Mediazione comunitaria in ambito penitenziario di Pietro Barabino Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2019 Dal Messico a Bollate, il metodo che riduce i conflitti tra detenuti. “Il carcere non è un luogo dove marcire, piuttosto una monumento che celebra i punti dove la nostra società ha fallito nel costruire convivenza” così Danilo De Luise della Fondazione San Marcellino sintetizza la visione che ha ispirato il progetto di “mediazione dei conflitti tra pari” all’avanguardia che l’associazione genovese porta avanti dal 2015 all’interno della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate, a margine della presentazione del libro “Mediazione comunitaria in ambito penitenziario” curato da Juan Pablo Santi. “La mediazione comunitaria aiuta le persone ad accettare i conflitti e offre le capacità per affrontarli in modo nonviolento - spiega Santi, responsabile del progetto di ricerca/azione - Non solo cerchiamo di migliorare il rapporto dei detenuti con se stessi e tra loro, ma proviamo anche a offrire strumenti personalizzati per affrontare con maggiore consapevolezza e preparazione il reinserimento nella società”. L’idea di contrastare l’escalation di conflitti che inevitabilmente si generano in uno spazio chiuso come il carcere e ridurre la tendenza cronica delle carceri a trasformarsi in discariche sociali che riproducono marginalità, nasce dal confronto con l’esperienza del Ce.Re.So n° 1 di Hermosillo a Sonora, in Messico. “Un luogo di repressione e concentramento - spiega Mara Morelli, presidente dell’Associazione di Mediazione Comunitaria - dove fino al 2006, prima di lanciare questa modalità di affrontare i conflitti, che ora è riconosciuta come buona pratica a livello internazionale, si verificavano continuamente risse durante le quali moriva un detenuto ogni mese. Se un metodo come questo ha funzionato lì, ci siamo detti, sicuramente avrebbe funzionato altrettanto riadattandolo alla diversa e meno estrema situazione italiana, e così effettivamente è stato”. “Se il carcere è spesso un luogo inumano, inumano non è chi dentro ci vive o ci lavora - ha sottolineato nel suo intervento Adriano Patti, magistrato e giudice della Corte Costituzionale - quindi non può venire ridotto alla sola pretesa punitiva dello Stato”. “L’idea di fondo - spiegano gli operatori sociali - in contro tendenza con il vento forcaiolo e vendicativo che sembra soffiare in Italia, portando molti a invocare anche un’estensione estrema della legittima difesa che darebbe più valori e diritti alle “proprie cose” che alla vita umana, è quella che non sia aumentando la repressione e l’isolamento, ma al contrario socializzando i problemi e conflitti, che si aumenta la sicurezza personale e collettivi”. Dov’è stato applicata, questa modalità che disinnesca gli scontri violenti formando alla capacità di dialogo ha ridotto il tasso di recidiva e agevolato anche il dialogo con le famiglie, arginando quindi almeno in parte i problemi delle sovraffollate carceri italiane. La salute mentale fuori dal carcere, parola alla Consulta di Daniele Piccione Il Manifesto, 23 gennaio 2019 Questa attuale è una stagione crudele in cui domina il diritto penale dell’emotività. Esso alimenta equivoci. Il più pericoloso risiede nell’equazione tra certezza della pena ed esecuzione della misura privativa della libertà in carcere. Eppure, chi conosce il carcere per ragioni professionali o di studio sa che la pena intramuraria è criminogena. Determina spinte antitetiche rispetto al comando dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La permanenza in carcere recide i legami sociali di appartenenza e indirizza alla recidiva. Questo banale rilievo trova un moltiplicatore severo nel volto che il carcere sta assumendo negli ultimi mesi. È allora inevitabile tornare a parlare della tragica amputazione del corpo di riforme del sistema penitenziario strozzate nella culla, pur dopo essere giunte a un passo da un varo che si attendeva da un quarantennio. Tra le pieghe dei decreti legislativi elaborati dalle Commissioni nominate dall’allora Ministro della Giustizia, vi era un ampio progetto di tutela della salute mentale delle persone sottoposte a pena. Ed è proprio questa ad essere risultata la più dolorosa tra le soppressioni: quella ai danni di una riforma progressista per cui la migliore cultura giuridica si era spesa senza riserve, dall’indomani del 1978, in cui si abolirono gli ospedali psichiatrici provinciali, fino agli Stati Generali dell’esecuzione penale con cui si intendeva umanizzare e sviluppare la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Di fronte ad una situazione disumana dimostrata dai dati relativi alla sofferenza psichica nelle carceri, si rivela dirompente e lancinante l’incompatibilità tra salute mentale e stato di cattività. Per sanare questa ferita, le Commissioni ministeriali avevano elaborato tre linee di intervento: il rinvio facoltativo della pena nei riguardi di persone affette da gravi infermità psichiche; l’ideazione di nuovi modelli di misure alternative terapeutiche non coercitive; la previsione di sezioni specializzate ad esclusiva gestione sanitaria, per i detenuti con infermità mentale sopravvenuta. Sarebbe dovuta essere la riforma complementare e di definitivo perfezionamento, dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma un tratto di penna è bastato a vanificare uno slancio riformatore che aveva visto partecipi il Consiglio Superiore della Magistratura, la psichiatria di territorio, autorevoli penalisti e costituzionalisti, una vasta rete di giudici di sorveglianza, intellettuali e operatori sociali uniti con l’avvocatura. Per fortuna si profila, nelle prossime settimane, un’opportunità decisiva per rendere più umano il nostro trattamento penitenziario. La Corte Costituzionale si pronuncerà su una questione di legittimità, sollevata coraggiosamente dalla Corte di Cassazione, in materia di trattamento del detenuto che vive l’esperienza del disturbo mentale. Se la questione prospettata dai giudici di legittimità fosse accolta, si potrà estendere la misura alternativa della detenzione domiciliare in luogo di cura, già ammessa per coloro che soffrono di malattie fisiche, anche ai detenuti affetti da una grave infermità psichica. Si tornerebbe, così, alla preziosa e colta intuizione che fu di Franco Basaglia: non si può curare il disturbo mentale tra le mura delle istituzioni totali. Questa è soltanto una delle molte ragioni per cui guardare con speranza alla decisione della Corte Costituzionale attesa per il prossimo febbraio. In caso di accoglimento della questione, si incrinerebbe il dogma del “tutto dentro il carcere e niente fuori”; si dissiperebbero alcune tra le ombre più inquietanti che percorrono questo nostro inverno segnato dai venti securitari e dal ritorno al cieco sorvegliare e punire. Non si può morire di carcere di Samuele Ciambriello* Il Roma, 23 gennaio 2019 Le galere servono a togliere la libertà, non la vita. Si torna, periodicamente, a trattare questo argomento. Di pochi giorni fa è la notizia della morte di un uomo di 54 anni nel carcere di Fuorni, un detenuto malato, tossicodipendente e costretto alla sedia a rotelle. Le cifre sono allarmanti: lo scorso anno, all’interno degli istituti penitenziari campani, si sono registrati 9 suicidi, a cui vanno drammaticamente ad aggiungersi quelli di 3 di detenuti agli arresti domiciliari, 8 morti per malattie e 5 decessi di cui ancora bisogna accertare cause o eventuali negligenze. Il carcere in cui è avvenuto il maggior numero di suicidi è stato quello di Poggioreale (5 morti), uno ciascuno a Carinola, Secondigliano. Santa Maria Capua Vetere e Salerno (una donna). Non voglio limitarmi, però, a snocciolare soltanto numeri, anche se, su 67 suicidi totali in Italia, la nostra regione vanta un buon primato negativo. La Campania conta in totale 7.660 detenuti, su una capienza massima di 6.142 posti, con 380 donne e 1.008 immigrati. Tra le cause principali dell’alto tasso di questi tragici episodi vi sono il degrado e il sovraffollamento, ma anche la mancanza di comunicazione, di ascolto e di figure sociali di riferimento. Va rafforzato, a tal proposito, il sistema di prevenzione varato dal Ministero nel 2016 e, contestualmente, bisogna agire con una maggiore formazione specifica per gli agenti di polizia penitenziaria e l’area educativa, al fine di prevenire e intuire il disagio che poi porta al suicidio. È necessario, inoltre, il supporto di figure come psicologi e assistenti sociali, nonostante la cronaca recente abbia dimostrato - con i 140 suicidi sventati dalla Polizia penitenziaria o dai compagni di cella negli ultimi due anni - che la solidarietà, tra le mura degli istituti, c’è e che il carcere sa essere meno Caino della società esterna. L’assistenza sanitaria in alcuni casi è disastrata, va rafforzata la presenza degli educatori nei reparti e nelle sezioni. Per questo chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno dì riflettere e intervenire. Dal mio canto, rafforzerò gli uffici del Garante con esperienze di ascolto e sportelli informativi. Bisogna sconfiggere, insieme, l’indifferenza a questo stato di cose, coinvolgendo istituzioni e parti sociali. Il tema della prevenzione non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire in carcere, ma richiama all’impegno il mondo della cultura, dell’informazione e dell’amministrazione centrale e locale, perché la perdita di giovani vite - a un ritmo più che settimanale - sia assunta nella sua drammaticità come tema di effettiva elaborazione di una diversa attenzione alle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce. I principi di certezza della pena e della sua funzione rieducativa possono considerarsi davvero effettivi solo se per le pene detentive nelle carceri - ma lo stesso vale per le misure cautelari - sono garantite condizioni di dignità e umanità, principi costituzionali imprescindibili. *Garante campano delle persone private della libertà personale La Cedu: va tutelato chi è sottoposto a controlli di polizia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2019 La Corte ha ribadito che il ricorso alla forza fisica, che non sia imposto da comportamenti particolari, svilisce la dignità umana. archiviati diversi casi di maltrattamento. Le persone sottoposte a fermo di polizia o che sono semplicemente condotte o invitate a presentarsi a un posto di polizia al fine dell’identificazione o dell’interrogatorio, e, più in generale, tutte le persone sottoposte al controllo della polizia o di un’analoga autorità, si trovano in una situazione di vulnerabilità e le autorità hanno conseguentemente il dovere di proteggerle. È un principio più volte ribadito dalla Corte europea di Strasburgo dei diritti umano (Cedu) in diverse sentenze (non solo per quanto riguarda l’Italia) relative ai maltrattamenti delle forze di polizia e autorità pubbliche in generale. Il caso di Arafet Arfaoui, il 31enne di origini tunisine, accusato di aver utilizzato una banconota falsa e deceduto giovedì scorso in un money transfer di Empoli durante un fermo di polizia, ha evocato altre circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Diversi casi di maltrattamento finiscono con l’archiviazione e in alcune circostanze, la stessa Corte Europea ha stigmatizzato tale azioni, perché “le autorità devono sempre compiere un serio tentativo di scoprire che cosa sia accaduto e non devono fare affidamento su conclusioni frettolose o infondate per chiudere le indagini o utilizzarle come base delle loro decisioni”. Un mese fa, la Cedu ha presentato al Parlamento la sua relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce nei confronti dell’Italia, con riferimento al 2017. C’è un capitolo a parte dove viene ricordata la sentenza Pennino Tiziana contro l’Italia. La ricorrente fu fermata, mentre era alla guida della sua auto, dalla polizia municipale di Benevento, che aveva ritenuto, dalle condizioni di guida (frenate improvvise e bruschi cambi di corsia), che fosse in condizioni di alterazione per assunzione di alcool. Ne seguì un alterco con gli agenti che, convinti dello stato di ebbrezza della signora, chiesero l’intervento di una pattuglia della polizia stradale per sottoporla ad un test con l’etilometro. A causa dello stato di agitazione in cui versava non fu possibile effettuare il test e pertanto la signora Pennino fu condotta presso il Comando di Polizia municipale per la redazione del verbale di contestazione per guida sotto l’influenza dell’alcool. La condanna da parte della Cedu si basa sui fatti che si svolsero da questo momento in poi, sulle cui concrete modalità di svolgimento sono state registrate due versioni opposte: l’una, prospettata dalla signora Pennino sia in sede di denuncia nazionale che di ricorso alla Corte europea, l’altra, narrata in termini concordanti dagli agenti e funzionari di Polizia municipale e stradale. La ricorrente ha sostenuto di aver subito, presso il Comando di Polizia, maltrattamenti e ferite dagli agenti presenti (la frattura del pollice, a causa delle manette, ed ecchimosi alla coscia sinistra, ai polsi e al dorso delle mani sono state confermate dai referti medici prodotti dalla ricorrente che, dopo il rilascio, si era recata in ospedale). La versione dei fatti contenuta nel verbale redatto congiuntamente dall’ufficiale in servizio presso il Comando e dai due agenti riporta che la Pennino si trovava in un grave stato di agitazione che richiedeva un’azione di contenimento con l’uso di braccialetti contenitivi. La ricorrente sporse denuncia nei confronti degli agenti che l’avevano fermata durante la guida e di quelli presenti presso il Comando di Polizia, affermando di essere stata aggredita e picchiata, di aver subito lesioni personali, abuso d’ufficio e minacce. Fu avviata un’indagine per la quale, tuttavia, il Pm chiese l’archiviazione, confermata dal Gip. Di contro, la ricorrente fu accusata di diversi reati, fra i quali, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e guida sotto l’influenza dell’alcool, nonché lesioni personali a un agente di polizia. Sottoposta a processo per tali fatti, la Pennino scelse il patteggiamento e fu condannata ad una pena lieve. Italia condannata - Nel ricorso alla Cedu la signora Pennino ha lamentato di essere stata maltrattata dalla polizia e che l’indagine relativa alle sue accuse non era stata esauriente né efficace. La Corte ha preliminarmente ribadito che, secondo la propria giurisprudenza, qualora una persona sia privata della libertà, o, più in generale, debba affrontare gli agenti delle forze dell’ordine, il ricorso alla forza fisica, che non sia rigorosamente imposto dal comportamento della stessa, svilisce la dignità umana e costituisce una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Convenzione. Ha ribadito, inoltre, che tutte le accuse di maltrattamenti contrari all’articolo 3 devono essere corroborate da prove “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ricordando, in relazione alle prove, che, qualora i fatti siano interamente, o in gran parte, di esclusiva conoscenza delle autorità, come nel caso di persone che si trovino in custodia sotto il loro controllo, sorgono forti presunzioni fattuali in ordine alle lesioni verificatesi nel corso di tale detenzione. L’onere della prova, in questi casi, spetta quindi al Governo, che deve fornire una spiegazione soddisfacente e convincente, conducendo indagini approfondite e producendo solide prove di accertamento dei fatti. Ciò è giustificato dal fatto che le persone sottoposte a custodia si trovano in una posizione vulnerabile e le autorità hanno il dovere di proteggerle. La Corte ha ricordato anche che l’articolo 3 della Convenzione pone a carico dello Stato l’obbligo positivo di formare le proprie forze dell’ordine in modo da garantire un elevato livello di competenza nel loro comportamento. Archiviazione frettolosa e standardizzata. Un altro aspetto che la Corte ha ritenuto problematico in ordine all’esaustività delle indagini condotte a livello interno, è la motivazione estremamente succinta della richiesta di archiviazione del procedimento formulata dal pubblico ministero, che appariva redatta in modo standardizzato, e della decisione del giudice per le indagini preliminari in tal senso. Ha rilevato, infine, che il Gip non aveva motivato il diniego opposto alla richiesta della ricorrente di ulteriori atti d’indagine. La Corte ha, quindi, concluso che vi è stata violazione dell’articolo 3, sotto il duplice profilo: procedurale, dal momento che le autorità inquirenti avevano omesso di condurre con la diligenza necessaria le indagini in relazione alle accuse formulate dalla ricorrente, sulle circostanze relative all’uso della forza da parte della polizia, durante il tempo in cui era trattenuta presso il comando di polizia e, conseguentemente, sulla necessità dell’uso di tale forza; sostanziale, poiché il Governo non aveva adempiuto al proprio onere di fornire una prova adeguata e soddisfacente, né chiarendo le circostanze in cui si erano prodotte le lesioni subite dalla ricorrente né dimostrando che l’uso della forza era rigorosamente necessario nel caso di specie. Casi simili sono ricorrenti. La Corte ha ricordato che sono sotto monitoraggio altre situazioni, come la sentenza Alberti c. Italia del 24 giugno (ove l’Italia è stata condannata per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per i maltrattamenti subiti dall’interessato durante l’arresto, eseguito dai Carabinieri), e per il quale il Segretariato ha sollecitato ulteriori informazioni, concernenti, in particolare, le eventuali procedure disciplinari avviate nei confronti dei responsabili dei trattamenti vietati dall’articolo 3 della Convenzione. In sede di predisposizione del piano d’azione per l’esecuzione della pronuncia in esame, la Corte dedica particolare attenzione alle informazioni concernenti i procedimenti disciplinari previsti, la loro applicazione, l’eventuale adozione di misure cautelari (quali la sospensione dal servizio), l’eventuale riapertura delle indagini. Tali informazioni sono state richieste ai competenti Uffici ministeriali e giudiziari e se ne darà conto nella prossima Relazione al Parlamento. Detenuti e lavori di pubblica utilità: ciò che è stato fatto e ciò che c’è da fare di Vincenzo Lo Cascio* gnewsonline.it, 23 gennaio 2019 Le Linee Programmatiche messe nero su bianco dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini a inizio dello scorso dicembre indicano la via per migliorare il funzionamento di una istituzione importante e complessa come il Dap. Fra queste, parlando di lavoro per i detenuti, si fa espresso riferimento al lavoro di pubblica utilità (art. 20ter o.p.). Il primo esperimento è stato realizzato con grande successo a Roma e ha riguardato gli istituti di Rebibbia Nuovo Complesso, Rebibbia Reclusione e Rebibbia Femminile. La start-up romana ha innescato l’avvio di una bonifica culturale del carcere con il coinvolgimento attivo della Polizia Penitenziaria e ha aperto spazi nuovi al senso di umanità. Nessuno infatti può essere così ingenuo da pensare di poter rieducare tutti, ma la costituzione di una task-force specificamente dedicata al lavoro di pubblica utilità ha scatenato grossi entusiasmi sia tra la Polizia Penitenziaria sia nella popolazione detenuta. I detenuti selezionati per questi lavori si fidano e si affidano agli agenti e questi ultimi, grazie a quella bonifica culturale di cui sopra, divengono i Garanti del rispetto delle regole e dei diritti dei detenuti lavoratori. È nato in questo modo il format “Mi Riscatto per…”, nuovo e moderno esempio di best practice che, dopo Roma, altre città stanno replicando con successo, dando piena esecuzione all’articolo 20 ter del Decreto Legislativo del 2 ottobre 2018 n. 124 e che ora anche l’Onu ci invidia. Se è vero che il Rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) in Messico ha scritto al Ministro Bonafede e al Capo del Dap che “Mi riscatto per Roma’ può essere di grande interesse per il Messico e per questo abbiamo intenzione di verificarne la sua trasferibilità”. Il progetto, avviato a fine marzo e poi siglato ufficialmente nell’agosto dello scorso anno, ha consentito di eseguire fino a oggi circa 4mila interventi. Nel 2019 i lavori di pubblica utilità sul territorio romano coinvolgeranno 190 detenuti: 50 destinati alle aree verdi e già formati dal Servizio giardini del Comune di Roma, con rilascio di attestato e abilitazione; 30 già formati da Autostrade per l’Italia, con tanto di attestato professionale per operare in qualità di asfaltatori e manutentori di strade; 50 saranno formati entro metà febbraio da Ama Roma, con attestato di operatore ecologico, e così altri 50 detenuti di Rebibbia Reclusione; 10 detenute del femminile infine saranno formate dal Servizio Giardini, con successivo rilascio di attestato e abilitazione. Il positivo impatto dell’iniziativa ha consentito ai detenuti coinvolti di essere apprezzati dai cittadini romani per il risultato ben visibile del lavoro realizzato e questo contribuisce, indubbiamente, a dar loro fiducia nel futuro. L’azione mediatica del Campidoglio ha consentito inoltre di richiamare l’attenzione sul carcere come luogo dedicato alla misura cautelare, ma che deve avere una sua utilità. Questa importante chiave comunicativa ha pressoché distrutto la falsa pietà e la costernazione dolorosa che spesso circonda le carceri: puniamo, ma poi ci vergogniamo di averlo fatto e nascondiamo i luoghi di pena, prostrandoci per la malasorte di chi vi è ristretto. Come se la Giustizia, e quindi le condanne, fossero di derivazione divina e non comminate in nome del popolo italiano. Con ciò si abbandona anche quanto di più alto possa esserci nel concetto di punizione: se vogliamo punire per rieducare (ed è questo il senso della pena per i Padri Costituenti), dobbiamo avere il coraggio di farlo dando dignità umana alla pena e non nasconderla, non ammantarla con quella vena di dolore che blocca ogni discussione. Il domani di una persona detenuta si costruisce solo se si ragiona in termini di sicurezza per la società. E così a Milano si è replicato: “Mi Riscatto per Milano” ha coinvolto Lend Lease, multinazionale australiana quotata in borsa, che ha analizzato il modello romano facendolo suo e divenendo partner strategico del Dap. Sono stati coinvolti anche la Regione Lombardia, il Comune di Milano, la Città Metropolitana di Milano, Fits, Ance, Plus Value: ciascuno per le proprie competenze partecipa allo sviluppo del progetto denominato “21/21”. Trecento i detenuti impegnati in tre anni per la rigenerazione urbana dell’area ex-Expo, con formazione professionale e il coinvolgimento di Ance per clausola sociale utile per l’assunzione delle persone detenute. A seguire è stata la volta di Palermo, che ha sottoscritto “Mi Riscatto per Palermo”: a l’Ucciardone è stato selezionato un primo contingente di 50 detenuti, che arriveranno a 100 entro fine anno. A Napoli, dove il protocollo d’intesa è stato sottoscritto nel dicembre scorso, abbiamo coinvolto il carcere di Secondigliano con i primi 25 detenuti; un secondo gruppo di 25 sarà selezionato per fine febbraio, fino ad arrivare a 100 per fine anno. Il 16 gennaio scorso il progetto è stato avviato a Torino : saranno 50, in una prima fase sperimentale, i detenuti che verranno selezionati e formati per svolgere i primi lavori di pubblica utilità, che riguarderanno per lo più la manutenzione delle aree verdi della città. Quando il progetto sarà a regime, fra 4-6 mesi, si arriverà anche qui a un centinaio. Seguiranno a breve nuove intese con i Comuni di Firenze, Venezia, Potenza, Bari, Lecce, Catania e Catanzaro. Tutti i detenuti coinvolti nel lavoro di pubblica utilità ricevono un corso di formazione qualificante relativo al mercato del lavoro e dopo un primo periodo di attività gratuita prevista della legge potranno ottenere un sussidio finanziato da Cassa delle Ammende. Sono assicurati dai Comuni con una polizza omnibus (anche contro terzi), oppure in alcuni casi con il Fondo Inail (dedicato al lavoro di pubblica utilità). Il loro lavoro si svolge per 4 o 5 ore al giorno, dal lunedì al venerdì di ogni settimana e i provvedimenti disposti dall’Autorità Giudiziaria contengono l’obbligo della sorveglianza da parte della Polizia Penitenziaria, a garanzia del progetto. Le Città Metropolitane aderenti al format “Mi Riscatto per…” quantificano di volta in volta il risparmio ottenuto dal lavoro dei detenuti, così al termine del lavoro di pubblica utilità la persona detenuta otterrà dal Giudice di Sorveglianza la remissione del debito. Questo costituisce un passaggio importante per la vita di questa persona una volta che avrà scontato la pena e sarà uscita dal carcere: il debito accumulato con lo Stato per il mantenimento in carcere è infatti una delle cause, se non la principale, per cui il detenuto non cerca un lavoro in regola una volta fuori. *Responsabile della Task-force Lavori di pubblica utilità Uffici Giudiziari: il Dap proroga i distacchi del personale di Polizia penitenziaria agenpress.it, 23 gennaio 2019 Nessun agente di Polizia penitenziaria sarà richiamato, per il momento, come da provvedimenti già adottati, dall’ufficio giudiziario dove presta servizio come distaccato, ad eccezione delle 17 unità di personale prestate prevalentemente agli uffici di corte d’appello e alle procure generali. Lo precisa una nota del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia che intende fare chiarezza di tante inesattezze apparse in questi giorni sulla stampa. Sono stati tutti prorogati di qualche mese, infatti, i distacchi del personale di Polizia Penitenziaria nei palazzi di giustizia italiani. Fino al 31 marzo, quelli riguardanti 67 unità presso i tribunali di sorveglianza. Allo stesso periodo, 31 marzo, è stato prorogato il distacco di agenti attualmente prestati agli uffici di procura. A fine maggio prossimo, infine, sono stati prorogati i numerosi distacchi degli agenti in servizio di vigilanza presso i varchi di accesso degli uffici giudiziari di Roma e Napoli, in attesa di valutare l’economicità e i profili di sicurezza di una soluzione che preveda l’appalto di tale servizio ad agenzie specializzate. Sulle prospettive future - conclude la nota - il ministro ha già deciso di confrontarsi con i procuratori generali in una riunione, come anticipato per le vie brevi, convocata per il prossimo 12 febbraio. Stalking, pene raddoppiate e braccialetto per gli indagati di Emilio Pucci Il Messaggero, 23 gennaio 2019 Ddl bipartisan anti-violenze, c’è l’ok di M5S, Fi e dem. Al via a Montecitorio. Tra le novità, provvedimenti cautelari più lunghi. Lo sfregio sarà “omicidio d’identità”. Si parte dal codice rosso, il ddl che porta la firma dei ministri Bonafede e Bongiorno e che istituisce una corsia preferenziale per le vittime di violenza, obbligando la polizia giudiziaria, in presenza di determinati reati, a dare priorità alle indagini. Ma il provvedimento contro lo stalking, i maltrattamenti in famiglia, la violenza sessuale e la corruzione di minori è destinato a cambiare profondamente nel suo iter alla Camera. Si inizia domani: in commissione Giustizia la legge che ha avuto il via libera del Cdm verrà integrata con le proposte portate avanti da M5S, FI e Pd. Attraverso un lavoro rigorosamente bipartisan. Per tutti questi reati si punta ad inasprire la pena fino - dipenderà dalle aggravanti - a raddoppiarla. Le tre proposte sono firmate dalla pentastellata Ascari, dall’azzurra Bartolozzi e dalla dem Annibali. Già ci sono diversi punti in comune: sia M5S che FI, per esempio, chiedono che si arrivi all’ampliamento dell’utilizzo del braccialetto elettronico rendendolo di fatto obbligatorio (ad oggi l’uso è limitato) anche per lo stalking in modo da tenere sempre sotto controllo chi è indagato per questo reato. “Mentre - osserva la deputata di FI - in base alla normativa vigente il dispositivo è considerato una misura alternativa rispetto alla sola custodia cautelare o agli arresti domiciliari”, con le modificazioni proposte il braccialetto elettronico “diviene indispensabile”. “Puntiamo soprattutto a coprire quei buchi normativi che fanno sì - argomenta l’esponente M5S - “che le denunce finiscano troppo spesso nel dimenticatoio. Invece occorre subito indirizzarle alla magistratura e incardinare il procedimento”. L’aumento delle pene riguarderà anche i reati legati alla prostituzione minorile, oltre che quelli per violenze sessuali e di gruppo e per i maltrattamenti in famiglia a danno dei minori. L’obiettivo inoltre per i reati di violenza di genere è allungare i tempi delle misure cautelari “anche per aiutare i magistrati”. Ascari propone di istituire una stretta anche sul bullismo, inserendo un reato ad hoc, e di portare nelle scuole l’educazione contro la violenza. Inserendo una materia specifica. L’obiettivo è arrivare “ad un processo costante di prevenzione” da portare avanti anche “all’interno dei libri scolastici”. Per M5S vanno inserite inoltre delle modifiche sull’ordinamento penitenziario: chi è stato condannato e lavora in carcere dovrà versare una parte dello stipendio che percepisce alle vittime di violenza sessuale. All’interno degli istituti penitenziari sono previsti poi dei corsi di formazione e verrà istituito un osservatorio permanente che studi il fenomeno dei reati di violenza di genere. Secondo la proposta dei pentastellati inoltre “il minore deve essere considerato a tutti gli effetti persona offesa dal reato”. Chi sfregia il volto di una persona, magari con l’acido, verrà accusato “di omicidio di identità”. La dem Annibali - vittima in prima persona di uno sfregio con l’acido - punta, invece, ad intervenire nella fase dell’esecuzione della pena per i reati per violenza di genere. Lavorando “sull’abbattimento della recidiva”, perché - sottolinea - “la persona che si è macchiata di violenza troppo spesso uscendo dal carcere ripete lo stesso reato”. “È necessario - aggiunge la parlamentare del Pd - che per queste persone ci siano dei trattamenti comportamentali, con delle figure ad hoc anche nelle carceri”. “Infine - conclude Annibali - occorre che la comunicazione alla persona offesa rispetto al cambiamento della condizione del detenuto sia automatica e non avvenga solo se la richiede il legale”. Caso Cucchi, il generale Nistri: verificheremo le frasi sullo “spirito di corpo” di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 23 gennaio 2019 E il legale della famiglia: “Manomesse le radiografie”. Il comandante generale dei carabinieri interviene dopo le nuove intercettazioni depositate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. L’avvocato Anselmo consegna nuovi documenti e i magistrati ascolteranno in merito Carlo Masciocchi, presidente della società italiana di radiologia. “Quanto apparso oggi sui giornali dovrà essere valutato compiutamente dall’autorità giudiziaria. Quando lo avrà fatto, verificheremo i significati da dare a frasi come “spirito di corpo”. Quando il quadro sarà chiaro, faremo quello che dovremo fare”. Sempre molto prudente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, in merito al processo per omicidio preterintenzionale e alle indagini per falso che riguardano la morte di Stefano Cucchi e alle novità presentate ieri dalla procura di Roma su altri casi di depistaggio da parte dei militari. Il generale di corpo d’armata non si sbilancia di fronte alle nuove intercettazioni depositate ieri dalla Procura di Roma. Inoltre Nistri aggiunge: “Non ho mai parlato di “mele marce” ma di persone che vengono meno al loro dovere. E il venire meno al dovere va accertato”. Intanto l’appuntato Riccardo Casamassima, che con le sue dichiarazioni aveva contribuito a far riaprire le indagini sulla morte di Cucchi, indicando come responsabili del pestaggio dei suoi colleghi, ha deciso di denunciare Nistri per diffamazione. Un argomento su cui il comandante generale preferisce non parlare trincerandosi dietro un secco: “Non ho nulla da dire”. Le novità dell’indagine per depistaggio rischiano di far esplodere un nuovo caso nell’Arma in merito alla vicenda Cucchi. “Bisogna avere spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare” avrebbe detto, secondo quanto riferito da un carabiniere intercettato al telefono mentre parla con un collega, il comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. La conversazione telefonica è tra i due carabinieri in servizio alla caserma Vomero Arenella di Napoli del 6 novembre scorso: sono il maresciallo Ciro Grimaldi e il vice brigadiere Mario Iorio e la trascrizione è contenuta in una nota della Squadra mobile di Roma del 17 gennaio ed è stata depositata agli atti del processo per morte del geometra romano, deceduto il 22 ottobre del 2009, una settimana dopo l’arresto. L’autore di quella frase, invece, sarebbe - secondo Iorio - il comandante Pascale. Nel 2009 Grimaldi era in forza alla caserma Casilina di Roma, cioè quella in cui venne portato Cucchi per il foto-segnalamento: secondo il racconto del carabiniere Francesco Tedesco, è in quella caserma che i suoi colleghi e coimputati (per omicidio preterintenzionale) Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo picchiarono Cucchi. Pochi giorni dopo quell’intercettazione, Grimaldi doveva andare a testimoniare al processo Cucchi bis. Inoltre altre prove sono state depositate anche a carico di Mandolini, che sarebbe stato l’autore di una richiesta a un altro militare: modificare la relazione di servizio relativa alla notte in cui Cucchi fu arrestato. Ma c’è anche un altro versante: oltre alle numerose anomalie già emerse, ci sarebbero state “manomissioni e nuovi risvolti anche sulla documentazione che era stata fornita in ambito medico legale dopo la Tac eseguita sul corpo di Stefano Cucchi”. In sostanza, ci sarebbero state anche irregolarità nelle radiografie del giovane geometra già cadavere. A denunciarlo è Fabio Anselmo, legale della famiglia. Secondo la documentazione depositata agli atti, sarebbe stato esaminato un tratto di colonna che include solo metà soma della vertebra in questione (la L3) e il tratto di colonna vertebrale esaminato post-mortem non corrisponderebbe quindi a quello che andava radiografato. L’analisi comparata delle immagini radiografiche e delle Tac è stata eseguita attraverso il presidente della società italiana di radiologia, Carlo Masciocchi, che verrà sentito dalla Procura di Roma nei prossimi giorni. Battisti dal carcere: “umiliato all’arrivo in Italia, non sono più quello di 40 anni fa” La Repubblica, 23 gennaio 2019 L’ex terrorista ha parlato con due rappresentanti del Partito Radicale che l’hanno incontrato nell’isolamento di Massama. “È in buone condizioni e lo trattano bene. Parla dei figli e si lamenta di come è stato descritto dalla stampa”. Cesare Battisti racconta la sua visione della storia. Dal carcere di Massama, in provincia di Oristano, dove è rinchiuso in isolamento dal 14 gennaio scorso in seguito al suo arresto in Bolivia, l’ex terrorista rilascia dichiarazioni che scateneranno nuove polemiche. A riferire le dichiarazioni di Battisti sono stati Irene Testa, candidata a Garante delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna e membro della presidenza del Partito Radicale, e Maurizio Turco, coordinatore della presidenza del Partito Radicale, che hanno visitato Battisti in carcere. Nello stigmatizzare l’assenza di un garante dei detenuti in Sardegna, ancora non nominato nella seconda consiliatura regionale consecutiva, i Radicali hanno ispezionato il penitenziario di Oristano e alla fine hanno incontrato in cella d’isolamento Battisti: “Lo abbiamo trovato abbastanza bene, tranquillo - dicono Testa e Turco - Ci ha detto che alcuni parenti hanno fatto istanza per venirlo a trovare e ci ha parlato dei suoi tre figli, di cui due in Francia e uno in Brasile”. “Ci ha ribadito che gli agenti della polizia penitenziaria di Oristano lo stanno trattando bene - continuano - cosa peraltro confermata da altri detenuti che non hanno denunciato alcuna anomalia, e, entrando più nello specifico, ci ha detto di essere rimasto male per come è stato trattato al suo arrivo in Italia, ci ha spiegato di essersi sentito umiliato e di non riconoscersi nella descrizione fatta della sua persona, perché ci ha detto testualmente di non essere più quella persona che era 40 anni fa, che non ci si può accanire così e non si può scontare una condanna due volte”. Battisti, continuano i radicali, ha detto di non voler commentare il video di Bonafede, aggiungendo che in questi giorni, proprio per le tante inesattezze e cattiverie raccontate, ha preferito spegnere la tv e non leggere alcun giornale. In compenso, “ci ha detto che sta scrivendo un libro e che ne ha appena cominciato uno da leggere, ‘Se questo è un uomo’, di Primo Levi”. “Non è voluto entrare nel merito delle accuse - concludono - Solo un pensiero a figli, che ovviamente gli mancano moltissimo”. Carceri, 3 mq per detenuto comprensivi solo di pensili e mobiletti. Esclusi letti e armadi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2019 Corte di cassazione - Ordinanza 22 gennaio 2019 n. 1564. Dalla superficie della cella detentiva, ai fini del computo dei tre metri quadrati per detenuto, individuati dalla Cedu come spazio minimo sotto il quale la detenzione assume un carattere “inumano e degradante”, possono essere sottratti soltanto gli arredi “facilmente” trasportabili o i “pensili”. La Terza Sezione civile della Cassazione, ordinanza n. 1564 del 22 gennaio 2019, accogliendo (con rinvio) il ricorso di un ex recluso che chiedeva al Ministero della Giustizia il risarcimento del danno patito presso carcere di Ancona, dettaglia ancora meglio i limiti che lo Stato deve rispettare nella detenzione. Il Tribunale di Catanzaro, invece, nel calcolare le dimensioni dello spazio individuale disponibile - 9,80 mq da dividere con altri due detenuti, non aveva considerato l’area occupata dal letto a castello a tre piani, ritenendo che fosse uno spazio “concretamente ed effettivamente disponibile in quanto usato per distendersi di giorno e per dormire di notte”. Contro questa decisione il ricorrente ha richiamato la sentenza “Torreggiani c. Italia” della Corte Edu in cui si statuisce che lo spazio a disposizione di ciascun detenuto “deve essere considerato al netto del mobilio non amovibile, come gli arredi stabilmente presenti e necessari per la permanenza in cella”. Una doglianza accolta dalla Suprema corte che, con un principio di diritto, ha definitivamente chiarito che: “ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla conforme giurisprudenza della Corte Edu, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, individuale o a castello, nonché gli armadi che per la collocazione degli effetti personali assumono dimensione e pesantezza tale da non consentirne lo spostamento e da occupare uno spazio complessivo a detrimento di quello calpestabile. Non rilevano, nel computo, gli altri arredi che possono essere facilmente trasportati o che sono installati come pensili”. In precedenza la Cassazione (n. 42211/2017) aveva affermato che “la soglia minima dei tre metri quadrati va riferita alla “superficie calpestabile” funzionale alla libertà di movimento del recluso” dovendosi pertanto detrarre, al fine di calcolare lo spazio individuale minimo, oltre all’area destinata ai servizi igienici, anche quella occupata dal letto a castello che è destinato alle sole finalità di riposo”. Carceri: quando il trattamento è “inumano e degradante” di Alessandro Simone Favosi studiocataldi.it, 23 gennaio 2019 Cassazione n. 1562/2019. La Suprema Corte torna sulla valutazione dei limiti degli spazi carcerari in relazione ai principi della convenzione Edu. Le condizioni delle carceri italiane sono diventate banco di prova per la criminologia, la sociologia e la politica da ormai molti anni. Dalla famigerata sentenza Torreggiani (adottata l’8 gennaio 2013) l’articolo 3 della Cedu è diventato il punto di riferimento principale per poter interpretare al meglio le condizioni di vita del reo sottoposto a reclusione. La Corte Suprema, con sentenza datata 10 gennaio 2019 n. 1562, ha avuto modo, nuovamente, di tornare in merito alla questione. Dunque: quali sono i limiti per ritenere una cella come uno spazio di vita inumano e degradante? La Corte di Cassazione prende in esame il caso di richiesta di consegna alle autorità giudiziarie rumene nei confronti del P.S. La Corte di appello di Roma respingeva la richiesta in questione, adducendo come motivazione principale il mancato rispetto dello spazio minimo in tema di mandato di arresto europeo (considerando la destinazione in regime “chiuso” della struttura penitenziaria della nazionalità di appartenenza). Nella specie, quest’ultimo, viene calcolato in tre metri quadri, tenendo in considerazione la possibilità del detenuto di potersi muovere liberamente tra i mobili. La Suprema Corte giudica fondato il ricorso proposto dal Procuratore generale avverso la sentenza della Corte d’appello romana. L’articolo 3 della Cedu, tre metri non sono un criterio “rigido” - La Corte sostiene come il requisito spaziale di tre metri quadri non debba essere visto come un criterio rigido al quale necessariamente conformarsi. L’articolo 3 della Cedu, nonostante sia stato interpretato dalla Corte di Strasburgo proprio a favore dell’opportunità di riconoscere uno spazio minimo individuale, non ritiene quest’ultimo come criterio definitivo per accertare la lesione dei diritti del detenuto. In mancanza di un tale spazio verrà a formarsi una presunzione di trattamento inumano o degradante, che sarà confutabile tramite criteri altrettanto validi in grado di compensare la sua mancanza, come, ad esempio: “il grado di libertà di circolazione del ristretto e l’offerta di attività all’esterno della cella nonché le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti”. Nel caso in esame, secondo la VI Sezione, la Corte di appello non ha fatto un buon uso delle linee guida sopra citate. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo - Uno dei casi più celebri in tal senso (riportato anche dalla sentenza 1562) è il “Mursic contro Croazia”, ricorso n. 7334/13 a cura della Grande Camera, datato 20 ottobre 2016. Il caso riguarda il trasferimento e la permanenza del ricorrente nel carcere della contea di Bjelovar nel quale era stato detenuto, secondo la ricostruzione della difesa, in condizioni inumane e degradanti in celle sovraffollate e con uno spazio personale inferiore ai tre metri quadri. La sentenza prende in considerazione i principi fondamentali enunciati sia dall’articolo 3 della Convenzione Europea, sia dai principi minimali identificati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt), che in data 2015 ha dichiarato la sua posizione in merito. Da quanto emerge, la possibilità di rintracciare un concreto trattamento punibile secondo l’articolo 3 trova riscontro in un complesso di valutazioni che lasciano un grande margine decisionale al giudice, in quanto dovrà vagliare tutti i requisiti possibili per provare che le sofferenze patite dal reo hanno raggiunto la soglia “dell’inumano e degradante”. Esse saranno date da una somma di fattori positivi, come il trascorrere una parte considerevole della giornata fuori dalle celle (laboratori, corsi o altre attività) e fattori negativi di conferma del precario stato della qualità della vita. (Numero di letti insufficienti, insalubrità o infestazioni parassitarie). In definitiva, basti citare il punto 103 della sentenza: “La Corte ha sottolineato in più occasioni che ai sensi dell’articolo 3 non può determinare una volta per tutte un numero specifico di metri quadri da attribuire a un detenuto per rispettare la Convenzione. Ritiene infatti che molti altri fattori, come la durata della privazione della libertà, le possibilità di esercizio all’aperto o lo stato di salute fisica e mentale del detenuto, abbiano un ruolo importante nel valutare le condizioni di detenzione rispetto alle garanzie dell’articolo 3”. Primo colpo giudiziario al decreto Salvini. “Non sia retroattivo” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 23 gennaio 2019 La decisione della Suprema Corte potrà influire sui permessi di altri 150 mila migranti. Il caso di un migrante arrivato dal Bangladesh finisce in Cassazione. La Procura generale: “Gli va riconosciuta la protezione umanitaria”. Arriva dalla Procura generale della Cassazione il primo colpo giudiziario al decreto sicurezza, fiore all’occhiello del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Secondo i magistrati le nuove e restrittive regole sulla concessione dei permessi umanitari ai migranti non sono applicabili alle domande presentate prima dell’entrata in vigore del decreto e non ancora decise con sentenze definitive. Questo orientamento emerge da una requisitoria appena depositata, di cui “La Stampa” è in grado di rivelare il contenuto. Se consolidato, ridurrebbe la portata del decreto Salvini ai migranti arrivati non prima della fine del 2018. E quindi ai 359 sbarcati nel dicembre 2018 ma non ai 2.327 del dicembre 2017 e agli 8.428 del dicembre 2016. Insomma a una minoranza di casi, dato il crollo di sbarchi registrato l’anno scorso. Il caso riguarda il migrante R. M, arrivato dal Bangladesh. Dice che il suo Paese, come certificato da un rapporto di Amnesty International del 2013, “è altamente insicuro” e “non sono garantiti i diritti fondamentali dell’individuo”, per cui se rimpatriato “si troverebbe in condizioni di particolare vulnerabilità”. La Corte di Appello di Firenze gli concede il permesso di soggiorno per motivi umanitari, valorizzando il fatto che R. M. ha trovato un lavoro durante il processo e pertanto “è inserito nel contesto sociale”. Il ministero dell’Interno fa ricorso contestando la motivazione. La Procura generale ricostruisce la materia alla luce del decreto Salvini, che “ha eliminato la clausola generale contenente i presupposti per il rilascio della protezione umanitaria” riducendola a casi tassativi e limitati: sfruttamento sul lavoro, motivi sanitari particolarmente gravi, eccezionali calamità, atti di speciale valore civile. Dunque la questione è se al migrante R. M. - e a tutti quelli nelle sue condizioni, arrivati in Italia prima del decreto Salvini - si applichino le vecchie o le nuove regole. Secondo la Procura generale, il diritto alla protezione umanitaria ha una base costituzionale nell’articolo 10 terzo comma, che lo colloca tra i “diritti umani inviolabili”: preesiste alla legge, che può solo riconoscerlo in capo a una persona, ma non crearlo o distruggerlo. Questa ricostruzione porta la Procura generale a concludere per la “non applicabilità della nuova disciplina alle vicende umane sorte nel vigore della legge antecedente” e ancora pendenti. In quei casi, il migrante “può e deve contare sul corredo normativo esistente al momento della presentazione della domanda”. Nel senso della irretroattività del decreto Salvini militano anche diverse sentenze della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo e della Corte costituzionale. Tanto più, scrive la Procura generale, di fronte a “dolorose vicende umane”. Diversamente argomentando, si discriminerebbero i migranti in base alla lungaggine e all’imprevedibilità della giustizia italiana, un fattore “puramente casuale e legato a fattori imponderabili”. Il che contrasterebbe con la Costituzione. Il documento della Procura generale si muove nella direzione di confermare una posizione decisamente garantista sul diritto d’asilo, maturata dalla Suprema Corte negli ultimi anni. Ma la questione è controversa, anche tra i magistrati. Finora i tribunali si sono divisi: una maggioranza per l’irretroattività del decreto Salvini; alcuni (Firenze, Campobasso) per la generalizzata applicabilità, che comporta anche il diniego del beneficio del gratuito patrocinio legale. Oltre alle intrinseche ragioni giuridiche, vanno considerate le inevitabili conseguenze politiche della decisione. L’arrivo di Salvini al Viminale ha già comportato una svolta nell’orientamento delle commissioni amministrative che a livello provinciale decidono sulle domande dei migranti, grazie a una direttiva del 4 luglio 2018 che ha anticipato il decreto sicurezza. L’effetto è stato un crollo dei permessi concessi: dal 42% al 18%. In particolare quelli per ragioni umanitarie, su cui si deve pronunciare ora la Cassazione, sono calati dal 25% al 3%. Se la prima sezione della Suprema Corte condividerà la tesi della Procura generale, oltre a R. M. restituirà la possibilità di ottenere un permesso umanitario ad almeno 150 mila migranti secondo una stima dell’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Decreto Salvini. Aumentano i profughi “bocciati” di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto , 23 gennaio 2019 Il decreto Salvini che ha introdotto un giro di vite nell’immigrazione, ha aumentato del 18%-22% i rigetti delle richieste di asilo. Un trend riscontrato dalle prefetture negli ultimi tre mesi, ma le coop avvertono: “Avremo le strade piene di clandestini. I bocciati restano”. È presto per giudicare, ripetono tutti, ma la ricaduta immediata dal decreto sicurezza approvato anche dal Senato a inizio novembre è l’aumento tra il 18% e il 22% dei rigetti alle domande di asilo presentate in Veneto. Il cosiddetto “decreto Salvini” ha imposto un giro di vite all’immigrazione, abrogando la protezione umanitaria e sostituendola con permessi temporanei da richiedere in questura per gravi motivi di salute, calamità naturali, persecuzioni, conflitti o gesti di grande valore civico, abbassando la quota pro capite a migrante da 35 euro al giorno a 19/23 e raddoppiando da 90 a 180 giorni la permanenza dei clandestini nei Centri per il rimpatrio (Cpr). Antonello Roccoberton, a capo della commissione prefettizia di Padova, responsabile anche per Venezia, rivela: “Dal 2015 abbiamo esaminato 9mila pratiche: nel trimestre ottobre-dicembre 2017 la percentuale di rigetti era assestata sul 54% ma nello stesso periodo del 2018 è salita al 76%. Un aumento dovuto soprattutto al decreto Salvini, che ha eliminato la protezione per motivi umanitari”. Stesso trend riscontrato dalla commissione di Verona, che esamina le domande anche di Trento e Bolzano. Dice la presidente Maria Teresa Pirrone: “Dalla primavera 2015 abbiamo esaminato 9800 pratiche: nel trimestre ottobre-dicembre 2017 i rigetti erano pari al 62% delle domande, nel medesimo trimestre 2018 sono cresciuti all’80%. Nel breve periodo incide però molto anche la nazionalità dei profughi, per esempio afghani e siriani arrivano da zone di conflitto, i senegalesi no. C’è infine da segnalare l’aumento di commissari esaminatori da 487 a 744, in Italia, disposto dal governo per accelerare le procedure. Noi ne abbiamo ricevuti altri due dopo l’estate - aggiunge Pirrone - adesso siamo in sei e l’assetto della commissione è totalmente modificato. Prima solo presidente e un altro componente erano dedicati a questa attività, gli altri si aggiungevano a rotazione. Con la riforma di luglio abbiamo ottenuto funzionari in via esclusiva”. Si attesta attorno al 20% l’aumento di rigetti a Vicenza. “Non avendo più competenza per la protezione umanitaria, i numeri sono cambiati-spiega Lucio Parente, viceprefetto vicario - adesso ogni richiesta basata su tale fattispecie si trasforma in rigetto immediato. La nostra commissione è operativa dal marzo 2016, è responsabile anche per Rovigo, e inizialmente per Belluno, e da allora ha esaminato circa 7mila domande. Il flusso dipende molto dal tipo di sbarchi. A siriani, somali ed eritrei, provenienti da situazioni molto critiche, lo status di rifugiato generalmente viene concesso”. In linea la commissione prefettizia di Treviso, competente pure per Belluno: “Il differenziale di dinieghi dal trimestre ottobre-dicembre 2017 al trimestre ottobre-dicembre 2018 si attesta su un +20%”. E di conseguenza crescono le espulsioni. Ma non solo per il decreto sicurezza. “Gli accompagnamenti ai Cpr, alla frontiera o al Paese d’origine dello straniero irregolare nel 2018 sono aumentati del 20% - fanno sapere dalla questura di Verona. È stato un anno favorevole a tale impegno, perché il governo ha concesso alle questure più posti nei Centri per il rimpatrio e più personale per gli accompagnamenti. Insomma, lo sblocco della situazione è dovuto alla logistica”. “Noi abbiamo sempre avuto un trend elevato di espulsioni, anche a prescindere dal decreto sicurezza - si allinea la questura di Treviso-ma nel 2018 abbiamo rilevato un aumento del 18%”. Stabili invece a Vicenza: nel 2017 la questura ne ha registrate 130, 45 delle quali coatte, cioè con accompagnamento ai Cpr o alla frontiera; nel 2018 le espulsioni sono state 120, di cui 42 coatte. “Il decreto sicurezza ha agevolato le procedure - motivano dalla questura di Venezia - la detenzione amministrativa ci ha dato una mano, prima non potevamo trattenere il clandestino ma solo emettere l’ennesima espulsione cartacea. Inoltre è stato accelerato l’iter dei richiedenti asilo condannati in primo grado: vengono sentiti subito dalle commissioni e se si vedono negare l’asilo, sono espulsi subito. Prima invece potevano fare ricorso, per evitare l’espulsione. Sono anche aumentati i controlli”. Tutto ciò ha però un rovescio della medaglia. “Ci ritroveremo con migliaia di clandestini per strada - avverte Ugo Campagnaro, presidente di Confcooperative Padova - coloro che non ricevono l’asilo escono dal sistema di accoglienza però restano sul territorio. Sappiamo tutti dove sono ma non vengono rimpatriati, perché non ci sono soldi, mezzi né accordi con i Paesi d’origine, che non li rivogliono indietro. Noi ci stiamo attivando per trovare loro un lavoro, l’economia veneta ha bisogno di manovalanza, in particolare per i mestieri più pesanti, che gli italiani non vogliono fare”. L’altro problema è che i nuovi capitolati d’appalto per la ricerca di posti di accoglienza lanciati dalla prefetture devono fare i conti con il taglio dei fondi imposto dal ministero dell’Interno. “Sono garantiti vitto e alloggio - ammette Vittorio Zappalorto, prefetto di Venezia, che ha appena incontrato le coop venete - invece le attività collaterali (l’insegnamento della lingua italiana, l’inserimento professionale e altre iniziative necessarie all’integrazione, ndr) non sono finanziate. Ma le cooperative aderiranno lo stesso ai bandi, perciò non lasceremo nessuno per strada e i tanti volontari cercheranno di assicurare comunque alcune delle attività collaterali”. Facebook: reato accedere contro volontà del titolare di credenziali di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2019 Corte di Cassazione - Sezione V -Sentenza 22 gennaio 2019 n. 2942. Entrare nel profilo Facebook di mogli o ex fidanzate, che abbiano spontaneamente comunicato le proprie credenziali di accesso, è comunque un reato se questo avviene contro la loro volontà. La Cassazione con due sentenze di oggi (nn. 2942 e 2905) ha toccato un punto nevralgico dell’abusivo accesso a sistema informatico, reato di nuovo conio a tutela della libertà individuale. E lo fa respingendo gli argomenti difensivi, secondo cui la condivisione di username e password con il partner costituirebbe di fatto consenso all’accesso informatico sul social dell’altro e di cui, in modo lecito, si posseggono le chiavi di accesso. Non scatta, quindi, alcuna scriminante del reato previsto dall’articolo 615- ter del Codice penale se si fotografano chat intrattenute su Facebook o se addirittura si utilizza il social simulando di essere il titolare del profilo. In tale ultima evenienza - come in uno dei casi esaminati dalla Cassazione - scatta anche il reato di sostituzione di persona. Per la Cassazione non scatta automaticamente alcuna scusante dalla lecita conoscenza delle chiavi di accesso. E, men che mai, se si modificano le credenziali impedendo l’accesso al titolare o se si utilizza il social per ingiuriare terzi sotto la falsa identità di chi formalmente appare. Infine, i giudici di legittimità accendono il faro anche sull’inapplicabilità, a casi simili, della norma deflattiva del processo penale secondo cui non si procede per reati di particolare tenuità. Infatti, la Cassazione respinge l’argomento difensivo dell’irrilevanza penale della condotta di chi accede più volte nel profilo Facebook di terzi. La pluralità degli accessi e la finalità per cui si realizzano esclude il beneficio della non punibilità (articolo 131 bis del Codice penale) trattandosi di condotte reiterate che poi - nel caso della sostituzione di persona - sono aggravate dalla continuazione tra questo reato previsto all’articolo 494 del Codice penale e quello dell’abusivo accesso. In conclusione, sono interessanti anche le risposte con cui i giudici respingono altri passaggi difensivi. Ad esempio, la mancata prova della presenza dell’imputato nelle vicinanze del computer, da cui risulta un episodio di accesso, non esclude di per sé il reato dell’articolo 615 -ter del Codice penale, se incontestati sono tutti gli altri ingressi su Facebook. E lo stesso ragionamento vale se manca la prova da quale indirizzo IP di Internet sia stata fatta la modifica delle chiavi di accesso al social. Questa, infatti, è circostanza che - come dice la Cassazione - non oblitera il fatto accertato e incontestato dei plurimi accessi. Nelle due vicende i fatti erano in un caso l’acquisizione di una chat, fonte di lite tra due coniugi, e poi prodotta “a carico della moglie” in sede di separazione; e nell’altro il sostituirsi alla ex per ingiuriare il rivale. Bologna: chiede il carcere perché ha fame, i militari l’aiutano di Maria Centuori Corriere di Bologna, 23 gennaio 2019 Ai domiciliari per furto, è evasa due volte sperando di finire in carcere perché, ha spiegato ai carabinieri, aveva fame. La storia singolare è successa a San Giovanni in Persiceto. La protagonista è una 44enne che vive sola in casa. I carabinieri le hanno offerto pranzo e spesa e poi hanno avvisato i servizi sociali. Da giorni non aveva nulla da mangiare in casa, dove sta scontando gli arresti domiciliari. Così, una donna bolognese di 44 anni ha deciso di evadere per la seconda volta in una settimana ed è andata dritta dai carabinieri a chiedere aiuto. O, meglio, a chiedere di farsi arrestare Alla Dozza, ha pensato la signora, avrebbe certamente potuto mangiare: “Ho fame, arrestatemi perché sono evasa. Però portatemi in carcere così posso mangiare”, avrebbe detto ai militari dell’Arma, increduli. La donna, che sta scontando una pena di due anni agli arresti domiciliari per reati contro il patrimonio, in realtà ci aveva provato anche una settimana fa. E anche in quell’occasione ha raccontato della sua disperazione per le condizioni precarie in cui stava vivendo e gli stenti con cui deve fare i conti ogni giorno. Uno sfogo cui, la prima volta, è seguito l’arresto e il processo per direttissima. Ma il giudice, una settimana fa, ha disposto nuovamente i domiciliari. Nulla di fatto, dunque. Fino a lunedì quando la 44enne, che vive da sola, ha deciso di evadere nuovamente. E, consapevole di quanto stava commettendo, ha chiesto di essere trasferita in via del Gomito. Lunedì si è presentata con una borsa alla porta della caserma di San Giovanni in Persiceto e quando i carabinieri le hanno aperto, la 44enne ha detto: “Sono evasa per la seconda volta dagli arresti domiciliari. Arrestatemi. Però questa volta voglio andare in carcere perché ho fame e non ho nulla da mangiare in casa”. I militari, a quel punto, prima le hanno preparato un piatto caldo da mangiare, poi le hanno fatto un po’ di spesa e, come loro dovere, l’hanno arrestata per evasione, appunto. Ieri mattina, dopo il processo per direttissima il giudice ha disposto la custodia in carcere. E la 44enne ora è alla Dozza. Ma nell’attesa che il giudice decidesse il da farsi, i carabinieri hanno avvisato il Comune di San Giovanni in Persiceto. E sono stati attivati i servizi sociali di primo soccorso per le emergenze, che potrebbero entrare in campo se la signora venisse scarcerata. Il sindaco Lorenzo Pellegatti spiega: “Il caso della donna - racconta il primo cittadino di San Giovanni in Persiceto - non era mai emerso prima di lunedì. Ora con il personale dei servizi sociali stiamo verificando la sua situazione. Naturalmente in emergenza non si nega a nessuno un piatto di minestra. Ma per un aiuto più strutturato è indispensabile che ci siano tutti i requisiti del caso. Per questo valuteremo con attenzione la storia della signora e se c’è un’emergenza l’affronteremo con tutti i mezzi a nostra disposizione”. Il sindaco, però, aggiunge una precisazione: “Quello che stiamo affrontando è un caso singolare, lo valuteremo ma non dovrà diventare un precedente”. Oristano: i detenuti potranno frequentare l’Università di Anna Maria Cantarella itenovas.com, 23 gennaio 2019 Con Oristano sono 5 gli istituti penitenziari sardi dove si può studiare e frequentare le lezioni. Il Pup, Polo Universitario Penitenziario, di Sassari cresce e nel 2019, quinto anno di attività, raggiunge quota 50 studenti iscritti dei quali 29 sono nuovi immatricolati. Si tratta di detenuti in qualsiasi regime di detenzione, dalla media sicurezza al 41 bis, che potranno partecipare alle lezioni e studiare all’Università usufruendo di tutti i servizi normalmente previsti per gli altri studenti. Un bel traguardo secondo Emmanuele Farris, delegato del Rettore per il Pup, che esprime soddisfazione per la crescita delle iscrizioni e per l’allargamento della rete degli istituti penitenziari nei quali si può studiare che in Sardegna diventano cinque, con Oristano che si aggiunge ad Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio - oltre ad altri tre istituti peninsulari (Asti, Cuneo, Udine). Secondo quanto riportato dalla nota diffusa dall’Università di Sassari, gli studenti in regime di detenzione studiano prevalentemente Agraria, Giurisprudenza, Storia e Scienze Umanistiche e Sociali. A loro disposizione c’è anche un servizio di orientamento per i diplomati ma anche il supporto amministrativo per le iscrizioni e l’accoglienza, insieme alla presenza costante e al contatto diretto con i referenti del corso di studio prescelto, perché - come precisato dal professor Farris, è importante che i detenuti percepiscano la vicinanza dell’istituzione universitaria e definiscano correttamente i loro obiettivi e il percorso di studio migliore da affrontare, insieme alle prime materie da studiare. Per sostenere gli studenti detenuti e le spese che ne derivano, l’ateneo di Sassari sta utilizzando le risorse del fondo da 220mila euro ricevuto nel 2018 dal ministero dell’Università e della Ricerca. Inoltre, grazie alla collaborazione con l’Ersu Sassari, partner del progetto, in queste settimane saranno distribuiti anche i libri di testo acquistati con i fondi erogati dall’ente regionale. All’offerta formativa dell’Università si aggiunge anche un corso di otto seminari mensili che verrà realizzato ad Alghero per il secondo anno consecutivo e che durerà fino a giugno 2019. Il corso, che esplora le potenzialità e le criticità del comparto ittico in Sardegna, è stato fortemente voluto dai detenuti e progettato insieme a loro anche grazie alla collaborazione con la direzione penitenziaria. Soddisfazione è stata espressa anche dal rettore Massimo Carpinelli, che precisa quanto questi importanti traguardi siano solo un punto di inizio per l’Università di Sassari che punta ad ampliare le sue offerte per utenze variegate “in un’ottica di miglioramento continuo delle proprie politiche di inclusività destinate ad utenze con esigenze specifiche, tra le quali appunto gli studenti in regime di detenzione”. In questo ambito saranno anche potenziate le sinergie con gli altri ventotto atenei italiani che realizzano attività di didattica in ambito penitenziario, riuniti da Aprile 2018 nella conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, in cui l’ateneo di Sassari ha un ruolo di coordinamento, facendo parte insieme a Torino, Pisa, Padova e l’Università Federico II di Napoli del direttivo nazionale in carica”. L’obiettivo per il 2019 è migliorare ancora, soprattutto per quanto riguarda le attività di comunicazione, formazione e informazione sul Polo Universitario Penitenziario, anche per far sapere all’opinione pubblica quali sono le attività e i risultati ottenuti. Venezia: domani la Giornata internazionale dell’avvocato minacciato giurisprudenzapenale.com, 23 gennaio 2019 Il 24 gennaio 2019, a Venezia, si svolgerà una tavola rotonda aperta alla cittadinanza in occasione della manifestazione internazionale a sostegno degli Avvocati perseguitati a causa delle loro funzioni. Il convegno (cui hanno aderito la Camera Penale Veneziana, l’Unione delle Camere Penali Italiane, il Progetto Avvocati Minacciati dell’Unione delle Camere Penali Italiane e la Fondazione Feliciano Benvenuti, col patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, della Città Metropolitana di Venezia, del Comune di Venezia, del Comune di Asiago, dell’Institut des Droits de l’Homme des Avocats Européens, dell’International Criminal Bar e di Eiuc Global Campus) si svolgerà presso il Palazzo Franchetti - Sala del Portego - San Marco, 2847, Venezia. La manifestazione si focalizza quest’anno sulla Turchia, dove gli avvocati che si battono per il rispetto dei diritti fondamentali - in particolar modo del diritto di difesa - sono soggetti a vessazioni, minacce, intimidazioni, violenze di ogni sorta ed arresti arbitrari, oltre che a processi nei loro confronti privi delle minime garanzie di difesa. All’evento - che sarà introdotto e moderato dall’avv. Federico Cappelletti (Responsabile Commissione Europa e Rapporti internazionali C.P. Veneziana) - parteciperanno l’avv. Paola Rubini, Componente Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane), l’avv. Nicola Canestrini e l’avv. Ezio Menzione (Responsabili Progetto Endangered Lawyers dell’Unione delle Camere Penali Italiane), il dott. Francesco Martone (Portavoce della Rete In Difesa Di - per i diritti umani e chi li difende) e l’avv. Roberto Rigoni Stern (Sindaco di Asiago, Città dei difensori dei diritti umani). Interverrà, altresì, un Avvocato turco impegnato in un’iniziativa a sostegno degli Avvocati perseguitati nel suo Paese. Roma: Casa internazionale delle donne, detenute a Rebibbia nelle foto di Cecilia Luci di Lorenzo Madaro La Repubblica, 23 gennaio 2019 Per tre anni l’artista Cecilia Luci ha incontrato le detenute di Rebibbia per un laboratorio che oggi si sviluppa nella mostra “In potenza sono tutto” alla Casa internazionale delle donne. Quattro proiezioni fotografiche e una performance evidenziano storie e sentimenti, tra passato e presente, delle detenute e delle donne che un tempo vivevano nell’edificio di via san Francesco di Sales, per secoli casa di detenzione per penitenti. “Il progetto propone una riflessione profonda sul mondo femminile e sulle condizioni della detenzione”, suggerisce la curatrice Benedetta Carpi de Resmini. Chi entrerà nello spazio si confronterà con i visi delle donne incontrate da Cecilia Luci: nelle carceri ha installato un set fotografico con un semplice telo nero. Dagli scatti emergono solo i volti e i gesti delle protagoniste di questo percorso di empatia. La Spezia: i detenuti andranno in scena grazie ad Acri Vita, 23 gennaio 2019 Lo spettacolo teatrale “Incendi”, che coinvolge un gruppo di detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino” è stato reso possibile dal progetto sperimentale “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso dall’associazione e sostenuto da un nucleo di Fondazioni. Il progetto sperimentale “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso da Acri e sostenuto da un nucleo di Fondazioni, tra cui Fondazione Carispezia, presenta alla Spezia il primo evento finale con lo spettacolo teatrale “Incendi”, che coinvolge un gruppo di detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino”. Lo spettacolo, curato dalla Compagnia Gli Scarti, andrà in scena giovedì 31 gennaio e, in replica, venerdì 1 febbraio al Centro Culturale Dialma Ruggiero, in via Monteverdi 117 (inizio ore 21.00, ingresso gratuito - obbligatoria la prenotazione al 357-5714205). “Per aspera ad astra” parte dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, raggiungendo livelli di eccellenza. L’iniziativa nasce con l’obiettivo di tracciare un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. L’esperienza di Armando Punzo - che sarà presente nella serata di giovedì 31 gennaio al Dialma Ruggiero per incontrare il pubblico al termine dello spettacolo - testimonia come sia possibile lavorare in questi contesti nell’”interesse del teatro e delle arti e dei mestieri del teatro”, oltre che per le finalità rieducative e risocializzanti. La divulgazione e la promozione del “teatro in carcere” significa anche permettere di abbattere la separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile, così da creare un clima di consapevolezza rispetto al compito che essi assolvono: operare per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop realizzati all’interno degli Istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di Polizia e del personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. Alla Spezia sono stati coinvolti nei laboratori teatrali, di scenografia e scenotecnica, avviati nel mese di settembre e guidati dalla Compagnia degli Scarti, 16 detenuti della Casa Circondariale “Villa Andreino”, con la collaborazione della direzione, di operatori sociali e polizia penitenziaria. Lo spettacolo “Incendi” rappresenta quindi l’esito finale di questo primo anno di lavoro sul territorio spezzino, nell’ambito dell’iniziativa sperimentale nazionale, e vedrà in scena i detenuti, non solo in quanto destinatari di un progetto educativo, ma quali attori non professionisti il cui difficile vissuto contribuisce a creare un teatro capace comunque di generare cultura e bellezza e dove il non professionismo più che un limite può costituire un’opportunità. Ferrara: “Scatti di riscatto”, un nuovo progetto di fotografia per i detenuti estense.com, 23 gennaio 2019 Il Comune contribuirà con 2mila euro all’iniziativa. Ha avuto come destinatari i detenuti del carcere di Ferrara il Laboratorio di fotografia curato dall’Associazione di promozione sociale Feedback che riceverà dal Comune di Ferrara un contributo di 2mila euro a sollievo delle spese sostenute nel 2018. Obiettivo del progetto, dal titolo “Scatti di riscatto: con la fotografia arrivo là dove i miei piedi non possono arrivare “, era quello di offrire ai detenuti un’occasione di sana socializzazione e una concreta opportunità di riallacciare i legami con il mondo esterno, aiutandoli a scoprire le loro capacità artistiche, creative, e di autocontrollo, a beneficio di un loro più agevole reinserimento nella società civile, al termine della pena. Attraverso la mostra fotografica che si è svolta nell’ambito dell’ultima edizione del Festival di Internazionale, i detenuti hanno poi avuto la possibilità di dialogare con il mondo esterno e di sensibilizzare i visitatori sulle tematiche che li riguardano. L’erogazione sarà finanziata con una quota delle risorse regionali assegnate per l’anno 2018 al Fondo sociale locale del distretto Centro nord con capofila Ferrara. “A teatro rianimo quest’Europa pigra”. La battaglia di Lévy contro i populismi di Alberto Mattioli La Stampa, 23 gennaio 2019 A Milano il filosofo lancia la tournée nel continente: “L’odio contro le élite è la malattia della democrazia”. “L’Europa sta morendo, il populismo sta vincendo. Rischiamo che al prossimo Parlamento europeo ci sia una maggioranza eurofoba e nazionalista. Nel mio piccolo, farò tutto il possibile per evitare che questa vergogna si verifichi e che i nostri figli ne debbano pagare le conseguenze. Sarà la mia campagna elettorale: non da candidato, solo da uomo libero”. E voilà. L’intellettuale torna in campo, in prima persona, mettendoci non solo il pensiero ma anche la faccia. Nel luogo che da duemila e cinquecento anni, cioè da quando è stato inventato, è per eccellenza la sede della discussione, l’agorà delle idee: il teatro. Al Franco Parenti di Milano, il 5 marzo, Bernard-Henri Lévy debutta in “Looking for Europe”: monologo, spettacolo, comizio, atto di resistenza e soprattutto di speranza: “L’Europa sta morendo - ripete lui - ma non è ancora morta. Mancano cinque minuti a mezzanotte”. Xenofobia e antisemitismo - Da Milano all’Europa: la performance sarà replicata in altre venti città del vecchio continente, una tournée che toccherà Paesi Ue e non, dalla Danzica di Pawel Adamowicz a Kiev, da Roma (il 24 aprile, Sala Umberto) a Tirana, e poi tutte le grandi capitali, con finale a Parigi il 20 maggio, una settimana prima del voto più importante della storia dell’Unione. Una campagna elettorale parallela, la voce della Ragione contro il montare dei populismi, dei nazionalismi, della xenofobia e anche dell’antisemitismo, “di cui non parlo volentieri - dice BHL - perché è un problema degli antisemiti, non mio, anzi è una malattia, e io non sono un medico. Ma devo farlo, perché sta tornando in maniera forte e terribile”. E allora ecco 90 minuti di riflessione che saranno anche uno spettacolo “vero”, non una lezione, con una regista, Maria de França, musiche, immagini, un ospite d’onore rappresentativo delle varie città, a Milano l’archistar Stefano Boeri, l’omaggio “al mio amico Amos Oz” e anche “una sorpresa”. E gli interventi del pubblico, raccolti e selezionati dal sito della “Stampa”, media partner dell’evento, che invita i suoi lettori a rispondere alla domanda: “Come l’Europa influenza la tua vita quotidiana?”. Altra domanda: perché Milano? Qui la risposta la dà il nostro direttore, Maurizio Molinari, citando Spadolini: è allo “sguardo presbite” della città, alla sua storica vocazione a guardare avanti e lontano, che si rivolge questo appello. E infatti la scelta di Milano “ha già scatenato una sommossa, tutti vogliono esserci”, racconta Andrée Ruth Shammah, direttrice del Parenti, e non solo perché, ride, “BHL è uno degli uomini più belli d’Europa”. Poi tocca a lui spiegare perché sale sul palco: “Vado in giro a spiegare perché l’Europa è una bella idea, perché è l’ultima utopia possibile per i nostri giovani e l’unica soluzione per i nostri Paesi. Un’Europa minacciata dall’esterno, dagli attacchi di Trump e Putin, e dall’interno, da chi non crede nei suoi valori, il libero pensiero, l’umanesimo, la democrazia rappresentativa. E minacciata, soprattutto, dalla nostra pigrizia. Per cinquant’anni abbiamo pensato che l’Europa si sarebbe fatta da sola, ma non è così. In Francia, ma anche in Italia, troppa gente è persuasa di aver già perso la partita. Pensano che Marine Le Pen sia una fascista ma che prima o poi vincerà lo stesso. Non è così. Qualche settimana fa ho organizzato un evento per Roberto Saviano, a Parigi. Credo che alla fine abbia scoperto di essere meno solo. E che, il giorno in cui il ministro degli Interni italiano metterà in atto le sue minacce, in Francia e in Europa ci sono degli amici che lo difenderanno”. “Ammiro il coraggio di Sala” - Poi, certo, Paese che vai e populismo che trovi. La pièce ha avuto già un’anteprima a Londra, “Last Exit Before Brexit”, perché “è ancora tempo per fermare questa follia”. E in Italia? “Parlerò di monsieur Salvini e di monsieur Di Maio, dei passaggi alla Sorbona di monsieur Conte, e qui ci saranno delle rivelazioni molti interessanti, e in generale di questo governo di fanfaroni”. Questo, per la pars destruens. Quella construens parte dalla Storia, “citerò Machiavelli, Tiziano, Pasolini, Moravia” e prosegue con l’attualità: “Mi piacciono il manifesto europeo di Carlo Calenda, le posizioni coraggiose di Giuseppe Sala, e quell’Emanuel Macron italiano che è Matteo Renzi”. Però, monsieur Lévy, i populisti a teatro non vanno, i giornali non li leggono e in generale non amano la cultura, anzi la considerano al servizio di un élite da combattere e di cui lei fa parte. Difficile che cambino idea. “Spero che chi vedrà lo spettacolo diffonda il nostro messaggio. Non voglio convincere chi è già convinto, ma fargli coraggio, farlo uscire dal silenzio. Artisti, scrittori, capitani d’impresa e sì, anche gattopardi, quelli che vengono chiamati élite, sono un pezzo del popolo, fanno parte della società, hanno costruito la Repubblica come tutti gli altri. L’odio contro le élite è la vera malattia della democrazia”. Sondaggio Eurobarometro sull’antisemitismo: “Ancora tanto, troppo, presente” di Emanuele Bonini La Stampa, 23 gennaio 2019 Europei divisi sul tema: “negazionismo” non condannato da una persona su due. Vandalismo, frasi sgradevoli e offensive, commenti poco lusinghieri. E poi ancora, la negazione dell’Olocausto. L’Europaha ancora molto da fare, ha ancora molto da farsi perdonare. Gli Stati membri dell’Ue sembrano avere seri problemi a fare i conti con il proprio passato, quello buio, perché a distanza di 74 anni dalla fine della Shoah l’antisemitismo è ancora tanto, troppo presente. Ovunque è percepito e riconosciuto come un problema, e quasi nessuno è dell’idea che il fenomeno si sia attenuato. I dati che emergono dallo speciale sondaggio Eurobarometro dedicato esclusivamente all’antisemitismo offrono una panoramica tutt’altro che rassicurante. La metà esatta degli europei (50%) ritiene che l’antisemitismo sia un problema nel loro paese, e solo un cittadino dell’Ue su dieci (10%) è convinto che questo problema si sia “sgonfiato” nell’ultimo lustro. La maggioranza relativa degli europei (39%) è dell’idea che la situazione non sia cambiata, che sia rimasta grosso modo uguale a cinque anni fa. Non un bel segnale. “Combattere l’antisemitismo deve rimanere in cima all’agenda politica”, riconosce il commissario europeo per la Giustizia, Vera Jourova. Negazionismo non condannato da un europeo su due - Gli europei sono divisi sul tema. Il problema di fondo è questo, e viene confermato quando si chiede agli intervistati di tutta l’Ue se “le persone che negano il genocidio del popolo ebraico, l’Olocausto, sono un problema” nel loro Paese. Dice “sì” il 53% dei rispondenti. Il 38% dice “no”, il 9% non sa che dire. È la situazione che lascia senza parole. Jourova avverte: “Dobbiamo essere vigili e ricordare le parole di Primo Levi, il famoso autore e sopravvissuto all’Olocausto: “Quelli che negano Auschwitz sarebbero pronti a rifarlo”. Mezza Europa si gira dall’altra parte - La situazione non cambia se si provano a fare altre domande. È un problema l’antisemitismo su internet? A rispondere in modo affermativo è il 51% degli intervistati. E scritte sui muri contro ebrei o atti vandalici contro edifici del mondo culturale e confessionale ebraico? Anche qui a definirlo un problema è il 51% degli intervistati. Ancora: atti vandalici nei cimiteri ebraici o aggressioni fisiche? Lo definisce un problema il 50% degli intervistati, in entrambi dei casi. C’è un problema, e Jourova non lo nasconde. Ricorda che a dicembre i leader dei Ventotto hanno sottoscritto una dichiarazione per lottare contro il fenomeno. È stato istituito un gruppo di lavoro di alto livello, e adesso “è urgente intensificare la nostra azione contro l’antisemitismo all’interno di questo gruppo, alla luce dei recenti dati disponibili a livello dell’Ue”. La legge c’è, ma non si sa - All’ignoranza storica e culturale si aggiunge anche quella normativa. C’è un buona fetta di europei che non sa che l’ordinamento giuridico del Paese in cui vivono contiene dispositivi anti-odio. Più di sei europei su dieci (61%) sanno che esiste una legge nel loro paese che criminalizza l’incitamento alla violenza o l’odio nei confronti degli ebrei. Vuol dire che ce ne sono quattro che invece non lo sanno. Italia, antisemiti in quattro su dieci - Le persone interpellate in Italia offrono l’immagine di un Paese un po’ diverso dal resto d’Europa, ma non così tanto. C’è maggiore consapevolezza sull’antisemitismo come problema (58%, contro la media Ue del 50%), ma c’è anche l’impressione della difficoltà del problema: sette persone su dieci (69%) ritengono che la situazione non sia migliorata negli ultimi cinque anni. A ritenere il negazionismo motivo di preoccupazione sei intervistati su dieci (61%, contro il 51% dell’Ue), al pari di dichiarazioni ostili nei luoghi pubblici (61%), atti di vandalismo (60%) e aggressioni (60%). L’Alto Commissariato Onu dice basta ai migranti riportati in Libia di Leo Lancari Il Manifesto, 23 gennaio 2019 Il leghista: “I porti restano chiusi. Sto trattando con Tripoli”. La Germania lascia la missione Sophia: “Stanchi dell’Italia”. La richiesta ai governi europei, e in particolare a quello italiano, arriva dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu che si occupa dei rifugiati. “Non rimandate i migranti in Libia, aprite i porti e consentite la ripresa dei salvataggi nel Mediterraneo, anche da parte delle ong”. Un appello che tiene conto - scrive l’Unhcr - dell’”attuale contesto” libico, “in cui prevalgono scontri violenti e diffuse violazioni dei diritti umani”. Come tra l’altro dimostra anche la vicenda dei 144 migranti riportati nel Paese nordafricano dal mercantile della Sierra Leone che due giorni fa li aveva tratti in salvo: giusto il tempo di sbarcare e sono stati richiusi tutti - compresi donne e bambini - in un centro di detenzione. Parole cadute nel vuoto. All’ormai consueto silenzio dell’Unione europea fanno seguito le parole, come al solito sprezzanti, del titolare del Viminale: “Altri sbarchi, altri soldi agli scafisti? La mia risposta all’Onu è NO” scrive Matteo Salvini su twitter con il solito hasthag #portichiusi. Avvertimento che il ministro leghista invia anche ai 47 migranti tratti in salvo dalla nave della ong tedesca Sea Watch in attesa ormai da quattro giorni di uno scalo verso il quale dirigersi. “Loro vorrebbero arrivare in un porto italiano ma fanno i furbetti e non voglio dire di più in questo momento”, dice Salvini in una diretta Facebook nella quale si definisce “buono sì ma fesso no. E siccome l’autorizzazione allo sbarco nei porti la dà il ministro dell’Interno, la risposta è no, niet, nisba per gli scafisti e gli amici degli scafisti”. Unica novità: l’annuncio che con la Libia “stiamo lavorando riservatamente per risolvere i problemi”. Come e sulla base di cosa non viene spiegato, ma è facile immaginarlo dalla parole del ministro: “I migranti non devono partire e chi lo fa deve tornare in Libia”. È la solita linea dura che Salvini impone fin dall’inizio al governo gialloverde e che lascia l’Italia sempre più isolata in Europa. La riprova - che il ministro leghista considererà probabilmente come una vittoria, è arrivata anche ieri con l’annuncio della Germania di volersi ritirare dalla missione europea Sophia come conseguenza - secondo l’agenzia tedesca Dpa che cita fonti del governo - “della linea dura del governo italiano sull’accoglienza dei migranti dalle navi”. Notizia confermata in seguito da un portavoce del governo di Berlino secondo il quale il ritiro, per quanto “momentaneo” sarebbe comunque stato deciso e diventerà operativo dal prossimo 6 febbraio, giorno in cui la fregata “Augsburg”, una delle navi messe a disposizione della missione dalla Germania, porterà a termine il suo mandato operativo. La notizia rischia di mettere seriamente a rischio la continuità della missione che da quando è cominciata, nel 2015, ha salvato nel Mediterraneo più di 43 mila migranti. Salvini ha sempre contestato la regole che impongono di sbarcare nei porti italiani le persone salvate, arrivando a minacciare - anche se le competenze sulla missione spettano ai ministeri della Difesa e degli Esteri - di mettere fine alla partecipazione italiana se non vengono cambiate. Il 22 dicembre scorso il Consiglio europeo ha prorogato fino al 3 marzo prossimo la scadenza di Sophia. Un tentativo disperato di prendere tempo alla ricerca di una soluzione comune tra gli Stati membri. Adesso l’annuncio della Germania rischia di far precipitare la situazione, rendendo più difficile la ricerca di un possibile accordo ma soprattutto la sopravvivenza della stessa missione. Migranti. Riportati tutti in Libia i 144 recuperati in mare di Marta Serafini Corriere della Sera, 23 gennaio 2019 Ti hanno riportati, in Libia. Nello stesso buio da cui erano partiti. Nella notte tra domenica e lunedì le motovedette di Tripoli hanno fatto la spola tra la Lady Sham, il cargo battente bandiera della Sierra Leone e di proprietà della I. Barbon di Mestre, e il porto di Misurata. Oltre 144 esseri umani, tra cui donne incinte e bambini, che sono stati rinchiusi nei centri di detenzione. Un “soccorso” che ha riacceso lo scontro sulla definizione di porto sicuro. “Nessun migrante o rifugiato dovrebbe essere riportato in Libia, dove la violenza e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno”, ha ribadito Charlie Yaxley, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani. E non solo. Anche Flavio Di In mare La nave Sea-Watch 3 (Ap) Giacomo, portavoce dell’Oim, l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni, ha spiegato come molti dei migranti sbarcati a Misurata fossero in “cattive condizioni fisiche”. Nel frattempo la Sea-Watch3 è al quinto giorno di navigazione dopo il soccorso di 47 migranti avvenuto sabato sera. Per il momento a bordo la situazione è stabile. “Le persone che abbiamo tratto in salvo vengono per lo più da Sudan, Senegal, Mali, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea Conakry. Sono tutti uomini, compresi otto minori non accompagnati”, fanno sapere dalla nave. Il peggioramento delle condizioni meteo ha spinto la Ong tedesca a chiedere all’Italia di potere sbarcare a Lampedusa, in quanto Pos (porto sicuro) più vicino. Ma immediata è arrivata la replica del ministro dell’Interno Matteo Salvini. “L’autorizzazione allo sbarco la dà il Viminale la risposta è niet, nisba. E l’unico modo per fermare gli scafisti attraverso i quali arrivano in Italia anche armi e droga”. Intanto il Missing Migrants Project (Mmp) dell’Oim riporta come questo gennaio abbia segnato il quarto anno consecutivo in cui almeno duecento migranti irregolari e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo. Una strage, nel buio. Migranti. La Germania lascia la missione Ue Sophia “per il populismo dell’Italia”. di Paolo Foschi Corriere della Sera, 23 gennaio 2019 Salvini: “Non è un problema”. Nessuna nave tedesca sarà più inviata lungo la costa della Libia, secondo i media locali dietro la svolta ci sarebbe la linea dura del governo Conte sull’accoglienza. Giuseppe Conte smorza i toni dello scontro Roma-Parigi sui migranti, ma si apre un fronte politico con Berlino: la Germania ha deciso di sospendere la partecipazione alla missione europea Sophia per il controllo del Mediterraneo in risposta alla chiusura dei porti voluta dal vicepremier leghista Salvini. Dopo due giorni di attacchi di Di Maio e Di Battista alla Francia accusata di sfruttare i paesi africani, il presidente del Consiglio è dunque sceso in campo con una mediazione, senza però sconfessare il vicepremier pentastellato. “Continuiamo a lavorare fianco a fianco con la Francia per trovare soluzioni condivise” ha scritto Conte, ma “l’Europa deve battere un colpo e intervenire per sostenere più adeguatamente lo sviluppo economico e sociale dei paesi africani”. Il premier, secondo le indiscrezioni, si sarebbe mosso dopo aver subìto la “moral suasion” di consiglieri vicini al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che teme un’Italia isolata dal resto dell’Europa. Il fronte anti-francese si è comunque ormai allargato anche alla Lega. Salvini ha attaccato il presidente Macron: “Il problema dei migranti ha tante cause, c’è chi va in Africa non a creare sviluppo ma a sottrarre ricchezza a quei popoli e a quel continente. La Francia evidentemente è tra questi, l’Italia no”. E ancora: “Sono vicino, con tutto il cuore e il mio lavoro, a milioni di uomini e di donne che vivono in Francia con un pessimo governo e un pessimo presidente”. Pronta la replica della ministra per gli Affari europei, Nathalie Loiseu: “Salvini insulta i francesi. Cosa ci guadagno gli italiani? Nulla”. In questo clima di tensione, è arrivata la notizia dell’addio tedesco alla missione Sophia almeno “finché il mandato della missione non verrà chiarito”. Addio che in ambienti diplomatici italiani a Bruxelles è stato letto anche come un messaggio di sostegno da Berlino alla Francia. La reazione di Salvini: “Se qualcuno si sfila dalla missione Sophia, per noi non è un problema”. Chiude il Cara, migranti in strada. Il paese si ribella “Non sono bestie” di Flavia Amabile La Stampa, 23 gennaio 2019 Sgombero a Castelnuovo (Roma): in 30 verso altre Regioni. Il Pd accusa Salvini. Parroco e Sindaco: addio integrazione. Caricati sugli autobus e portati via in massa da uomini in divisa. Quarantotto ore di preavviso e per i più piccoli nemmeno il tempo di salutare la maestra o i compagni di scuola. A Castelnuovo di Porto, in provincia di Roma, ieri mattina è andata in scena la prima puntata della chiusura del Cara, il centro di accoglienza per i richiedenti asilo aperto nel 2008 come prevedono le direttive europee di quegli anni. Il decreto sicurezza voluto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini ha cambiato le regole dell’accoglienza in Italia e avviato alla chiusura i Centri. Ieri mattina sono stati portati via i primi trenta. Nessuno sapeva dove, nemmeno l’autista dell’autobus su cui sono stati fatti salire i migranti trasferiti in strutture di altre regioni, Basilicata e Campania. Altri, invece, hanno lasciato il centro da soli e ora sono probabilmente in uno dei tanti ripari di fortuna nelle strade di Roma. Nei prossimi giorni sono in programma gli altri trasferimenti. La chiusura definitiva avverrà entro il 31 gennaio. “Era tutto programmato”, spiega il prefetto di Roma Paola Basilone. Nessuna possibilità di cambiare idea: “Il centro andava chiuso e non c’era possibilità di continuare”. Il Cara di Castelnuovo di Porto era il secondo più grande d’Italia, dopo quello di Mineo in provincia di Catania. In 11 anni ha ospitato anche 1.000 richiedenti asilo insieme, negli ultimi tempi ce n’erano la metà. Anche per questo motivo andava chiuso, sostiene il ministro Salvini nella sua diretta Facebook: “Salvini deporta i bambini, i migranti. Razzista, fascista, nazista... balle spaziali. Tutti gli ospiti che erano dentro e che hanno diritto saranno trasferiti con altrettanta generosità, perché se sei qui a chiedere asilo politico, non puoi pretendere di andare a Cortina”, spiega. La verità, aggiunge, è che “si erano dimezzati gli ospiti: da 1.000 erano passati a 534” e, quindi, “con il ragionamento che fa un buon amministratore chiudiamo una struttura sovradimensionata”. È il destino amaro di questo centro che negli anni è stato accusato di ogni male e uno dei problemi ricorrenti era invece il sovraffollamento. “Mi rifiuto di spendere 6 milioni di euro all’anno dei cittadini italiani, quando si può fare diversamente - prosegue Salvini. Capisco che qualcuno si stia innervosendo: le cooperative, le finte cooperative, le Onlus e le finte Onlus, perché stanno perdendo un bel business”. Si chiude, insomma, e il risparmio - promette Salvini - verrà utilizzato “per aiutare gli italiani o chiunque abbia bisogno”. Ma nessuna promessa potrebbe calmare le proteste del mondo cattolico e dell’opposizione. “Siamo dispiaciuti e preoccupati. Chiediamo che non vengano trattati come bestiame”, sono le parole del parroco di Santa Lucia, padre José Manuel Torres, messicano, dei Servi di Gesù, che ha ospitato nel pomeriggio di ieri l’inizio di una marcia silenziosa a pochi passi dalla scuola elementare dove studiavano alcuni bambini del Cara. Sono ventisei, invece, i senatori del Pd ad aver firmato un’interrogazione al ministro Salvini per chiedere come mai sia “chiusa una struttura di integrazione che in questi anni ha raccolto diversi riconoscimenti, dall’Acnur a Migrantes, e che ha permesso di salvare e aiutare 8 mila profughi, tra i quali 700 minori”, spiega la senatrice Annamaria Parente. La stretta italiana sui migranti ha anche altri sviluppi fuori dall’Italia. La Germania ha sospeso la partecipazione all’operazione Sophia, lo spiegamento navale dell’Ue per contrastare la tratta di esseri umani attraverso il Mediterraneo. E la nave Sea Watch è al quarto giorno in mare con 47 persone a bordo e nessuno Stato che si sia reso disponibile a farla attraccare. Dal ministro Salvini arriva solo un “no”. L’Onu: in Ucraina 13mila morti per la guerra del Donbass di Monica Ricci Sargentini Coriere della Sera, 23 gennaio 2019 Dall’aprile 2014 alla fine del 2018 sono state quasi 13 mila le vittime della guerra nel Donbass. Lo ha reso noto la missione di monitoraggio per i diritti umani delle Nazioni Unite in Ucraina. Nello specifico, i civili rimasti uccisi sarebbero 3.300, oltre a 4 mila soldati ucraini e 5.500 miliziani separatisti. In aggiunta, un numero di persone fra le 27 e le 30 mila sono rimaste ferite nel corso del conflitto armato. Tutta l’area orientale dell’Ucraina vive una situazione di profonda instabilità e incertezza dall’aprile del 2014, dopo che le autorità di Kiev lanciarono un’operazione militare per riprendere il controllo della regione dalle milizie delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk che sostengono l’indipendenza del Donbass. Gli accordi raggiunti a Minsk dal Gruppo di contatto trilaterale dell’Osce (Russia, Ucraina e le due autoproclamate repubbliche) prevedono un completo cessate il fuoco; il ritiro degli armamenti dalla linea di contatto nell’Ucraina orientale; lo scambio reciproco di tutti i prigionieri detenuti da entrambe le parti; delle riforme costituzionali che conferiscano uno statuto speciale alle autoproclamate repubbliche. Il Formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina) monitora il rispetto di quest’intesa. Dalla sigla degli accordi, tuttavia, le due parti si accusano reciprocamente di contrastarne l’attuazione. Medio Oriente. Sommossa ad Ofer, detenuti palestinesi contro misure Erdan di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 gennaio 2019 Il ministro ha inasprito le regole di detenzione riducendo i diritti dei palestinesi reclusi nelle carceri israeliane. Raduni in Cisgiordania e Gaza a sostegno delle proteste. Quasi 150 detenuti palestinesi sono stati feriti, tra intossicati dai gas lacrimogeni e feriti dai proiettili di gomma sparati dalle unità scelte delle guardie carcerarie intervenute per spegnere con la forza le proteste divampate tra domenica e lunedì nella prigione israeliana di Ofer. Una sommossa a tutti gli effetti, come non si registrava da tempo, che ha subito generato fermento nelle carceri dove sono rinchiusi migliaia di prigionieri politici, che Israele considera tutti “terroristi”. La protesta non è cessata. Ieri a Ofer i prigionieri hanno fatti lo sciopero della fame e in diverse località della Cisgiordania e a Gaza si sono tenuti raduni in loro sostegno. La rabbia covava da giorni sotto la cenere. I detenuti politici chiamano Ofer la “Guantanamo” della Palestina. Il paragone è azzardato ma in questa prigione israeliana, a qualche chilometro da Ramallah e che include il tribunale militare, le regole della detenzione non sono leggere. E sono peggiorate ulteriormente quando a inizio anno il ministro israeliano per la sicurezza interna Gilad Erdan, con un occhio rivolto alla campagna elettorale per le politiche del 9 aprile, ha annunciato un inasprimento delle condizioni di reclusione per tutti i detenuti palestinesi. Fine della divisione dei prigionieri secondo settori omogenei per affiliazione politica, stop alla possibilità di preparare pasti nelle singole celle. Divieto assoluto di possesso di telefoni cellulari e nuove e più rigide procedure di sicurezza per le visite dei famigliari dei prigionieri. Le misure ordinate da Erdan, avevano subito commentato i detenuti e i loro avvocati, equivalgono ad “una dichiarazione di guerra”. In un raro momento di unità nazionale palestinese, i partiti rivali Fatah e Hamas, il Jihad, il Fronte popolare e il Fronte democratico hanno sottoscritto un documento di protesta annunciando che i detenuti non accetteranno mai le nuove misure israeliane e non cesseranno di contestare la linea del pugno di ferro del ministro Erdan. La scintilla della sommossa sarebbe stata una ispezione a sorpresa nelle celle durante la quale sono stati sequestrati due telefoni cellulari, tessere sim e “oggetti vietati”. Alcuni detenuti quindi hanno appiccato il fuoco a una cella innescando le proteste. Poco dopo sono intervenute le unità scelte delle guardie carcerarie che sono riuscite a riprendere il controllo di Ofer solo dopo diverse ore. La tensione nelle carceri, che presto potrebbe sfociare in nuove proteste, coincide con le iniziative tenute nei Territori palestinesi occupati e in alcune città europee, come Berlino e Copenhagen, a favore della liberazione di Ahmed Saadat, il segretario generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina detenuto in Israele. Ieri a Gaza una cannonata sparata da un carro armato israeliano contro un posto di osservazione di Hamas nei pressi di al Burej, ha ucciso un palestinese. L’esercito ha detto di aver aperto il fuoco dopo il ferimento di un soldato colpito sulle linee di demarcazione da un cecchino palestinese. Zimbabwe allo stremo, niente rinascita dopo Mugabe di Michele Farina Corriere della Sera, 23 gennaio 2019 È criminale che le forze dell’ordine approfittino delle manifestazioni popolari (e di qualche saccheggio) per sparare sui dimostranti e picchiare di notte a domicilio i membri dell’opposizione. In un Paese dove il 75% degli abitanti vive con meno di 5 euro al giorno, il governo ha fatto in modo che i prezzi raddoppiassero in una settimana, a partire dal carburante che tocca i 3 euro al litro. Da un giorno all’altro, via i sussidi: lo Zimbabwe vanta ora il record della benzina più cara del mondo. Altro che gilet gialli: la gente non ha i soldi per il biglietto dell’autobus (3 euro pure quello, come un chilo di riso). È normale che protesti. È criminale che le forze dell’ordine approfittino delle manifestazioni popolari (e di qualche saccheggio) per sparare sui dimostranti e picchiare di notte a domicilio i membri dell’opposizione. Se qualcuno nutriva ancora dubbi, in questi giorni il disincanto è servito a doppia cifra (come l’inflazione): il governo del presidente Emmerson Mnangagwa non è diverso da quello notoriamente autoritario dell’ex sodale Robert Mugabe. Il Coccodrillo che 10 anni fa organizzava di persona la repressione del Movimento per il Cambiamento democratico, adesso lascia il compito al vice. Mentre il capo era all’estero, l’ex generale Costantino Chiwenga ha scatenato le violenze e bloccato Internet. Il bilancio a Harare è di almeno 12 morti, un centinaio di feriti, 700 arrestati (5 parlamentari). Le forze dell’ordine sostengono che gli assalitori erano impostori travestiti da poliziotti. Il Coccodrillo ha interrotto il suo viaggio, si è perso la tappa di Davos per rientrare in patria. E usando twitter (dopo aver bloccato per giorni i social) ha tuonato che gli eventuali abusi della polizia saranno perseguiti. Come no. Lo Zimbabwe è allo stremo. La rimozione di Mugabe nel 2017 e le elezioni contestate del 2018 non hanno portato a una rinascita. Per attirare gli investimenti di cui il Paese ha disperato bisogno, il Coccodrillo si era inventato uno slogan: lo Zimbabwe “open for business”. Nè affari né aperture, purtroppo: lo Zim resta “chiuso per botte”. Italiano in cella ad Abu Dhabi. “Mi torturano, sto morendo” di Letizia Tortello La Stampa, 23 gennaio 2019 Imprenditore 53enne arrestato a marzo scorso per possesso di 10 grammi di cocaina. Mi hanno sottoposto a torture di ogni tipo, scosse elettriche ai genitali, il mio testicolo sinistro è grande come un’arancia. Ho tre costole incrinate. Aiutami, ho i giorni contati, sto morendo”. È la denuncia di Massimo Sacco, un imprenditore 53enne di Roma, detenuto nel carcere federale di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, da agosto scorso, e prima, dal 5 marzo, nella prigione di Dubai, dopo essere stato trovato in possesso di 10 grammi di cocaina, tornato da una festa al Barasti Beach. L’uomo, affetto da una malattia genetica chiamata microcitemia, ha chiesto alla sua compagna, Monia Moscatelli, di lanciare un appello via radio alle autorità italiane. Il processo a suo carico non è mai iniziato: “Il primo rinvio è stato il 7 gennaio - spiega a La Stampa la fidanzata -, ma i poliziotti non si sono presentati. Ora la data dell’udienza è fissata per domani, 24 gennaio”. Si rimanda di mese in mese, “il giudice non ha nemmeno formulato l’imputazione, perché vuole sentire prima gli inquirenti, e intanto Massimo è tenuto in carcere malato, è dimagrito a vista d’occhio”, spiega disperata la compagna. Racconta di minacce da parte degli agenti, botte e torture: “Il suo stato di salute è ormai al collasso, da 87 chili ora ne pesa 68”. La coppia vive negli Emirati Arabi dal 2015. Lui al momento dell’arresto era titolare di una società di ristrutturazione. Se l’accusa a carico del 53enne fosse quella di traffico internazionale di stupefacenti, rischierebbe anche la pena di morte. Per uso e possesso di droga, la pena prevista è di sei mesi, lui è in cella da dieci. Ma il pericolo imminente è quello per la salute. Tante che la donna si è rivolta alla trasmissione “I lunatici” di Radio2. Ha riferito l’inferno in cui vive Sacco: “Hanno fatto di tutto per farlo confessare. Ha subito ricatti. Il direttore del carcere gioca da tre mesi con la sua vita”. L’imprenditore è stato male, è stato trasportato in ospedale, dove gli hanno fatto esami del sangue e un’ecografia alla milza, perché si stava ingrossando di giorno in giorno. Il medico emiratino ha riscontrato un’anemia e prescritto ferro. Ma lui è affetto da una malattia di tipo mediterraneo, che ad Abu Dhabi non conoscono e non sanno come trattare, che comporta un’eccessiva produzione di ferro e andrebbe trattata con l’acido folico. “Rischio che a breve una leucemia”, denuncia. La Farnesina sta seguendo “dal principio e con la massima attenzione tramite l’ambasciata ad Abu Dhabi” il caso, dichiara di “vegliare sulle condizioni detentive”. Moscatelli, che a dicembre ha scritto al presidente della Repubblica Mattarella, ha avviato anche una colletta trai famigliari: “Dobbiamo trovare i soldi per l’avvocato - dice, lì si pagano anche il carcere, le telefonate ai parenti, il cibo, tutto”. Intanto, non sono arrivati in cella nemmeno i “vestiti puliti consegnati al direttore della struttura detentiva”, chiesti da Sacco molti mesi fa. Olanda. Un calendario nelle carceri con le foto delle vittime di omicidi irrisolti di Pietro Del Re La Repubblica, 23 gennaio 2019 Il tentativo per far parlare i detenuti È affisso nelle prigioni del Paese per risolvere i cold cases. L’anno scorso grazie alle confessioni dei carcerati sono stati riaperti 13 processi. Davanti al video girato e messo in rete dalla polizia dell’Aia, chi non parla olandese potrebbe pensare sia al back stage di un thriller fantascientifico sia a un documentario sul mostro di Rostov, quel serial killer russo accusato di aver stuprato e ucciso una sessantina di persone. In realtà, il filmato è stato confezionato per pubblicizzare un calendario con i casi di cronaca nera ancora irrisolti, siano essi omicidi, persone scomparse da anni e mai ritrovate, cadaveri non identificati o grosse rapine di cui non è mai stato rinvenuto il malloppo. Giunto alla sua terza edizione, il suddetto calendario è affisso nelle carceri del Paese allo scopo di “rinfrescare” la memoria dei detenuti sui cold cases, su quelle vicende su cui ormai la polizia non indaga più, spingendoli a raccontare ciò che sanno per eventualmente riaprirle e risolverle. Il caso più vecchio contenuto nel calendario è quello di Alwin Sterk, di cui si persero misteriosamente le tracce nel 1972. Ora, questo sistema funziona sorprendentemente bene: grazie ai calendari degli ultimi due anni, la polizia ha raccolto indizi per riaprire diverse inchieste. Solo nel 2018, sono stati 302 i carcerati ai quali le foto sul calendario che hanno trovato appeso in sala mensa o in lavanderia del loro penitenziario hanno risvegliato ricordi e li hanno incitati a spifferare quanto sapevano su tale o tale assassinio, rapimento o rapina. E le loro sia pur tardive testimonianze hanno contribuito alla riesamina di ben 40 casi, in 13 dei quali è stato addirittura riaperto il processo. Il calendario contiene soprattutto foto delle vittime senza un colpevole, alle quali è stata negata giustizia, e nasce dall’idea di un esperto di cold cases, Aart Garssen, secondo il quale nella memoria dei detenuti e degli ex detenuti è nascosta buona parte di verità di molte faccende criminali. “Lo facciamo per i parenti delle vittime, dicendo loro che la polizia non è sempre in grado di risolvere immediatamente le sue inchieste, ma che non le abbandona mai, continuando a cercare gli assassini”. Contrariamente a quanto sostengono molti poliziotti, Garssen è anche convinto che col passare del tempo la maggior parte delle vicende criminali potranno essere riaperte e risolte, sia perché c’è chi dopo anni di silenzio decide finalmente di confessare sia per le nuove tecnologie a disposizione degli inquirenti, quali l’analisi del Dna o della micro-chimica, per non parlare della digitalizzazione delle prove e del contributo dell’intelligenza artificiale. “Per risolvere i cold cases, sempre più spesso ci appoggeremo anche ai ricercatori universitari e ai poliziotti in pensione”. In modo non lasciare scampo ai criminali. Marocco. “Paese intollerante”, l’accusa di Human Rights Watch Ansa, 23 gennaio 2019 Rapporto Ong, non accetta dissenso e falle in sistema diritti. Tra le falle in tema di diritti in Marocco denunciate da Hrw “la repressione di ogni manifestazione di protesta, anche quando sono pacifiche”. Human Rights Watch bacchetta il Marocco: “è un paese sempre più intollerante nei confronti del dissenso”. L’organizzazione non governativa di base a New York passa al setaccio le falle del sistema marocchino in tema di diritti e nel rapporto annuale elenca i punti critici. Forze dell’ordine che “abusano dei mezzi di correzione”, “repressione di ogni manifestazione di protesta, anche quando sono pacifiche”, “processi iniqui”, come nel caso dei detenuti dell’Hirak, il movimento che ha scosso il nord del Marocco e soprattutto la città di Al Hoceima tra il 2016 e il 2017, “detenuti inascoltati”, come i prigionieri di Kenitra, a nord di Rabat, che volevano avvicinarsi alle loro famiglie nelle province del Sud. E, ancora, organizzazioni per i diritti di fatto messe nell’impossibilità di lavorare, per esempio nelle zone del Sahara occidentale. Dito puntato anche sulla condizione femminile, con i matrimoni tra minori che rappresentano un “problema rilevante”, nonostante il codice di famiglia fissi l’età minima per le nozze a 18 anni, e quella legge contro la violenza contro le donne, entrata in vigore nel settembre 2018, che “non è abbastanza efficace nei controlli”, “non aiuta chi potrebbe sporgere denuncia e cioè proprio le donne”. Inoltre, il codice penale del Marocco “continua a discriminare le persone Lgbt”. L’articolo 489 stabilisce pene da sei mesi a tre anni “per atti osceni o innaturali con un individuo dello stesso sesso”. Poi c’è il nodo migranti: “non esiste ancora il diritto d’asilo”. E pur riconoscendo a oltre un migliaio di migranti l’accesso ai “servizi pubblici essenziali, come l’istruzione e la salute, il Marocco non ha concesso loro il diritto al lavoro”.