La femminilità oltre le sbarre. L’incubo di tornare autonome di Silvia Bonalumi* tpi.it, 22 gennaio 2019 Come sconfiggere le abitudini che si creano in carcere? Come tornare ad essere donne in città? Se nascere è un evento biologico, naturale, che non richiede alcuna volontà, rinascere dopo una detenzione richiede un’immensa fatica che comprende mille argomenti del nostro più intimo io. Una ricerca faticosa e lunghissima, da affrontare con grande forza e pazienza. Nessuno è mai pronto a entrare in un immenso cubo di cemento grigio perdendo istantaneamente e totalmente tutti i privilegi della libertà. Ci vuole un lungo periodo per disattivare abitudini ataviche, per molto tempo allo squillo del telefono si cercherà il cellulare per poi accorgersi che era semplicemente la tv. Quando finisce il bagnoschiuma si dovrà pazientemente aspettare, fare richiesta scritta nel giorno previsto e aspettare quindici giorni per riceverlo. È così che la mente si disattiva e, dimenticando i ritmi ipercinetici della normalità, piano piano si sopisce e trova riposo. Fuori avviene tutto contemporaneamente e in fretta (ma siamo sicuri che ci abbia fatto bene correre sempre?). Fuori le donne multitasking sono osannate e ricercate con voracità dai cacciatori di teste, più cose fai più sei economicamente appetibile. Donne virtualmente sull’orlo di una crisi di nervi. Aziende pronte a investire nel welfare per corsi di counseling, coaching, resilienza. Funzionano, è scientifico. E le donne si allontanano dal loro cuore, dalla loro dimensione naturale. In carcere tutto si disattiva su tutti i fronti, la frenesia delle città ti abbandona lentamente e i contatti con l’esterno e tutto ciò che ti riguardava appaiono lontanissimi. Inizi a funzionare per compartimenti, c’è un momento per tutto, ed è strettamente separato da tutto. Parlando con alcune detenute (che chiameremo con nomi di fantasia) scopriamo che le paure sono identiche seppure nazionalità, provenienza, culture e tradizioni siano lontanissime. Due di loro ci dicono: “Ogni cosa è organizzata, definita, distribuita, sai che giorno chiederla e sai che giorno arriverà, non devi far nulla, è così comodo non devi nemmeno più pensarci! Fuori sarò in grado di organizzarmi così?”. Janice ha passato molti anni in carcere e teme di non aver più la capacità di gestire l’organizzazione materiale della sua esistenza. Ha avuto una vita precedente faticosissima, colma di abbandoni e di incapacità genitoriali, era abituata a prendere la vita di petto giorno per giorno, perché i suoi progetti erano semplicemente come sopravvivere giornalmente, a Bollate ha imparato a prendersi cura della sua persona e a tutelarsi, si è sentita presa per mano e accompagnata. Adesso la sua paura è: “Fuori da sola sarò capace?”. Queste parole fanno andare il sangue alla testa a Emma, che in carcere da pochi giorni non si capacita che non si possa organizzare nulla senza attese lunghissime e non supervisionati e verificati. Lei è ancora multitasking, non ha ancora staccato il relè. C’è un oceano tra chi ha un ingresso recente e chi risiede qui da lunghi anni. Se osservi col cuore ti accorgi che difendersi dalle mancanze, dalle nostalgie dei contatti coi propri cari spesso è più duro e le risposte gelano le nuove arrivate. Non sono le più forti, sono le più fragili che stanche e deluse non hanno ancora compiuto un percorso che dia loro la tranquillità di rispondere serene. Donne prostrate che a loro volta prostrano per paura di venir ancora intaccate. Melody ha il terrore di prendere i mezzi pubblici: “La cosa che mi fa più paura all’idea di uscire è il pullman, la metropolitana, non so più che rumore fanno e a che velocità vanno, tremo all’idea di salirci sopra e anche di perdermi, sono cambiate le linee, non c’erano nemmeno la lilla e la blu quando entrai in carcere”. Melody ha ragione, tornerà dal suo primo giorno di lavoro fuori sudata fradicia. Che sensazione hai avuto? “Mi girava tutto attorno - risponde - puzzo da far schifo, ero terrorizzata”. Però lo ha fatto! Non aveva mai avuto sintomi di agorafobia, era la prima volta. Le auto che sfrecciavano sulla strada vicino sono diventate un unico suono che le dava vertigini e nausea, ma poi è arrivata. Barbara ha una lunga attesa davanti. È qui da molti anni, a metà della pena, e a discrezione del magistrato avrà la possibilità di richiedere i primi permessi che poi potranno divenire più ampi, lidesidera moltissimo ma ha imparato a non illudersi e con lucidità dice: “Non ho fretta, la mia pena è lunghissima, non mi illudo arrivino alla mia prima richiesta, so che mi farà paura attraversare anche la strada, non ho più la percezione del traffico nemmeno del suono che produce, ma so che lo farò da sola e non consentirò a nessuno di aiutarmi, perché sarà momentaneo e so che passerà, è successo a tutte le detenute uscite prima di me”. “Ho paura - continua - anche si smaterializzi la promessa di traghettarmi fuori da qui con qualche azienda che mi garantisca lavoro, la mia indipendenza economica e che io possa quindi perdere la possibilità di dimostrarmi meritevole della libertà che chiedo. Ma la mia preoccupazione più grande riguarda ciò a cui tengo di più: i miei famigliari”. “So che mi aspettano, me lo ripetono a ogni visita, ma incomprensibilmente ho il terrore di destabilizzare il loro ménage familiare, che il mio introdurmi nella loro casa tolga loro la quotidianità che hanno consolidato ormai da decenni senza di me!”. Ma poi non sarà così, la aspetteranno in lacrime, e quando sarà il momento lo vedrà lei stessa, e il suo cuore troverà finalmente la calma. Parlando con queste donne percepisci che più lunga è la pena da scontare più emergono in loro risorse interne per colmare il vuoto dei corridoi. Con quel vuoto riempiono il loro sentire interno di densità. Contemporaneamente, più rimangono in carcere, più le paure si amplificano e prendono strade inaspettate. Se le detenute con pene brevi o recidive aspettano con impazienza la libertà, per le altre l’orizzonte libero viene inquinato da paure che affiorano galleggiando su un mare che dovrebbe apparire soave. Alle detenute che ci hanno regalato i loro timori profondi auguriamo che questa raccolta e visione d’insieme permetta di scoprire che il loro sentire è condiviso e ci auguriamo che questo le aiuterà a sentirsi meno strane e meno sbagliate. La verità è che sono solo donne sensibili, consapevoli e profonde. * Questo articolo fa parte della collaborazione tra TPI.it e Carte Bollate, il giornale scritto, pensato e finanziato dai detenuti del carcere di Bollate di Milano. Un carcere resta sempre un carcere. Ma Bollate è uno dei pochi istituti italiani che applica una legge del 1975, secondo la quale le porte delle celle, durante il giorno, possono restare aperte. Si è sempre distinto nel promuovere una nuova cultura della detenzione e nel dedicare particolare attenzione al detenuto, creando canali di dialogo con la società civile. In quella che è la seconda Casa di reclusione di Milano (1.100 detenuti e 100 detenute), si svolge da cinque anni il Laboratorio giornalistico condotto da Paolo Aleotti che si prefigge di avvicinare i detenuti all’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Il magazine Carte Bollate è stato fondato nel 2002, la sua direttrice è Susanna Ripamonti, mentre l’art director è Federica Neeff. La banca dati che fotografa l’Italia criminale di Luca Fazzo Il Giornale, 22 gennaio 2019 È a Roma il laboratorio che, per la prima volta, raccoglie i profili genetici di migliaia di detenuti. Chi commette un delitto è schedato per sempre Unica eccezione i reati dei colletti bianchi. Dal 2016 a tutti i detenuti viene prelevato il Dna. E grazie alla nuova banca dati si sono già trovati gli autori di 42 delitti rimasti irrisolti. Viaggio nel centro che raccoglie 140mila provette “a rischio”. “Fosse per me, farei un database nel quale ci sarebbe ogni individuo maschile e se qualcuno fa qualcosa di male, si fa una verifica, poi si stabilisce al 100 per cento che corrisponde e lo si ammazza” “Sì, beh, ci sono decisamente molte leggi che non lo consentono” (da “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”). Un quadrilatero alle spalle del carcere di Rebibbia, a Roma. Qui, in grandi armadi a tenuta stagna, prende forma giorno dopo giorno il ritratto di una nazione. È un ritratto più perfetto di qualunque fotografia, perché non riporta i tratti del volto ma la lunga, inconfondibile sequenza del Dna. Non ci sarà il ritratto di tutti i maschi del paese, come avrebbe voluto Mildred, la madre disperata e rabbiosa di “Tre manifesti a Ebbing”. Ma ci saranno, maschi e femmine, i ritratti della nazione criminale. Di tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, passano per le galere italiane. Tra di loro, la banca dati raccolta a Rebibbia aiuterà a cercare i colpevoli dei delitti irrisolti. La caccia, in realtà, è già cominciata, è ha già anche iniziato a dare i suoi frutti. Ad oggi, il Laboratorio ha ricostruito i profili genetici di 5.556 detenuti e ex detenuti, e li ha inviati alla banca dati della Polizia. Il database viene interrogato in continuazione dagli investigatori. Quarantadue casi sono stati già risolti: bingo! Anzi, match! Quando due profili coincidono perfettamente, c’è il match. “Matchano, diciamo noi”, spiegano al Laboratorio. Dei quarantadue casi risolti, due sono delitti commessi all’estero: perché se i criminali scavallano le frontiere, anche le polizie di tutta Europa mettono in comune quel tesoro che sono i database. A gestire il Laboratorio è il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ogni giorno altri profili entrano nel cervellone del Laboratorio. Più si allarga il database, più alte sono le possibilità di trovare al suo interno la soluzione di altri gialli. Alla base di tutto, che piaccia o no, c’è la recidiva: spesso e volentieri, chi commette un crimine ne ha già commesso un altro. Se si riuscisse a schedare l’intera popolazione criminale, qualunque traccia biologica lasciata da un pregiudicato su una scena del crimine avrebbe automaticamente un nome e un cognome. Non è il sogno di Mildred, ma quasi. La privacy - E la privacy, e i diritti umani, eccetera, che fine fanno? “C’è una legge che consente il prelievo, l’analisi e la conservazione - spiega Grazia De Carli, sessant’anni, la dirigente del Dap che guida il Laboratorio - noi ci preoccupiamo di garantire che questo avvenga con efficienza, sicurezza e nel rispetto dei diritti degli imputati. Per questo i profili qua archiviati sono anonimi, identificati solo con un codice a barre”. Se un poliziotto volesse incastrare a tutti i costi un sospetto, dal cervellone del Laboratorio non otterrebbe alcun aiuto. “Solo quando i due profili, quello rilevato sulla scena del crimine e quello anonimo custodito da noi, matchano perfettamente, allora gli investigatori ottengono il nome del titolare”. La gestazione del Laboratorio ha avuto un percorso molto italico: la legge è del 2009, per iniziare a prelevare i campioni ai detenuti si è dovuto aspettare il 2016, per analizzarli la fine del 2017. Ma adesso si è partiti, e non ci si fermerà più. Quando si è cominciato a fare i prelievi nelle carceri, si è iniziato dai detenuti che stavano per uscire: per l’ovvio motivo che era l’ultima occasione per carpir loro i codici genetici. Poi si è andati avanti con gli altri, e con quelli che man mano entrano in cella. Il prelievo è obbligatorio: il detenuto viene portato nella “stanza bianca”, l’ambulatorio asettico creato in ogni carcere dove agenti in camice bianco gli fanno aprire la bocca. Se si ribella, lo si può costringere con la forza: “Ma fortunatamente - racconta il responsabile della “stanza bianca” di un carcere del nord - non accade quasi mai”. Quindici secondi per guancia, con una specie di cotton fioc ipertecnologico brevettato dalla General Electric. Poi il campione parte per Roma, al Laboratorio dove 55 commissari biologi e informatici della Polizia penitenziaria lavorano alla analisi e alla catalogazione. Non tutti i detenuti sono obbligati al prelievo. La legge del 2009 esenta gli accusati da alcuni reati, tra cui le imprese classiche dei colletti bianchi: il falso in bilancio, l’evasione fiscale, la bancarotta fraudolenta. Forse perché sui bilanci truccati di solito non resta traccia di sperma o di saliva? Chissà. Per quasi tutti gli altri detenuti, scatta il prelievo. Non serve essere stati condannati, basta essere dentro. Ci sono carceri come Bergamo dove ormai il 100 per cento degli ospiti è geneticamente schedato. L’obiettivo, un po’ alla volta, è arrivare allo stesso risultato in tutta Italia. Le garanzie - Le possibilità investigative aperte dal censimento sono chiare, e altrettanto lo sono le preoccupazioni e gli interrogativi che questa operazione porta con sé: dalla attendibilità dei risultati alla genuinità della conservazione. Ma Grazia De Carli tranquillizza: “Noi agiamo sul campione salivare con sistemi che arrivano all’identificazione di venticinque alleli, quando ne bastano molti di meno per arrivare alla certezza. Il prelievo avviene in condizioni asettiche: singolarmente, detenuto per detenuto, da agenti con camici monouso e maschere per evitare di essere contaminati e contaminare. Vengono fatte due card che arrivano in laboratorio in plico sigillato con sistema di sicurezza per evitare contraffazioni”. A Roma, ogni campione viene analizzato quattro volte; inoltre per i detenuti maschi si procede anche alla tipizzazione del cromosoma Y. Così per arrivare alle 5.556 schede sono state necessarie oltre 24mila analisi. In lista d’attesa ci sono già 140mila tamponi raccolti nel corso del 2018 nelle carceri di tutta Italia. Sarà un lavoraccio, ma un po’ per volta si arriverà a dare un profilo genetico e un codice a barre a tutti quanti. “Per adesso - dice la De Carli - stiamo dando la priorità ai detenuti per terrorismo e per criminalità organizzata”. Se n’è fatta di strada, da quando nell’Ottocento Alphonse Bertillon iniziò a schedare i criminali prendendo quattordici misure del cranio e degli arti: “C’è solo una possibilità su 286 milioni che due individui abbiano queste misure identiche”, sosteneva Bertillon. Oggi il Dna porta a una ogni 20 miliardi le possibilità di errore: il che, su un pianeta con 7,6 miliardi di abitanti, equivale alla certezza assoluta. Eppure il progresso tecnologico e le sicurezze positiviste degli scienziati non chiuderanno mai del tutto la bocca agli scettici: neanche nelle aule di giustizia, dove di battaglie sulla prova del Dna se ne continueranno a combattere a lungo. Soprattutto nei casi in cui il campione di partenza, quello trovato sulla scena del delitto, è costituito da poche, malconce cellule. Il confronto - Alla qualità dei reperti, come si può immaginare, non c’è rimedio: a volte le scene del crimine sono fresche, incontaminate; a volte la Scientifica interviene a distanza di tempo, su corpi - o quel che ne resta - rimasti in balia delle intemperie; certo, il progresso scientifico aiuta oggi a estrapolare la sequenza genetica da campioni che una volta sarebbero stati inutilizzabili (come è accaduto per Lidia Macchi, la studentessa assassinata nel 1987 a Cittiglio); ma in altri casi, come le ossa ritrovate il 30 ottobre scorso a Roma in una sede della Nunziatura apostolica, il campione di partenza non è stato sufficiente a tipizzare il Dna. L’importante è che in tutti i casi in cui dalla scena del crimine arrivano tracce utili possano essere confrontate con i profili presenti nel database in modo inattaccabile. Per questo dalla “stanza bianca” del carcere il campione parte per il Laboratorio in plico chiuso con sigillo antieffrazione, su ogni campione l’etichetta col codice dell’ufficio segnalatore, il codice dell’operatore, la data del prelievo. A Roma uno dei due campioni salivari viene chiuso in una nuova busta di sicurezza e conservato nel caso di contestazioni successive, l’altro viene tipizzato e inserito nel database. “Noi non sappiamo a chi si riferisce il campione - spiega Grazia De Carli - come non lo sanno alla banca dati. La compartimentazione garantisce l’indipendenza di valutazione”. Decine di migliaia, poi centinaia di migliaia di profili si accumuleranno nei prossimi anni. La stragrande maggioranza di loro non verrà mai evocata in una inchiesta. Ma crimini vecchi e nuovi troveranno risposte che altrimenti non sarebbero mai arrivate: nei paesi dove la banca dati del Dna esiste già, la percentuale di delitti risolti è cresciuta tra il 40 e il 50 per cento. Un po’ di privacy in meno, molta giustizia in più. I magistrati contro il Dap: “Ridateci i 150 agenti di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2019 Tutti i procuratori generali d’Italia contro Francesco Basentini, il capo del Dap. L’8 gennaio i procuratori generali hanno inviato una lettera al ministro della Giustizia Bonafede, per esprimere “preoccupazione” per una decisione presa dal Dap in solitaria: il ritiro di 150 agenti di polizia penitenziaria che lavorano presso le procure con funzioni preziose, come la collaborazione con i magistrati per l’esecuzione della pena o la sicurezza: “Vi è il rischio che si perda la professionalità acquisita dalla polizia penitenziaria” con una decisione presa senza “una consultazione degli uffici” coinvolti. I Pg denunciano che “addirittura” Basentini non ha risposto “alle note di diverse Procure generali e Corti d’appello” e poiché il ritiro deciso non prevedeva alcuna alternativa “si prospettava concretamente la chiusura dei più grandi uffici giudiziari”. Il riferimento è all’abbandono dei varchi di sicurezza dei Palazzi di Giustizia di Roma e Napoli. La decisione di Basentini risale a poco prima di Natale, ma il funzionario della polizia penitenziaria di Roma scrive che eseguirà l’ordine solo quando saprà a chi lasciare le consegne. Beffato chi patteggia: con lo “spazza-corrotti” va in carcere lo stesso di Errico Novi Il Dubbio, 22 gennaio 2019 Il caso più assurdo arriva da Genova, e ha spiazzato la Procura prima ancora degli avvocati. Ma in tutta Italia rischiano di contarsi decine e decine di amministratori locali e funzionari pubblici convinti di poter beneficiare della “condizionale” e invece improvvisamente destinati al carcere in virtù della legge Spazza corrotti. Si parla di persone già condannate con sentenza definitiva e in attesa della decisione del giudice di Sorveglianza (o ancora dell’ordine di carcerazione sospeso) che non potranno avvalersi del più classico dei benefici: la sospensione condizionale con la messa alla prova. Un terremoto della cui portata è ben consapevole l’Unione Camere penali. “Verrebbe da dire che non c’è alcunché di nuovo sotto il sole”, nota l’avvocato Giorgio Varano, responsabile Comunicazione dell’Ucpi, “è da tempo che finisce nel vuoto ogni obiezione mossa dalle difese sull’assurdità di vedere applicate in modo retroattivo modifiche normative in materia di esecuzione penale”. Il caso specifico da cui parte l’allarme può aiutare a comprendere meglio la portata del fatto. Un ex consigliere regionale dell’Italia dei valori, condannato in via definitiva, in seguito a patteggiamento, per peculato in uno dei processi per la “rimborsopoli” ligure, attendeva l’ordine di carcerazione sospeso in modo da poter fare appunto domanda di messa alla prova al Tribunale di sorveglianza. Aveva optato per il patteggiamento proprio in vista del beneficio premiale che avrebbero ottenuto. Ma a sentenza già depositata è entrata in vigore la legge cosiddetta Spazza corrotti, che ha cambiato le carte in tavola. E cosa stabilisce di rilevante, quel provvedimento, per chi si aspettava di veder sospesa la pena? All’articolo 4 estende a tutti i reati contro la Pa, compreso il peculato e l’abuso d’ufficio, la preclusione nell’accesso alla condizionale. Cioè si stabilisce che anche per condanne inferiori ai 4 anni, chi ha commesso reati di quel genere non va ai servizi sociali ma in galera, e solo dopo può chiedere la sospensione. Il fatto che quell’ex consigliere regionale avesse patteggiato quando non sapeva che la scelta non avrebbe impedito la detenzione in carcere, ha fatto notare al Secolo XIX il presidente della Camera penale di Genova Enrico Scopesi “è uno degli aspetti che potrebbe minare la costituzionalità” dell’articolo 4 della nuova legge, che “sarà sicuramente impugnata di fronte alla Consulta”. Il collega di Scopesi che difende l’ex consigliere in questione ha interloquito con la Procura per segnalare la necessità di considerare la natura sostanziale, visti gli effetti, della modifica introdotta dallo Spazza corrotti, e quindi la necessità di non attribuirle conseguenze retroattive. Ma i magistrati genovesi temono di non poter dare che un’interpretazione rigida, e dunque di non poter impedire che l’ex esponente dell’Idv vada in cella. Casi simili ce ne possono essere appunto tanti. “Il problema rischia di porsi persino per quei condannati che hanno già fatto domanda al giudice di sorveglianza e attendono la decisione”, nota l’avvocato Varano. “In passato mi è successo di fare domanda, per un assistito detenuto, sulla base del decreto per la liberazione anticipata speciale. In sede di conversione il decreto fu rivisto e il diritto che c’era il giorno prima è scomparso il giorno dopo. Quando c’è l’irretroattività”, dice con amarezza Varano, “vale il principio tempus regit actum: andrebbe cambiato in cancelliere regit actum, perché se gli uffici avessero fissato l’udienza più tempestivamente, al mio assistito, per esempio, il beneficio sarebbe stato accessibile. E invece oggi come allora si è destinati a scontare almeno un anno di detenzione: è quello il tempo minimo di attesa per essere ricevuti dal giudice di Sorveglianza”. Un paradosso giuridico. Che, come fa notare ancora il responsabile comunicazione dell’Ucpi, poteva essere evitato con una norma transitoria. Non c’è stata. E ora gli avvocati hanno un altro elemento da segnalare come grave di qui a poco, quando si terranno le inaugurazioni dell’anno giudiziario. Ardita (Csm): “I cittadini sono sconcertati dalle lobby giudici-politici” di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2019 Sebastiano Ardita, già procuratore aggiunto a Catania, oggi è consigliere di Autonomia e Indipendenza, la corrente del Csm che rappresenta al Consiglio insieme a Piercamillo Davigo. La vostra corrente ha approvato un comunicato critico sulla cena dell’associazione Fino a prova contraria. C’erano una volta magistrati accusati di fare un braccio di ferro continuo contro la politica, ora vanno a braccetto con ex indagati alle cene. Che succede? Non bisogna generalizzare, né demonizzare chi ha partecipato a quello che era comunque un evento pubblico. E aggiungo che peggio sono le cene private. Ma dobbiamo approfittare della maggiore capacità di emersione di questi fenomeni per fare chiarezza una volta per tutte. Il problema è che l’accordo tra poteri - politico-economico e giudiziario - sconcerta i cittadini. Se la élite rappresentativa di una democrazia rinuncia alla funzione di controllo reciproco, finisce per indurre nel popolo sentimenti di rivalsa. Questa reazione - per molti versi legittima - viene definita con disprezzo populismo. Può anche essere considerato un male in sé, ma è certamente la spia di un male ancora più grave. C’è quindi il rischio che i cittadini si sentano esclusi da una sorta di casta composta da politici, boiardi e grandi imprenditori, una specie di lobby delle classi agiate che non vogliono indagati imputati e condannati tra di loro all’insegna del garantismo? Nell’ottica dell’accordo tra poteri, che abbiamo criticato, è questo il messaggio che dobbiamo evitare. C’è una fase nuova di corteggiamento tra questa sorta di lobby e settori importanti di politica e magistratura? Diciamo che il potere ha una sua forza di attrazione, ma i magistrati hanno un ordinamento che ne garantisce autonomia indipendenza e dignità: possono resistere ad ogni tipo di seduzione. Chi non resiste può andare a fare altro. Naturalmente mi riferisco solo ai rapporti che incidono sulla integrità della funzione giudiziaria, altra cosa è il confronto culturale. Anche io ho partecipato a convegni dove dal palco si parlava di argomenti tecnici e in questo non vedo nulla di male. C’è un clima culturale che mette in minoranza i pm che indagano sui potenti? Tanti applaudono se non si indaga, si archivia, si proscioglie o si assolve un imprenditore. Il pm può chiedersi: ma chi me lo fa fare di andare contro il potere con un’inchiesta delicata se poi rischio l’isolamento, la gogna e magari un procedimento al Csm? Non siamo ancora a questo per fortuna. Anche se molti sarebbero contenti che non si indaghi, il Csm esiste per dare forza e sostegno a chi svolge il proprio dovere anche quando va contro i potenti. Non voglio parlare del passato, ma in questo Csm credo che sarà così. Negli ultimi mesi sono emerse tante inchieste nei confronti di magistrati. L’ultima in Calabria, ma in passato sono stati coinvolti magistrati da Roma alla Sicilia. Che succede? Guardando il bicchiere mezzo pieno, i magistrati non coprono, ma anzi reprimono rigorosamente le condotte dei loro colleghi. Se si inverte l’ottica, fa impressione leggere di comportamenti tenuti da chi svolge funzioni giudiziarie che sono degni della delinquenza comune. Mi riferisco ai fatti accertati giudiziariamente e su cui anche il Csm ha operato le sua valutazioni. C’è un calo di tensione morale nella magistratura? Credo e spero che non sia così, per le ragioni che ho espresso. Il calo morale può riguardare singoli individui, ma la categoria mostra di avere gli anticorpi e risponde. Sono i colleghi stessi che ci chiedono rigore nei confronti di certe indecenze, mentre chiedono comprensione per i possibili errori derivanti dal superlavoro. Comunque non è mai sbagliato l’invito a tenere elevata la tensione. Il caso Montante coinvolge politici e magistrati, il caso Amara coinvolge politici e magistrati. L’ultimo caso che riguarda alcuni imprenditori, tra cui l’ex socio di Tiziano Renzi, Luigi Dagostino, coinvolge magistrati che andavano a incontrare politici. Il Csm che sta facendo? Dalle cronache sembra che abbia dedicato più energie a processare il pm Henry John Woodcock che i magistrati vicini a questi giri politici... Sul caso Woodcock mi sono già espresso e questo mi è già costato qualche astensione nelle pratiche del nuovo Csm. Ribadisco che non vale la pena di guardare al passato. Siamo qui da tre mesi, abbiamo iniziato a dare risposte. C’è stata una giusta indignazione per il video su Battisti, ma nessuna per altri innocenti sbattuti sulle tv spesso con la complicità degli inquirenti. La politica mette su facebook pubblicamente i video della cattura che un tempo gli investigatori giravano ai giornali e alle tv, in segreto. Sembra quasi una gara tra il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario e quello web-politico. Lei si indigna? Io non sono indignato per Battisti, più di quanto non potrei esserlo per un comune cittadino. I media - è inutile negarlo - stravolgono molti equilibri e possono rappresentare uno di quei condizionamenti ai quali i magistrati devono resistere nell’esercizio delle loro funzioni. La politica senza i media non esisterebbe. La giustizia, in una democrazia normale, fermo restando il controllo del quarto potere, potrebbe fare a meno della vetrina mediatica. La corsa di Battisti è finita, quella dell’Italia più ipocrita ancora no di Edoardo Albert L’Opinione, 22 gennaio 2019 Fa male in uno stato di diritto constatare che coloro i quali, teoricamente, dovrebbero essere i primi custodi della salvaguardia di tale irrinunciabile forma di stato, i paladini di una giustizia giusta (amica e non nemica) siano, in realtà, i primi attentatori di essa. Il video girato dall’attuale ed improponibile Ministro di Grazia e Giustizia è qualcosa di raccapricciante, a maggior ragione se contestualizzato al giorno d’oggi, quando la garanzia di tale principio dovrebbe essere ormai conquista assodata, da difendere quotidianamente, ma comunque appurata. Un filmato che farebbe invidia persino a Robespierre. È avvilente ancor più perché ad averlo creato e condiviso non solo è il Guardasigilli italiano ma anche un avvocato, un giurista, colui dunque che meglio di chiunque altro dovrebbe conoscere l’articolo 114 del codice di procedura penale, che vieta “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica”. Per non parlare del linguaggio utilizzato dal Ministro dell’Interno. La forma non sempre è sostanza, ma in questo caso per quanto mi riguarda assolutamente sì. “Marcire in galera” è un’espressione da bar, da popolo rabbioso, da fanatici giacobini, al limite da mero leader di un partito che fa del giustizialismo la propria stella polare, non da Ministro, ossia da colui che rappresenta lo stato (e quindi ognuno di noi), amministrando l’ordine pubblico. Nonostante stia scrivendo ciò, sono comunque lo stesso che, alla notizia dell’arresto in Bolivia del terrorista latitante, è stato felice, felice perché i morti caduti sotto i colpi di Battisti, a distanza di quarant’anni, ritrovano (trattasi pur sempre di una magra consolazione) quella giustizia che gli era stata negata per così tanto tempo, a loro e ai loro familiari. Nell’immaginario collettivo è diventato il terrorista numero uno nella storia italiana. Sappiamo tutti che così non è. Tuttavia, la spocchia sempre manifestata da Battisti, il pentimento mai arrivato, il suo sputare fango ad ogni occasione utile nei confronti dell’Italia, le sue falsità, il farsi riprendere con il solito ghigno beffardo mentre tra Francia, Messico, Brasile e Bolivia passeggiava impunito sostenuto dall’intellighenzia della gauche, da quella “sinistra al caviale” così ipocrita, sicuramente hanno fatto sì che diventasse il più antipatico, il più squallido degli ultimi anni. Ha commesso dei reati, i più gravi, ed allora scontare la sua pena è l’unica soluzione. Sono contrario al “fine pena mai”, da semplice appassionato a questi temi prima e da giurista adesso, ho sempre provato umana paura e profondo disgusto per tale frase, essendo nato e cresciuto fieramente garantista, ma è così che funziona l’ordinamento giuridico italiano e dunque non resta che adeguarsi. Ma finisce, o meglio sarebbe dovuta finire qui. Perché oltre al consegnare un individuo agli organi ed alle strutture preposte non si doveva proseguire. La spettacolarizzazione, in un mondo ormai solo social e reality, è stata disgustosa. Una pagina che non fa onore né al nostro paese né alla classe dirigente che attualmente lo governa. La diretta da Ciampino dell’arrivo del Falcon 900 con a bordo il terrorista di quel che furono i Proletari Armati per il Comunismo, è stata chiaramente una strategia studiata a tavolino per cercare qualche voto in più. Piano che potrebbe aver avuto un senso (comunque ignobile) se all’indomani si fossero tenute le elezioni, ma così non è stato, le elezioni non erano programmate e fra qualche settimana nessuno si ricorderà di questo show, rimarrà la consapevolezza che un criminale in latitanza è stato arrestato dalle forze dell’ordine e non dai ministri che in totale trance aspettavano l’atterraggio del velivolo con il cellulare ben saldo in mano, sbracciando più di un controllore di volo, e poco altro. Ciò nonostante, ancor più del fanatico protagonismo di due membri del Governo, a provocarmi rabbia e ripugnanza è l’ipocrisia di tantissimi, dei tantissimi sinistroidi che adesso gridano allo scandalo per il trattamento adottato in tutta questa vicenda mentre prima o partecipavano direttamente o esultavano indirettamente per azioni ancor più vergognose nei confronti di altri cittadini italiani, celebri al pari di Battisti ma non assassini come lui. E allora la mente mi riporta indietro nel tempo, agli anni in cui veniva osannato un fanatico folle che lanciava una statuetta del duomo di Milano contro l’allora Presidente del Consiglio, si scendeva in piazza per lanciare monetine a Craxi (un gigante rispetto alle formiche che attualmente governano questa Nazione), si gioiva ad ogni avviso di garanzia emesso, gridando già alla colpevolezza, calpestando dunque la sacra presunzione di innocenza e le vite e la dignità di tantissime persone e dei loro cari. Addirittura non si provava vergogna, ad ogni maledetto suicidio indotto dalla pressione meschina di una parte ignobile di magistrati e da una incessante nonché criminale gogna popolar-mediatica. È un dato di fatto che il popolo sia pericolosissimo, perché non ragiona, è facilmente influenzabile e non conosce limiti alla barbarie che può creare. Sospinto dai dibattiti e dai giudizi televisivi, dalla mala informazione, dagli stessi politici e dai loro slogan, quando innescato si tramuta in una macchina di odio cieco e distruttivo che può portare a conseguenze irreparabili. Ebbene, questo stesso popolo che un tempo fu protagonista delle vergognose pagine appena rimembrate, è ora l’agnellino che, compatto, si schiera a favore di un individuo, Cesare Battisti, assassino di persone innocenti, gridando allo scandalo di fronte ai comportamenti inscenati da alcune istituzioni successivamente all’arresto del medesimo terrorista. Subdola gentaglia senza vergogna alcuna, e nulla più. Abbiamo da un lato un popolo garantista soltanto con chi è suo amico, affine di pensiero e dall’altro lato una classe dirigente inadeguata: gli ingredienti migliori per una pietanza catastrofica. La corsa di Battisti è arrivata al capolinea, in una cella nel carcere di Oristano, senza né mirto né pane carasau e probabilmente neppure il pentimento arriverà mai, mentre la corsa della parte più ipocrita dell’Italia ancora no e, ove dovesse mai finire, ci sarà comunque poco da esultare perché l’urto potrebbe essere così tanto fragoroso da essere indimenticabile. Commisso, un pasticcio in cui hanno perso tutti: stato di diritto e giustizia di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 22 gennaio 2019 L’uomo scarcerato dopo 26 anni di carcere. Conosco la vicenda dell’ex ergastolano Cosimo Commisso solo attraverso il suo memoriale pubblicato sulla testata online “Urla dal silenzio”. So bene che nell’immaginario collettivo, e non solo, egli è considerato il “capo” della ndrangheta di Siderno - la più agguerrita ed “istituzionalizzata” della Locride - e che in quanto tale avrebbe guidato il suo esercito contro la “sedizione dei Costa” in una guerra con qualche centinaio tra morti e feriti. Venti anni fa è stato condannato all’ergastolo; dopo 26 anni di carcere è stato assolto “per non aver commesso il fatto”. La “grande stampa” ed il mondo istituzionale hanno ignorato la notizia per non fare i conti con la realtà. Noi non possiamo tacere anche se non avrei nulla da dire se non che la “Giustizia” pretende che un uomo paghi per i propri crimini ma solo per quelli che ha realmente commesso. E tocca allo “Stato” dimostrare, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la sua colpevolezza. Può piacere o meno ma è lo Stato di diritto che dovrebbe tutelare ognuno di noi e che fornisce alla “Giustizia” tutti gli strumenti legali per estirpare la ‘ndrangheta dal territorio calabrese. Una necessità improcrastinabile ed i cittadini pagano le tasse perché questa lotta venga finalmente vinta! Ma perché ciò avvenga lo “Stato” avrebbe avuto (ed ha) il dovere di provare la propria superiorità etica e politica, dimostrando a tutti (anche ai criminali) che la Repubblica non mette in piedi processi sommari ne falsifica le prove e che gli uomini dello “Stato” hanno solo una stella polare: la Legge. Nel “caso Commisso”, proprio perché l’imputato è considerato un “capo” ndrangheta, il processo a suo carico avrebbe dovuto essere severo, rigoroso, inflessibile ma soprattutto giusto e supportato da prove certe anzi blindate. E non lo è stato! Ed infatti dopo 26 anni è crollato come un castello di carta. Ed è un fatto oggettivamente grave. Grave sia nel caso in cui un colpevole sia sfuggito alla giustizia ma ancora di più quando un tribunale, dopo 26 anni, stabilisce che l’imputato era innocente. In casi come questo si trasforma il presunto colpevole in sicura vittima e non è di questo che avremmo bisogno. Serve per combattere la ‘ndrangheta? Assolutamente no! Lo dimostra il fatto che dei tanti delitti che si sono consumati nella Locride ed in Calabria nell’80% dei casi non sappiamo l’autore. Nello stesso tempo l’opinione pubblica calabrese viene informata da una soffiata al Fatto che ben 15 magistrati calabresi sono iscritti nel registro degli indagati. Cosa nasconda tale notizia non lo sappiamo. Potrebbe trattarsi di pura lotta per il potere, di guerra preventiva, di studiata delegittimazione del “nemico”, di contrasto alla criminalità ma di sicuro non è una lotta per la tutela dei cittadini. Ed infatti: solo in Calabria (ed in Catalogna) abbiamo un presidente della Regione - (che può piacere o meno)- ma che resta confinato senza alcuna sentenza di condanna. Solo in Calabria i generali “governano” e rendono il loro omaggio simbolico negli uffici della Dda. Solo in Calabria un sindaco è bandito dal proprio paese senza alcun processo. Solo in Calabria (ed in Burundi) si possono sciogliere 110 consigli comunali regolarmente eletti. E tutte queste cose messe insieme mi fanno dire che non si sconfigge la ndrangheta se non smantellando l’elefantiaco, costoso quanto inutile e nocivo apparato repressivo che è stato messo in piedi e che marcia nella direzione sbagliata ed i fatti lo dimostrano aldilà di ogni dubbio. Personalmente non godo e non brindo quando le persone stanno in carcere ma ne comprendo la necessità nei casi in cui si dimostri che la carcerazione è strettamente necessaria per tutelare la società e prevenire altri delitti. In molti casi la galera serve però non per contrastare il crimine ma per formare e tacitare un’opinione pubblica rancorosa, rabbiosa, vendicativa che invoca la forca; anche se coloro che oggi applaudono saranno le vittime di domani. Il “popolo” costruisce le forche ed è il “popolo” ad essere impiccato. Cosimo Commisso, guadagna la libertà nello stesso giorno in cui Cesare Battisti, probabile autore di gravi tragedie e sopravvissuto fisicamente alla stagione del terrorismo, è arrivato a Roma a scontare la sua pena. I due ministri che, sfidando il ridicolo, sono andati ad accoglierlo a Ciampino si guardano bene dal venire in Calabria per constatare il dramma della “legalità” che affoga nella malagiustizia mentre perde la battaglia contro la criminalità. Ne comprendo le ragioni: in Calabria ci sarebbe tanto da riflettere e lavorare ed, iniziando dai vertici, tanto ma tanto da cambiare. A Ciampino basta solo recitare. Stefano Cucchi, pressioni per insabbiare la verità anche nel processo bis di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 gennaio 2019 Il pm Musarò deposita altre intercettazioni. Messaggio al carabiniere testimone: “Aiutate i colleghi in difficoltà”. Non solo a ridosso della morte di Stefano Cucchi: i tentativi di depistare e insabbiare il pestaggio del geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono il 15 ottobre 2009 sarebbero continuati fino ad oggi e coinvolgerebbero molti vertici dell’Arma. Questo, almeno, emergerebbe dalle nuove intercettazioni e dai verbali di interrogatorio depositati ieri in Corte d’Assise dal pm Musarò nell’ambito dell’inchiesta integrativa al processo bis che si sta svolgendo a carico di cinque militari. È il caso, ad esempio, di una conversazione telefonica intercettata il 6 novembre scorso dalla squadra mobile di Roma tra due carabinieri, il vicebrigadiere Mario Iorio, in servizio presso la stazione Vomero-Arenella di Napoli, e il suo collega Ciro Grimaldi che nell’ottobre 2009 era in servizio nella stazione Casilina di Roma, dove avvenne il pestaggio, e che stava per essere chiamato a deporre come testimone nel processo bis. “È venuto il colonnello?”, chiede Grimaldi riferendosi al comandante del Gruppo Napoli, Vincenzo Pascale. “Se n’è juto pure… E ha detto: “Mi raccomando, dite al maresciallo che ha fatto servizio alla stazione…lì dove è successo il fatto di Cucchi, di stare calmo, tranquillo…”, risponde Iorio. “Ha detto: “Mi raccomando, dovete avere lo spirito di corpo, se c’è qualche collega in difficoltà lo dobbiamo aiutare”“. Il pm Musarò ha raccolto anche alcune testimonianze sulle annotazioni di servizio relative all’arresto di Cucchi corrette dopo la morte di Stefano, come quella rilasciata a dicembre dal maresciallo Davide Speranza, che all’epoca operava nella stazione Quadraro: “Mandolini quando la lesse disse che non andava bene, e che avrei dovuto cestinarla perché avremmo dovuto redigerne una seconda in sostituzione della prima”. Secondo Speranza, fu lo stesso maresciallo Roberto Mandolini, che è tra gli imputati del processo bis, accusato di falso e calunnia (ma che ha anche denunciato per diffamazione Ilaria Cucchi) a dettare il contenuto della correzione. “E lo scrissi io, alla presenza anche di Nicolardi (Vincenzo, altro imputato, per calunnia, ndr), quindi stampammo e la firmammo a nostro nome”. Infine tra gli atti del pm c’è anche un’annotazione, redatta dai superiori che contiene un elogio per i carabinieri che avevano arrestato Cucchi. C’è scritto: “Bravi!”. Ed è stata scritta dopo la morte della giovane vittima. È sottrazione fraudolenta se il trust nasce dopo la notifica di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2019 Integra il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte il contribuente che costituisce il trust dopo la notifica di alcune cartelle di pagamento: a tal fine è irrilevante che venga sostenuta la volontà di frodare i creditori privati e non l’erario. A fornire questa precisazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2569 depositata ieri. Un contribuente era stato condannato per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 del decreto legislativo 74/2000) perché aveva istituito un trust per separare dal proprio patrimonio cinque immobili. Il trust era destinato a garantire un reddito annuo alle figlie pur mantenendo ogni facoltà, diritto e potere di disporre degli stessi senza alcuna limitazione e ciò fino alla scadenza, quando era già stato previsto il passaggio dei beni stessi. L’imputato ricorreva in Cassazione lamentando un’erronea applicazione della norma per illogica motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Più precisamente, il giudice territoriale aveva desunto l’intenzione di evadere le imposte dalla natura simulata del trust, ma secondo la difesa era giustificato dalla volontà di tutelare il patrimonio da creditori privati e non dalla pretesa del fisco. L’articolo 11 del Dlgs 74/2000 sanziona con la reclusione da 6 mesi a 4 anni chiunque simuli la vendita o compia altri atti fraudolenti per privarsi di ogni bene che l’amministrazione potrebbe aggredire in caso di riscossione coattiva, per il recupero di imposte sui redditi, Iva, interessi o sanzioni di ammontare superiore a 50.000 euro. Se l’ammontare è maggiore di 200.000 euro, la reclusione va da 1 anno a 6 anni. La fattispecie è una tutela dell’erario, volta alla conservazione delle garanzie sulle quali potrebbe rivalersi in caso di inadempimento. È sufficiente la condotta per rendere inefficace l’eventuale riscossione, a prescindere dal concreto danno ovvero dalla esistenza di un debito tributario. Nella specie, la Suprema corte ha innanzitutto rilevato che occorreva una valutazione della sentenza di appello circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di sottrazione fraudolenta. Infatti, quanto all’elemento oggettivo, ossia che il trust fosse stato un atto simulato, risultava già in atti dalla ricostruzione non contestata. I giudici di legittimità hanno così rilevato che la costituzione del trust era avvenuta prima della notifica di alcuni decreti ingiuntivi ma successivamente alla notifica di alcune cartelle di pagamento. Secondo la Cassazione se era logico, come sostenuto dalla difesa, che il trust fosse finalizzato a frodare alcuni creditori privati (nonostante costituito prima della notifica dei decreti ingiuntivi), altrettanto condivisibile era la tesi dell’accusa secondo cui comunque vi era una frode al fisco. Infatti, la costituzione era stata successiva ad alcuni parziali pagamenti delle cartelle ricevute per le quali era stata iscritta ipoteca. Cibi adulterati, le foto dei Nas valgono come prova di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 21 gennaio 2019 n. 2576. Le foto scattate durante un’ispezione igienico sanitaria dei Nas, ed allegate al verbale di ispezione e di sequestro, devono considerarsi “atti irripetibili” con la conseguenza che possono essere valutate dal giudice come fonte di prova, senza che sia necessaria una conferma da parte dei verbalizzanti. La ha stabilito la Terza Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 2576 del 21 gennaio 2019, che ha così respinto il ricorso del legale rappresentante di un panificio della provincia di Biella che lamentava la mancata “sottoposizione delle stesse ai verbalizzanti”. Confermata dunque l’ammenda di tremila euro nei confronti del ricorrente per aver impiegato nella preparazione di alimenti “farine di vario tipo insudiciate ed invase da parassiti quali blatte e farfalline della farina”. La Corte ricorda poi che per l’accertamento della condotta di detenzione per la vendita di prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione, “non è necessario procedere al prelievo di campioni ove i prodotti alimentari si presentino all’evidenza mal conservati”. Inoltre, per la configurabilità del reato “non è necessario l’accertamento di un danno alla salute”, ma è sufficiente accertare che “le concrete modalità di conservazione siano idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento dell’alimento, attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura”. Tornando al valore probatorio delle foto, esse, aggiunge la sentenza, “sono parte integrante del verbale d’ispezione dei luoghi, poiché sono state effettuate durante l’ispezione”. E “le relazioni di servizio, che riproducono l’attività di constatazione ed osservazione effettuata dalla polizia giudiziaria in relazione a fatti e persone in situazioni soggette a mutamento, come tali non più riproducibili, costituiscono atti irripetibili, con la conseguenza che, essendo legittimo il loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento, possono essere valutate da giudice come fonte di prova”. Infine, la Corte ha escluso la non punibilità ex articolo 131-bis c.p. considerato che la condanna superava i minimi. In questi casi, conclude la Corte, può infatti “ritenersi implicitamente esclusa la particolare tenuità del fatto”. Concorso di persone nel reato: la valutazione del contributo di minima importanza Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2019 Reato - Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti -Art. 114 c.p.- Applicabilità - Condizioni. Ai fini dell’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p. e dunque del riconoscimento dell’importanza, non solo minore rispetto a quella degli altri, ma addirittura minima, dell’opera di taluno dei concorrenti nel reato, non è sufficiente una valutazione comparativa delle condotte ascritte ai vari agenti ma è necessario, tenendo conto della tipologia del fatto criminoso con le sue componenti soggettive, oggettive e ambientali, accertare il grado di efficienza causale, sia materiale che psicologico, delle singole condotte rispetto alla produzione dell’evento. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 15 gennaio 2019 n. 1680. Reato - Circostanze attenuanti - Art. 114 c.p. - Attenuante del contributo di minima importanza - Presupposti - Importanza causale minima e marginale - Necessità. La circostanza attenuante del contributo di minima importanza è configurabile quando l’apporto del concorrente non ha avuto soltanto una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti, ma ha assunto un’importanza obiettivamente minima e marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 15 dicembre 2017 n. 56100. Reo - Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Fattispecie in tema di custodia di stupefacenti. La circostanza attenuante del contributo concorsuale di minima importanza trova applicazione laddove l’apporto del correo risulti così lieve da apparire, nell’ambito della relazione di causalità, quasi trascurabile e del tutto marginale; ne consegue che il relativo giudizio non può limitarsi ad una mera comparazione tra le condotte dei vari soggetti concorrenti, dovendosi invece accertare il grado di efficienza causale dei singoli comportamenti rispetto alla produzione dell’evento, onde verificare se detta efficienza causale sia minima, cioè tale da poter essere - in via prognostica - avulsa dalla seriazione causale senza apprezzabili conseguenze pratiche sul risultato complessivo dell’azione criminosa. (Fattispecie in cui non è stato ritenuto minimo il contributo concorsuale nella detenzione illecita di sostanze stupefacenti, consistito nel fornire al detentore un locale ove occultare la droga, nonché nel tentativo di impedire che la perquisizione venisse estesa al locale in questione). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 20 agosto 2015 n. 34985. Reato - Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Aggravante del numero delle persone concorrenti prevista anche da disposizioni speciali - Applicabilità dell’attenuante - Esclusione - Fattispecie in materia di immigrazione clandestina. La circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato, prevista dall’art. 114 cod. pen., non trova applicazione - oltre che nella ipotesi aggravata di cui all’art. 112 cod. pen. (numero dei concorrenti pari almeno a cinque) - quando il numero dei partecipanti al reato sia considerato come circostanza aggravante speciale, come previsto, in materia di immigrazione clandestina, dall’art. 12, comma terzo, lett. d), D.Lgs. n. 286 del 1998. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 15 settembre 2015 n. 37277. Reo - Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti - Partecipazione di minima importanza al reato - Reato di rapina - Ruolo del palo - Riconoscibilità dell’attenuante - Esclusione. Non è riconoscibile la circostanza della partecipazione di minima importanza a colui che, nel corso di una rapina, abbia ricoperto il ruolo di “palo” e, successivamente, si sia posto alla guida della vettura utilizzata dai rapinatori per la fuga. Infatti l’opera del cosiddetto “palo”, anche se può essere d’importanza minore rispetto a quella degli esecutori materiali del reato, non può considerarsi minima agli effetti dell’articolo 114 cod. pen., in quanto facilita la realizzazione dell’attività criminosa e rafforza l’efficienza della opera prestata dai correi, garantendo l’impunità di questi. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 15 dicembre 2011 n. 46588. Campania: suicidi in carcere, il Garante “primato negativo, 9 casi nel 2018” di Ettore Mautone quotidianosanita.it, 22 gennaio 2019 I suicidi nella regione diventano 12 se si considerano i detenuti agli arresti domiciliari. Sulle 67 morti in totale registrate in Italia nell’ultimo anno è il valore più alto. Al totale bisogna aggiungere anche gli 8 decessi per malattie e i 5 morti di cui bisogna accertare ancora le cause o le eventuali negligenze assistenziali. Il carcere con il maggior numero di suicidi è quello di Poggioreale a Napoli (5 morti). “Le carceri servono a limitare la libertà non a togliere la vita”. Così il garante campano dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello ha commentato l’ultima morte, avvenuta nel carcere di Fuorni, di un detenuto malato, tossicodipendente e su una sedia a rotelle. Nel 2018 sono stati 9 i suicidi in carcere, 12 se si considerano i detenuti agli arresti domiciliari. Sulle 67 morti in totale registrate in Italia nell’ultimo anno è il valore più alto. Al totale bisogna aggiungere anche gli 8 decessi per malattie e i 5 morti di cui bisogna accertare ancora le cause o le eventuali negligenze assistenziali. Il garante snocciola poi cifre allarmanti rispetto all’affollamento degli istituti di pena. In una regione che conta in totale 7.660 detenuti, su una capienza massima di 6142 posti, con 380 donne e 1008 immigrati. Tra le cause principali dell’alto tasso di suicidi, continua Ciambriello vi sono “il degrado e il sovraffollamento, ma anche la mancanza di comunicazione, di ascolto e di figure sociali”. E in base ai dati diffusi dall’amministrazione penitenziaria il carcere con il maggior numero di detenuti in Campania è Poggioreale che ospita 2-296 persone. Rispetto alla capienza di 1.638 risulta un sovraffollamento del 40,2%. “Va rafforzato - continua il garante - il sistema di prevenzione dei suicidi varato dal Ministero nel 2016 e bisogna agire con una maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria e l’area educativa per prevenire ed intuire il disagio che poi porta al suicidio; ed è anche necessario il supporto di figure come gli psicologi e gli assistenti sociali, anche se la cronaca ha dimostrato, con i 140 suicidi sventati dalla polizia penitenziaria o dai compagni di cella negli ultimi due anni, che nel carcere la solidarietà c’è ed il carcere sa essere meno Caino della società esterna”. Va migliorata, secondo il garante anche l’assistenza sanitaria “che in alcuni casi è disastrata e va rafforzata la presenza degli educatori nei reparti e nelle sezioni. Per questo chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Per parte mia rafforzerò gli uffici del garante con esperienze di ascolto e sportelli informativi nelle carceri. Bisogna sconfiggere insieme l’indifferenza a questo stato di cose, coinvolgendo istituzioni e parti sociali”, ricordando infine che “il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire in carcere ma richiama alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione e dell’amministrazione centrale e locale perché la perdita di giovani vite a un ritmo più che settimanale sia assunta nella sua drammaticità come tema di effettiva riflessione e di elaborazione di una diversa attenzione alle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce. I principi di certezza della pena e della sua funzione rieducativa possono considerarsi davvero effettivi solo se per le pene detentive nelle carceri (ma lo stesso vale per le misure cautelari) sono garantite condizioni di dignità e umanità, principi costituzionali imprescindibili”. Sassari: quelle “celle lisce” a Bancali nascoste alla visita del Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2019 Il controllo del registro dei cambi turno ha mostrato l’utilizzo recente delle stanze. Uso sistematico dell’isolamento preventivo e utilizzo di stanze punitive riconducibili alle cosiddette “celle lisce”. Nel rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà in merito alla visita delle carceri sarde, si fa luce anche sull’utilizzo delle celle di isolamento (più volte stigmatizzate dal Garante per il facile ricorso e condizione in cui talvolta accadono eventi drammatici), in maniera particolare al carcere di Sassari-Bancali dove raccomanda con urgenza l’abolizione della collocazione in una stanza di isolamento del letto fissato al pavimento e distanziato dalle pareti, che così permette il controllo della persona ristretta dallo spioncino della porta blindata. “Tale collocazione - si legge nel rapporto - priva di un proprio spazio, quantunque limitato, e lo rende un luogo di mera disponibilità del proprio corpo al controllo di chi vigila”. La sezione di isolamento del carcere di Bancali è stata trovata in deprecabili condizioni, con molte celle poste fuori servizio nei giorni immediatamente precedenti la visita se non nel giorno stesso. Secondo quanto riferito alla delegazione del Garante dalle persone detenute, i blindi delle stanze restavano chiusi per l’intera giornata. Le stanze però non risultavano tutte uguali e due di esse, in particolare, hanno suscitato perplessità: la n. 3 e la n. 5. Quest’ultima, si legge sempre nel rapporto, era dotata solo di un letto fissato al centro della stanza, di fronte alla porta di ingresso e osservabile dallo spioncino, riconducibile a una “cella liscia”. Simile era anche la stanza n. 3, sempre con il letto fissato davanti alla porta. Queste due stanze e la n. 4 erano segnalate come non agibili, ma i cartelli sopra le porte delle stanze n. 3 e n. 5 sembravano essere stati appena apposti. Oltre a conferme ricevute da più fonti, il controllo del Registro dei cambi di turno del personale di Polizia penitenziaria ha mostrato proprio che le stanze n. 3 e 5 erano state di recente utilizzate, contrariamente a quanto riferito alla delegazione. A tale proposito il Garante nazionale stigmatizza il comportamento di quegli operatori dell’Istituto che alla richiesta del Registro relativamente all’ultimo mese hanno consegnato soltanto gli ultimi giorni del mese, quando effettivamente le stanze erano state chiuse. Solo a una reiterata richiesta è stata consegnata copia completa dell’ultimo mese, da cui, per l’appunto, risultava il pieno utilizzo delle stanze presentate invece come fuori uso da tempo. Le condizioni generali delle celle di isolamento, secondo il Garante, non sono a norma anche per un possibile effetto negativo e delle possibili conseguenze sull’equilibrio psichico della persona, “peraltro già in una situazione peculiare, quale è quella dell’isolamento”. Ad esempio, nella stanza numero 6 che ospitava V. V., trasferito dalla Casa di reclusione di Roma- Rebibbia, gli unici arredi erano un letto con materasso, lenzuola e coperte e una ‘ bilancettà senza sportelli. Nessuno sgabello e nessun tavolo: per mangiare si appoggiava al letto. Poi c’era la stanza n. 7 che era ammobiliata solo con un letto dotato di materasso ma privo di lenzuola (c’era solo una federa) e con una coperta sopra. Nella stanza era ospitato I. P. e al momento della vista, questa persona non era nella sua stanza perché trasportata presso la comunità “Aquilone” di Flumeni di Quartu in provincia di Cagliari, distante 173 km con un viaggio senza interruzioni in un furgone con cella interna. La storia è emblematica. La comunità non era stata informata del suo arrivo, né tantomeno aveva dato la disponibilità ad accoglierlo, per cui il Garante nazionale ha potuto riscontrare che lo stesso è stato riportato la sera stessa - nelle stesse condizioni di trasporto - indietro nell’Istituto. Come se non bastasse, il Garante ha riscontrato una prassi particolare. Ovvero l’isolamento precauzionale che può durare anche 10 giorni fino all’attesa della decisione del consiglio di disciplina: accade quindi che al detenuto poi gli vengono assegnati altri 10 giorni di punizione definitiva. Il garante sottolinea che un uso sistematico della misura disciplinare cautelare viola il senso della norma che prevede che l’isolamento in via precauzionale sia adottato sempre e solo come misura eccezionale. Padova: il presidente della Provincia in visita alla sezione scolastica del carcere provincia.pd.it, 22 gennaio 2019 Il presidente della Provincia di Padova Fabio Bui ha visitato ieri gli studenti e i docenti della sezione carceraria dell’Istituto Einaudi Gramsci di Padova. Ormai da venti anni, l’Istituto tecnico commerciale per il turismo garantisce il servizio scolastico sia ai carcerati comuni che ai carcerati protetti reclusi nella Casa circondariale Due Palazzi di Padova. Insieme al presidente, erano presenti anche il direttore dell’Ufficio scolastico provinciale Roberto Natale, la dirigente scolastica dell’Einaudi Gramsci Amalia Mambella e il responsabile della sezione carceraria della scuola Francesco Mazzaro. La delegazione è stata ricevuta anche dal direttore del Due Palazzi Claudio Mazzeo. “Io penso alla Provincia dei bisogni e alla Provincia delle persone - ha spiegato il presidente Bui - il carcere di Padova è una realtà importante che visito per la seconda volta. Sono infatti convinto che garantire un servizio scolastico anche a chi è recluso, significa pensare a questo luogo non solo nella sua funzione detentiva, ma anche e soprattutto rieducativa. Per questo come presidente ci tenevo a visitare questa sezione dell’Istituto Einaudi Gramsci, gli studenti e gli inseganti”. Sono oltre 50 gli studenti che frequentano le cinque ore di lezione da lunedì al venerdì, divisi in 6 classi. L’età va dai 20 ai 60 anni e i frequentanti sono sia italiani che stranieri. Due le classi quarte, una riservata ai carcerati comuni e un’altra ai protetti. “Il carcere non è un luogo facile, ma i detenuti hanno sempre avuto rispetto per i professori e per il nostro lavoro - ha spiegato Mazzaro - la loro frequenza fa i conti con la situazione in cui si trovano, l’età, il grado di conoscenza dell’italiano e tante altre difficoltà legate alla vita carceraria. Gli studenti sono tutti carcerati definitivi con sentenza passata in giudicato e il sogno più grande, soprattutto per i giovani, è quello di ambire ad un’occupazione una volta usciti. È un diploma che può aiutarli a fare contabilità, gestire un magazzino e, per chi lo desidera, dà accesso all’università presente con dei corsi anche in carcere”. La dirigente scolastico Mambella ha infine ricordato che “Si tratta di una sezione distaccata del nostro istituto che esiste fin dagli Anni Novanta. Nel corso degli anni abbiamo avuto anche 120 iscritti e gli indirizzi disponibili comprendono amministrazione, finanza e marketing. I professori sono tutti della scuola e hanno il delicato ruolo di insegnare anche le normali norme civili di convivenza. Un compito non facile che svolgono con il massimo impegno”. I libri sono dati dalla scuola in comodato d’uso grazie anche al contributo della Provincia, mentre i materiali come penne e quaderni vengono acquistati dall’istituto. Cagliari: delegazione del Partito radicale in visita al carcere La Nuova Sardegna, 22 gennaio 2019 Martedì 22 e mercoledì 23 gennaio, Irene Testa, candidata a Garante delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna e membro della Presidenza del Partito Radicale, insieme a Maurizio Turco, coordinatore della Presidenza del Partito Radicale, con altri esponenti locali del partito e dell’Unione delle camere penali visiteranno i carceri di Uta (Cagliari), Massama (Oristano) e di Nuoro. “Le carceri sarde hanno bisogno di un garante regionale dei detenuti - sostengono i radicali. Il Consiglio regionale uscente, nonostante abbia pubblicato il bando per la selezione e nomina di questa figura, ha preferito non nominarlo. Speriamo che sia uno dei primi atti del prossimo Consiglio. Oggi si parla del carcere di Oristano, balzato agli onori della cronaca per la reclusione di Cesare Battisti. La questione però è un’altra, e rappresenta un po’ una vergogna per la Sardegna, regione che invece potrebbe rappresentare un esempio di buona detenzione con le esperienze delle Colonie penali agricole, tre delle quattro attive in Italia ricadono sul territorio regionale”. “In Sardegna c’è un numero elevato di istituti, con detenuti che vengono mandati nell’isola da tutta l’Italia - denunciano i radicali - ma al contempo abbiamo un’eccezionale carenza di organico e tipologie particolarmente critiche di detenuti rispetto alle altre regioni: dall’alta sorveglianza, al 41 bis, ai detenuti terroristi di matrice islamica. Questi ultimi parlano una lingua spesso incomprensibile per i nostri operatori, mentre sono insufficienti, quando non del tutto assenti, figure professionali come gli interpreti. Nel carcere di Bancali (Sassari), si sconta la pena nei sotterranei dell’istituto, in assenza di luce e aria naturale e di ogni tipo di comunicazione con il mondo esterno”. Firenze: “Non me la racconti giusta”, un progetto nel carcere di Sollicciano firenzeurbanlifestyle.com, 22 gennaio 2019 Un progetto di arte pubblica a cura di Collettivo Fx e Nemo’s Casa circondariale di Firenze - Sollicciano. “Non me la racconti giusta” è il progetto nato nel 2016 grazie alla collaborazione tra il magazine di arte e cultura contemporanea Ziguline, gli artisti Collettivo Fx e Nemo’s, e il fotografo e videomaker Antonio Sena. In che modo l’arte può essere un mezzo pratico per aiutare coloro che devono scontare le proprie condanne? L’obiettivo di tutto il progetto è esplorare la realtà carceraria italiana e, attraverso l’arte, riportare all’esterno impressioni e problematiche. Per cinque giorni gli artisti lavorano a stretto contatto con un gruppo di detenuti con i quali condividono la realizzazione di un murales all’interno delle mura del carcere. I propositi sono molteplici, infatti, Nmlrg vuole aprire una finestra che metta in comunicazione l’ambiente carcerario con l’esterno, alimentando la discussione su giustizia e carcere e coinvolgere i detenuti in un progetto culturale non calato dall’alto ma di cui siano i soli responsabili e i veri e propri project manager, responsabili dell’intero processo creativo. La struttura di Sollicciano è stata progettata seguendo lo schema di un giglio, simbolo di Firenze, il che la rende una struttura poco sicura, dove spostamenti e questioni amministrative diventano ancor più complicate. In questa bolgia di burocrazia, il collettivo ha lavorato con 12 detenuti della Sezione 13 - Emanuele, Gianluca, Franco, Bala, Luis, Kledian, Christian, Stefano, Renzo, Azfal, Issam - dipingendo all’interno dell’area comune. Il modus operandi è rimasto invariato e, dal brainstorming iniziale, sono emerse problematiche riguardano la burocrazia, un termine riduttivo che descrive bene però l’intero sistema carcerario e che, a Sollicciano, è un problema acuito dal sistema di sicurezza che prevede solo quattro ore al giorno fuori dalle celle, con tutte le piccole e grandi difficoltà quotidiane che ne derivano. Questo, insieme a una lettura individuale della situazione attuale di ognuno di loro, ha dato vita a due progetti paralleli. Da un lato, un simbolo di ciò che va cambiato nel carcere e nella propria vita e dall’altro un manifesto di denuncia contro la pressante burocrazia che rende invivibile la quotidianità tra quelle mura. Sul primo muro si trovano quattro telecomandi, in cui ogni tasto ha una forte valenza identificando in ogni parola l’assenza di qualcosa o la necessità di modificarne l’intensità. Cambiare, Aumentare, Diminuire, Ripetere sono tutti comandi importanti e legati, per esempio, al coraggio, alla pazienza, alla giustizia, alla tristezza. Sull’altra parete, un’imponente mano/timbro indica/giudica un uomo bloccato su un’altissima pila di documenti, pronta a marchiare una “domandina” (i moduli che i detenuti utilizzano per qualsiasi tipo di richiesta all’amministrazione) con un solenne “attendere”, a testimonianza della lentezza della burocrazia che opprime pesantemente il sistema carcerario. “A Sollicciano finora, abbiamo riscontrato la partecipazione intellettuale più forte, il che probabilmente deriva dalla mancanza di qualsiasi tipo di attività ricreativa, escluso lo sport a cui possono accedere diverse volte a settimana” affermano quelli del collettivo. Il gruppo ha lavorato con molto entusiasmo, con interesse verso la forma d’arte proposta e verso i contenuti, e con complicità e collaborazione tra di loro e con noi. Il brainstorming finale ha evidenziato la voglia di mettersi alla prova e di potersi esprimere in altri progetti, mostrando anche la volontà di auto organizzarsi e proporre idee all’amministrazione nella speranza di alleviare la dura routine nella sezione. Lavorare in una sezione protetta ha offerto al collettivo nuovi spunti di riflessione e dato vita a ulteriori visioni sul carcere e su come rappresenti un sistema complesso con enormi difficoltà nella gestione di un luogo così lontano e così vicino al mondo esterno. Alla quinta esperienza “Non me la racconti giusta” continua a trovare lampante che l’opinione pubblica consideri ancora il carcere un problema lontano, ignorando o sottovalutando quanto sia una questione che ci riguarda da vicino sia dal punto di vista sociale che economico. “Attraverso la diffusione del materiale prodotto all’interno del carcere e del racconto dell’esperienza, stiamo cercando di abbattere il “muro” di pregiudizi e alimentare la discussione sull’argomento, nella speranza che possa contribuire nella costruzione di un sistema più efficiente e umano”. Turi (Ba): con Gherardo Colombo ripartono i “Seminari sulla Costituzione” turiweb.it, 22 gennaio 2019 Proseguono i “Seminari sulla Costituzione” proposti dall’associazione di promozione sociale “Didiario - Suggeritori di libri” presso la Casa delle Idee di Turi. Martedì 22 gennaio 2019, infatti, dopo l’incontro pomeridiano con gli alunni del Polo Liceale “Majorana - Laterza” di Putignano, dalle ore 20:30 Gherardo Colombo sarà ospite del sodalizio di piazza Gonnelli. Tema della sua dissertazione quello delle regole. A introdurre, Alina Laruccia, presidente di “Didiario - Suggeritori di libri”. Dopo Luigi Mazzella, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale, Giorgio Benvenuto, presidente Fondazione Nenni, Serena Agnoli, Agenzia Nazionale per i Giovani, Annamaria Barbato Ricci, giornalista, Paola Balducci, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, dunque, sarà la volta dell’ex magistrato lombardo. Noto al pubblico per le grandi inchieste sulla Loggia P2, il delitto di Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, i processi seguiti alla “guerra di Segrate” tra gli imprenditori Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per il possesso della casa editrice italiana Arnoldo Mondadori Editore. Dal 1975 al 2007 in magistratura, nel 2010 fonda l’associazione Sulleregole, sodalizio che opera gratuitamente nel settore dell’educazione alla legalità, nella diffusione della conoscenza della Costituzione italiana, nel volontariato nelle carceri, nella formazione degli insegnanti. Forte il suo impegno nel formare le nuove generazioni, unica strada per cambiare il corso delle cose. “In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio” dichiara. E ancora “La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo comprendono tendono a eludere le norme, quando le vedono faticose, e a violarle, quando non rispondono alla loro volontà”. I Seminari sulla Costituzione proseguiranno con Massimo Bray, presidente dell’Istituto Treccani e della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura di Torino. Ingresso solo previa prenotazione e iscrizioni. Per informazioni: 3405719126. Busto Arsizio. “Cambiamo gioco”, apre la rassegna di teatro nel carcere sempionenews.it, 22 gennaio 2019 Prossime attività ed eventi culturali presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio a cura di L’Oblò Onlus, con il sostegno della Direzione della Casa Circondariale di Busto Arsizio. Si ringraziano il Direttore Sorrentini, l’Area Trattamentale e tutti gli Agenti di Polizia Penitenziaria. Giovedì 14 febbraio alle 20.30, presso la Casa Circondariale. Dopo il grande successo delle cene con delitto in galera che hanno fatto sold out in tutte e quattro le serate previste, per chi non è riuscito a partecipare ecco un’altra occasione per entrare in carcere ad assistere ad un evento teatrale. Si intitola “Cambiamo gioco” lo spettacolo che il 14 febbraio alle 20.30 andrà in scena nella casa circondariale di Busto Arsizio inaugurando la rassegna teatrale “Sbucciare il buio” organizzata dall’associazione L’Oblò Onlus con l’obiettivo di riqualificare il carcere come luogo di cultura e scambio tra detenuti e gente libera. Gli spettacoli in cartellone affrontano temi e utilizzano linguaggi che si sposano con la visione di una società inclusiva, capace di sognare ancora insieme. “Cambiamo gioco” è uno spettacolo leggero e giocoso che affronta con il sorriso le drammatiche derive del gioco d’azzardo, richiamandoci al senso e alla responsabilità del sogno collettivo da cui siamo nati, di cui tutti abbiamo fame di nutrirci e di cui tutti, come comunità, siamo responsabili. Un solo attore e uno sgabello in scena. Alessandro viene da Pavia, una provincia colpita come tante dal gioco d’azzardo. In un percorso a ritroso ricostruisce il cambiamento della comunità nella quale è cresciuto a partire dalla generazione dei padri, in un’Italia ancora legata ad un sogno collettivo. Attraverso le vicende del suo gruppo di amici si confronta con la trasformazione dei sogni di ciascuno a partire dai nuovi modelli culturali improntati all’individualismo galoppante dagli anni 80 in poi. Tra questi il “Vanni” lo coinvolge nell’apertura di un autolavaggio, che diventa uno dei pochi sogni realizzati dal gruppo di amici. Il loro progetto comune però naufraga nel momento in cui il Vanni incontra e viene sommerso dal gioco d’azzardo. Ad Alessandro rimangono alcune domande: Quando è iniziato tutto questo? Perché non mi sono accorto prima di quello che stava succedendo? Cosa posso fare ora? A partire dalla volontà di aiutare il Vanni, Alessandro, scoprirà le invisibili implicazioni del gioco d’azzardo nella società che stiamo vivendo. Il passaggio dall’illusione dell’individuo vincente alla rigenerazione di un sogno collettivo: perché se l’azzardo si incrocia con i cambiamenti della società, la comunità può reagire al rischio di perdere e di perdersi. Perché forse il sogno più grande è ben altro, è il sogno di tutti. Non solo uno spettacolo ma una campagna per costruire azioni concrete. L’obiettivo è favorire una visione diversa del gioco d’azzardo; chiedendo anche al pubblico di “Mettersi in Gioco”. Cambiamo gioco non è solo uno spettacolo, ma un percorso che Artemista sta costruendo con Libera regionale e uno strumento di rilancio della campagna nazionale “Mettiamoci in gioco” per costruire insieme un percorso di proposte e azioni. Cambiamo gioco per trasformare le fragilità individuali in forza comune. Attraverso il “foglio di teatro” che verrà distribuito agli spettatori presenti, Libera, chiederà di interagire e di contribuire al rilancio della campagna mettendo a disposizione una pagina Facebook @cambiamo gioco e una mail cambiamogioco.teatro@gmail.it . Questi strumenti verranno gestiti da Libera regionale per le aree di volontariato e cura e da Artemista per la parte artistica. Una giornata di teatro, incontri e convivialità. Lo spettacolo verrà rappresentato nel pomeriggio per gli interni dell’istituto penitenziario (detenuti e agenti) e vedrà la partecipazione straordinaria di Leopoldo Grosso, psicologo e psicoterapeuta, presidente onorario del Gruppo Abele e autore di numerose pubblicazioni sulle dipendenze e sul gioco d’azzardo che ha contribuito alla costruzione drammaturgica dello spettacolo. Al termine della rappresentazione pomeridiana Grosso incontrerà il pubblico di detenuti per affrontare con loro questo delicato e urgente tema. Alle 20.30 lo spettacolo sarà replicato per il pubblico esterno con la partecipazione di alcuni detenuti. Subito dopo la rappresentazione Elena Zotti, responsabile sviluppo e innovazione di Artemista interverrà a raccontare le iniziative della campagna organizzata insieme a Libera introducendo un dibattito aperto insieme al pubblico. E per concludere in dolcezza la serata: tisana e biscotti per tutti come momento conviviale di scambio tra gli artisti e il pubblico ristretto e non. Prenotazione obbligatoria entro una settimana prima dell’evento. Ingresso libero con “contributo consapevole”. Prenotazioni mandando una mail a obloteatro@gmail.com. Roma: a Rebibbia in mostra i quadri dei detenuti dell’Alta Sicurezza Ansa, 22 gennaio 2019 “I colori dolenti” allestita nella sala teatro “Cinotti” del penitenziario romano. Francesco, Vincenzo, Luca 1 e Luca 2, Giuseppe, Ivano, Luigi, Santo e Mario: sono i nove detenuti oggi artisti e pittori della sezione alta sicurezza del nuovo complesso del carcere di Rebibbia protagonisti della mostra “I colori dolenti”. Insieme, questa mattina, hanno per la prima volta presenziato all’esposizione dei loro lavori nella sala teatro del penitenziario romano. I nove animano il laboratorio artistico di Rebibbia nato nel 2015 su richiesta di alcuni degli stessi detenuti. “Agli inizi - racconta Francesco - non avevamo materiali e mancavano le tele. Disegnavamo su quello che ci capitava come i pacchetti di sigarette”. “Qui ho toccato i pennelli per la prima volta - aggiunge Vincenzo -. Con noi c’era un compagno di cella che sapeva dipingere. Poi è tornato in libertà. Gli abbiamo di fatto rubato il mestiere. Quello che oggi abbiamo esposto è frutto soprattutto dei nostri sbagli, non solo in senso metaforico. La pittura ci permette di raccontare quello che non riusciamo a esprimere con le parole”. Ma perché “Colori dolenti?” È proprio Vincenzo, in carcere da 17 anni, a spiegare: “L’idea è nata dopo lo spettacolo teatrale che abbiamo messo in scena nel 2009. Era l’Inferno di Dante e ci colpirono i passaggi in cui il Sommo Poeta scrive “Per me si va nella città dolente” e “lasciate ogni speranza oh voi che entrate!” Noi non siamo stati d’accordo: qui a Rebibbia la speranza non ce la toglie nessuno. I “colori dolenti” sono le nostre esperienze personali, certo, ma non per questo perdiamo la speranza di vita”. Dei quadri esposti questa mattina a Rebibbia, il critico d’arte Claudio Strinati ha scritto in una lettera letta in teatro: “Chi è in una condizione carceraria anche così dura non può non avere una prospettiva, come ogni altro essere vivente. Questa prospettiva è presente nelle opere che vediamo oggi nella mostra”. “La crescita artistica dei detenuti - spiega Alessandro Reale, direttore del laboratorio artistico, è sempre stata costante e lo testimoniano i tanti lavori eseguiti che segnalano oltre alla perseveranza nel frequentare il corso”. Le tele nate nel laboratorio sono state tutte realizzate con la tecnica ad olio. La mostra è stata introdotta da un video, realizzato dal sostituto commissario di polizia penitenziaria Luigi Giannelli, che entra nelle celle di alta sicurezza e fa parlare i protagonisti. Presenti all’iniziativa, la direttrice del carcere, Rossella Santoro, la senatrice Valeria Fedeli, Luigi Ardini commissario capo comandante, Angela Salvio, magistrato di sorveglianza, Antonella Rasola, direttrice sezione alta sicurezza, e Paolo Masini, presidente BPA - Mamma Roma e i suoi figli migliori, che ha consegnato un premio ai detenuti. La gentilezza contro la volgarità di Dacia Maraini Corriere della Sera, 22 gennaio 2019 Il nostro Paese sta decadendo tristemente in fatto di diritti umani, tolleranza e solidarietà. Il linguaggio ne dà il segnale. Un linguaggio fatto di disprezzo, denigrazione, insulti, fanatismo, odio, prevaricazione, rifiuto della razionalità. Sulla rete siamo arrivati a un tale punto abominio verbale che tanti si stanno ribellando. Dicono basta al continuo insulto fratricida, alle false notizie, all’odio verso il diverso, alla crocifissione di chiunque dimostri di avere una idea o un talento da raccontare. Molti chiamano a raccolta chi la pensa allo stesso modo e recupera l’idea della gentilezza, che non è solo formalità, ma rispetto. A questo proposito voglio citare il caso di un paese dell’Emilia Romagna di 9000 anime, Luzzara. Il sindaco Andrea Costa ha emesso una ordinanza che vieta ai suoi cittadini di esibire violenza verbale e aggressività gratuita. Chiede di non ostentare rancore o rabbia nei luoghi pubblici, sia strade e piazze del paese, sia piazze del web. “Non è una scelta politica - precisa il sindaco, voglio arginare la cattiveria che dilaga nei social in giro per il paese”. “E chi trasgredisce?” gli chiede il giornalista e lui risponde gentile: “La massima pena sarà la lettura di un libro o la visita in un luogo bello, perché la bellezza aiuta a pensare generosamente. Al massimo chiederemo qualche ora di volontariato”. Varata l’ordinanza, sono arrivate centinaia di messaggi di approvazione. Segno che l’insofferenza è diffusa. Contemporaneamente è uscito un bel libro di Carlo Rovelli, Ci sono luoghi del mondo dove più che le regole è importante la gentilezza. Nel libro si racconta come il rispetto verso il diverso, persino verso chi si considera nemico, debba diventare un costume interiore. Non formalismo ma lealtà, non perbenismo, buonismo (tutte espressioni sprezzanti che hanno inventato per bollare chi si rifiuta di dimenticare le parole rivoluzionarie di Cristo), ma generosità e comprensione. Per fortuna altri libri incalzano. E vengono sia dall’Europa che dall’America. Per esempio “Il libro della gentilezza” di Bernadette Russell edito dal Corbaccio, “Una gentilezza infinita, storie di amore, cura e generosità”, di Christine Watson ed. Mondadori; “La forza nascosta della gentilezza”, di Cristina Milani, ed. Sperling e Kupfer. A cui si aggiungono: “La gentilezza che cambia le relazioni”, di Lorenzo Canuti e Annamaria Palma, Ed. Franco Angeli; “Il metodo della gentilezza”, di Shajroo Izadi, ed. Rizzoli e, per ultimo, nel 2019, “Elogio della gentilezza”, di Adam Philips e Barbara Taylor., Ed. Ponte delle grazie. Si aggravano le diseguaglianze, i ricchi sempre più ricchi di Eugenio Fatigante Avvenire, 22 gennaio 2019 L’ingiusta distribuzione della ricchezza nel Rapporto Oxfam: 262 milioni di bambini non possono andare a scuola e 10mila persone al giorno muoiono perché non hanno accesso alle cure. La ruota della ricchezza continua a girare a senso unico. Maledettamente. Succede così che, in un pianeta sempre disuguale, e anche per questo sempre più segnato dal fenomeno delle migrazioni, il taglio di servizi essenziali come sanità e istruzione genera costi altissimi: 262 milioni di bambini non possono andare a scuola e 10mila persone al giorno muoiono perché non hanno accesso alle cure. Basterebbe una tassazione anche minima - lo 0,5% in più di oggi - sull’1% dei “Paperoni” del globo per evitare tutto ciò. E la ricaduta sarebbe enorme: ricerche stimano che, se si insegnasse a tutti i bambini del mondo a saper leggere (in modo “basico”), almeno 171 milioni di persone uscirebbero dalla povertà estrema. Come ogni anno, alla vigilia del “conclave” finanziario di Davos, in Svizzera, che riunisce dal 22 gennaio l’Olimpo del business mondiale, arrivano i numeri dell’ong britannica Oxfam, una delle più autorevoli, a squarciare il velo su quello che tutti sanno ma che spesso si tace: le fratture nella distribuzione del reddito fra ricchi e poveri. Il solco si è allargato: le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12% lo scorso anno, al ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di persone (che la metà più povera dell’umanità) hanno visto decrescere quel che avevano dell’11%. Sono dati che suonano sempre come schiaffi: l’uomo più ricco in assoluto, Jeff Bezos, il gran capo di Amazon, a marzo 2018 aveva un patrimonio netto stimato in 112 miliardi di dollari, quando appena l’1% di questa somma corrisponde all’intera spesa sanitaria dei 105 milioni di etiopi. Insiste molto, quest’anno, sul tema della tassazione il rapporto di Oxfam, che apre un focus inquietante anche sulla nostra Italia che sta vedendo partire il reddito di cittadinanza. Siamo comunque inseriti in modo integrante in questo panorama mondiale, anzi i numeri provano che nel 2018 i contrasti si sono aggravati: il 20% più ricco degli italiani detiene (a metà 2018) il 72% della ricchezza nazionale contro il 66% di un anno prima, mentre il 60% più povero deve accontentarsi appena del 12,4%, ancora meno del 14,8% di 12 mesi prima. E i primi 21 miliardari italiani (secondo la rivista Forbes) avevano gli stessi beni del 20% più povero della popolazione. Una concentrazione di enormi fortune nelle mani di pochi, che evidenzia l’insostenibilità del sistema economico. La Ong denuncia l’aggravarsi del quadro: se la quota della ricchezza globale nelle mani dell’1% più ricco è in crescita dal 2011, una tendenza opposta caratterizza la povertà estrema. Dopo un drastico calo, tra il 1990 e il 2013, del numero di persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, ad allarmare è il meno 40% segnato dal tasso annuo di riduzione della povertà estrema tra 2013 e 2015 (ancor più accentuatosi nell’ultimo triennio), una maggiore povertà che - va da sé - colpisce in primis l’Africa subsahariana. Sono stime della Banca Mondiale, che ha di recente rivisto a 3,20 e 5,50 dollari al giorno le soglie di povertà rispettivamente per gli stati a medio-basso e a medio-alto reddito. Di fronte a tutto questo, “Bene pubblico o ricchezza privata?”, il nuovo rapporto di Oxfam, rivela come questo persistente divario limiti le economie e alimenti la rabbia sociale in tutto il mondo. Lo studio mette inoltre in evidenza le responsabilità dei governi, in ritardo nell’adottare efficaci misure di contrasto, soprattutto fiscali. “Non dovrebbe essere il conto in banca a decidere per quanto tempo si potrà andare a scuola o quanto si vivrà - ha detto Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International. Eppure è proprio questa la realtà in gran parte del mondo, spesso anche grazie a trattamenti fiscali privilegiati”. L’ingiustizia fiscale sulle spalle dei più poveri - Mentre sanità e istruzione continuano infatti a essere sotto-finanziati, con la conseguenza che ne vengono esclusi i più poveri, nel pianeta solo 4 centesimi per ogni dollaro raccolto dal Fisco (dato 2015) proveniva dalle imposte sul patrimonio, successione inclusa. È una tipologia di tassazione che è stata ridotta in molti Paesi ricchi dove, in media, l’aliquota massima dell’imposta sui redditi delle persone fisiche è passata dal 62% nel 1970 al 38% nel 2013 (è al 28% negli stati definiti in via di sviluppo). Per 90 grandi corporation mondiali l’aliquota effettiva sui redditi d’impresa è crollata, tra 2000 e 2016, dal 34 al 24%. I benestanti, insomma, si fanno sempre più ricchi anche in virtù dei sistemi fiscali. Storpiature che generano paradossi: in Paesi come il Brasile o il Regno Unito il 10% dei più poveri paga, in proporzione al reddito, più tasse rispetto al 10% più ricco. Ecco perché in molti paesi un’istruzione e una sanità di qualità sono diventate un lusso. Nei Paesi in via di sviluppo un bambino di una famiglia povera ha il doppio delle possibilità di morire entro i 5 anni, rispetto a un suo coetaneo benestante. Sono fenomeni presenti però anche in Europa: a Londra l’aspettativa di vita in un quartiere povero è inferiore di 6 anni rispetto a uno agiato. Una disparità nelle disparità è poi quella di genere. A livello globale gli uomini possiedono oggi il 50% in più della ricchezza netta delle donne e controllano oltre l’86% delle aziende. Anche il divario retributivo, pari al 23%, penalizza sempre le donne. Un dato che per di più non tiene conto del contributo gratuito delle donne al lavoro di cura. Secondo le stime di Oxfam, se tutto il lavoro di cura non retribuito (e non contabilizzato dalle statistiche ufficiali) svolto dalle donne nel mondo fosse appaltato a una sola azienda, questa realizzerebbe un fatturato di 10mila miliardi di dollari all’anno, ossia 43 volte quello di Apple, la più grande azienda al mondo. “Le persone ovunque sono arrabbiate e frustrate - conclude Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia. Ma i governi possono apportare cambiamenti reali per la vita delle persone assicurandosi che le grandi aziende e le persone più ricche paghino la loro giusta quota di tasse, e che il ricavato venga investito in strutture a cui tutti possano accedere gratuitamente. I governi possono ancora costruire un futuro migliore per tutti, non solo per pochi privilegiati. È una loro responsabilità”. Bombe made in Italy. Che affare la guerra di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 22 gennaio 2019 Cresce l’export di armi prodotte in Italia: più 452 per cento rispetto al 2014. Oltre la metà delle vendite destinata a Stati che non rispettano i diritti umani. Le raccomandazioni dell’Europa ignorate dai Paesi dell’Unione. A farci perdere l’innocenza era stato il New York Times, con il reportage “Bombe italiane, morti yemenite” sulla vendita all’Arabia Saudita di armi prodotte in Sardegna dalla Rwm Italia e pubblicato un anno fa. L’azienda è di proprietà del produttore tedesco Rheinmetall, ma la fabbrica delle bombe che si trova a Domusnovas nella provincia di Carbonia-Iglesias è della Spa italiana. Sono ordigni made in Italy venduti principalmente all’Arabia Saudita, Paese guida della coalizione araba (composta da Bahrein, Egitto, Kuwait, Sudan ed Emirati Arabi Uniti) che dal marzo del 2015 combatte gli Houthi e bombarda lo Yemen. Ora la vicenda è tornata di attualità: la Rwm intende ampliare l’impianto sardo. Rheinmetall non può più vendere armi all’Arabia Saudita perché la Germania in novembre ha introdotto l’embargo totale sullo vendita di materiale bellico in seguito all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre. L’embargo però non riguarda Rwm, che ha la sede legale in Italia. Dati ufficiali - Il caso non soltanto ha prodotto un movimento che comprende i vescovi sardi e diverse associazioni e che chiede la riconversione della fabbrica verso una produzione civile, ma ha riportato l’attenzione sulla vendita di armamenti prodotti in Italia a Paesi che non sono nostri alleati e che violano i diritti umani o sono coinvolti in conflitti. La tendenza è all’aumento, come mostrano i dati ufficiali del governo italiano che - in base a una legge - deve inviare ogni anno al Parlamento una relazione sulle autorizzazioni all’export di materiale militare. “Nel 2016, anno del record storico, sono stati autorizzati contratti per 14,6 miliardi di euro con un aumento dell’85 per cento rispetto al 2015 e del 452 per cento rispetto al 2014”, dice Francesco Vignarca, portavoce della Rete Italiana per il Disarmo. Nel 2017 le autorizzazioni sono scese, maun dato preoccupa: la crescita delle autorizzazioni per i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. I primi 12 Paesi destinatari sono Qatar, Regno Unito, Germania, Spagna, Usa, Turchia, Francia, Kenya, Polonia, Pakistan, Algeria e Canada. “Negli ultimi tre anni la percentuale di Paesi non Nato e non Ue ha superato il 50 per cento”, dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che cita come fonte l’Osservatorio Permanente Armi Leggere (Opal). “Vendiamo sempre di più a Paesi non alleati e questo aumenta il rischio che le armi arrivino dove i diritti umani non sono garantiti. Come la Turchia dove preoccupa il regime autoritario di Erdogan, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, impegnati nella guerra in corso nello Yemen”. La Rete del Disarmo ha tracciato una mappa della produzione bellica in Italia. Il grosso della produzione di sistemi d’arma viene da Leonardo (ex Finmeccanica), che in base alla classifica del Sipri è il nono gruppo al mondo e - precisa lo Stockholm International Peace Research Institute - ha come cliente principale il governo italiano. E la mappa ricostruita dalla Rete del Disarmo è anche di tipo geografico. Il distretto aeronautico si concentra soprattutto tra Lombardia e Piemonte. A Venegono Superiore (Va) ha sede la Aermacchi (ora Divisione Velivoli di Leonardo) che produce aerei da addestramento che hanno la possibilità di essere armati. Gli M-346 sono venduti per esempio a Israele. A Vergiate (sempre in provincia di Varese) la Agusta Westland (gruppo Leonardo) produce elicotteri militari e qui sono prodotti gli AW139 venduti alla Turchia. A Cameri (Novara) si assemblano i caccia F35. Leonardo fa parte del consorzio Eurofighter con il Regno Unito, la Spagna e la Germania. A Torino Caselle produce parti di una delle ali dell’Eurofighter, che ha già commissioni anche dal Kuwait. Sempre Leonardo partecipa a Mbda, un consorzio europeo che produce missili a La Spezia, dove è presente la ex Oto Melara (sempre gruppo Leonardo) attiva nell’artiglieria. A Roma, Pozzuoli (Na) e Livorno ha filiali la Wass (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei) che fa siluri e nel 2015 è entrata nella galassia di Leonardo. Quanto ai sistemi militari navali c’è Fincantieri, al 58esimo posto della top 100 del Sipri, che ha distretto più grande in Liguria e a Muggiano (La Spezia) produce le corvette. Due le commesse ritenute critiche degli ultimi anni. “Nel 2016 - dice Noury - l’accordo da 7,3 miliardi con il Kuwait (che fa parte della coalizione militare che bombarda la Yemen) del gruppo Leonardo per la fornitura di 28 Eurofighter. E nel 2017 l’accordo di Fincantieri con il Qatar, che ha una situazione di democrazia e diritti umani che preoccupa. Il contratto riguarda la vendita di quattro corvette, una nave per operazioni anfibie e due pattugliatori. E poi c’è l’Egitto: una raccomandazione del Consiglio europeo del 2013 chiede che non siano più vendute armi al Cairo. La maggioranza dei Paesi Ue ha ignorato la raccomandazione. Anche l’Italia”. Migranti. Che cosa può fare l’Europa di Franco Venturini Corriere della Sera, 22 gennaio 2019 Come rifiutare la resa all’alternativa secca più ingannevole di tutte, quella tra accoglienza totale e rifiuto totale anche a costo di continue tragedie? Qui entra in ballo la Libia, ma anche cose che si potrebbero fare con una volontà che tarda a manifestarsi. Viviamo, è inutile negarlo, con i migranti alla gola. Per chi ha un approccio soltanto umanitario e vuole una accoglienza incondizionata, per chi al contrario evoca respingimenti totali e denuncia “invasioni” percepite ma non accadute, per i pochi che cercano formule realistiche, per tutti insomma i flussi migratori continuano ad essere motivo di profonda divisione, di passioni spesso irrazionali, e talvolta persino di estrema violenza, o più raramente di estrema generosità. Il motivo che provoca tanta incontrollata emotività è che tutto sembra essere contro di noi. La geografia, per cominciare, che ci colloca in posizione accessibile, in mezzo al mare, e proprio davanti all’Africa. La demografia del continente africano, poi, che promette di raggiungere una popolazione di 2,5 miliardi per la metà del secolo e annuncia dunque flussi migratori molto più massicci da parte di giovani disoccupati non poverissimi, perché in Africa i poveri non hanno il cellulare e non appartengono a famiglie che possono pagare migliaia di dollari ai trafficanti per staccare il biglietto verso l’Europa. L’Europa, eccola. Paralizzata dalle paure elettorali che i migranti innescano ovunque, senza alcun condiviso interesse a discutere davvero le clausole dei protocolli di Dublino che ci penalizzano, assorbita dalla Brexit, indecisa su come trattare quelli di Visegrad che di migranti non ne vogliono nemmeno uno, terrorizzata dall’influenza che nuovi sbarchi e nuove tragedie potrebbero avere sulle urne di maggio. E infine, una generale consapevolezza. Quella di non avere soluzioni pronte o facili se si esclude la propaganda dei politici e dei governi, quella di sapere che in gioco c’è sì l’accoglienza, ma c’è anche la difesa di un modello democratico che può essere distrutto dalla paura, che può morire nel suo momento più alto, quello del voto. Se questa è la realtà, e lo è, dove andare a cercare scampoli di lucidità operativa se ancora ne esistono? Come rifiutare la resa all’alternativa secca più ingannevole di tutte, quella tra accoglienza totale e rifiuto totale anche a costo di continue tragedie? Qui entra in ballo la Libia, ma anche cose che si potrebbero fare con una volontà che tarda a manifestarsi. Il caos e il banditismo libico, felici compagni di strada, sarebbero ormai tanto ripetitivi da suggerire la noia se non ci piantassero invece un coltello nel fianco. Dimentichiamo le due “grandi” conferenze rivali del 2018, quella di Parigi e quella di Palermo. Il processo che quest’ultima avrebbe dovuto innescare è già clamorosamente in crisi, con l’aggravante che si è tornati a sparare a Tripoli, che il nostro Serraj è più che mai sotto l’assedio non solo delle milizie ma anche dei suoi vice, e così, mentre il cirenaico Haftar prova a farsi vedere in un meridione libico aperto a tutti i traffici, i campi di concentramento per aspiranti migranti (nell’amica Tripolitania) possono sbizzarrirsi in maltrattamenti, stupri, torture documentate dai cellulari, tutto quello che serve, insomma, per convincere le famiglie a pagare di più. E se tutto va “bene”, ci sono i barconi che fanno acqua, oppure i maxi-gommoni che dopo un po’ si limitano a sgonfiarsi. È come se nel Mediterraneo ci fosse ogni volta un passaggio del testimone, dagli schiavisti libici alla civile Europa che dovrebbe accorrere e salvare i disgraziati, e invece spesso li lascia morire in silenzio. Vincono sempre i libici, perché la loro Guardia costiera interviene e crea le premesse per nuovi pagamenti oppure perché i soldi delle famiglie sono già stati intascati e se la destinazione non viene raggiunta la colpa è dell’Italia, di Malta, della Spagna, o magari di qualche superstite Ong. In Libia nessuno vuole usare la forza, ed è giusto così. Ma l’Onu è presente, le grandi potenze guardano, pressioni anche pesanti possono essere esercitate, si dovrebbe poter imporre comportamenti più civili, e sorvegliare i famigerati campi. Servirebbero però non belle conferenze diplomatiche da esibire l’un l’altro, servirebbe un coinvolgimento serio di Usa e Russia. E poi la seconda linea, con Egitto e Arabia Saudita da una parte, e Turchia e Qatar dall’altra. Un processo politico serio, senza clamori, senza stupide rivalità come quella franco-italiana, capace di dare garanzie diverse da quelle dell’Onu e molto più credibili. E ancora servirebbero la volontà politica e i mezzi militari per pattugliare davvero il Sahel, per tagliare le vie di accesso da sud alla Libia, per isolarla, per far capire ai trafficanti che il vecchio gioco non funziona più. Militari italiani sono in Niger a questo scopo, ma occorre molto di più. E parallelamente va impostato un piano economico per l’Africa, una sorta di Piano Marshall che possa offrire occasioni di lavoro ai giovani prima e durante l’esplosione demografica. A condizione di superare due difficoltà che paiono ancora insormontabili: i Paesi europei al riparo dai flussi non vogliono spendere più di tanto, e comunque, a chi andrebbero gli investimenti in Africa? A dirigenze politiche ben note per il loro livello di corruzione? Poi c’è l’Italia. Con gli errori passati, e con il suo governo di oggi. Anche da noi i partiti politici tengono d’occhio le elezioni di maggio, s’intende. Ma da noi il normale dibattito si svolge sotto l’egida indiscussa della propaganda, delle battute a effetto, degli “imperativi categorici” come la totale chiusura dei porti, dell’incoraggiamento a sentirci “invasi” anche se in percentuale i migranti in Italia sono meno numerosi che in Svezia, in Germania, in Austria. Giocare al tanto peggio tanto meglio è miope, come è suicida la paralisi dell’Europa davanti a un fenomeno che può farla morire per disgregazione. E poi, siamo in pieno inverno. Cosa dovremo aspettarci, in estate, se non agiremo per tempo da noi ma anche sulla sponda sud del Mediterraneo? Migranti. Come trasformare anche la vittima in carnefice di Donatella Di Cesare Il Manifesto, 22 gennaio 2019 La gestione poliziesca dei respingimenti, assurta nel frattempo a politica dei porti chiusi, può essere dunque spacciata per “guerra ai trafficanti”. L’ipocrisia giunge al punto di ergersi a liberatori dei migranti, da un canto criminalizzati, dall’altro considerati individui affetti da minorità. Gommoni vuoti e vite consegnate per sempre agli abissi. Di chi è la colpa? Chi chiamare in causa? Perché, certo, se quei corpi non fossero scomparsi così nelle acque, senza quasi lasciare traccia, se fossero insepolti, l’uno accanto all’altro, nello spasimo dell’ultimo respiro, nello strazio della speranza sfuggita, la strage sarebbe mediaticamente più vistosa. Com’è facile lasciar morire grazie alla complicità del mare! Poi diventa agevole presentarsi con il volto ipocrita e cinico del governante innocente sollevando da ogni peso il pubblico grato dei votanti. Basta ricorrere ad una strategia narrativa ormai da tempo collaudata: usurpare alla vittima persino la sua condizione, farne un carnefice. I veri colpevoli sarebbero, dunque, gli africani - mentre gli europei, in primo luogo gli italiani, subirebbero il crimine. Quale? Ad esempio la “sostituzione etnica” divulgata dai complottisti giallo-bruni. È un bel conforto non solo essere scagionati da ogni colpa, ma venire addirittura proclamati “vittime”. Questa inversione delle parti è stata reiterata senza pietà e senza scrupoli. Già gli ultimi governi hanno inaugurato l’ignobile formula “traffico di esseri umani”. Ignobile per due motivi. Anzitutto perché riduce il fenomeno complesso della migrazione a un trasferimento coatto, come se i migranti fossero esseri subumani, incapaci di intendere, quasi oggetti, pacchi. Sennonché, anche in quei casi estremi in cui sono sottoposti al raggiro, al ricatto, i migranti mantengono il margine di scelta - fosse pure quello di chi rischia la morte nella certezza che non esistano altre vie d’uscita. Ma quella formula è ignobile anche perché consente di eludere ogni responsabilità addossandola a un paio di “scafisti”, “negrieri”, “trafficanti”, unica vera causa della migrazione. Se ci sono, come sempre, coloro che traggono profitto dalle disgrazie altrui, molti dei cosiddetti “trafficanti” sono i migranti stessi, timonieri improvvisati dei barconi, che poi finiscono in galera. Accusato di essere il “capitano” del gommone, rovesciatosi in modo maldestro, era Abdullah Kurdi, il padre del piccolo Alyan, il bambino la cui immagine ha impietosito e indignato per un po’. La gestione poliziesca dei respingimenti, assurta nel frattempo a politica dei porti chiusi, può essere dunque spacciata per “guerra ai trafficanti”. L’ipocrisia giunge al punto di ergersi a liberatori dei migranti, da un canto criminalizzati, dall’altro considerati individui affetti da minorità. Importante è contenere la responsabilità entro i confini africani. Colpa loro, se si sono mossi - ognuno, si sa, dovrebbe restare al suo posto; colpa loro, se si sono affidati allo “scafista” di turno. Perché vengono a chiedere aiuto? Soccorrerli? Non se ne parla. Se affondano, hanno quel che si meritano. La cosa non ci riguarda. Noi non c’entriamo. Al crimine dei “trafficanti”, che li hanno portati (o “deportati” nel gergo complottista), si associano le Ong, quei “taxi del mare” che soccorrono impunemente. Questo racconto, che inverte abilmente le parti, ha anche il pregio di coprire la guerra non dichiarata ai migranti, combattuta grazie al semplice potere biopolitico di lasciar morire. Così si tenta di negare e cancellare a priori ogni colpa. Tutto ciò è agevolato dalla frantumazione della responsabilità che caratterizza il mondo globalizzato. La serie di cause concatenanti si allunga e impedisce di vedere gli effetti delle proprie azioni. Come non è lecito usufruire a cuor leggero di beni a basso prezzo, costati lo sfruttamento disumano, così non si può essere indifferenti alla vendita d’armi compiuta più o meno sottobanco dalla propria nazione. I vantaggi di cui si dispone qui sono all’origine del malessere, dell’agonia, della morte, dall’altra parte del mondo. L’interdipendenza della società planetaria richiederebbe semmai un sovrappiù di responsabilità. Non vedere non significa essere innocenti. Aver esternalizzato la violenza contro i migranti, grazie all’accordo con la Libia, non scagiona i cittadini italiani. Potranno dichiararsi inconsapevoli, ma sono già colpevoli. Un velo di lutto, mestizia, malinconia, avvolge questo paese e si estende ormai anche a chi alle vittime si rifiuta di pensare. Ci sarà una Norimberga per queste stragi e i veri responsabili saranno chiamati davanti al tribunale della storia. Un inferno chiamato Libia. L’Onu: non è un porto sicuro Nello Scavo Avvenire, 22 gennaio 2019 Acnur: “Respingimento, reato internazionale”. Giallo dei fondi di Italia e Ue alle fazioni. Il ricatto dei guardacoste: “Liberano” i migranti ma “non vedono” i barconi. Che ci fanno sui barconi i migranti registrati in Libia dall’Onu e che perciò dovrebbero essere protetti dalle autorità anziché venire ceduti agli scafisti? Chi si è intascato e come sono stati davvero spesi gli oltre 300 milioni che Italia e Ue hanno versato alle varie fazioni per “stabilizzare” il Paese? Le domande in Libia sono come le tempeste di sabbia: impossibile vederci chiaro. Volendo rassicurare l’opinione pubblica il governo italiano ha parlato di “migranti salvati e riportati in Libia”, dove ad attenderli ci sono “i centri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati”. Immediata e netta la replica: “Smentisco, non esiste alcun centro di raccolta gestito da Acnur”, ha dichiarato Carlotta Sami reagendo a un tweet del ministro Danilo Toninelli. La portavoce dell’agenzia Onu ha ricordato che esiste “solo una struttura di partenza per persone che vengono evacuate (verso il Niger o per i corridoi umanitari, ndr) proprio perché non è sicuro”. Nessun organismo internazionale, infatti, ha mai dichiarato il contrario. “Chi viene riportato in Libia va nei centri di detenzione cui abbiamo accesso limitato - ha ribadito Sami -. Il ritorno di persone da acque internazionali verso la Libia è contro il diritto internazionale. Non c’è alcun porto sicuro in Libia ad oggi”. L’aumento delle partenze secondo diversi esponenti del governo di Roma è da attribuire alla presenza delle Ong in mare. In realtà nel Mar Libico si trova solo Sea Watch, che negli ultimi giorni si trovava a oltre dieci ore di navigazione dai barconi alla deriva. “I dati in realtà mostrano che non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane”, ribadiscono dall’Ispi. Secondo l’Istituto per gli studi di politica internazionale, che riconferma la validità della ricerca pubblicata a metà 2018 dal ricercatore Matteo Villa, “a determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori”. Le partenze degli ultimi giorni sono quasi tutte avvenute dall’area di Garabulli, a una sessantina di chilometri da Tripoli. Curiosamente, quando i barconi vengono messi in mare, non c’è mai una motovedetta libica a pattugliare quel tratto di spiaggia. I guardacoste, che per giorni interi non rispondono neanche al telefono o alle email, si lamentano però di avere mezzi in avaria (eppure rimessi a nuovo e consegnati meno di un anno fa dall’Italia) mentre si aspettano che dall’Italia arrivino gli “aiuti” accordati. Ufficialmente si tratta di una dozzina di motoscafi a chiglia rigida che Roma ha promesso, ma non ancora consegnato. Rimostranze che i libici generalmente tacciono quando da Bruxelles e Roma partono i bonifici per i “progetti di sviluppo”. In particolare 92 milioni sono stati destinati alle municipalità, le cui leadership sono espressione delle principali 14 tribù, e altri 91,3 per il controllo delle frontiere. Cifre colossali se si pensa che sono destinate a un Paese con 6,3 milioni di abitanti -- quasi metà dell’intera Lombardia - nel quale il salario medio è inferiore del 40% rispetto all’Italia. “Riattivare i finanziamenti può incoraggiare il controllo delle frontiere”, riferisce un diplomatico europeo che da mesi negozia con gli alti papaveri della sicurezza a Tripoli. In una terra nella quale non funziona quasi niente, al contrario risulta molto più efficace la ristrutturazione del sistema bancario. Un controsenso che dice molto sugli interessi in campo. “Grazie al governo tedesco, lo staff della Banca centrale libica sta ricevendo formazione tecnica dai funzionari della Bundesbank”, ha rivelato il 18 gennaio l’inviato Onu a Tripoli, Ghassam Salamé. E i risultati, a sentire il diplomatico libanese, stanno arrivando, specie sul fronte della progressiva conformità al sistema bancario internazionale. Al contrario nessun progresso si registra verso il rispetto delle convenzioni internazionali per i diritti umani. A cominciare dalla violazione del principio del “non respingimento”. “I migranti e i richiedenti asilo in Libia, compresi i bambini, sono prigionieri di un incubo, e l’operato dell’Unione Europea non fa che perpetuare il sistema di detenzione anziché liberare le persone dalle condizioni abusive in cui si trovano”, dichiara Judith Sunderland, direttore associato per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch, l’organizzazione che ieri ha presentato un nuovo dossier che conferma tutte le accuse mosse alle autorità libiche pochi giorni fa dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “I pochi sforzi dimostrativi per migliorare le cose e far uscire qualcuno dalla detenzione - aggiunge Sunderland - non assolvono l’Ue dalla responsabilità di consentire questo sistema barbaro”. In tutto il Paese, le Nazioni Unite hanno censito (con il supporto delle diverse autorità) circa 660mila stranieri. Nei centri di detenzione governativi, nei quali secondo l’Onu avvengono “indicibili orrori”, sono rinchiuse meno di 6mila persone di svariate nazionalità. Tra queste solo una minoranza proviene da Paesi citati ieri dal vicepremier Luigi Di Maio e da Alessandro Di Battista come sottomessi al sistema valutario postcoloniale francese denominato Cfa. La smentita arriva dai dati ufficiali del ministero dell’Interno. Nell’elenco delle provenienze degli stranieri sbarcati in Italia, aggiornato a dicembre 2018, il primo Paese che adotta il Franco Cfa è la Costa D’Avorio, ottavo nella lista con circa il 5% del totale dei migranti. Tra i richiedenti asilo, invece, i migranti dalle ex colonie francesi evocate dagli esponenti del M5s sono agli ultimi posti. Israele, licenza di uccidere di Manlio Dinucci Il Manifesto, 22 gennaio 2019 Dopo che Israele ha ufficializzato l’attacco contro obiettivi militari iraniani in Siria, sui media italiani nessuno ha messo in dubbio il “diritto” di Tel Aviv di attaccare uno Stato sovrano per imporre quale governo debba avere. “Con una mossa davvero insolita, Israele ha ufficializzato l’attacco contro obiettivi militari iraniani in Siria e intimato alle autorità siriane di non vendicarsi contro Israele”: così i media italiani riportano l’attacco effettuato ieri da Israele in Siria con missili da crociera e bombe guidate. “È un messaggio ai russi, che insieme all’Iran permettono la sopravvivenza al potere di Assad”, commenta il Corriere della Sera. Nessuno mette in dubbio il “diritto” di Israele di attaccare uno Stato sovrano per imporre quale governo debba avere, dopo che per otto anni gli Usa, la Nato e le monarchie del Golfo hanno cercato insieme ad Israele di demolirlo, come avevano fatto nel 2011 con lo Stato libico. Nessuno si scandalizza che gli attacchi aerei israeliani, sabato e lunedì, abbiano provocato decine di morti, tra cui almeno quattro bambini, e gravi danni all’aeroporto internazionale di Damasco, mentre si dà risalto alla notizia che per prudenza è rimasta chiusa per un giorno, con grande dispiacere degli escursionisti, la stazione sciistica israeliana sul Monte Hermon (interamente occupato da Israele insieme alle alture del Golan). Nessuno si preoccupa del fatto che l’intensificarsi degli attacchi israeliani in Siria, con il pretesto che essa serve come base di lancio di missili iraniani, rientra nella preparazione di una guerra su larga scala contro l’Iran, pianificata col Pentagono, i cui effetti sarebbero catastrofici. La decisione degli Stati uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano - accordo definito da Israele “la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran” - ha provocato una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente. Israele, l’unica potenza nucleare in Medioriente - non aderente al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece dall’Iran - tiene puntate contro l’Iran 200 armi nucleari (come ha specificato l’ex segretario di stato Usa Colin Powell nel marzo 2015). Tra i diversi vettori di armi nucleari, Israele possiede una prima squadra di caccia F-35A, dichiarata operativa nel dicembre 2017. Israele non solo è stato il primo paese ad acquistare il nuovo caccia di quinta generazione della statunitense Lockheed Martin, ma con le proprie industrie militari svolge un ruolo importante nello sviluppo del caccia: le Israel Aerospace Industries hanno iniziato lo scorso dicembre la produzione di componenti delle ali che rendono gli F-35 invisibili ai radar. Grazie a tale tecnologia, che sarà applicata anche agli F-35 italiani, Israele potenzia le capacità di attacco delle sue forze nucleari, integrate nel sistema elettronico Nato nel quadro del “Programma di cooperazione individuale con Israele”. Di tutto questo non vi è però notizia sui nostri media, come non vi è notizia che, oltre alle vittime provocate dall’attacco israeliano in Siria, vi sono quelle ancora più numerose provocate tra i palestinesi dall’embargo israeliano nella Striscia di Gaza. Qui - a causa del blocco, decretato dal governo israeliano, dei fondi internazionali destinati alle strutture sanitarie della Striscia - sei ospedali su tredici, tra cui i due ospedali pediatrici Nasser e Rantissi, hanno dovuto chiudere il 20 gennaio per mancanza del carburante necessario a produrre energia elettrica (nella Striscia l’erogazione tramite rete è estremamente saltuaria). Non si sa quante vittime provocherà la deliberata chiusura degli ospedali di Gaza. Di questo non ci sarà comunque notizia sui nostri media, che hanno invece dato rilievo a quanto dichiarato dal vice-premier Matteo Salvini nella recente visita in Israele: “Tutto il mio impegno per sostenere il diritto alla sicurezza di Israele, baluardo di democrazia in Medio Oriente”. Venezuela. Rivolta dentro la guardia di regime, sfida (persa) al potere di Maduro di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 22 gennaio 2019 La risposta dura di Caracas: 27 arresti, il Parlamento dichiarato “incostituzionale”. L’opposizione rialza la testa in Venezuela, Nicolás Maduro è costretto a prendere l’ennesima misura antidemocratica mentre dalle caserme arrivano nuovi segnali di inquietudine: saranno le stesse forze armate a dare la spallata decisiva a un regime ormai alle corde e isolato nel mondo? All’alba di ieri a Cotiza, un quartiere popolare di Caracas, su una collina non lontana dai centri del potere, un gruppo di soldati attraverso i social si dichiara in rivolta contro la dittatura, invitando la popolazione a unirsi alla protesta nelle strade. Piccoli ammutinamenti sono avvenuti varie volte negli ultimi anni, forse anche un tentativo concreto di uccidere Maduro con un drone, ma qui un particolare desta curiosità. I ribelli sono soldati della Guardia Nacional Bolivariana, una sorta di corpo scelto dell’esercito creato da Chávez per la sua difesa personale e della sua “rivoluzione”. Fuori la caserma si raccolgono abitanti della zona, incitando i soldati a non mollare. Scatta la repressione a colpi di lacrimogeni, a Cotiza e in altre strade della capitale, e in poche ore i 27 rivoltosi si consegnano. Qualcuno sospetta un gioco delle parti, una insubordinazione simulata per stringere ancora di più il cappio ai diritti umani e politici in Venezuela. E difatti già in mattinata arriva una nuova sentenza pro regime del Supremo Tribunale di Giustizia, un organo del tutto obbediente al governo. Viene colpita ancora un volta l’Assemblea Nazionale, cioè il Parlamento eletto nel 2015 e controllato dall’opposizione. Stavolta i giudici dichiarano l’organismo “incostituzionale” e annullano tutte le direttive degli ultimi due anni, compresa quella che ha eletto l’ultimo vertice. Alla guida dell’organismo c’è difatti un personaggio nuovo che rappresenta qualche rischio per il regime: Juan Guaidó, 35 anni, già riconosciuto all’estero come leader del Paese “ad interim”, in quanto l’attuale mandato di Maduro è illegittimo per frode elettorale (la pensano così Usa, Ue, quasi tutta l’America Latina e vari organismi internazionali). Il Supremo venezuelano è da anni il braccio legale del regime per spazzar via gli oppositori. Otto dei suoi giudici hanno già ricevuto sanzioni internazionali, e del Tribunale esiste una versione in esilio. Poche ore dopo la rivolta lampo di Cotiza, Guaidó sale su un palco all’università e ripete quella che è oggi la linea predominante nell’opposizione al regime. È una sorta di ponte ai settori scontenti delle forze armate affinché contribuiscano alla caduta di Maduro: “Tra i militari si percepisce la rabbia che tutti noi sentiamo”, dice Guaidó commentando gli ultimi fatti. Nei giorni scorsi il Parlamento oppositore ha promesso l’amnistia totale ai militari che contribuiscano alla caduta del governo, una sorte di invito al golpe anti Maduro. Ma in Venezuela sono centinaia i soldati già in carcere per sedizioni o tradimenti veri o presunti alla patria. Dopo la morte di Chávez, la presenza delle gerarchie militari nelle sfere del potere non ha fatto che crescere, in quella che Maduro ritiene una sorta di assicurazione contro la sua estrema impopolarità e inettitudine a gestire l’economia del Paese, oggi in ginocchio. Una nuova grande mobilitazione di piazza contro il regime, la prima dopo molto tempo, è stata convocata per domani nella capitale Caracas.