Dal carcere risposte umane, no alla linea della vendetta di Agnese Moro La Stampa, 24 gennaio 2019 Mi ricordo che tanti anni fa, mentre discutevamo della legge sul divorzio, allora sottoposta a referendum, mio padre Aldo - da buon giurista - ebbe modo di spiegarmi che una legge non contiene solo delle norme, ma definisce anche che cosa vogliamo essere come Paese, come società e come persone. Non l’ho mai dimenticato. E mi torna in mente in maniera particolarmente viva quando sento discutere del nostro sistema penale e dei principi che debbono reggerlo. Si fronteggiano sostanzialmente due visioni. Una prima sostiene che chi ha compiuto errori gravi o gravissimi - tra i quali, ovviamente, primeggia l’omicidio - devono essere puniti con una sofferenza eterna, in qualche modo proporzionale all’irrimediabilità dell’atto compiuto. Anche perché, secondo questo modo di vedere, se si è stati cattivi una volta lo si sarà per sempre, senza possibilità di cambiare, di ritornare in sé, di comprendere i propri errori e di non commetterli più. Un secondo punto di vista - che è quello scelto da coloro che pensarono e scrissero la Costituzione, e da mio padre tra essi - chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia. Questo secondo modo di vedere le cose scommette sul fatto che le persone possono e spesso vogliono cambiare, e che lo fanno molto di più di quello che noi pensiamo. Ho avuto molte occasioni per constatarlo personalmente, non solo attraverso il dialogo serrato con alcuni di coloro che allora furono protagonisti della lotta armata, ma anche con chi si è macchiato di altri tipi di delitti, incontrati in prigione o fuori. Nei loro racconti non è il carcere duro, la repressione, l’isolamento ad aiutare una profonda riflessione, ma piuttosto l’essere stati riconosciuti da qualcuno (un cappellano, un volontario, una vittima, un operatore) come esseri umani. E, quindi, in qualche modo, comunque simili e fratelli. Chi ci governa e chi fa le leggi deve dirci chiaramente che cosa ci sta proponendo e quali saranno le conseguenze. Se prevalesse la linea vendicativa non saremmo “solo” fuori dalla nostra Costituzione, ma moltiplicheremmo anche la forza di quella catena del male che parte da ogni gesto di violenza - privato o pubblico che sia - e che si allarga e si rinforza continuamente. Senza cambiare né le persone, né le situazioni, e senza placare in alcun modo l’amarezza e la rabbia delle vittime con le quali troppo spesso ci si fa scudo. Per quanto mi riguarda mi auguro che sceglieremo sempre lo sforzo, personale e collettivo, di non moltiplicare, ma piuttosto di spezzare la catena del male. Con una risposta seriamente umana, che aiuti davvero chi ha sbagliato a tornate tra noi. Sperando di non perderne nessuno. Agnese Moro e Cesare Battisti di Mario Iannucci* Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2019 Alcuni giorni or sono Agnese Moro, la figlia del famoso statista, su La Stampa ha pubblicato un articolo nel quale, come fa di solito, segnalava la contrapposizione fra due “visioni” della pena detentiva. La prima visione è quella vendicativa, la seconda è quella rieducativa (per dirla con l’art. 27 della Costituzione). La seconda visione, condivisa secondo Agnese da suo padre Aldo, sarebbe quella “giusta”. Debbo premettere, per non essere frainteso in quello che dirò, che essendo medico e avendo esercitato la mia professione per quattro decenni anche a favore dei detenuti, non posso che sostenere per la funzione “medicinale” della pena, mitigando quella “retributiva”. Mi batterò sempre contro la pena di morte e persino contro l’ergastolo. E tuttavia mi batterò anche, strenuamente, contro ogni ipocrisia. Qualche tempo addietro il giornale cattolico Avvenire ci ha informati di un incontro che ha avuto luogo in uno scenario “sacro”, l’altare della Cattedrale di Sant’Agata dei Goti, nel Beneventano. L’incontro è quello tra Agnese Moro e Adriana Faranda. Adriana Faranda faceva parte delle Brigate Rosse e, in particolare, del commando che uccise Aldo Moro e gli uomini della sua scorta. Nell’articolo dell’Avvenire si parlava della “forza di uscire dalla prigione del rancore”. Se ne parlava come di un atteggiamento reciproco e persino simmetrico, come di due donne che “hanno trovato il coraggio di scavare dentro se stesse per estirpare l’antico rancore che le accomunava e le divideva”. Adriana Faranda e Agnese Moro ci viene raccontato che sedevano, una accanto all’altra, su quell’altare, “come due vecchie amiche”, in un clima pervaso di sacralità. Ora Agnese Moro torna a sottolineare il valore delle “risposte umane” che lo Stato è bene che dia a coloro che delinquono, uscendo da un’ottica vendicativa. Io non credo che sia un caso che lo faccia all’indomani della cattura, in Colombia, di Cesare Battisti. Cattura cui hanno fatto seguito, in questo nostro Paese piuttosto impoverito, commenti dismetrici proprio delle Istituzioni che dovrebbero avere maggiore “misura” nel reprimere, nel controllare, nel giudicare (ricordiamoci della bilancia, simbolo della Giustizia). Un avvicinamento tra Cesare Battisti e Adriana Faranda, in ogni caso, a me appare assolutamente indebito. Adriana Faranda è stata catturata e portata in carcere. In carcere si è dissociata dalla lotta armata e spero che, nel suo cuore e nella sua mente, abbia sofferto utilmente la pena del pentimento (teshuvà la chiamano gli ebrei, un pentimento che è un ritorno: quella di Manasse, per intenderci). Non conosco Cesare Battisti e non so dire se egli si sia pentito delle uccisioni per le quali è stato condannato, qui in Italia, a quattro ergastoli. So per certo, in ogni caso, che ritengo del tutto lecito, per i familiari delle vittime di Cesare Battisti, ottenere che chi ha loro causato tanto gratuito dolore sconti una pena giusta. Se fossi il responsabile delle Istituzioni che hanno consentito la cattura di un criminale, non vorrei certo che egli marcisse in galera, né esibirei quella persona come un trofeo. Nemmeno pretenderei, però, che i familiari delle vittime non gioissero per la sua cattura. Sono pochi coloro che riescono a dominare la legge del taglione che impera sul nostro inconscio. Lo si può chiedere, ad esempio, ai familiari delle vittime di Anders Breivik, il giovane squilibrato norvegese che nel 2011 in Norvegia, per un delirio molto simile a quello nazista, uccise 77 giovani e ne ferì circa 200? Lo si può chiedere a questi familiari considerando che Breivik (che nel 2017 ha anche ottenuto di cambiare nome, chiamandosi Fjotolf Hansen) continua a dichiararsi fascista e non si è mai pentito dei delitti compiuti? Qualche giorno addietro ho rivisto un buon film: Lo Stato contro Fritz Bauer. Racconta del Procuratore tedesco che, subito dopo la seconda guerra mondiale, si batté senza tregua e con molti rischi per assicurare alla Giustizia (del suo Paese, se possibile) dei ‘criminali’ nazisti fuggiti all’estero. Riuscì infine a rintracciare anche Adolf Eichmann, il colonnello delle SS responsabile della deportazione e della morte di centinaia di migliaia di ebrei. Eichmann, catturato dal Mossad e portato in Israele, venne quindi processato e condannato a morte in quel Paese. L’ebreo Fritz Bauer, a mio modesto parere, non era animato da spirito vendicativo, ma da sete di giustizia. Come lo erano Pertini, Matteotti, Leone Ginzburg, detenuti e/o morti per difendere le loro idee. Io non mi sento di chiedere alle vittime dei reati e ai loro familiari di ‘perdonarè ad ogni costo i carnefici. Trovo peraltro curioso che Agnese Moro abbia introdotto l’articolo su La Stampa attraverso il ricordo di ciò che suo padre Aldo Moro le disse un giorno, mentre discutevano della legge sul divorzio. Sappiamo tutti che il Referendum sul divorzio, nel 1974, divise l’Italia e fu, per il nostro Paese, un momento storico. Il 12 maggio di quell’anno i no all’abrogazione della legge sommersero coloro che avevano promosso il Referendum, con in prima linea la DC di Fanfani (cui apparteneva anche Moro). Anch’io ricordo quel Referendum attraverso un aneddoto familiare. La nonna Bianca, cristiana e democristiana dal fondo dell’anima, inferma e ormai molto anziana mi chiese di accompagnarla alle urne. Lei, separata dal marito che aveva lasciato la casa molti anni prima, benché l’idea di risposarsi non le fosse mai passata per il capo viste le forti convinzioni religiose, dichiarò di essere fermamente intenzionata a votare per il no in quel referendum: “Non posso e non voglio che sul divorzio si decida per fede religiosa. I non credenti, se lo fanno responsabilmente, debbono poter contrarre un nuovo matrimonio. Anche il mio ex marito lo deve poter fare”. Ero davvero felice e orgoglioso mentre sorreggevo quella gracile, giusta e forte vecchietta andando alle urne quel 12 maggio 1974. Mi chiedo peraltro se avvenga per caso che Agnese Moro, per introdurre delle considerazioni sulla inopportunità di una visione vendicativa (che io ritengo umana, troppo umana, con lo Stato e le Istituzioni che è bene che si “interpongano”), usi proprio il ricordo della legge sul divorzio e la sconfitta di Amintore Fanfani. A pensar male, avrebbe detto la nonna Bianca, si casca sempre in piedi. *Psichiatra psicoanalista, Esperto di Salute Mentale applicata al Diritto Sovraffollamento carceri, Bonafede: “È drammatico”. Straniero un detenuto su 3 di Natalia Delfino Il Secolo d’Italia, 24 gennaio 2019 È “drammatica” la situazione delle carceri nel nostro Paese. A dirlo è stato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, tenendo la relazione al Senato sull’amministrazione della Giustizia. Dati alla mano, il guardasigilli ha spiegato che i detenuti negli istituti di pena al 21 gennaio 2019 sono “59.947 a fronte di una capienza di 50.569. A questi numeri si aggiunge il numero di 61 suicidi nel 2018 e 4 suicidi di agenti di polizia penitenziaria. Ci sono stati 3808 eventi critici”. Terrorismo e pianeta carceri - Bonafede ha segnalato “ferimenti, episodi di colluttazione e rivolte in carcere”. E spesso a farne le spese sono gli agenti della penitenziaria, ai quali il ministro ha rivolto un ringraziamento. “Non portano avanti solo una funzione di sicurezza, ma un’opera fondamentale di prevenzione. In questo senso, l’ attività di polizia penitenziaria nel monitoraggio delle situazioni che portano a incrementare le dinamiche di terrorismo è fondamentale”. Da qui, ha aggiunto Bonafede, “la norma che prevede possibilità per la Dna di disporre di pool di 20 agenti di penitenziaria”. Quanto alla questione delle madri detenute, Bonafede ha detto che “il governo si sta impegnando per incrementare le strutture che a livello regionale possano accogliere situazione particolari. Ci siamo già attivati per segnalare automaticamente situazioni del genere”. Più di un detenuto su 3 è straniero - A incidere notevolmente sul fenomeno del sovraffollamento delle carceri, oltre alla carenza di strutture, è la notevolissima presenza di detenuti stranieri. Secondo un rapporto della scorsa estate, infatti, i detenuti non italiani sono il 33,8% del totale, fra i quali quelli non europei sono il 22,9%. In percentuale, le nazionalità più rappresentate, secondo i dati della scorsa estate, sono marocchina (il 18,5 per cento dei detenuti stranieri), rumena (12,9 per cento), albanese (12,7 per cento) e tunisina (10,8 per cento). Si tratta di un quadro sostanzialmente in linea con quello degli anni precedenti, per il quale più volte è stata sollecitata la soluzione dei rimpatri. A ottobre scorso FdI è riuscita a far approvare una risoluzione che impegna il governo a stringere accordi con i Paesi di provenienza per l’esecuzione della pena nei Paesi di provenienza, anche considerando il peso economico dei detenuti sullo Stato italiano: ciascuno costa 137 euro al giorno. Lo stesso Bonafede aveva indicato gli accordi per i rimpatri come strada privilegiata da percorrere e incrementare. Aumentano i suicidi in carcere. La proposta di Antigone fuoriluogo.it, 24 gennaio 2019 L’associazione Antigone lancia una proposta di legge per prevenire i suicidi in carcere. Proposte concrete su affettività, isolamento e telefonate. Nel 2018 sono stati 63 i suicidi nelle carceri italiane. Un numero così alto non si registrava dal 2011, quando furono 66. Erano stati 53 lo scorso anno, 45 nel 2016, e si erano fermati a 43 nel 2015. Vi è una crescita in termini assoluti e percentuali; mentre nel 2015 si è suicidato un detenuto ogni 1200 detenuti presenti, nel 2018 se ne è suicidato uno ogni 950. Il tasso di suicidi nelle persone libere è pari a 6 persone ogni 100mila residenti. In carcere ci si ammazza diciannove volte in più che nella vita libera. Benché i suicidi dipendano da cause personali che non è possibile generalizzare, è facile immaginare come le condizioni di detenzione possano contribuire al compimento di questo atto estremo. “Più cresce il numero dei detenuti - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - più alto è il rischio che essi siano resi anonimi. L’alto numero delle persone recluse aumenta il rischio che nessuno si accorga della loro disperazione, visto che lo staff penitenziario non cresce di pari passo, anzi. I suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie (celle disadorne o controlli estenuanti) che alimentano disperazione e conflitti. Né si prevengono prendendosela con il capro espiatorio di turno (di solito un poliziotto accusato di non sorvegliare il detenuto in modo asfissiante). Va prevenuta la voglia di suicidarsi più che il suicidio in senso materiale”. “La prevenzione dei suicidi - prosegue Gonnella - richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, nonché un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale - sottolinea il presidente di Antigone - si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo”. Per questo Antigone ha presentato ai componenti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica una proposta di legge che punti a rafforzare il sistema delle relazioni affettive, ad aumentate le telefonate, a porre dei limiti di tempo ai detenuti posti in isolamento. “Abbiamo pensato ad un articolato molto breve che, andando a modificare la legge che regola l’ordinamento penitenziario approvata nel 1975, consenta di prevenire i suicidi nelle carceri” conclude Patrizio Gonnella. Corruzione percepita e carceri, l’idea di giustizia di Bonafede di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 gennaio 2019 Il Guardasigilli espone la relazione annuale al Parlamento e fa andare in tilt la Camera. “Ho il dovere di dire sempre la verità. E la verità è che la nostra giustizia è in condizione drammatiche: se dicessi che ho trovato tutte le soluzioni, prenderei in giro gli italiani”. È uno dei pochi momenti in cui il pentastellato Alfonso Bonafede dimentica il permanente obbligo alla campagna elettorale e entra nel ruolo del Guardasigilli che sta esponendo la propria relazione annuale al Parlamento sull’amministrazione della Giustizia nel 2018. Dura poco. “Stiamo rispondendo con i fatti”, afferma, e promette un “tavolo di confronto con magistrati e con avvocati” per mettere a punto “un disegno di legge delega sulla riforma del rito civile che sarà depositato entro la prima metà di febbraio”. Gli avvocati in realtà li ha snobbati alla grande quando protestavano contro il blocco della prescrizione introdotto dopo la sentenza di primo grado, ma il ministro coglie l’occasione per smentire gli allarmi delle Camere penali sugli effetti della sua riforma, bollare il dibattito politico che si è sollevato nei mesi scorsi come “pretestuoso e strumentale”, e annunciare “massicci interventi sulle cause strutturali della irragionevole durata dei processi”. Le opposizioni protestano più volte durante la relazione; alla Camera addirittura scoppia un bailamme quando, durante la replica, il Guardasigilli dimentica di non essere più un aspirante rivoluzionario e si sbilancia troppo nel difendere il provvedimento “spazza-corrotti”: “La corruzione in Italia non ha bisogno di essere raccontata - afferma - perché si vede a occhio nudo e si vede ogni volta che, dopo un terremoto, crolla una scuola o un ospedale. Dietro quel crollo non c’è solo un evento naturale ma si scopre che dietro c’è una mazzetta”. Bonafede si prende un “buffone, buffone!” fino a che il presidente Fico non gli viene in aiuto interrompendo la seduta. Per ben due volte. “C’è un equivoco - si scuserà poi - non era mia intenzione dire che ogni volta che c’è un’opera pubblica, c’è aria di corruzione”. Tra l’intervento al Senato e quello alla Camera, intervistato da Radio Radicale, il ministro Bonafede riesce anche a dirsi completamente d’accordo con le denunce sulle carceri della dirigente radicale Rita Bernardini: “Le faccio mie. Il problema del sovraffollamento e della qualità della vita: sono tutte denunce sacrosante”. E promette progetti che “stanno partendo” e “incontri periodici” di confronto con il Partito radicale. Peccato che Bernardini aveva già partecipato alla riforma dell’ordinamento penitenziario del ministro Orlando buttata a mare completamente dall’attuale governo, e che la ricetta giallo-bruna per combattere il sovraffollamento a base di edilizia penitenziaria è quanto di più distante dall’idea pannelliana di Giustizia. la fotografia scattata da Bonafede parla di una grande mole di procedimenti civili da smaltire: 3.215.989 processi di nuova iscrizione per ogni grado di giudizio al 31 dicembre 2018. Nel penale, il problema è ancora più “preoccupante” ma secondo Bonafede il blocco della prescrizione agirà favorevolmente perché “nel 2017 il 9,4% dei processi si sono estinti per prescrizione a fronte dell’8,7% nel 2016. Nello specifico, i procedimenti prescritti sono stati 125.551, dei quali il 25,8% in grado di appello”. Nelle carceri poi, “la situazione è drammatica: i detenuti sono 59.569 con un indice di sovraffollamento del 127%. I suicidi sono stati 61 nel 2018”. La soluzione? “Al ministero ho costituito una task force sull’edilizia penitenziaria e stiamo cercando di individuare caserme dismesse ed edifici idonei ad essere trasformati in carceri”. Ce ne vorranno molte, però, perché anche le pene sono in aumento. Contro la piaga della corruzione, per esempio: l’Italia, dice Bonafede, “in ambito Ocse, è il Paese con il più alto tasso di corruzione percepita, come emerge da una ricerca curata dall’Eurispes. Tale dato sfiora il 90% e rischia di provocare conseguenze concrete sull’economia nazionale in termini di fiducia nelle istituzioni e nei mercati”. Percepita, appunto. Chissà perché. “L’85% degli italiani è convinto che istituzioni e politici abbiano a che fare con la corruzione”, è il dato che fornisce il ministro grillino. In ogni caso, se “7 cittadini su 10 ritengono inefficiente il sistema giustizia italiano e 15,6 milioni di persone hanno rinunciato a intraprendere un’azione giudiziaria per far valere i proprio diritti”, malgrado “avvocatura e magistratura italiane siano un’eccellenza”, niente paura: il governo “stanzierà oltre 8 miliardi di euro nel bilancio previsionale con un aumento di oltre 320 milioni rispetto a quello precedente”. “Riscriverò il processo con avvocati e giudici” di Errico Novi Il Dubbio, 24 gennaio 2019 Bonafede illustra alle Camere la relazione sulla giustizia: “presto i ddl su civile e penale”. Dialogo e aderenza al “contratto”. Riconoscimenti ampi e ripetuti agli “avvocati e ai magistrati italiani” che rappresentano “un’eccellenza internazionale” ma nello stesso tempo difesa della “nuova” prescrizione, del “daspo” e dell’agente sotto copertura, senza alcun ripensamento sull’addio alla riforma del carcere. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non sorprende, con la sua “Relazione sullo stato della giustizia”. Fa capire che il “dialogo” continuerà a essere il suo metodo, ma anche che sugli obiettivi, in particolare per il processo penale e per le carceri, non cambia nulla. Resta l’idea che alla “situazione drammatica” degli istituti penitenziari si debba rispondere con “investimenti nell’edilizia carceraria” anziché per esempio con la depenalizzazione. Giustizia e sfiducia - Giornata scandita dal doppio impegno, per il guardasigilli: in mattinata il confronto al Senato, nel pomeriggio a Montecitorio, dove le critiche mosse soprattutto dal Pd toccano i toni più aspri. Testo identico, segnato dunque da apprezzamenti continui all’opera del personale amministrativo, della polizia penitenziaria ma soprattutto di avvocati e giudici. Si parte da alcuni dati sulla “sfiducia nel sistema giustizia”. Il 30,7 per cento degli italiani, secondo il rapporto Censis citato da Bonafede, “negli ultimi due anni ha rinunciato a intraprendere un’azione giudiziaria per i costi eccessivi o perché sfiduciato nei confronti della magistratura e del funzionamento della giustizia: 7 italiani su 10 pensano che il sistema non garantisca la tutela dei diritti”. La “crescita della sfiducia è costante” ma è anche “un paradosso, se consideriamo che magistratura e avvocatura italiane sono eccellenze a livello internazionale”, appunto. I tavoli per le riforme - È questa considerazione a spingere il guardasigilli verso l’auspicio che “l’interlocuzione trasversale” sia con “le forze parlamentari” che gli “operatori del settore” porti a “riforme condivise”. E il metodo, in campo penale e civile, si realizzerà concretamente, aggiunge, con “lo strumento della legge delega, che permetterà al Parlamento di esprimersi su progetti così importanti, sui quali si apriranno contemporaneamente tavoli di confronto con i magistrati e gli avvocati, che potranno dare un contributo fondamentale nel calibrare le riforme”. È un passaggio essenziale. Che però dovrà fare i conti con due aspetti decisivi. Innanzitutto con la stesura ormai quasi conclusa dei due disegni di legge delega: “Saranno depositati entro la prima metà di febbraio”. Si partirà dunque da schemi modificabili ma definiti che, per esempio in campo civile, hanno incontrato già i rilievi delle rappresentanze forensi. In particolare sul rischio di inasprire “preclusioni e sanzioni”. L’altro snodo controverso della road map disegnata dal guardasigilli riguarda più specificamente il processo penale, e in particolare la difesa della “prescrizione sospesa dopo la sentenza di primo grado”. Il nodo prescrizione - Sul rischio che quell’intervento allunghi i processi, il ministro non contesta le preoccupazioni espresse innanzitutto dall’Unione camere penali con l’appello al Quirinale sottoscritto da 150 professori di diritto. Dice che “proprio al fine di scongiurare tale rischio, è in programma un massiccio intervento sulle cause strutturali che oggi determinano la durata irragionevole dei processi, attraverso l’aumento e l’ottimizzazione delle risorse umane, l’accelerazione dell’innovazione informatica, lo snellimento delle procedure e, soprattutto, la semplificazione degli istituti di diritto processuale”. Da una parte dunque l’implicito riconoscimento che lo stop alla prescrizione vada bilanciato, dall’altro un riferimento solo accennato ai modi in cui si tenterà di farlo. Genericità che è un bene: se Bonafede pensa di scriverla al “tavolo” con giudici e avvocati, è anche giusto che su questa riforma, per ora, non si sbilanci. Civile e fallimentare - Anche nel caso del civile non si può parlare di dettagli, ma di una “filosofia del progetto”. “Il processo sarà più semplice e comprensibile per i cittadini”, innanzitutto. “Al giudice e alle parti sarà consentito di modulare tempi e adempimenti processuali in base all’effettiva complessità della controversia e alle reali esigenze difensive, chiaramente nel rispetto dei diritti delle parti coinvolte. Si tratterà di un processo che a me piace definire a fisarmonica”, aggiunge Bonafede, “e cioè che possa durare una o due udienze al massimo per cause semplici e che, invece, abbia un’estensione maggiore per cause più complesse”. Ipotesi accennata dal ministro sono quelle della “obbligatorietà del deposito degli atti introduttivi con modalità esclusivamente telematiche” e di “istituti in grado di comprimere i tempi del processo senza diminuirne funzionalità e garanzie”. Nella relazione presentata ieri dal guardasigilli ai due rami del Parlamento c’è un ampio passaggio sulla riforma del diritto fallimentare che, assicura, “renderà più agile la soluzione delle crisi da indebitamento” ma eviterà anche lo “stigma del fallimento” agli imprenditori: quella parola, “fallito”, non ci sarà più, ricorda il ministro, perché si parlerà formalmente di “liquidazione giudiziaria”. Ma come detto è sullo “spazza-corrotti” (che, dice, “ha già ricevuto apprezzamenti internazionali”) e in particolare sulla prescrizione che il guardasigilli difende le posizioni senza concedere aperture. Anche sul piano dell’analisi: il problema, dice, sono “le classifiche che danno l’Italia al 69esimo posto per la corruzione percepita”, come “ricorda una ricerca dell’Eurispes”. Solo che, mentre per l’istituto presieduto da Gian Maria Fara quegli indici sono inattendibili e perciò fuorvianti, Bonafede li difende come “un dato oggettivo”. Inoltre da una parte il guardasigilli riconosce che l’incidenza della prescrizione nella fase interessata dalla riforma, cioè l’appello, è bassissima, “il 25,8 per cento”, dall’altra parla di “uso pretestuoso” dell’istituito “nel dibattito politico” e di “strategie difensive meramente e legittimamente dilatorie in presenza di uno strumento fornito dalla legge”. E su questo punto dell’analisi la distanza fra il ministro e l’avvocatura pare destinata a restare ampia, giacché per il titolare della Giustizia il diritto a impugnare soccombe rispetto alle sue presunte declinazioni utilitaristiche. Il metodo positivo - Resta il metodo, positivo, del “dialogo” in particolare proprio con gli avvocati, oltre che con i magistrati. E anche la rivendicazione di interventi positivi come “la legge sulle violenze di genere”, ossia il cosiddetto “codice rosso”. Ampie rassicurazioni sia sulle assunzioni di “600 magistrati” che di “3000 unità di personale amministrativo”, con lo scorrimento della graduatoria dell’ultimo concorso. Confermato l’ aumento di disponibilità finanziaria per la Giustizia quantificato in “324 milioni” che serviranno anche per “l’edilizia giudiziaria” e per scongiurare altri casi drammatici come quello del “giovane praticante di Milano Antonio Montinaro”, precipitato dallo scalone del Tribunale. “Sarà una giustizia più semplice e vicina ai cittadini”, è la parola d’ordine. Ma molte altre il ministro dovrà sceglierne a breve per cambiare il processo. Liberare il penale dalla rincorsa a emergenze dettate dalla politica di Alessandro Bertoli* Avvenire, 24 gennaio 2019 La giustizia penale rincorre troppo spesso le emergenze, rischiando di diventare uno “strumento della politica”, snaturando il suo vero ruolo e così allontanando la Giustizia dall’Equità. Il continuo, quasi schizofrenico ritocco “al rialzo” di singole norme penali sgretola alla base l’intero sistema e costringe in molti casi a un grande dispendio di energie per la valutazione della legittimità costituzionale e per l’interpretazione corretta delle nuove o rinnovate fattispecie, avendo come esito paradossale processi che diventano sempre “più lunghi” e “meno certi” nei loro esiti. Anche nel passato recente, quando il Parlamento è stato capace di elaborare più ampi disegni di riforma, ancora una volta per ragioni politico-elettorali il Governo non ha avuto il coraggio di una effettiva attuazione (si pensi al caso della riforma penitenziaria). La giustizia penale in Italia è, di fatto, “ casuale” nei tempi e nelle scelte delle priorità: la durata dei gradi di giudizio non è per nulla regolata e dipende solo da “opzioni” o “occasioni” locali. Soltanto la prescrizione restava come ultimo baluardo di fronte ad una totale mancanza di controllo dei tempi della giustizia: né è possibile pensare di risolvere le questioni lasciandole all’iniziativa di singoli Presidenti di Tribunale o di Sezioni e di singoli dirigenti amministrativi. Come per la Sanità, peraltro con alcuni ottimi risultati, si sono studiati sistemi aziendali, anche per la Giustizia penale si dovrebbe mirare a una maggiore efficienza. Senza voler incrinare il sacrosanto dogma dell’indipendenza della Magistratura, sembra che sia necessario affiancare nuove figure professionali a supporto di giudici e di cancellieri per la razionalizzazione dell’evasione dei carichi di lavoro. E ciò senza timori di ricorso a servizi privati. Si pensi solo a questa frequente circostanza: in lunghe udienze dibattimentali di audizione di testimoni il cancelliere se ne sta seduto per ore, limitandosi il suo compito alla redazione (di solito a mano) del nome del testimone e dell’orario di inizio e fine dell’escussione (talvolta le udienze devono essere interrotte e rinviate per la fine del turno del cancelliere), mentre l’operatore del servizio appaltato di fonoregistrazione gestisce i mezzi per la puntuale produzione (di li a pochi giorni) di decine (talora centinaia) di pagine di trascrizione di tutto ciò che viene detto in udienza. Ci si chiede se l’orario di lavoro del cancelliere non potrebbe essere in certi casi impiegato meglio. La giustizia penale è ancora totalmente cartacea: la digitalizzazione assicurerebbe riservatezza, immediatezza e impossibilità di smarrire o di manipolare gli incartamenti e, inoltre, agevolerebbe non poco la classe forense, con conseguente beneficio per i clienti (cioè per tutti i cittadini): l’accesso nelle cancellerie ad oggi infatti comporta per qualunque studio legale il dispiegamento di segretari e collaboratori o l’impiego di ore e ore ogni mattina in coda per la verifica di fascicoli che - non si sa perché - sembra un miracolo trovare al primo colpo. *Avvocato di Brescia “Errore tecnico”. Legittima difesa, il nuovo rinvio allarma la Lega di Alberto Gentili Il Messaggero, 24 gennaio 2019 Il clima è tornato pessimo tra 5Stelle e Lega. Tanto brutto che a Matteo Salvini i suoi sono andati a dire: “I grillini vogliono utilizzare la legge sulla legittima difesa come merce di scambio. Rimandano il provvedimento in Senato per la terza lettura, in modo da poterci tenere sulla questione delle trivelle”. Il clima, come accade ormai spesso da mesi, è tornato pessimo tra 5Stelle e Lega. Tanto brutto che a Matteo Salvini i suoi sono andati a dire: “I grillini vogliono utilizzare la legge sulla legittima difesa come merce di scambio. Rimandano il provvedimento in Senato per la terza lettura, in modo da poterci tenere per le palle sulla questione delle trivelle, quando il decreto Semplificazioni andrà alla Camera”. Sembra una partita di Risiko o piuttosto un sussulto di complottismo e di veleni. Tant’è, che il vicepremier leghista ha mandato i suoi collaboratori a capire cosa è davvero successo al provvedimento con il quale, insieme a Quota 100 e alla crociata anti-sbarchi, vuole fare il pieno di voti alle elezioni europee del 26 maggio. La scoperta: il ministero della Giustizia guidato dal grillino Alfonso Bonafede martedì ha fatto arrivare alla commissione Bilancio della Camera guidata dal leghista Claudio Borghi un parere vincolante, in cui si evidenzia un “errore tecnico” sulle coperture: nella prima stesura del testo, già votata dal Senato, 98 mila euro sono stati imputati al 2018. E non al 2019. Un piccolo errore che però obbligherà la maggioranza giallo-verde a riportare la legittima difesa, dopo il sì della Camera, di nuovo a palazzo Madama per il via libera definitivo. Nell’entourage di Salvini, che continua a garantire lunga vita al patto di governo con Luigi Di Maio, si getta acqua sul fuoco: “È solo un ritardo di poche settimane”. Ma così cade la promessa del vicepremier: “Entro febbraio verrà approvata la legittima difesa”. E così si alimentano i sospetti, tra i dirigenti e i parlamentari lumbard, di un agguato pentastellato alla legge tanto cara al Carroccio: “Probabilmente Di Maio ha fiutato il rischio che appena varata la legittima difesa, Matteo potrebbe staccare la spina. Ormai anche lui comincia a essere stufo di questi grillini... E per questo i 5Stelle frenano la nostra legge”, dice una fonte autorevole lumbard. Di certo, c’è che il braccio di ferro sulle trivelle nell’Adriatico e nel mar Ionio riaccende lo scontro tra Lega e 5Stelle sull’idea di sistema Paese. Lo stesso che finora ha provocato lo stallo sul destino dell’Alta velocità Torino-Lione. Non a caso in queste ore è tornato in campo Giancarlo Giorgetti, il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, da sempre scettico sull’alleanza con i grillini: “La posizione della Lega non è cambiata, siamo a favore dello sviluppo del settore oil and gas”. Insomma: dimenticatevi lo stop alle trivellazioni. Un altolà rilanciato dal presidente romagnolo della Lega, Gianluca Pini: “Non daremo il via libera ad alcuna norma che fermi la ricerca e lo sfruttamento dei giacimenti di gas in mare”. Questo perché il Carroccio, in Emilia Romagna, si gioca decine di migliaia di voti. Esattamente come per la Tav in Piemonte e Lombardia. Nelle piattaforme estrattive di metano a largo di Ravenna, “la capitale del gas in Italia”, sono occupate circa 4.500 persone: “E se facciamo scappare, alzando i canoni o fermano le trivellazioni, le aziende che operano in Adriatico, sarà un dramma sotto il profilo occupazionale ed economico”, aggiunge un altro esponente del Carroccio che segue il dossier. Insomma, posizioni inconciliabili tra leghisti e grillini. Con i primi che difendono la loro idea di sviluppo e il proprio bacino elettorale e i secondi che non ne vogliono sapere di cedere sulle trivelle, dopo aver dovuto ingoiare il gasdotto Tap e il Terzo Valico per quello che viene definitiva “la maledizione delle “T”. Un braccio di ferro che ha spinto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa a minacciare le dimissioni se non scatta lo stop alle trivelle, ha paralizzato i lavori del Senato e a sera ha provocato il rinvio a questa mattina del dibattito nelle commissioni Affari costituzionali e Lavori pubblici. “Siamo lontanissimi da una soluzione e noi non arretriamo”, hanno fatto sapere i grillini e hanno confermato i leghisti. Il problema è che Di Maio non può e non vuole cedere (la sua spina nel fianco Roberto Fico è tornato a scandire un ultimatum: “Dobbiamo investire nelle fonti di energia rinnovabili, basta trivellazioni”). E anche Salvini non è intenzionato a fare retromarcia. La soluzione potrebbe essere stralciare la questione dal disegno di legge Semplificazioni e farne un provvedimento ad hoc, con un nuovo “piano energetico nazionale”. Un modo anche per rinviare il nodo al dopo elezioni, facendo condividere alle trivelle il probabile destino della Tav. Legittima difesa senza coperture. Si rischia un altro passaggio in aula di Pasquale Napolitano Il Giornale, 24 gennaio 2019 Pasticcio gialloverde sulla legittima difesa. Il cavallo di battaglia della Lega arresta la corsa in Parlamento. I piani del ministro dell’Interno Matteo Salvini di chiudere la partita entro febbraio, incassando il provvedimento in tempo utile per la campagna elettorale alle Europee, rischiano di saltare. La doccia gelata arriva dalla commissione Bilancio, guidata da Claudio Borghi del Carroccio, che ieri ha fornito il parere sulle coperture economiche al testo arrivato in commissione Giustizia. Non c’è il via libera: la riforma rischia di passare nuovamente all’esame del Senato per l’ok in terza lettura. I tempi sono stretti per approvare la legge entro fine febbraio. A meno che la maggioranza non decida di procedere con un tour de force, che appare però difficile visti i provvedimenti già all’esame dell’Aula di Montecitorio e dell’Aula del Senato, compresi i decreti in scadenza che hanno la priorità. Lo scoglio è legato alle coperture: c’è un errore relativo ai fondi destinati a finanziare le misure contenute nella riforma. Viene infatti indicata una copertura relativa all’anno 2018. Va ricordato che la proposta di legge è stata approvata in prima lettura dal Senato il 24 ottobre scorso. Mentre la commissione Giustizia della Camera ha concluso l’iter la scorsa settimana. Oggi è fissato il voto per il mandato ai relatori Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Roberto Turri (Lega), ma è quasi certo che si discuterà della modifica contenuta nel parere della commissione Bilancio. La manina del leghista Borghi ha bloccato il provvedimento. La commissione ha dato parere favorevole alla proposta ma “condizionato” al rispetto dell’articolo 81 della Costituzione. Nel parere della si chiede di sostituire il comma 2 dell’articolo 8 della riforma della legittima difesa, che disciplina le “Disposizioni in materia di spese di giustizia”. Una modifica che dovrà essere fatta attraverso un emendamento del relatore in commissione. Questione tecnica che però avrà un impatto politico forte sulla Lega: Salvini costringerà Di Maio e i Cinque stelle alle maratone notturne in Aula? Oppure incasserà il rinvio? Rinunciando, in quest’ultimo caso, a una campagna elettorale, esibendo il trofeo della legittima difesa. Giustizia, cause civili in calo, quelle societarie giù del 5% di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2019 Sarà pure un paradosso, come ha sottolineato ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ma è evidente una sconnessione sentimentale tra quanto affermano di vivere i cittadini che si avvicinano agli uffici giudiziari e la realtà dei dati. Nella sua prima relazione annuale sull’amministrazione della giustizia Bonafede ha voluto sottolinearlo anche con una certa enfasi: abbiamo magistrati e avvocati, ha affermato, che rappresentano delle eccellenze internazionali, ma i cittadini non si fidano affatto del servizio giustizia. A testimoniarlo il dato Istat per cui 7 cittadini su 10 ne mettono in evidenza l’inadeguatezza a garantire la tutela dei diritti individuali. E però i numeri, soprattutto quelli della giustizia civile, continuano a segnalare miglioramenti, con una riduzione delle cause pendenti nell’ultimo anno pari al -3,1% ed un totale di fascicoli giacenti di circa 3 milioni 460mila. il che dovrebbe permettere un taglio dei tempi di durata delle controversie sempre più accentuato. In dettaglio, al 31 dicembre 2018 le iscrizioni annuali per tutti i gradi di giudizio sono pari a 3.215.989, le definizioni a 3.329.674 e le pendenze a 3.460.764, cioè 112.106 cause in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Presso i Tribunali ordinari la diminuzione della pendenza è pari al -4,6%, con un calo dei procedimenti pendenti per il contenzioso ordinario (577.405 al 31 dicembre 2018 rispetto a 600.156 al 31 dicembre 2017) ed ancor più forte per quello in materia commerciale (342.434 rispetto a 360.671), che comprende le cause relative a contratti e obbligazioni, diritto industriale e societario, legato alla diminuzione delle iscrizioni. In calo risultano anche le pendenze del settore lavoro e previdenza e i fallimenti (473.214 al 31 dicembre 2018 rispetto a 488.802 al 31 dicembre 2017). Calano le iscrizioni dei procedimenti esecutivi immobiliari, dei decreti ingiuntivi e degli altri procedimenti speciali. Bonafede, che ha bollato i precedenti interventi sulla giustizia civile come “frettolosi ed episodici” (“fumoso” invece l’intervento di Bonafede per la vice presidente Pd del Senato Anna Rossomando) e ha ribadito forti perplessità sulla riforma della geografia giudiziaria “nella misura in cui si è venuta a creare una scopertura importante in luoghi territorialmente più periferici o comunque in zone in cui il presidio di legalità rimane fondamentale”, ha annunciato al Parlamento che, entro la prima metà di febbraio verrà presentato in Consiglio dei ministri un disegno di legge con misure subito operative e altre affidate a una delega da esercitare entro giugno per la riforma del processo civile. A farne da architrave un nuovo rito sommario, ibrido tra quello attuale e quello del lavoro, con deposito degli atti introduttivi solo digitale per tutte le cause di competenza del giudice unico. Tra pochi giorni invece arriverà un provvedimento per facilitare l’accesso al gratuito patrocinio. Quanto al penale, il numero complessivo di procedimenti pendenti è diminuito del 4,79%, attestandosi a 2.845.999 procedimenti alla data del 30 settembre 2018, per effetto sia dell’aumento delle definizioni sia del calo delle pendenze. Nel 2017 i procedimenti prescritti sono stati 125.551, dei quali il 25,8 per cento in grado di appello, con un’incidenza del 9,4% sul totale dei procedimenti, in crescita rispetto al 2016 (era l’8,7% nel 2016). Resta drammatica la situazione delle carceri, dopo l’accantonamento della riforma dell’ordinamento penitenziario. I detenuti presenti negli istituti penitenziari al 21 gennaio 2019 sono 59.947, a fronte di una capienza regolamentare di 50.569, con indice di sovraffollamento del 127 per cento. Sono poi 736 i detenuti (10 le donne) al regime del 41 bis. “Giornata dell’avvocato minacciato”, incontri in tutta Italia Il Dubbio, 24 gennaio 2019 Da alcuni anni il 24 gennaio è, per la classe forense, la “Giornata dell’avvocato minacciato”. Una ricorrenza che oggi, come già avvenuto in passato, sarà vissuta con dibatti e testimonianze sul dramma dell’avvocatura turca, travolta dalla repressione del governo di Ankara. A occuparsene sarà innanzitutto il Cnf, con l’incontro previsto alle 14.30 al quale interverranno l’avvocata turca Benan Molu e Barbara Spinelli, la professionista bolognese che si è impegnata a lungo come osservatore nei processi ai colleghi in Turchia e che due anni fa venne addirittura “respinta alla frontiera” dalle autorità di Ankara. Proprio la Camera penale di Bologna organizza sempre per oggi, alle 15, una “Tavola rotonda aperta alla cittadinanza” alla quale prenderà parte, fra gli altri, il portavoce della “Rete In Difesa Di - Per i diritti umani e chi li difende”, Francesco Martone. Mobilitazioni in diversi altri Fori italiani, tra i quali va segnalata quella voluta congiuntamente dalla Camera penale di Milano e dai magistrati di “Area”, la corrente progressista, che oggi, in apertura delle udienze, osserveranno un minuto di silenzio per “far sentire la nostra voce” in difesa di avvocati e magistrati perseguitati in Turchia. Giulio Regeni. Tre anni dopo, i magistrati al capolinea, ora tocca alla politica di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 gennaio 2019 Il giovane ricercatore scomparve il 25 gennaio del 2016. I pm fermi a 5 indagati, senza collaborazione dall’Egitto non si può andare oltre. Tre anni, cinque nomi. Di più non si è riusciti a ottenere. E viste le premesse, se non succede qualcosa che al momento nessuno sa immaginare, sarà difficile andare oltre. Gli inquirenti e gli investigatori italiani hanno fatto il massimo che era consentito loro dalla situazione, dalle relazioni internazionali e dalle leggi. Ora tocca ad altri. Giulio Regeni fu sequestrato al Cairo la sera del 25 gennaio 2016, tre anni fa. Una settimana più tardi lo fecero ritrovare cadavere sul ciglio della Desert road per Alessandria d’Egitto. L’autopsia svolta in Italia ha permesso di stabilire che venne tenuto in vita fino all’1 febbraio, subendo torture in momenti diversi, fino all’esecuzione avvenuta con una “separata e violenta azione contusiva sull’osso del collo”. Su questo orrendo crimine la Procura di Roma ha aperto un’indagine che s’è potuta basare esclusivamente su ciò che i magistrati egiziani hanno acconsentito di condividere, attraverso incontri e comunicazioni fondate su buona volontà e spirito d’iniziativa, giacché tra i due Paesi non esistono trattati di cooperazione giudiziaria. La conclusione del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco è stata raggiunta nel dicembre scorso, quando hanno iscritto sul registro degli indagati i nomi di cinque militari egiziani: un generale, due colonnelli, un maggiore e un assistente. Sulla base di un rapporto elaborato dai poliziotti del Servizio centrale operativo e dai carabinieri del Ros dov’è riassunto “quanto si è raccolto sul conto del generale Tabiq Sabir, del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, del colonnello Uhsam Helmi e dell’assistente Mahmoud Najem, espressioni della National Security del Cairo, e del colonnello Athar Kamal Mohamed Ibrahim, all’epoca capo delle Investigazioni giudiziarie della capitale”. Nei loro confronti, “in concorso con altri soggetti rimasti ignoti”, ci sono “elementi che ne evidenziano il coinvolgimento nel sequestro di persona di Giulio Regeni”. A vario titolo sono le cinque persone che hanno indagato su Regeni fino alla vigilia della sua scomparsa, a partire dalle denunce del sindacalista-finto amico di Giulio, Mohamed Abdallah, arruolato dalla National security. Di qui la decisione di inquisirli formalmente per il rapimento del ricercatore italiano. La scorsa settimana, Pignatone e Colaiocco sono andati al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, a spiegare, in seduta segreta, che più in là la magistratura italiana non è in grado di andare. Normalmente l’iscrizione sul registro degli indagati è l’inizio di un’indagine, ma in questo caso rischia di essere la fine. Per proseguire servirebbe una collaborazione delle autorità egiziane, giudiziarie e non solo, ben maggiore di quella accordata finora (consentire di assistere agli interrogatori e porre le domande giuste, per dirne una), senza la quale l’inchiesta romana è destinata all’archiviazione. In alternativa dovrebbe essere la Procura del Cairo a perseguire in patria le persone che ragionevolmente si possono ritenere responsabili della scomparsa di Giulio, ma non sembra averne l’intenzione. Dunque, per provare a ottenere “verità e giustizia” per Giulio Regeni resta aperta l’altra strada, quella politico-diplomatica. Pressione e stimolo non più solo dei magistrati. Il ritorno dell’ambasciatore italiano in Egitto deciso a ferragosto del 2017 (dopo il richiamo ad aprile 2016) non ha prodotto i risultati sperati. E nemmeno le ripetute missioni dei rappresentanti del governo di Roma al Cairo. Il premier Conte e i suoi due vice, Di Maio e Salvini, hanno ottenuto molte promesse dal presidente Al Sisi, che però non hanno avuto seguito. Come quelle più recenti dell’ambasciatore egiziano al ministro degli Esteri Moavero. Ad agosto Di Maio raccontò che Al Sisi gli disse addirittura “Regeni è uno di noi”, poi a novembre 2018 dettò una sorta di ultimatum al Cairo: se non arriveranno risposte entro l’anno, affermò il vicepremier grillino, “ne trarremo le conclusioni, tutto ne risentirà”. Il 2018 è finito da quasi un mese: le risposte non sono arrivate, e nessuno ne ha tratto le conseguenze. Ieri Salvini ha spiegato di essere ancora ottimista: “Continuiamo e continueremo a chiedere giustizia, non mi sono sentito preso in giro da Al Sisi, sono fiducioso”. Aggiungendo: “Non fatemi fare il magistrato, conto sul buon lavoro dei magistrati italiani e di quelli egiziani”. Solo che, come spiegato da loro stessi al Parlamento, il lavoro dei magistrati italiani è sostanzialmente finito, mentre quello degli egiziani è fermo da tempo. Dopo tre anni e cinque nomi. Diffamazione: oneri meno stringenti per i post satirici su Facebook di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 23 gennaio 2019 n. 3148. Il giudice non può addossare a chi pubblica un post su Facebook gli stessi oneri di un giornalista. Va dunque esclusa la diffamazione per il commento negativo sul social network, con il quale si stronca un’attività gastronomica, accusando il gestore di avere prezzi alti e “truffare” sul peso. La Cassazione, con la sentenza 3148, accoglie il ricorso contro una doppia condanna, incassata sia in primo sia in secondo grado, per aver offeso la reputazione della titolare di una gastronomia, pubblicando sul profilo Facebook una guida satirica ai peggiori ristoranti della città e dintorni. Nel mirino era finito un signore accusato di vendere pasta a prezzi esorbitanti bluffando anche sul peso. Per il Tribunale e per la Corte d’appello la diffamazione c’era, senza che si potesse invocare la scriminante del diritto di critica o la verità dei fatti narrati. L’offesa maggiore sarebbe stata nell’accusa di aver venduto 750 grammi ravioli spacciandoli per un chilo. Per i giudici di merito non era detto che l’esercente avesse agito volontariamente, né che fosse sua abitudine frodare i clienti. In più l’imputato aveva prima bollato il locale come uno dei peggiori della zona, poi aveva additato il proprietario come truffatore e, solo dopo, aveva fatto riferimento all’acquisto dei ravioli con il peso “taroccato”. Per la Cassazione però il fatto non costituisce reato. Il fatto che il locale fosse caro corrispondeva al vero, l’impiego del termine “truffatore” andava riferito ai prezzi esorbitanti e ai dubbi sulla rispondenza tra peso e prezzo pagato: era dunque una critica all’attività e non un giudizio sull’etica del privato. Il post, pubblicato sul social network, era caratterizzato da aspetti satirici, come dimostrato dal nome della rubrica “Guida cupittuna lisci” : “Guida ai copertini lisci” in antitesi alla nota “Guida Michelin”. I giudici, in quel contesto, non potevano porre a carico del soggetto che aveva pubblicato il post oneri informativi analoghi a quelli che gravano su un giornalista professionista, senza tenere conto della profonda diversità tra le due figure, per ruolo, funzione, formazione, capacità espressive, spazio divulgativo e relativo contesto. Colpa grave al pediatra attendista che non prescrive esami di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2019 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 23 gennaio 2019 n. 3206. Niente esimente per colpa lieve al pediatra che rinvia la visita domiciliare e quando l’effettua non riconosce la presenza di una violenta infezione in atto e omette di indirizzare la famiglia del bambino a un controllo presso il pronto soccorso per praticare esami strumentali e di laboratorio. La Cassazione con la sentenza n. 3206 di ieri respinge seccamente il ricorso del medico che condannato nei due gradi di merito riteneva di essere scusabile, nonostante avesse ritardato la visita domiciliare, perché aveva agito con colpa lieve (articolo 3 dell’allora vigente legge Balduzzi) e nel rispetto delle linee guida della comunità scientifica. Dall’auscultazione non aveva rilevato i sintomi della sepsi fulminante cioè i rumori polmonari e la comparsa di un esantema tipico delle infezioni in atto, come la polmonite che aveva colpito il piccolo. E non aveva rilevato altri indicatori quali le frequenze cardiaca e respiratoria o la pressione arteriosa. E, soprattutto aveva mancato di indirizzare il bimbo al pronto soccorso per effettuare esami. Da ciò la Cassazione esclude categoricamente l’applicazione della norma invocata dal ricorrente, che “decriminalizza” la condotta del medico connotata da colpa lieve nel rispetto dell’applicazione delle linee guida medico-scientifiche. Furbetti del cartellino, truffa aggravata anche se il danno arrecato è lieve di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 23 gennaio 2019 n. 3262. È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti la sua presenza malgrado si allontani dall’ufficio, anche se il danno economico cagionato all’ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista economico. Difatti, un tal tipo di condotta incide sull’organizzazione dell’ente stesso e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il datore di lavoro pubblico. In tali ipotesi può, eventualmente, configurarsi l’attenuante della speciale tenuità del danno. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza 3262, depositata ieri. Il caso - Al centro della vicenda c’è l’ennesimo caso di furbetti del cartellino. Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di rilevazione dell’orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate lavorative. Per tale motivo il Gip disponeva la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio dei pubblici uffici per la durata di due mesi. Il dipendente pubblico però impugnava la decisione ottenendo dal Tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest’ultimo, infatti, il raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno poco apprezzabile per la pubblica amministrazione. La decisione - Su ricorso del Pubblico ministero interviene la Cassazione che con una sentenza concisa e ben argomentata boccia totalmente la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano la sua non particolare gravità, ma non ne impediscono la configurabilità. La Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano economicamente apprezzabili. In quest’ottica, anche una indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile per il datore di lavoro pubblico, potendo l’esiguità della somma integrare l’attenuante della speciale tenuità, ex articolo 62 comma 4 Cp, non certo impedire la configurabilità del reato di cui all’articolo 640 comma 2 n. 1 Cp. Ciò posto, il Collegio rincara la dose affermando che per valutare l’entità del danno non basta avere riguardo alla perdita economica, ma assume rilievo anche l’incidenza della condotta delittuosa sull’organizzazione dell’ente pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul piano dell’efficienza degli uffici. Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono sull’organizzazione dell’ufficio “alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane” e “modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera”. In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività amministrativa è “messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio” e che forniscono una “prestazione diversa da quella doverosa”. Cagliari: delegazione Partito radicale in visita “in carcere troppi detenuti psichiatrici” L’Unione Sarda, 24 gennaio 2019 Il problema principale del carcere di Uta è l’elevato numero di detenuti con problemi psichiatrici. È quanto emerso da una visita nella casa circondariale di una delegazione del Partito radicale (Maurizio Turco e Irene Testa) accompagnata dall’avvocato Franco Villa dell’Osservatorio Carcere alla presenza del direttore Marco Porcu e del provveditore Maurizio Veneziano. Su 595 detenuti (la capienza regolamentare è di 561), oltre un terzo è “affetto da problemi psichici gravi”. Molti dovrebbero andare in una Rems (le residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari), ma l’unica presente in Sardegna, a Capoterra, ha solo 18 posti. Gli ospedali dell’Isola, escluso quello di Nuoro, non avrebbero sufficienti reparti protetti: quindi è necessario “un piantonamento” che riduce un organico di polizia penitenziaria già “sottodimensionato”: su 421 agenti previsti sono 343 quelli effettivi. Inoltre il centro clinico del carcere ha solo una ventina di posti, così i detenuti con quei problemi restano nelle camere dei detenuti comuni. Necessità che “crea tensioni”. Infine, la Sardegna “non ha un garante per i detenuti”. Irene Testa è candidata a ricoprire la carica. Oristano: “Il carcere non è una vetrina” di Enrico Carta La Nuova Sardegna, 24 gennaio 2019 Il Garante: “Le delegazioni usano il detenuto Battisti per fini propri e dimenticano gli altri”. Fiumi di parole. Anzi sul detenuto più famoso recluso nel carcere di Massama c’è stata una vera e propria esondazione di discorsi accompagnati da immagini e visite. Il caso di Cesare Battisti, dirottato nei giorni scorsi in isolamento a Oristano, registra ora la critica presa di posizione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Oristano, competente su Massama. “Non mi dilungo sulla qualità delle parole e delle azioni che han fatto da orpello al circo mediatico dell’arresto eccellente, quanto sui contenuti sottesi alla vicenda - esordisce Paolo Mocci. Le leggi violate sono numerose. Ne parla lo stesso garante nazionale, Mauro Palma, il quale ha fatto sentire il suo disappunto attraverso la stampa. Le Camere Penali di Roma pare abbiano addirittura depositato una segnalazione alle autorità giudiziarie per rilevare elementi penalmente perseguibili. Infatti, a partire dalla Costituzione, usata come vessillo o come zerbino a seconda degli interessi del momento, fino al diritto penitenziario, pare evidente si abbia poca conoscenza del diritto. E non intendo soffermarmi in maniera particolare sulla vicenda giudiziaria del detenuto, di cui rilevo un abuso di divulgazione delle generalità e di aspetti di vita privata e giudiziaria, al di là delle norme a tutela della privacy in particolare dell’individuo detenuto, per il quale si dovrebbe avere maggiore sensibilità proprio per la sua condizione”. Sono altri e considerati ancora più gravi i problemi della vicenda. E lo sono perché riguardano la totalità dei detenuti di Massama e le più generali regole di diritto. “Ritengo che il modo in cui si sta divulgando la modalità di detenzione del singolo individuo stia dando adito a fraintendimenti e fomentando speranze in coloro i quali, per vicende giudiziarie simili, si ritrovano nella medesima condizione detentiva”, prosegue Paolo Mocci riferendosi al fatto che con cadenza quasi giornaliera delegazioni vadano a fare visita a Cesare Battisti alimentando speranze in chi, pur nelle medesime condizioni di Battisti, “da mesi o anni non può vedere e incontrare nessuno, non può scambiare due parole se non con gli agenti di polizia penitenziaria che ne curano la custodia. Dare così tanta risonanza alla visita di qualunque delegazione credo rechi un segnale di difficile interpretazione per gli altri detenuti. Quando le delegazioni sono così numerose, si rischia di far diventare la vicenda una vetrina per fini propagandistici più che garantistici a favore dei detenuti”. Altri aspetti su cui emergono violazioni sono quelli legati alla tutela del figlio del detenuto “col protocollo che prescrive una serie di comportamenti che rendono per il minore la detenzione del genitore meno gravosa di quanto già di suo può essere”. Sarebbe un lavoro da ripetere a livello generale così come quello di occuparsi della salute dei detenuti tutti e non di uno solo, ferme restando “le scarse risorse umane ed economiche” dell’intero sistema carcerario. L’ultima violazione andrebbe ricercata proprio nella scelta di Massama come luogo di detenzione per Cesare Battisti. “L’istituto è inadeguato dal punto di vista strutturale e per le risorse umane coinvolgibili e coinvolte. C’è una carenza endemica di operatori di polizia penitenziaria e di assistenti. Massama non prevede una sezione cosiddetta di Alta Sicurezza 2, sezione dedicata essenzialmente agli autori o a persone in attesa di processo per reati terroristici, per i quali occorrono agenti specializzati e tutta una serie di professionalità che a Massama mancano”. Gorizia: cosa succede dentro (e fuori) il carcere? di Don Paolo Zuttion* La Voce Isontina, 24 gennaio 2019 Cosa sta succedendo nel carcere di Gorizia? È la domanda che mi è stata posta in questi giorni da diverse persone. Per quanto riguarda la costruzione è in corso una grande ristrutturazione iniziata qualche mese fa e che durerà fino a maggio di quest’anno. Questi lavori cambieranno radicalmente la struttura la cui capienza sarà portata a 100 e più persone. Sembra accantonato, perché troppo oneroso, il progetto di ristrutturare la ex scuola Pitteri di via Cappuccini. Attualmente, causa lavori, i ristretti sono ridotti a meno di quindici persone. Questo numero esiguo, seppur riducendo le attività, anche per la mancanza di spazi, non impedisce tuttavia di portare avanti, come cappellania alcune attività finalizzate soprattutto a far si che i detenuti non si sentano tagliati fuori dal territorio e che ci sono uomini e donne che, anche se hanno sbagliato, non li dimenticano. In questo senso, oltre alla presenza costante, per animare le liturgie ed anche per la catechesi, di diversi membri del Rinnovamento dello Spirito e per la distribuzione di vestiario dei volontari della associazione “la Zattera”. Nel tempo dell’Avvento, sulla spinta di don Alberto è nato il progetto “La città entra in carcere” dove sono state coinvolte l’associazione: “Gorizia a tavola” e la cooperativa “Hanna House” per offrire gratuitamente il pranzo ai detenuti nelle domeniche di Dicembre e a Natale. Ci sono stati inoltre nei Venerdì di Avvento vari incontri tra i detenuti e personalità della nostra città come il sindaco ed il vescovo; perché chi vive dentro al carcere, lontano dalla famiglia, senta meno acuto il senso di solitudine che si accentua particolarmente in questo periodo natalizio. Un altro aspetto che sta particolarmente a cuore a coloro che operano nella pastorale carceraria è l’attitudine della società e della comunità cristiana in particolare, nei confronti di chi è prigioniero. La domanda iniziale potrebbe essere invertita: cosa succede fuori dal carcere? Sempre di più si sente l’urgenza di rieducare la comunità sia civile che ecclesiale al fatto che la dignità dell’uomo viene prima di tutto e sopra tutto e che ogni pena, anche se necessaria, non deve mai venir meno al rispetto dell’essere umano e che ogni sanzione detentiva, ci insegna la costituzione, ha come finalità il recupero di chi ha sbagliato. Principi che cozzano con certe affermazioni che comunemente si sentono: “Serarli dentro e butar via la ciave” che denotano il degrado di una società, tanto più se dette da ministri della repubblica che contraddicendo la costituzione, cui hanno giurato fedeltà, affermano di augurarsi che quel tal detenuto “possa marcire in carcere”. L’educazione ad una visione diversa del carcere, della pena e urgente ma si può fare con processi che durano nel tempo che sono lenti e di cui non ci è dato conoscere il risultato. Abbiamo portato avanti diverse iniziative con la compagnia di teatro Fierascena che ha allestito spettacoli con detenuti dentro e fuori dal carcere, creando un buon coinvolgimento di persone. L’anno scorso è nato il progetto “Disma “ finalizzato alla sensibilizzazione delle comunità ed anche a creare concretamente misure alterative alla carcerazione e per sostenere chi ha terminato di scontare la propria pena. In continuità con questo, sostenuto dal nostro vescovo, la nostra diocesi dovrebbe entrare nel progetto “Esodo” già sviluppato in altre diocesi del Veneto per creare luoghi ed attività alternative al carcere. L’impresa è ardua come tutte le azioni educative e questa lo è in modo particolare perché si toccano aspetti particolarmente delicati dell’animo umano e della mentalità corrente. La comunità cristiana è chiamata ad essere profetica, a mostrare qual è il disegno di Dio sull’uomo ed oggi questo è uno degli ambiti dove con maggiore urgenza la Chiesa è chiamata con coraggio a difendere l’uomo, alla profezia. *Cappellano nel carcere di Gorizia Porto Azzurro (Li): Isis Foresi e carcere insieme per la formazione quinewselba.it, 24 gennaio 2019 Al via il progetto tra l’Istituto Foresi e la Casa di reclusione: quattro corsi di formazione per il recupero e il reinserimento dei detenuti. Sono previste 180 ore di formazione finalizzate al recupero e al reinserimento socio-lavorativo delle persone recluse, grazie al progetto (Pon 2165) messo a punto dall’Istituto scolastico Foresi e dalla Casa di reclusione di Porto Azzurro. Basato sul modello esperienziale, oltre agli aspetti conoscitivi e cognitivi il modello formativo cerca di motivare e appassionare alla professione. Sono previsti quattro corsi: Italiano per stranieri, Informatica di base, Collaboratore di cucina, Operatore di sala e bar. I primi due corsi tendono a favorire l’integrazione delle persone straniere e l’ alfabetizzazione informatica. Il corso di collaboratore di cucina è invece concepito a livello esecutivo, a servizio delle attività di ristorazione e a supporto dei responsabili dei processi di lavoro in cucina. Il corso per operatore di sala/bar (livello base) si prefigge di formare un tecnico dell’accoglienza e dell’ospitalità, in grado di svolgere con efficienza e competenza tutte le attività legate al servizio di sala all’interno di strutture ristorative alberghiere ed extralberghiere, nonché al servizio di bar. Il progetto sarà illustrato alla stampa lunedì 28 Gennaio alle ore 12, presso la Casa di reclusione di Porto Azzurro. Saranno presenti il direttore del carcere Francesco D’Anselmo e il preside del Foresi Enzo Giorgio Fazio, insieme ad alcuni docenti ed educatori. Bollate (Mi): “Cavalli in carcere”, progetto finanziato dal crowdfunding Eppela di Guido Minciotti Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2019 I detenuti del carcere milanese di Bollate si occupano, grazie alla Onlus Salto oltre il muro, di recuperare cavalli maltrattati e abusati e sottoposti a sequestro. Il finanziamento di questa scuderia, l’unica in Europa all’interno delle mura di una prigione, è uno dei progetti che ha avuto successo grazie al crowdfunding di Eppela, la prima azienda di crowdfunding reward-based in Italia e finanziata da Poste italiane. Ad approfittare della raccolta di fondi dal basso sono stati anche un rifugio per 38 asini ragusani rimasti senza padrone e i conigli trovatelli bisognosi di cure veterinarie e di mantenimento. Questi tre progetti - su cinque presentati - hanno raggiunto una raccolta complessiva di oltre 7mila euro nell’area Pet Friends di Eppela. Ora avranno anche a disposizione un buono spendibile in una nota catena di pet store pari al 10 per cento del totale raccolto. “Una nuova call, con ulteriori progetti dedicati agli amici a quattro zampe, è pronta a partire il prossimo 4 febbraio”, spiega Eppela. Ecco una sintesi dei progetti. Salto oltre il muro Onlus è una no profit che dal 2007 si occupa di far tornare a nuova vita cavalli maltrattati e abusati, ridando loro la fiducia nell’umano. È l’unica scuderia in Europa all’interno di un carcere (quello di Bollate, in provincia di Milano), riconosciuta dal ministero della salute come associazione affidataria di cavalli sequestrati e/o confiscati. I fondi raccolti verranno totalmente utilizzati per il mantenimento dei cavalli sequestrati e affidati alla Onlus, oltre quelli già presenti in scuderia. In particolare saranno utilizzati per pagare fieno (il cui prezzo è aumentato a 22 euro al quintale), mangimi specifici, spese veterinarie e farmaci, visite di maniscalchi e pareggiatori. Parma: seminario sulla realtà carceraria e presentazione del libro “Farsi la galera” di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 24 gennaio 2019 Alle ore 13 nel Penitenziario di Parma incontro organizzato da Università di Parma e Istituti Penitenziari. Giovedì 24 gennaio, alle ore 13 negli Istituti Penitenziari di Parma (via Burla 57), si terrà il primo seminario del ciclo “La sfida di diventare individuo” organizzato da Università di Parma e Istituti Penitenziari, sul tema del “pensare dentro” un carcere e della possibilità di divenire soggetti della propria vita. L’incontro sarà aperto dai saluti di Paolo Andrei, Rettore dell’Ateneo di Parma, e di Carlo Berdini, Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma. Elton Kalica e Francesca Vianello dell’Università di Padova presenteranno il libro “Farsi la galera”, di Elton Kalica e Simone Santorso, edito nel 2018 da Ombre Corte. Discutono con loro: Vincenza Pellegrino e Veronica Valenti dell’Università di Parma; Franca Garreffa dell’Università della Calabria; Claudio Conte e Antonio Sorrento del Polo Universitario Penitenziario di Parma. “Farsi la galera” è il prodotto di una ricerca collettiva svolta in carcere, e questo aiuta innanzitutto a capire l’interesse di un sapere riflessivo all’ interno di spazi come questo. Nel carcere si può pensare, fare ricerca, produrre sapere. Più specificamente, il libro è un contributo italiano a quella che, con una espressione inglese, è definita “convict criminology”. Si tratta di ricerche il cui obiettivo è di fare incontrare sguardi diversi sul carcere: quello del detenuto e quello del ricercatore. La voce di chi il carcere l’ha sperimentato sulla propria pelle si interseca e si intreccia con le parole di chi ha deciso di raccontarlo attraverso le proprie ricerche. In realtà, interessano tutte le voci del carcere: il testo si sviluppa sul filo di un racconto i cui protagonisti sono detenuti, operatori carcerari, volontari. Il volume offre una prospettiva inedita che riesce a dare voce alle diverse soggettività che vivono la realtà carceraria. Siena: incontri speciali alla Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2019 Sabato 19 gennaio 2019, grazie a Fondazione Toscana spettacolo, tre attrici Laura Marinoni, Roberta Lanave e Sara Bertelà del cast dello spettacolo di Gioele Dix, “cita a ciegas” (incontrarsi al buio), in scena al teatro dei Rinnovati di Siena, hanno incontrato i detenuti della Casa Circondariale di Siena. In questa occasione le attrici hanno illustrato ai detenuti la trama dello spettacolo e il significato recondito di esso, soffermandosi più in generale sull’esperienza della recitazione e ascoltando le testimonianze di quanti frequentano il laboratorio di teatro in carcere. Un proficuo scambio di sensazioni ed emozioni tra i partecipanti all’incontro, ben riassunto dal post pubblicato su Facebook da Laura Marinoni e che la stessa attrice ha fatto pervenire alla casella di posta elettronica dell’istituto. Al termine della visita i detenuti, in segno di ringraziamento, hanno omaggiato le attrici con un piccolo quadro, realizzato, per l’occasione, nell’ambito del laboratorio di pittura attivo da anni nella Casa Circondariale. Massa Marittima: detenuti e non attorno al tavolo, il bridge entra in carcere di Cinzia Valente gnewsonline.it, 24 gennaio 2019 Il bridge entra in carcere. È definito “lo sport della mente” perché non si tratta di un semplice gioco di carte ma di un esercizio in grado di stimolare la logica, la socialità e lo spirito di squadra: la concentrazione e la strategia sono essenziali per vincere tanto che alcuni studi scientifici hanno dimostrato i benefici della pratica del bridge. Riconosciuto dal Coni nel 1993 come disciplina sportiva, ha già varcato le porte di alcuni penitenziari attraverso corsi tenuti da istruttori designati dalla Federazione Italiana Gioco Bridge (Figb). Nel carcere di Rebibbia a Roma ha avuto inizio nel 2010 una lunga esperienza di volontariato introdotta e coordinata da Roberto Padoan, ex consigliere della federazione. Altri penitenziari hanno poi aderito al progetto: nel 2011 la casa di reclusione San Michele di Alessandria e nel 2018 il carcere di Bollate a Milano. “La richiesta di effettuare un corso di bridge nel carcere di Bollate ci è venuta da un detenuto - ricorda Francesco Ferlazzo Natoli, presidente della Figb, attraverso una email evidentemente autorizzata dalla Direzione dell’istituto. Abbiamo accolto l’idea subito e con grande entusiasmo, certi che la pratica del nostro gioco/sport se non altro può essere di grande aiuto per chi ha ‘problemi’ a occupare il tempo. Il bridge, una volta conosciuto nei suoi elementi essenziali, affascina e può veramente coinvolgerti mentalmente, a lungo, anche indipendentemente dal fatto di essere materialmente nella fase di gioco. Per i giovanissimi costituisce un forte stimolo per lo sviluppo delle capacità cognitive e per gli anziani una palestra formidabile per tener il cervello in buona efficienza”. Nella biblioteca messa a disposizione dalla direzione della casa di reclusione milanese, è nato un circolo del bridge che coinvolge un nutrito gruppo di detenuti seguiti dall’istruttore Eduardo Rosenfeld. Alle attività già esistenti, volte al reinserimento sociale dei detenuti dell’istituto, si aggiunge la pratica sportiva che allena la mente, vista in un’ottica riabilitativa. A fine corso è stato organizzato un torneo misto con coppie formate da detenuti e tesserati. “Pur essendo per me la prima volta in tale contesto - ci ha detto Rosenfeld - non ho avuto alcun problema e mi sono sempre sentito perfettamente a mio agio: il rapporto con gli allievi è sempre stato molto cordiale. Giocando a bridge si sono accorti, talvolta dopo qualche tempo, che bisogna mettere da parte una certa furbizia e un certo eccesso di protagonismo individualistico. Nel bridge ti accorgi che per giocare bene devi avere metodo, seguire la procedura, dialogare con il partner, scegliere le migliori probabilità, ragionare”. Dopo Bollate altri penitenziari hanno attivato il corso, ad Ancona Montacuto e Barcaglione, previsto il prossimo avvio anche a Massa Marittima. Livorno e Prato hanno già preso contatti con la FIGB per adottare il progetto. Migranti. Perché la “guerra lampo” non potrà funzionare di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 24 gennaio 2019 È necessario mettere le premesse affinché 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. L’ennesimo scontro sui migranti, stavolta generato dallo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, aiuta a definire meglio l’approccio di Matteo Salvini e dei suoi avversari sulla questione più sensibile almeno per due italiani su tre. Attorno al Centro d’accoglienza alle porte di Roma le opposizioni stanno levando alte barricate ideologiche e, in un nuovo slancio autolesionista, da sinistra si è giunti a evocare il nazismo e i pogrom. Chi non è del tutto privo di memoria ricorderà però che la chiusura dei Cara era obiettivo dichiarato, benché mai colto, dei governi a trazione Pd. Per motivi ragionevoli. Troppo grandi, costosi e malgestiti, nati come snodo di passaggio verso gli Sprar (i centri di seconda accoglienza) ma sempre usati in modo improprio (i richiedenti asilo restano in attesa per anni, a Castelnuovo si narrava di una bambina egiziana che vi fece l’intero ciclo delle elementari), spesso fonti di scandalo: il Cara di Crotone è finito sotto la ‘ndrangheta, quello di Mineo è stato un volano di voti di scambio, su Castelnuovo aveva messo gli occhi persino Buzzi, pur non riuscendo a concludere. Si sostiene che il Cara romano fosse un modello di integrazione: con quasi seicento ospiti (e a tratti più di mille) è difficile crederlo. La forza di Salvini sta dunque qui, nello strappo “barbarico” che lo spinge dove la sinistra non osa. Come con l’azzardo estremo della chiusura (nominale) dei porti, che ha svelato tanta ipocrisia europea e che però si sta riproponendo in queste ore con la nuova odissea di una nave Sea Watch e 47 profughi, così il vicepremier leghista strappa sui Cara. Solo che da qui cominciano i problemi. Perché chiudere Castelnuovo di botto, con un blitzkrieg, è un’avventura sciagurata in quanto, oltre a colpire diritti soggettivi, mette per strada almeno un quinto degli ospiti. La pattuglia degli Invisibili si ingrossa ulteriormente e le cose andranno peggio nei prossimi mesi con la cacciata progressiva dai centri di chi non ha più la protezione umanitaria ma non può essere rimpatriato in mancanza di accordi coi Paesi d’origine: a migliaia (130 mila in due anni secondo l’Ispi) finiranno nel limbo dei né espulsi e né accolti, in mano alla criminalità. Dunque la forza di Salvini è anche la sua debolezza, la filosofia della guerra lampo lo imprigiona. Temendo di essere raggiunto da problemi insolubili prima di incassare il dividendo elettorale promesso dai sondaggi, il vicepremier procede per strattoni e fughe in avanti. Si tratta invece di cambiare paradigma: un problema che non riguarda solo lui o il suo governo ma noi europei nell’insieme. Lungimiranti come gattini ciechi, ci siamo ridotti in 500 milioni a litigare su chi apre o chiude i porti a qualche centinaio di profughi sulle navi Ong, mentre l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, ci spiegava che in tutto il pianeta 68,5 milioni di persone nel solo 2017 sono state in fuga da guerre e persecuzioni. La zona più critica di questo disordine mondiale è l’Africa: sono 29 gli Stati coinvolti in guerre o guerriglie e 259 le milizie dal Burkina-Faso al Sudan, dalla Nigeria al Congo alla Somalia e, ovviamente, alla Libia che, al momento, non è neppure più uno Stato (dunque non si capisce in base a quale finzione possa essere titolare di una zona Sars, Search and Rescue, dove infatti non si viene salvati ma condotti a morte). Il summit di Ouagadougou ha previsto che nel 2030, causa desertificazione, saranno 135 milioni i “profughi climatici” e di essi 60 milioni saliranno dall’Africa sub sahariana al Nord Africa e (infine) all’Europa. Di fronte a questi dati enormi appaiono assai miopi due visioni. La prima, della destra sovranista, riduce migrazioni bibliche a epifenomeno di un fenomeno criminale: il traffico di esseri umani degli scafisti con la “complicità” di alcune Ong. Sostenere che fermate le Ong si fermino i viaggi è contraddetto dalla realtà (arrivano tuttora boat people a Lampedusa): l’unico risultato è tornare a prima del 2013 e di Mare Nostrum, con più naufragi e morti. La seconda visione, tuttavia, è altrettanto fuorviante, ed è quella irenica della sinistra altermondista: mentre accogliamo tutti basta aprire relazioni amichevoli, insegnare mestieri sul posto e sarà fatta, gli africani si riscatteranno da soli. Non è così. E non solo perché, ovviamente, non possiamo accogliere tutti, pena conflitti sociali ingestibili. Il primo passo, perché questo sogno di riscatto sia reale, è garantire dalle varie Boko Haram, Ansar al-Shari’a e milizie criminali assortite i nostri tecnici, maestri, medici: significa essere disposti a combattere. Il secondo passo è evitare che gli investimenti umanitari finiscano nei conti offshore dei mille dittatorelli locali. Per questo le liti con i tedeschi sulla missione Sophia o coi francesi sul loro presunto neocolonialismo sono nocive per tutti: il piano Marshall africano di cui parla Antonio Tajani ha senso solo se siamo in grado di seguire e proteggere quei miliardi di euro; un esercito comune europeo, domani, ci sarebbe necessario almeno quanto una vera unione bancaria. Nell’immediato i soccorsi sono doverosi. Ma più doveroso ancora, per governi europei degni di questo nome, sarebbe mettere adesso le premesse perché, domani, 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. Se non lo si usa come uno slogan diventa un impegno gravoso, forse troppo. E però la strada graduale è l’unica seria. Perché i blitzkrieg hanno un difetto esiziale: alla lunga vengono sopravanzati dalla realtà e dalla storia. Migranti. Guerra alle Ong, le “prove” di Salvini di Alfredo Marsala Il Manifesto, 24 gennaio 2019 Per il ministro dell’Interno: “Ci sono evidenze di contatti telefonici tra persone a bordo e scafisti”. Ma in nessuna inchiesta delle Procure di mezza Sicilia sono emersi rapporti tra le organizzazioni non governative e i trafficanti di esseri umani. Salvini lancia il sasso: “Alcune persone a bordo delle navi delle Ong” hanno avuto “contatti” con “alcuni trafficanti a terra”. Il ministro parla di “evidenze”, lasciando intendere che non si tratta di elementi già emersi in precedenti indagini. E avverte: “Gireremo le informazioni all’autorità giudiziaria” perché “sono temi che riguarderanno l’autorità giudiziaria, non il ministro dell’Interno”. Ma quali Ong? Cosa significa “alcune persone”? Quante? Sono volontari, operatori, armatori? Nulla. E cosa intende il ministro per “evidenze”? Forse ha avuto informazioni dai servizi? Se così fosse, come fa a sostenere che le girerà ai magistrati? Oppure ha ricevuto informative riservate da parte di esponenti delle forze dell’ordine senza che un magistrato ne sia a conoscenza? Mistero. Il capo del Viminale lancia il sasso, ma ritira la mano. Una boutade? Si vedrà. Oscar Camps, fondatore della Ong catalana Proactiva Open Arms, twitta: “Salvini ha anche le prove riguardanti i contatti tra la mafia, le imprese italiane e i trafficanti di petrolio libici? Visto che gli statunitensi sembra le abbiano”. Di certo, in questa storia, ci sono altre evidenze: quelle delle Procure di mezza Sicilia che hanno indagato sulle Ong. In nessuna delle inchieste sono emersi rapporti tra le organizzazioni non governative e i trafficanti di esseri umani. Eppure i pm - da Palermo a Ragusa da Trapani a Catania - hanno rivoltato come calzini le Ong spendendo migliaia e migliaia di euro per intercettazioni e investigazioni; in alcuni casi le inchieste sono state già archiviate, in altri sono aperte ma le indagini hanno virato su reati specifici, alcuni sorprendenti, come la violenza privata. A Palermo i magistrati non solo non hanno trovato prove a sostegno della tesi ma, archiviando due indagini, hanno sostenuto che l’attività delle Ong risulta in linea con le leggi italiane, nonostante i dubbi sollevati da più parti, soprattutto politiche. Furono una dozzina le Ong passate al setaccio dai pm, partendo da una operazione di soccorso del 15 maggio del 2017 al largo della Libia. Aperta all’inizio contro ignoti l’indagine coinvolse dodici organizzazioni, accusate di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. In base ad alcune testimonianze raccolte dai pm, un gruppo di “europei” avrebbe tagliato i cavi di avviamento del motore di alcuni barconi con a bordo i migranti, consentendo ad alcuni trafficanti di recuperare i motori da usare per futuri sbarchi. In quel gruppo qualcuno indicò il personale della Iuventa, una nave di Jugend Rettet, ong tedesca già al centro di un’inchiesta della procura di Trapani. Le procedure di soccorso erano poi state completate dalla Ong spagnola Proactiva Open Arms, che qualche mese dopo sarà sequestrata (e poi dissequestrata) dalla Procura di Catania nell’ambito di un’altra inchiesta. Nelle carte con cui i pm di Palermo chiesero e ottennero l’archiviazione si legge “alla luce delle indagini svolte, non si ravvisano elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle ong e i trafficanti operanti sul territorio libico”. Non solo: i magistrati hanno difeso l’attività delle Ong, citando le leggi che obbligano l’equipaggio di una nave a soccorrere persone che si trovano in difficoltà in mare, e i singoli stati ad accogliere chi fra loro intende fare richiesta di una protezione internazionale, citando la convenzione di Amburgo e legittimando la scelta di un’altra Ong tedesca, la Sea Watch, che aveva preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane invece che a Malta. Emblematico il provvedimento del Tribunale del Riesame di Ragusa secondo cui la “disobbedienza” delle Ong che scelgono di non cooperare con le autorità libiche è motivata dallo “stato di necessità” correlato al soccorso dei naufraghi. Un’ordinanza contro cui la Procura non ha avanzato ricorso in Cassazione, diventando giurisprudenza a cui possono appigliarsi tutti gli operatori che agiscono nel Canale di Sicilia. Sempre a Ragusa era stata inizialmente sequestrata, su disposizione dei pm di Catania, poi spogliata dalla competenza territoriale restituita ai magistrati ragusani, la nave di Proactiva Open Arms: il gip poi dispose la riconsegna all’equipaggio dell’organizzazione iberica. Anche a Trapani l’inchiesta, che ha coinvolto pure il sacerdote eritreo don Mosé Zerai con la sua agenzia umanitaria Habeshia, si è sgonfiata, nonostante siano stati usati infiltrati a bordo delle navi delle Ong: coinvolte Juventa, Dignity one, Bourbon Argos e Vos Prudence. Pure a Catania l’inchiesta del capo della Procura, Carmelo Zuccaro, alla fine ha preso una direzione diversa rispetto a quella iniziale: dai presunti rapporti tra Ong e trafficati di esseri umani al traffico di rifiuti pericolosi. Migranti. Salvini prova a difendersi: “Non c’è nessuna deportazione” di Francesco Grignetti La Stampa, 24 gennaio 2019 Bufera contro il ministro. Lui: “Mi date del nazista? Fate un torto a chi ne fu vittima”. Le parole sono quelle di sempre. Matteo Salvini al solito non indietreggia, ma attacca: “Mi date del nazista? Fate un torto a chi ne fu vittima. Non ci sono deportazioni. In questi giorni si ricorderà quello che accadde veramente di drammatico in passato; noi stiamo chiedendo il rispetto delle regole: diritti e doveri”. Eppure per la prima volta il ministro dell’Interno sembra sulla difensiva. Il blitz al centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, la redistribuzione in giro per l’Italia di tanti richiedenti asilo senza una parola di spiegazione, come anche il disinteresse per centinaia di disperati che scivoleranno fatalmente nella clandestinità, ha mostrato il volto più cattivo della sua amministrazione. E perciò Salvini convoca in fretta e furia i giornalisti per spiegare, precisare, annunciare. In sostanza, sente la necessità di riempire un vuoto d’informazione. “Mi ero impegnato a chiudere le megastrutture dell’accoglienza, dove ci sono sprechi e reati, come a Bagnoli, Castelnuovo di Porto, Mineo. E lo stiamo facendo”. In effetti era annunciato: oggi si chiude Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, domani accadrà a Mineo, vicino Catania. Ciò potrà lasciare senza parole (e senza lavoro) i 120 lavoratori della cooperativa Auxilium che gestiva il sito, ma la logica dei numeri è impietosa: “A Castelnuovo - dice - c’era il secondo più grande centro di migranti, era arrivato ad accogliere più di 1.000 persone. Lo Stato pagava 1 milione di affitto all’anno più 5 milioni per la gestione. Essendosi dimezzati gli immigrati ospiti di quel centro e liberati altri posti nel Lazio, è giusto chiudere quella struttura, risparmiare quelle risorse, liberando quella enorme struttura. Tutti gli ospiti che erano dentro con diritto saranno ospitati in altre strutture”. Sottinteso, quelli che non avevano il diritto, ad esempio quelli a cui non è stato rinnovato il permesso umanitario, sono fuori. È l’effetto del suo decreto. Poi, certo, nonostante la polemica furibonda da sinistra, con le storie delle famiglie sballottate in giro per l’Italia, e quelli messi alla porta, Salvini ci mette del suo: “Abbiamo fatto oggi quello che farebbe qualunque buon padre di famiglia”. E a chi, come Laura Boldrini, denuncia che c’è “la disumanità al potere”, il ministro reagisce da belva ferita: “Leggo tante parole al vento: deportazioni, nazismo. Si dovrebbero vergognare ad accostare uno dei più crudeli episodi della storia a una gestione dell’immigrazione basata sul rispetto”. Con gli occhi del Viminale, questo gennaio sta prendendo una piega positiva. “È il primo anno in cui in Italia si registrano più espulsioni che arrivi. A fronte di 155 arrivi, 221 rimpatri. A cui si possono aggiungere 368 respingimenti alla frontiera”. Ossia quelli che non riescono a varcare la frontiera in uno scalo aereo o marittimo. La stragrande maggioranza delle espulsioni restano però lettera morta. “Tornerò in Africa ai primi di marzo: sul fronte degli accordi di rimpatrio, con alcuni Paesi siamo in fase avanzata ma non anticipiamo nulla. Qualche problema in più c’è con Paesi asiatici come Bangladesh e Pakistan”. Si vanno riducendo anche i numeri dei richiedenti asilo: in un anno si è passati da 183mila a 133mila ospiti nelle strutture italiane. “Fate il calcolo, moltiplicando per 30 euro al giorno, di che tipo di risparmio quotidiano si tratti”. Secondo il ministro, buona parte di questi 50.000 sarebbero già all’estero. E anche le domande di asilo “sono state analizzate con scrupolo e i dinieghi sono passati dal 57% al 78%”. Non manca infine l’occasione di un ennesimo attacco alle odiate Ong. “Abbiamo evidenze investigative su contatti telefonici tra esponenti delle Ong sulle navi e trafficanti a terra. Le passeremo all’autorità giudiziaria”. Gran Bretagna. Vetri al posto delle sbarre in carcere, le perplessità di Antigone di Fabrizio Capecelatro cisiamo.info, 24 gennaio 2019 In Gran Bretagna le sbarre alle celle saranno sostituite da vetri antisfondamento. Abbiamo chiesto al coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni delle carceri dell’Associazione Antigone se è effettivamente una novità a favore dei detenuti. In Gran Bretagna non si potrà più dire che i detenuti sono finiti dietro le sbarre. Bisognerà dire “dietro al vetro antisfondamento”. Sì, perché il ministero della Giustizia britannico ha annunciato che le sbarre delle celle saranno sostituite da vetri antisfondamento. Una scelta che può sembrare molto all’avanguardia nel trattamento dei detenuti. Per questo ho voluto chiedere ad Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, se una modifica simile sarebbe attuabile anche in Italia. E, così, ho scoperto che non poche sarebbero anche le controindicazioni. Ha letto che in Gran Bretagna le sbarre saranno sostituite da vetri antisfondamento? “Le sbarre non sono di per sé un dispositivo efficace. Infatti ci sono stati casi di detenuti che hanno tagliato le sbarre e sono scappati. Per evitare questo, tutti i giorni in tutti le carceri del mondo, si fa la battitura delle sbarre. Gli agenti passano in rassegna le celle con un bastone di legno, che strofinano sulle sbarre per verificare che non siano state compromesse. Pertanto anche le sbarre non sono a costo zero. Se l’alternativa alle sbarre dovesse quindi presentare costi o oneri, teniamo quindi presente che anche le sbarre non sono da meno. Il vetro antisfondamento non è, però, un’invenzione recente. In Italia non vengono utilizzati nelle carceri, ma in altre tipologie di strutture detentive. Il problema per il quale mi sembra difficile convertire le strutture è la ventilazione. Una finestra con vetro antisfondamento non si può aprire in parte, perché - se si potesse aprire in parte - allora sarebbe possibile anche aprirla del tutto. Ci vorrebbe, pertanto, un sistema con ventilazione molto efficace, con la garanzia che non si rompa. Perché, se va in tilt il sistema di ventilazione in un carcere che non ha sistema di ventilazione alternativo, allora bisognerebbe necessariamente sgomberare tutta la struttura. Progettare un carcere dove c’è il rischio che una possibilità del genere si verifichi non è fattibile. Non è, a maggior ragione, fattibile nelle strutture preesistenti che non sono state progettate con questo scopo. Inoltre, se ci dovessi essere io in una cella dove non si può aprire la finestra, mi andrebbe bene solo se passo tante ore fuori dalla cella”. Quindi lei non la ritiene una novità positiva per i detenuti? “In condizioni ideali lo è. Ma non avverrà quasi mai in condizioni ideali. Le piccole cose che i detenuti hanno sono importantissime e prima toglierle bisogna pensarci sempre due o anche tre volte. La possibilità di aprire la finestra è una grande possibilità di respirare l’aria, di vedere in maniere più nitida l’orizzonte. È un bene che può sembrare elementare ma non lo è. Bisogna garantire ai detenuti un minimo di vivibilità, evitare problemi igenici e la propagazione di malattie. In questo senso la circolazione dell’aria è fondamentale. In Italia le celle, per legge, si chiamano camere di pernottamento, perché i detenuti dovrebbero starci solo di notte. Già se fosse così sarebbe tutta un’altra cosa”. Invece non è così? “Oggi è un po’ meglio di ieri, perché vige c’è il “regime a celle aperte” in tante sezioni detentive. Però anche il regime a celle aperte, se poi il detenuto non ha nulla da fare, passerà tutto il tempo a passeggiare in corridoio. E il corridoio è ventilato solo dalle finestre della celle”. Le sbarre, però, hanno un impatto psicologico importante… “Sì, ci sono anche studi medici sul fatto che gli occhi non devono disabituarsi a vedere lontano. Le sbarre invece limitano il campo visivo. Le sbarre non sono una cosa bella. I vetri alle finestre sono meglio, ma bisogna adeguare l’intero sistema carcerario, altrimenti il rischio è che diventino peggio delle sbarre”. Iran. Sindacalisti arrestati per aver denunciato le torture di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 gennaio 2019 Esmail Bakhshi e Sepideh Golian, due sindacalisti iraniani che avevano denunciato di aver subito torture tra novembre e dicembre dello scorso anno, sono stati nuovamente arrestati il 19 gennaio e rischiano ulteriori torture. Bakhshi e Golian erano stati arrestati il 18 novembre per aver preso parte a una manifestazione pacifica di fronte alla sede del governatore di Shush, nel Khuzestan, per chiedere la ripresa del versamento degli stipendi a migliaia di operai del complesso industriale di Haft Tappeh, dove si produce canna da zucchero. Rilasciati su cauzione un mese dopo, i due sindacalisti avevano denunciato che nel corso della detenzione erano stati picchiati, sbattuti violentemente contro un muro, buttati a terra, umiliati e minacciati di stupro e omicidio. Golian aveva dichiarato di essere stata chiamata “prostituta” e di essere stata accusata di “fare sesso coi lavoratori”. I suoi aguzzini avevano poi minacciato di avvisare i genitori perché venissero a ucciderla onde tutelare l’onore della famiglia. Bakhsi, sul suo profilo Instagram, aveva raccontato di essere stato picchiato così forte, con calci e pugni, da non potersi muovere dal dolore per 72 ore e aveva sfidato il ministro dell’Intelligence a un dibattito televisivo sulla tortura. Il post di Bakhshi aveva generato proteste in tutto il paese, costringendo le autorità a promettere un’indagine e inviare ispettori nelle prigioni del Khuzestan. Queste promesse si sono rivelate ben presto false. Il 19 gennaio la tv di stato ha mandato in onda le “confessioni”, evidentemente estorte con la tortura, dei due sindacalisti: Bakhshi e Gholian si sono auto-accusati di collusione con “gruppi marxisti e comunisti” all’estero per rovesciare il sistema attraverso scioperi e manifestazioni degli operai. Ecco cosa accade in Iran a chi denuncia di aver subito violazioni dei diritti umani. Avvocati minacciati, la Turchia conferma l’accanimento contro il diritto alla difesa di Ezio Menzione* Il Dubbio, 24 gennaio 2019 In Turchia ci sono 216 avvocati condannati; 594 sono stati arrestati nel corso degli ultimi anni; 1546 sono quelli contro cui si è proceduto penalmente. L’accusa nei confronti di moltissimi di questi muove dal tentato golpe del luglio 2016, ed è di terrorismo per avere appartenuto alla fazione di Gulem, che avrebbe organizzato il tentato golpe; ma è di terrorismo anche l’accusa contro gli avvocati già indagati o carcerati in precedenza, molti di meno, ma numeri comunque significativi, in quel caso per appartenenza o fiancheggiamento del partito comunista curdo. I numeri parlano chiaro: si procede contro gli avvocati ma si intende colpire il diritto di difesa. Così come l’attacco contro i giornalisti, colpendoli a migliaia, è attacco contro il diritto di informazione. La giornata dell’Avvocato Minacciato, che cade il 24 di gennaio, è stata istituita ormai parecchi anni fa da alcune associazioni e agenzie internazionali che monitorano specificamente la situazione del diritto di difesa e, per quanto riguarda l’Italia, ha trovato l’adesione dell’UCPI e del Cnf e di altre organizzazioni. E per questo l’Unione delle Camere Penali, tramite il suo Osservatorio sugli Avvocati Minacciati, ha convenuto di mettere sotto l’obbiettivo dell’opinione pubblica - e soprattutto sotto quello degli avvocati penalisti italiani - la situazione della Turchia. Ed è la seconda volta, a distanza di pochi anni, che l’annuale giornata dedicata agli avvocati in pericolo mette a fuoco l’orribile situazione di questo paese. Altri anni la giornata fu dedicata alla Cina, all’Egitto e ad altri paesi ancora: purtroppo sono moltissimi i governi che considerano il diritto di difesa un inutile orpello, quando non un intralcio ai propri fini. E conseguentemente si accaniscono sugli avvocati proprio perché sono una voce libera, magari dell’opposizione. Il paradigma attraverso cui si perseguitano gli avvocati è in genere - in tutti i paesi, ma soprattutto in Turchia - la identificazione fra il difensore e coloro che egli difende: se difendi i terroristi, sei terrorista (partecipe o fiancheggiatore, fa lo stesso) anche tu. Peggio ancora: talvolta nei capi di imputazione si leggono imputazioni che consistono nell’avere difeso troppo bene o con troppa attenzione i propri assistiti: insomma per avere fatto “troppo bene” il proprio dovere. Spesso il diritto di difesa è accompagnato anche dall’attacco ai magistrati e dall’emanazione di norme che vanno a colpire direttamente tale diritto. Ciò è avvento massimamente in Turchia, dove negli ultimi due anni e mezzo migliaia di magistrati sono stati rimossi e molti incarcerati, intimidendo così l’intera categoria e togliendole il bene supremo dell’indipendenza. E dove, con la scusa dell’emergenza, è stato ampliato lo stato di fermo e limitato il diritto ai colloqui dell’avvocato col proprio assistito detenuto; oppure è stato stabilito che se un avvocato è indagato per un determinato reato non può difendere in casi in cui si discuta dello stesso tipo di reato. Ma l’elenco potrebbe andare avanti per pagine intere e ad ogni rigo farebbe sussultare chiunque abbia a cuore il diritto di difesa, come baluardo per la difesa di ogni altro diritto fondamentale. Né accade che i processi mettano capo a sentenze magari ingiuste, ma miti. Tutt’altro, sono molti gli avvocati che sono stati condannati negli ultimi mesi in primo grado a pene che non stanno affatto nella condizionale, e che arrivano invece a dieci, quando non dodici anni. Riteniamo dunque giusto far conoscere agli avvocati italiani e all’opinione pubblica in generale l’attacco che i colleghi turchi stanno subendo affinché monti l’indignazione contro il governo turco ed il suo mancato rispetto dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. *Osservatorio Avvocati Minacciati dell’Ucpi Israele. 1200 detenuti nel carcere di Ofer iniziano sciopero della fame infopal.it, 24 gennaio 2019 Oltre 1.200 prigionieri palestinesi nella prigione israeliana di Ofer hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato, in segno di protesta contro le continue violazioni dell’occupazione contro di loro, secondo quanto riportato dall’agenzia Shehab News. 150 prigionieri palestinesi sono stati feriti quando la polizia militare speciale israeliana ha preso d’assalto la prigione di Ofer, lunedì mattina. Secondo il PPC, sei prigionieri hanno sofferto di fratture, 40 sono rimasti feriti alla testa e sono stati suturati e gli altri hanno riportato varie ferite causate dall’uso di proiettili di metallo rivestiti di gomma e di gas lacrimogeni. In risposta alla violenta repressione israeliana, i detenuti rifiutano il cibo e le offerte dell’amministrazione penitenziaria a incontrare i rappresentanti dei detenuti, a meno che tutte le fazioni non siano rappresentate. Filippine. La riforma di Duterte: “Bimbi di nove anni potranno finire in galera” di Gerry Freda Il Giornale, 24 gennaio 2019 L’abbassamento dell’età minima per la detenzione in carcere è stato ripetutamente bollato dai partiti di opposizione come un “brutale attentato ai diritti dei più deboli”. Nelle Filippine non si placano le polemiche scatenate da un disegno di legge, voluto dal presidente Duterte, che rende i bambini di nove anni “punibili con il carcere”. Il provvedimento in questione sarà a breve approvato da entrambi i rami del parlamento nazionale, controllati dalla formazione politica guidata dal capo dello Stato, il Partido Demokratiko Pilipino-Lakas ng Bayan. La riforma riduce “da quindici a nove anni” l’età minima per finire in prigione ed è stata presentata da Duterte come un “passo importante” verso un’effettiva “tolleranza zero” nei confronti del crimine. Il leader asiatico ha affermato che la modifica normativa mira in particolare a colpire il business del narcotraffico: “Le gang dedite al commercio di stupefacenti, beneficiando delle norme lassiste previgenti, hanno finora assoldato migliaia di ragazzi con meno di 15 anni di età per svolgere il lavoro sporco, ossia per fare gli spacciatori e i corrieri della droga. La polizia aveva di conseguenza le mani legate, poiché i minori arrestati non erano imputabili, ed era costretta a scarcerarli subito, con grasse risate da parte dei narcotrafficanti. Ora però questo andazzo sta per venire interrotto. Grazie alla legge in via di approvazione, finalmente la manovalanza minorile delle gang andrà in galera e queste ultime perderanno così sempre più spacciatori e corrieri”. L’abbassamento a nove anni dell’età minima per la detenzione in carcere è stato ripetutamente bollato dai partiti di opposizione come un “brutale attentato ai diritti dei più deboli”. Ad esempio, il senatore liberale Francis Pangilinan ha etichettato la stretta voluta da Duterte come “spaventosa” e ha affermato che, per colpa di quest’ultima, “migliaia di bambini verranno scaraventati in celle già occupate da detenuti adulti, sovraffollate e prive delle condizioni igieniche essenziali.” Critiche alla riforma propugnata dal leader di Manila sono state avanzate anche da organizzazioni umanitarie come il Child Rights Network. Tale ong, per bocca del suo presidente Romeo Dongeto, ha definito l’imminente approvazione del disegno di legge promosso dall’esecutivo nazionale come una “pagina nera nella storia delle Filippine”. Cina. Scrittore detenuto per “spionaggio” di Francesco Volpi interrs.it, 24 gennaio 2019 Il caso rischia di creare un incidente diplomatico fra Pechino e Canberra. Yang Hengjun, scrittore australiano ed ex diplomatico cinese, si trova in regime di detenzione per il sospetto di avere condotto attività che minacciano la sicurezza dello Stato. Lo ha confermato la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, nel corso della conferenza stampa odierna, parlando di “misure coercitive” nei suoi confronti. Il caso - La notizia della scomparsa di Yang, in seguito a un viaggio in Cina con la moglie e il figlio, era emersa nella giornata di ieri dal governo australiano, e secondo una persona che conosce lo scrittore e blogger di origini cinesi, citata dal Guardian, l’uomo si trovava in stato di detenzione in Cina. Secondo l’avvocato di Yang, Mo Shaoping, citato dall’agenzia Reuters, il suo caso viene gestito ora dal ministero della Sicurezza Statale, l’agenzia del governo cinese che si occupa dello spionaggio. Il personaggio - Yang è noto per la sua attività di blogger, oltreché di scrittore, e dal suo blog ha in più occasioni trattato argomenti relativi al governo cinese. Secondo quanto dichiarato nelle scorse ore dal ministro della Difesa australiano, Christopher Pyne, l’uomo si troverebbe in regime di sorveglianza residenziale “che sarebbe normalmente descritta come arresto domiciliare”. Il suo caso è il terzo in poche settimane di un cittadino straniero indagato per attività che minacciano la sicurezza statale, dopo quelli dei cittadini canadesi, Michael Kovrig e Michael Spavor, detenuti dal 10 dicembre scorso: i loro casi vengono spesso messi in relazione all’arresto a Vancouver della direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, anche se Pechino ha sempre smentito un collegamento tra le vicende, insistendo per la libertà completa della numero due del colosso delle telecomunicazioni, rilasciata su cauzione, che rischia l’estradizione negli Usa per il sospetto di violazione delle sanzioni all’Iran.