettere fine all’isolamento di Abdullah Ocalan e di tutti gli altri prigionieri politici. Nel loro comunicato chiedono “alle istituzioni internazionali ed europee competenti - compresi il Consiglio d’Europa, l’Ocse, l’Unione europea e il Comitato per la prevenzione della tortura - di compiere il loro dovere esercitando pressioni nei confronti della Turchia per il rispetto dei diritti umani dei detenuti. Mentre centinaia di prigionieri, esponenti politici, militanti e simpatizzanti curdi sono in sciopero della fame da settimane - non solo in Turchia - e mentre si avvicina il 20° anniversario del sequestro di Ocalan e dell’inizio della sua lunga detenzione, il governo turco mostra ancora - e sfacciatamente - di non voler rispettare quelle norme elementari - peraltro sottoscritte - che tutelano la vita, la salute e la dignità dei prigionieri. Con la loro iniziativa i 50 premi Nobel hanno voluto aggiungere il proprio nome all’Appello internazionale per la fine dell’isolamento di Abdullah Ocalan e di tutti i prigionieri politici in Turchia pubblicato il 12 gennaio 2019. Da segnalare che in febbraio è prevista una delegazione internazionale in Turchia per incontrare sia Ocalan che Leyla Guven. Sempre che Erdogan lo consenta, naturalmente. La svolta dell’Angola: l’omosessualità non è più reato di Francesco Olivo La Stampa, 25 gennaio 2019 Il governo cancella dal codice penale i “vizi contro natura”. Ma in Africa le persecuzioni continuano. Li chiamavano vizi contro natura, ma il governo ha detto basta: in Angola l’omosessualità non è più un reato. L’esecutivo di Luanda ha cancellato dal codice penale la norma che vietava tutti i comportamenti omosessuali definendoli, appunto “vizi contro natura”. La notizia è stata diffusa dall’organizzazione Human Rights Watch(Hrw), secondo cui il reato derivava ancora dalla colonizzazione portoghese. Il primo passo nella battaglia sui diritti sociali era arrivata nel luglio scorso, quando un’associazione angolana Lgbt era stata dichiarata per la prima volta legale. “Il Governo - aggiunge l’organizzazione - ha inoltre vietato ogni discriminazione basata sull’orientamento sessuale prevedendo che chiunque si rifiuti di dare lavoro o di fornire servizi a causa dell’orientamento sessuale della persona sarà punito con il carcere”, Da molti anni la comunità Lgbt dell’Angola si batte contro le discriminazioni sessuali nel Paese definite vestigia arcaiche, ma solo nel giugno scorso è arrivato un primo segnale positivo da parte del presidente Joao Lourenco che ha riconosciuto ufficialmente un’associazione per la difesa dei diritti omosessuali. “Ora - dichiara Hrw - bisogna battersi perché anche gli altri 69 paesi nel mondo in cui le relazioni omosessuali sono criminalizzate seguano l’esempio dell’Angola”. In Africa le persecuzioni contro gli omosessuali sono all’ordine del giorno. L’ultime denunce sono arrivate dalla Tanzania, dove il governatore della provincia di Dar es Salaam, Paul Makonda ha dato, lo scorso novembre, il via libera a una sorta di caccia alle streghe, con squadre speciali dedicate a individuare sui social network presunti gay da mandare in carcere. Una settimana dopo l’annuncio nell’isola di Zanzibar dieci uomini sono stati arrestati con l’accusa di voler organizzare un matrimonio in spiaggia. L’Unione europea ha protestato con il governo della Tanzania e la Danimarca ha deciso di congelare gli aiuti verso il Paese africano.