Nuove carceri non creano più sicurezza di Glauco Giostra* La Repubblica, 21 gennaio 2019 Ci sono idee nuove e vincenti. Ci sono idee nuove e perdenti. Ci sono idee vecchie e vincenti. Ci sono idee vecchie e perdenti. A quest’ultima categoria si deve ascrivere il proposito governativo di risolvere il sovraffollamento carcerario che in Italia nel 2018 ha toccato un nuovo record costruendo nuovi penitenziari per aumentare la ricettività (altra cosa sarebbe ristrutturare o sostituire gli esistenti). La soluzione “edilizia” riaffiora puntualmente nella storia patria tutte le volte che non si hanno idee su come governare il complesso problema della repressione penale. Si potrebbe far sommessamente notare che percorrendo questa strada siamo andati incontro a scandalosi fallimenti. Peggio: quando si è riusciti ad erigere mura di nuovi penitenziari, queste sono risultate spesso impastate di reati non meno gravi di quelli commessi dai condannati destinati ad esservi reclusi. Si obbietterà, come sempre, che questa volta tutto sarà effettuato all’insegna dell’onestà e dell’efficienza. Ce lo auguriamo. Resterebbe tuttavia una pessima idea. Un’idea destinata, nella migliore delle prospettive, ad essere realizzata tra molti anni, mentre condizioni degradanti, autolesionismi, suicidi appartengono alla quotidianità carceraria di oggi. Di fronte ad una situazione che umilia il Paese, non possiamo baloccarci con il wishful thinking di futuribili architetture. Un’idea comunque fortemente sconsigliata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dal Consiglio d’Europa. Quest’ultimo, dopo aver da tempo avvertito che “aumentare la capacità ricettiva significa aumentare senza vantaggio alcuno la domanda di carcere”, di recente ha esortato a far ricorso alle misure alternative, ritenute “mezzi importanti per combattere la criminalità, per ridurre i danni che essa causa”, evitando “gli effetti negativi della reclusione”. L’attuale maggioranza si sta muovendo nella direzione esattamente opposta. Ha amputato la recente riforma penitenziaria della parte che avrebbe consentito ai condannati un graduale e controllato percorso di reinserimento sociale, bollandola con l’indecente e mistificante definizione di “svuota carceri”, che fa immaginare un meccanico sversamento di soggetti pericolosi nella società extra-muraria con gravi rischi per la collettività. Ma i fatti, a volerli ascoltare, parlano un diverso linguaggio e raccontano un’altra realtà. Da quando, a seguito dell’umiliante condanna della Corte di Strasburgo per trattamento penitenziario inumano e degradante, abbiamo favorito il progressivo e anticipato reinserimento sociale dei condannati che hanno meritato fiducia, l’indice di criminalità è diminuito. Negli Stati Uniti, dove la politica Law and Order ha determinato un ampliamento a dismisura della recettività e della popolazione penitenziaria (fatte le debite proporzioni, noi dovremmo avere circa mezzo milione di detenuti in luogo degli attuali 60.000) l’indice di criminalità non è certo diminuito. Secondo dati forniti dalle Nazioni Unite, negli Usa si registrano 4,88 omicidi ogni 10000 abitanti; in Italia 0,68. Se questi sono i dati, come si contrasta il trend di crescita della popolazione carceraria? Evitando l’ipertrofia delle sanzioni penali e favorendo il progressivo ritorno in società del condannato meritevole, risponderebbe il buon senso. Aumentando le pene e costruendo nuove carceri, risponde la politica. *Ordinario di Procedura penale all’università La Sapienza, ex membro del Csm e presidente della Commissione sulla Riforma penitenziaria. Carceri: in 10 anni capienza +17,4%, nel 2018 detenuti in “esubero” del 17,9% Adnkronos, 21 gennaio 2019 La capienza delle carceri negli ultimi 10 anni è aumentata del 17,4% ma il problema del sovraffollamento non è stato risolto. Anzi. Nel 2018 è i detenuti in ‘esuberò erano il 17,9% (59.655 persone per una capienza di 50.581 posti). È quanto emerge dai dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, elaborati dall’Adnkronos. Rispetto al 2015, quando è stato toccato il picco minimo del 5,2% di carcerati in eccesso rispetto al numero dei posti disponibili, la situazione è notevolmente peggiorata confermando per il terzo anno consecutivo un incremento del gap (8,8% nel 2016 e 14,1% nel 2017). Il carcere con il maggior numero di detenuti nel 2018 è Poggioreale, in Campania, che ospita 2.296 persone; rispetto alla capienza di 1.638 risulta un sovraffollamento del 40,2%. Al secondo posto Rebibbia, nel Lazio, con 1.505 carcerati per una capienza di 1.167 posti (29% di esuberi); segue Le Vallette nel Piemonte con 1.398 detenuti per 1.062 posti (+31,6%) e il carcere Opera in Lombardia con 1.351 detenuti e 918 posti (+47,2%). I dati relativi agli ultimi anni vanno letti tenendo conto della legge introdotta nel 2010 sull’esecuzione domiciliare delle pene, che ha consentito di scontare presso la propria abitazione (o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza) la pena detentiva non superiore a 18 mesi. Proprio in quell’anno è stato raggiunto il picco massimo, di 67.961 persone ospitate da strutture con una capienza di 44.073, pari al 54,2% di presenze in eccesso rispetto ai posti disponibili. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia, aggiornati al 31 dicembre 2018, a beneficiare della norma sono state 24.782 persone. Con il decreto legge semplificazioni è previsto un piano straordinario di edilizia penitenziaria, che prevede la realizzazione di nuove strutture carcerarie e la manutenzione o la ristrutturazione di quelle già esistenti. Per l’anno 2018 era previsto uno stanziamento di 26 milioni che salgono a 30 milioni per quest’anno e il prossimo. È inoltre assegnato un importo complessivo, all’amministrazione penitenziaria, pari a 185 milioni di euro nel periodo 2018-2033. Rispetto al passato di registra un’inversione di tendenza: i tecnici del Senato ricordano che dal 2001 le leggi finanziarie non hanno stanziato risorse aggiuntive e, nel 2005, è stata addirittura prevista una riduzione di 20 milioni di euro. Carceri che scoppiano, boom di suicidi e pochi contatti con casa di Marzia Paolucci Italia Oggi, 21 gennaio 2019 Il carcere? “Una legislazione piuttosto avanzata, una forte sensibilizzazione del personale ma all’atto pratico una guerra per la sopravvivenza che esaurisce le energie per pensare ad altro”. Così Alessio Scandurra dell’Osservatorio Carceri di Antigone. Numeri che parlano: oltre 60mila detenuti registrati al 30 novembre, 2.500 in più rispetto al 2017 e 63 suicidi nel solo 2018, mai così tanti dal 2011. Sono alcuni dei dati diffusi a fine anno, dall’Associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. In carcere cresce il sovraffollamento e aumentano i suicidi ma le misure alternative che pur ci sono, sono ancora malviste dall’opinione pubblica e la formazione professionale troppo poca. Le prime, nonostante al momento ne beneficino ben 40 mila persone, viste ancora come una fuga dalla pena, la seconda ridotta a casi isolati, ristretta al 5% dei detenuti degli 86 istituti visitati nel 2018 dall’Associazione, dove, tra questi, il 40% è senza alcuna offerta di formazione professionale in corso. Numeri che sconfessano le buone intenzioni degli Stati generali dell’esecuzione penale della passata legislatura e lo spirito della legge delega n. 103 del 2017, la riforma Orlando in parte tradita dai suoi decreti attuativi. “Nella legge delega” - dichiara Scandurra - “era salvaguardata la sfera dell’affettività in carcere, c’era l’equiparazione della patologia psichiatrica a qualsiasi altra patologia ma non è confluita nei decreti attuativi. Altro tema che non è confluito nei decreti è quello delle misure alternative percepite ancora come finte pene. Mentre va detto che coinvolgono ben 40mila detenuti tra affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà, messa alla prova (14 mila persone) e affidamento terapeutico in comunità. Una novità è invece la nascita dell’ordinamento penitenziario minorile: anche qui la delega era più estesa, oggi prevede rispetto agli adulti, un accesso facilitato dei minori alle misure alternative anche se non è stato previsto un vero ridisegno della pena a misura del minore a cominciare dall’organizzazione della vita carceraria”. Torna il sovraffollamento carcerario. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i detenuti dei 190 istituti del paese sono tornati ad essere oltre 60 mila, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Con una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10 mila persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%. Tra gli istituti visitati, c’è un 20% di casi in cui i detenuti vivono in meno di 3 mq. Nel 36% degli istituti, ci sono celle senza acqua calda e nel 56% celle senza doccia. La regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 161%, seguita dalla Lombardia con il 137%. Se poi si guarda ai singoli istituti, in molte città, Taranto, Brescia, Como, è stata raggiunta o superata la soglia del 200%. Ma che fare? Costruire nuovi istituti o ristrutturare gli esistenti? Con uno dei decreti attuativi della Delega, il decreto legislativo n.124 del 2 ottobre 2018, il Governo ha autorizzato per il rinnovo dei locali carcerari di soggiorno e pernottamento la spesa di 2 milioni di euro per ogni anno, 2019 e 2020. “Una cifra che probabilmente servirà a ristrutturare l’esistente”, secondo Scandurra: “Per un carcere nuovo da 200 posti, servono 25milioni di euro e 10 anni di tempo”. Il 2018 ha inoltre visto crescere il numero dei suicidi avvenuti dietro le sbarre. Sono stati 63, 4 nel solo istituto di Poggioreale a Napoli, il primo avvenuto il 14 gennaio nel carcere di Cagliari e l’ultimo il 22 dicembre in quello di Trento. Era dal 2011 che non se ne registravano così tanti. Antigone ha messo nero su bianco una proposta di legge per prevenire le morti volontarie: “Stiamo registrando un certo interesse alla nostra proposta tra deputati e senatori e presumo che qualcuno la presenterà presto in Parlamento come primo firmatario”, anticipa Scandurra. Tre i punti fondanti: maggiore accesso alle telefonate, maggiore possibilità di passare momenti con i propri famigliari, inclusa l’opportunità di avere rapporti sessuali con le proprie compagne o con i propri compagni, una notevole diminuzione dell’utilizzo dell’isolamento. “Ancora oggi un detenuto può telefonare a casa solo per dieci minuti a settimana, proprio come negli anni 70: una norma di per sé punitiva, ancor di più in tempi di uso massivo di social e Internet wi-fi ovunque”, commenta l’esponente di Antigone. Carceri in salute. Esperti per tutte le problematiche di Filippo Grossi Italia Oggi, 21 gennaio 2019 Al via il master di II livello dell’università di Firenze. Una formazione specifica per gestire la salute in un sistema molto particolare, quello penitenziario italiano, che raccoglie oltre 58 mila reclusi, spesso in condizioni di sovraffollamento. È l’obiettivo del master di II livello in Tossicologia, psicologia sociale, diritto e criminologia in ambiente penitenziario, organizzato dall’università degli studi di Firenze. Il master, che si terrà a partire da febbraio per concludersi a gennaio 2020, intende fornire a chi lavora o è interessato a operare negli istituti penitenziari una formazione multidisciplinare in un campo biomedico e giuridico, per affrontare le complesse problematiche della gestione del percorso delle persone private della libertà. In particolare, il master attuerà un percorso didattico variamente articolato in diverse discipline allo scopo di fornire conoscenze sia di base che più specialistiche per formare figure professionali preparate ad affrontare le problematiche in un panorama, quello penitenziario, che si presenta molto particolare. Di qui la necessità di una formazione “ad hoc”. Dalla tossicologia alla sociologia, dall’epidemiologia in ambito penitenziario alla psicologia e alla sessuologia, gli insegnamenti toccheranno tutti gli ambiti di possibile intervento. Se infatti il governo clinico nelle aziende sanitarie è caratterizzato da diverse variabili che ne rendono complessa la gestione, ancor più difficoltosa risulta tale gestione se si tratta di governare il sistema sanitario appartenente agli Istituti Penitenziari. Un particolare focus sarà, inoltre, dedicato al fenomeno del suicidio in carcere, che coinvolge non solo le persone detenute, ma anche gli agenti della Polizia Penitenziaria. Il master è coordinato da Elisabetta Bertol - ordinario di medicina legale dell’ateneo fiorentino - e si svolge in collaborazione con la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria - Simspe Onlus e con Federazione italiana medici di famiglia. Le domande di ammissione al master potranno essere inoltrate entro il 5 febbraio attraverso il sito internet: unifi.it. Reddito di cittadinanza. Se passa la delazione di Stato di Sofia Ventura La Stampa, 21 gennaio 2019 Il “governo del cambiamento” costringe sempre più spesso, con le sue esternazioni e azioni, a interrogarsi su cosa stia accadendo alla democrazia italiana. Trattando del tema del reddito di cittadinanza, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Stefano Buffagni, del Movimento 5 Stelle, ha fatto sapere che, insieme alle attività dei comuni, dell’Inps etc., “anche le segnalazioni che spesso arrivano dal vicino di casa che è invidioso perché vede quello che sfrutta uno strumento di aiuto illegalmente” costituiranno uno degli strumenti che “una volta messi a sistema” contribuiranno a rendere possibile il controllo su chi ha ottenuto tale reddito. Da queste parole, pronunciate in un’intervista a Maria Latella, emerge dunque che la delazione farà parte del sistema di accertamenti. Chi non è digiuno della storia del Novecento, chi ha letto libri, visto film, ascoltato racconti di genitori e nonni ha una reazione di immediata repulsione verso l’idea della delazione, perché sa che è stato un potente mezzo per creare paura e terrore nei regimi autoritari e totalitari. Nel suo romanzo “Vita e destino”, ambientato nell’Unione Sovietica degli anni della guerra, Vassilij Grossman ne aveva colto la natura di strumento della “paura di Stato”. In nome della morale la rivoluzione ci ha reso immorali, in nome del futuro ha giustificato gli odierni farisei, delatori e ipocriti, insegnandoci che un uomo può spingere degli innocenti nella fossa in nome della felicità del popolo tutto”. Figli di una stagione che ha prodotto un nuovo moralismo, per il quale i reati economici e contro lo stato non sono un male, ma “il male”, un male assoluto per combattere il quale tutto è lecito, in nome di una “onestà” che ha finito per rappresentare l’alfa e l’omega della politica, che di null’altro necessita, i nuovi governanti a 5 stelle si direbbe che trovino normale alimentare il sospetto tra cittadini, usare gli un contro gli altri, colpire e compromettere i legami sociali per realizzare il loro “cambiamento”. Se le istituzioni non sono in grado di controllare il rispetto della legge, allora trasformiamo i cittadini in un esercito di spie. Probabilmente Buffagni non è nemmeno consapevole dell’enormità da lui pronunciata. Ignora la storia, i suoi drammi e le sue tragedie. Ma esprime comunque una visione brutale, sregolata, senza limiti della politica e del fare politica. E in nome della “moralità”, appunto, offre una soluzione “immorale”, ovvero l’uso dei sentimenti più bassi dell’animo umano - come l’invidia tra vicini, quando il vicinato, come ci insegnano gli americani, dovrebbe costituire uno dei fondamenti dello sviluppo della società democratica - e la costruzione di una società del sospetto. Perché privo degli anticorpi della conoscenza e della consapevolezza. In un documentario di David Korn-Brzoza sulla Hitlerjugend (Jeunesses hitleriennes, 2017), un anziano intervistato che ne era stato zelante membro ricordava la madre, esasperata, che un giorno così lo apostrofò: “Ti rendi conto che ormai abbiamo paura dite?”. È questo il suo modello, sottosegretario Buffagni? Ci rifletta. Omicidi Rossa e Alessandrini, parlano i figli di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 gennaio 2019 “I papà uccisi e i terroristi. Stagione chiusa, ora verità”. Rossa e Alessandrini, i figli delle vittime: con quei due delitti cambiò la lotta armata. Quarant’anni dopo uno dei killer dell’operaio è ancora latitante. Nella lista dei trenta latitanti per fatti di terrorismo ancora ricercati dall’Italia ce n’è uno che quarant’anni fa, all’alba del 24 gennaio 1979, partecipò all’omicidio dell’operaio comunista Guido Rossa, sindacalista iscritto al Pci e alla Cgil. Ucciso dalle Brigate rosse perché aveva denunciato un compagno di lavoro (poi reo confesso) che diffondeva in fabbrica i volantini con la stella a cinque punte. È Lorenzo Carpi, all’epoca aveva 25 anni, oggi non si sa nemmeno se è vivo: mai arrestato, non ha scontato neppure un giorno dell’ergastolo che gli fu inflitto per quello e altri delitti. L’assassinio di Guido Rossa - che mercoledì prossimo sarà ricordato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’ex Ilva di Genova, dove lavorava la vittima - segna uno spartiacque nella storia delle Br: rivoluzionari comunisti che sparano su un comunista degradato a “spia berlingueriana”, traditore della causa che aveva infranto il muro di “opacità operaia” e omertà che fino a quel momento aveva tollerato e protetto i brigatisti all’interno delle fabbriche. Al pari di quello del pubblico ministero Emilio Alessandrini, ammazzato il 29 gennaio ‘79 a Milano, da Prima linea: un “magistrato democratico” che con le sue indagini sulle trame nere e la strage di piazza Fontana, oltre che sulle formazioni armate di sinistra, aveva la “colpa” di dare credibilità ed efficienza alle istituzioni repubblicane. Due delitti consumati in cinque giorni e legati dalla svolta che hanno rappresentato per il terrorismo italiano: colpire i riformisti. Il velo squarciato - “Prima della ricorrenza del 29 gennaio per me arriva sempre l’altra, quella del 24 - dice il figlio di Alessandrini, Marco, che all’epoca era un bambino di 8 anni e oggi è sindaco di Pescara per il centro-sinistra. Gli omicidi di Rossa e di Emilio (lo chiama così, ndr) fecero cadere definitivamente la storiella dei “compagni che sbagliano”; il velo delle coperture a sinistra, di cui i terroristi avevano goduto fino a quel momento, fu definitivamente squarciato”. Un pessimo affare per i terroristi, che volevano spaventare gli avversari, guadagnare consensi e indicare nuove rotte di lotta armata, ma finirono per compattare il fronte democratico, perdere interlocutori e smarrire la bussola. Sulla morte di Guido Rossa sua figlia Sabina - che il 24 gennaio ‘79 era una liceale sedicenne, uscì di casa senza accorgersi del cadavere del papà riverso nella sua Fiat 850, e dal 2006 al 2013 è stata parlamentare del Pd - ritiene che ci siano ancora misteri da svelare. L’operaio non doveva essere ucciso ma solo ferito, tuttavia dopo i primi colpi sparati alle gambe dal brigatista Vincenzo Guagliardo, arrivarono quelli mortali inflitti dal capo-colonna Riccardo Dura, ucciso un anno più tardi nel conflitto a fuoco coi carabinieri nel covo di Via Fracchia. Misteri ancora aperti - “Guagliardo, con il quale ho parlato a lungo, non ne sapeva niente - racconta -, ma vorrei capire se l’intervento di Dura fu una decisione personale o condivisa dalla Direzione nazionale delle Br. Ho chiesto a Mario Moretti di incontrarmi ma non ha voluto, lui potrebbe spiegare. Così come Lorenzo Carpi, se fosse ancora in vita, potrebbe dire chi l’ha aiutato a fuggire per quarant’anni, di quali coperture ha goduto per un tempo così lungo”. Sono questioni tornate d’attualità con l’arresto e il rientro in carcere di Cesare Battisti, accompagnato da una “volontà di strumentalizzazione politica” che non è piaciuta alla figlia di Guido Rossa. Ma che cosa significa, per il familiare di una vittima, sapere che uno degli assassini non ha mai pagato il conto con la giustizia? “Io non cerco vendetta - risponde la donna che in passato s’è spesa perché l’ex br Guagliardo ottenesse la liberazione dopo 31 anni di detenzione -, ma non è giusto che un colpevole non abbia scontato neanche un giorno di una condanna all’ergastolo. Così come non c’è giustizia senza verità, e quella verità per me è ancora deficitaria. Manca sulla decisione di uccidere mio padre, ma anche sulla sparatoria di via Fracchia, sui documenti che potevano essere nascosti lì e mai ritrovati, e su altri aspetti”. Anche Marco Alessandrini ha definito una “nota stonata” l’esibizione ministeriale per la cattura di Battisti, mentre ritiene che “sull’omicidio di Emilio non ci siano misteri insoluti. Mi è già capitato di dire che i suoi assassini erano una banda di persone poco intelligenti che giocavano a fare i rivoluzionari, ma non è che se dietro ci fosse stato il Kgb o chissà quale trama cambierebbe granché; resterebbero comunque il senso di inutilità della morte e la lacerazione insanabile per una perdita così violenta: l’avevo appena salutato sulla soglia della scuola dove mi accompagnava ogni mattina. Sullo stragismo e il caso Moro ci sono ancora verità da svelare, tuttavia la storia di Prima linea è stata chiarita nei tribunali, seppure attraverso i benefici concessi ai pentiti grazie ai quali alcuni assassini sono usciti quasi subito di galera. Ma è stato un prezzo pagato dallo Stato per vincere la battaglia contro il terrorismo con regolari processi, senza leggi speciali”. Senza protezione - Emilio Alessandrini non aveva la scorta nonostante le vecchie minacce neofasciste delle Squadre d’Azione Mussolini e il recente ritrovamento, in una base di terroristi rossi, di una sua fotografia: “Sicuramente quella vicenda fu sottovalutata”, dice Marco. Dopo l’omicidio si svolse una riunione straordinaria del Consiglio superiore della magistratura al Quirinale, nella quale si chiese di “assicurare una maggiore protezione” alle toghe impegnate nelle indagini anti-terrorismo. Seduto accanto al capo dello Stato Sandro Pertini c’era il vice-presidente Vittorio Bachelet, ammazzato un anno dopo dalle Brigate rosse, il 12 febbraio 1980. E a marzo la mattanza delle toghe continuò con tre giudici uccisi in quattro giorni. Tutti senza scorta. Nemmeno Guido Rossa aveva alcuna forma di tutela, sebbene fosse il primo e unico testimone a puntare il dito in un’aula di tribunale contro un fiancheggiatore delle Br. “Lo Stato s’è voltato dall’altra parte - dice Sabina Rossa. Le minacce che aveva ricevuto non bastarono a garantirgli la protezione ricevuta dai suoi compagni di lavoro dopo l’omicidio. Non credo che fu solo sottovalutazione, viene il sospetto che una vittima del genere potesse essere funzionale alle tesi che il terrorismo fosse solo una questione interna alla sinistra. O a qualche altro disegno. Il Pci e il sindacato invece rimasero a guardare, lasciandolo solo nella sua denuncia”. Zone d’ombra e rammarichi su una storia che ha cambiato la percezione del terrorismo nostrano alla fine degli anni Settanta. Vicende lontane ma sempre vicine, come dimostra il caso Battisti, e Marco Alessandrini conclude: “Ci sono poche situazioni ancora aperte che vanno perseguite per un senso di giustizia, ma quella ormai è una stagione chiusa”. È ora di pretendere la trasparenza sul “dossier pentiti” di Maria Tripodi e Giorgio Silli* Il Tempo, 21 gennaio 2019 In merito all’intervista all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino, pubblicata ieri su “Il Tempo”, riteniamo di raccogliere le perplessità cui egli fa riferimento sulla gestione dei pentiti e sul caso emblematico di Totuccio Contorno, interrogato nel lontano 1989 dalla commissione antimafia, e di cui ancora ad oggi a distanza di trent’anni da quell’interrogatorio si ignora il contenuto, essendo coperto da segreto. In tal senso ci adopereremo per porre un’interpellanza urgente al Ministro dell’Interno. Tale vicenda è quanto mai paradossale, se si pensa all’opacità mai svanita, che racchiude la lotta dello stato alla criminalità organizzata negli anni 1989- 2005. Ci sono troppi uomini delle istituzioni, trascinati nel gorgo della calunnia e della menzogna dai “pentiti”. Ci sono storture che lasciano innumerevoli dubbi e che meritano di venire alla luce soprattutto oggi, in tempi di dirette social e di trasparenza invocata ad ogni piè sospinto dal nuovo potere gialloverde, che a nostro non può esimersi dal desecretare tali atti. Siamo fiduciosi che ciò possa avvenire, contando questo governo tra i suoi ministri Giulia Bongiorno, illuminata e fine giurista, esperta di processi e pentiti. Per amor di verità è necessario ricordare in questa sede, come per altro è stato fatto anche nella nostra recente iniziativa alla Camera dei Deputati, in occasione del Centenario della nascita di Andreotti, “Il patrimonio politico di un padre della Repubblica”, che il ventisette volte ministro, vittima principe del pentitismo a intermittenza, fu il Presidente del Consiglio che nel settembre del 1989, dopo solo due mesi dall’insediamento del suo sesto governo, fece varare il decreto legge che raddoppiava i tempi della carcerazione preventiva per gli imputati di mafia, la prima legge sui pentiti, lo scioglimento dei Comuni per infiltrazione mafiosa e l’istituzione della Procura nazionale antimafia. Tanto da rimanere egli stesso vittima poco dopo di “pentiti” o presunti tali che ne hanno distrutto l’immagine attraverso un circo mediatico-giudiziario scioltosi come neve al sole davanti all’assoluzione della Corte di Cassazione. Il suo caso non è il solo, altri uomini di stato vennero distrutti da pentiti farlocchi, si pensi per esempio al caso di Bruno Contrada nel cui processo fu dato più credito alle affermazioni dei “pentiti” che erano stati messi in carcere dal superpoliziotto di Palermo, che ai suoi colleghi alti ufficiali di polizia e carabinieri, che testimoniarono in suo favore. Da giovani parlamentari, prendendo spunto da una celebre frase del Presidente Andreotti siamo convinti: “Che si è eletti per operare e non si opera per essere eletti” e riteniamo dunque di porre attenzione su questi fatti per dare un contributo al fine di squarciare quell’alone di mistero che aleggia da lunghi decenni su accadimenti che hanno cambiato la storia della Repubblica. *Deputati Forza Italia Bonafede, mi vergogno di lei di Luigi Labruna* La Repubblica, 21 gennaio 2019 L’arrivo del terrorista Cesare Battisti, catturato in Bolivia dopo decenni di latitanza ed estradato subito in Italia per scontarvi la pena alla quale, con giusto processo, fu condannato, ha rappresentato un indubbio successo della giustizia italiana e dello Stato. E di questo bisogna dar atto, ringraziandoli, alle forze dell’ordine, ai servizi segreti, alla magistratura, ai nostri rappresentanti diplomatici in Brasile e Bolivia. Non mancando di esprimere apprezzamento per l’azione, in questo caso efficace, del governo che, sfruttando affinità con il populista ultra-destro Bolsonaro e nostre buone relazioni con la Bolivia, è riuscito a colpire il bersaglio grosso che i suoi predecessori avevano per tanto tempo mancato. Ciò detto - e ribadita la solidarietà più forte ai familiari delle tante vittime del terrorista - bisogna anche dire senza esitazione che quel successo dell’Italia è stato, più che sciupato, insozzato dall’incredibile esibizione organizzata all’aeroporto di Roma dal ministro Matteo Salvini e dal suo patetico imitatore Alfonso Bonafede, purtroppo ministro della Giustizia, esponenti dei due patiti al governo in perenne competizione, ma accomunati dall’essere entrambi inadeguati ad assolvere le responsabilità istituzionali che sono proprie del ruolo. Ingiubbottato da agente penitenziario il primo, ancora per un po’ in abiti borghesi l’altro, appollaiati su un palchetto, si sono penosamente esibiti nel godere, a mo’ di isteriche tricoteuses, al passaggio verso il carcere speciale dell’ormai impotente Battisti. Che Salvini ha schernito come “assassino comunista, delinquente, vigliacco” e al quale - quasi fosse uno di quei feti o pezzi anatomici lasciati imputridire insepolti nel cimitero di Napoli, in dispregio della Costituzione (e non solo), urlava l’augurio di “marcire in galera sino alla fine dei suoi giorni”. Ricevendo però, a stretto giro, lezioni di civiltà dal figlio di Torregiani, una delle vittime del terrorista (“Vogliamo mettergli anche le catene al piede? Mi aspetto sia trattato con tutti i diritti e il rispetto che spettano ai carcerati”) e da una coraggiosa e (lei vera) poliziotta della Digos di Milano, Cristina Villa, una delle artefici dell’arresto, che saggiamente l’ha gelato: “Catturare Battisti era il mio lavoro e l’ho fatto. Ma non brinderò mai alla tristezza altrui”. Emulo tragicomico di Salvini, Bonafede ha cercato di rubargli la scena postando sui media un video in cui lui Guardasigilli, indossata una giubba di guardia penitenziaria (ormai, una mania!), l’ha fatta da protagonista. Riproponendosi, con musichetta di fondo, nelle immagini girate all’aeroporto e commentandole con un’esultanza che ha imbarazzato persino i grillini. Per cui, vista la mala parata, ha tentato di giustificarsi: “Il video era un tributo alla polizia penitenziaria”, ha detto. Aggiungendo incautamente: “Domandate a qualsiasi cittadino se non era orgoglioso che due ministri fossero là”. Sono cittadino e, come milioni di italiani schifati, non posso non dirglielo: “Bonafede, mi vergogno di lei e di chi lo ha fatto ministro”. *Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II Maxi reclutamento per i magistrati ordinari e amministrativi di Antonello Cherchi e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2019 Rafforzamento in arrivo per i ranghi della magistratura ordinaria e amministrativa, i cui organici sono da anni in sofferenza: scoperture dell’11,4% per quelli delle toghe ordinarie e fino al 28% per i giudici dei Tar. La legge di bilancio ha previsto il reclutamento di 600 magistrati ordinari, che andranno ad aggiungersi agli oltre mille per i quali si stanno svolgendo, e in alcuni casi ultimando, le selezioni, mentre presso i Tar sono attesi 20 giudici e 12 al Consiglio di Stato. I nuovi ingressi dovrebbero riuscire a ridurre le scoperture e bilanciare il turn over. Resta, però, l’incognita delle possibili uscite causate da quota 100. I magistrati ordinari - Per rafforzare gli organici la manovra 2019 ha previsto l’assunzione di 600 giudici. Il primo bando (per 200 posti) dovrebbe partire quest’anno ma i benefici si vedranno fra circa 24-30 mesi: il tempo necessario per lo svolgimento della selezione e l’inserimento operativo. Già quest’anno un importante boccata d’ossigeno verrà invece dalla conclusione della tornata di concorsi voluti dal precedente ministro della Giustizia Andrea Orlando e banditi nel 2016-2017. Nel 2019 dovrebbero infatti essere effettuate 669 assunzioni per far fronte ai “vuoti” che attualmente, soprattutto nel Mezzogiorno (e a Bolzano), toccano il 18-20% delle presenze tabellari. A fine 2020 si concluderà anche il concorso bandito a ottobre scorso che porterà all’assunzione di altri 330 magistrati. Nelle previsioni del ministero della Giustizia, questa ondata di ingressi dovrebbe non solo compensare il turn over ma anche ridurre le carenze portandole, a livello nazionale, dall’attuale 11,4% al 3,8%. Una previsione che non tiene però conto di quota 100. Stime precise della platea dei magistrati che potrebbero utilizzare l’uscita anticipata non ce ne sono (si tratta inoltre di una scelta volontaria), ma l’impatto potrebbe essere rilevante. Attualmente i posti in organico sono 9.921 di cui 1.129 vacanti, ma la situazione territoriale non è uniforme. È soprattutto il Sud a soffrire maggiormente dei “buchi” che, secondo i dati del Csm raggiungono (per i magistrati giudicanti) il 19,8% a Potenza, il 19% a Taranto, il 16,8% a Reggio Calabria. A Potenza manca anche il 21,2% dei magistrati requirenti, a Palermo il 16,7%. Fuori dal Mezzogiorno la situazione è particolarmente grave a Bolzano, dove le scoperture sono del 19,7%: a giugno 2018 è stato indetto un concorso ad hoc per la provincia autonoma che prevede 11 assunzioni. La Manovra 2019 ha previsto anche la rideterminazione delle piante organiche demandandola a un decreto da emanare entro marzo. Per l’aumento di 600 giudici è previsto uno stanziamento di circa 720 milioni di euro dal 2020 al 2031. I magistrati amministrativi - Trentadue magistrati per rafforzare i ranghi di Consiglio di Stato e Tar, che da tempo registrano posti vacanti. In particolare presso i tribunali di primo grado, a fronte di un organico di 418 toghe quelle presenti sono 300. Più contenuta la sofferenza del Consiglio di Stato e del Consiglio della giustizia amministrativa della regione siciliana, che lamentano una carenza di 11 giudici su 122 in organico. Per far fronte alle scopertura la legge di bilancio ha previsto l’assunzione di 20 giudici presso i Tar e di 12 consiglieri di Stato. Misura che ha richiesto risorse per 44,4 milioni di euro per il periodo 2019-2026, mentre dal 2027 lo stanziamento diventerà a regime di 7 milioni l’anno. I nuovi ingressi hanno anche l’obiettivo di chiudere i processi pendenti e dare così un taglio all’arretrato, che negli ultimi anni è sceso in maniera considerevole, ma a inizio 2018 faceva comunque registrare circa 26mila cause in attesa presso il Consiglio di Stato e oltre 184mila davanti ai Tar. In questo senso va anche la recente decisione del neo-presidente di Palazzo Spada, Filippo Patroni Griffi, di trasformare la seconda sezione consultiva del Consiglio di Stato in sezione giurisdizionale. Le pendenze sono sicuramente addebitabili anche alla penuria di forze, in particolare presso i Tar, dove si registrano scoperture un po’ dappertutto, ma con situazioni particolarmente sensibili. Come quella del tribunale della capitale, dove dovrebbero essere presenti 83 giudici e invece ce ne sono 59 (compresi 6 fuori ruolo) o nel Tar Napoli (48 in organico e 39 in servizio). Con l’innesto dei venti nuovi magistrati la situazione andrà incontro a un parziale miglioramento, portando in futuro il grado di scopertura dall’attuale 28 al 23 per cento. Bisogna, però, mettere in conto che nel corso di quest’anno andranno in pensione otto magistrati Tar, per cui il saldo finale - considerando i tempi medio-lunghi dei concorsi - nell’immediato andrà a peggiorare. Al Consiglio di Stato, invece, le uscite nel 2019 saranno due. Dunque, l’arrivo di 12 consiglieri riuscirà a coprire quasi del tutto la pianta organica. C’è, però, da rilevare che a Palazzo Spada il 10% dei magistrati (12, di cui 9 presidenti di sezione) è fuori ruolo. Una quota che nei Tar è, invece, poco sopra il 2 per cento. Il luogo può integrare l’aggravante di minorata difesa nelle truffe online di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2019 Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 6 settembre 2018 n. 40045. Nella truffa commessa attraverso la vendita di prodotti online è configurabile l’aggravante della minorata difesa di cui all’articolo 640, comma 2, numero 2-bis, del Cp, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’articolo 61, numero 5, del Cp, abbia approfittato, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. Lo hanno detto i giudici della seconda sezione penale della Cassazione con la sentenza 40045/2018. La prova del concreto e consapevole approfittamento - Peraltro, dovendosi escludere la generalizzazione della ricorrenza dell’aggravante in tutti i casi di truffa online, che finirebbe con l’attribuire carattere “circostanziale” a una delle possibili modalità della condotta di truffa, è sempre a tal fine richiesta la prova del concreto e consapevole approfittamento, da parte del colpevole, delle opportunità decettive offerte dalla rete, non potendosi escludere che, nel singolo caso, la truffa sia realizzata bensì con lo strumento online, ma senza che ciò comporti una reale, specifica situazione di vantaggio per l’autore (fattispecie in materia cautelare, dove la Corte ha ritenuto congruamente motivata la ravvisata circostanza aggravante, attraverso la valorizzazione soprattutto del fatto che l’indagato aveva sempre occultato la propria identità agli acquirenti, utilizzando nei contatti via mail generalità incomplete). I precedenti giurisprudenziali - In termini, di recente Sezione II, 29 settembre 2016, Proc. Rep. Trib. Bergamo in proc. Cristea, secondo cui la distanza tra il luogo di commissione del reato da parte dell’agente e il luogo dove si trova l’acquirente è l’elemento che consente all’autore della truffa di porsi in una situazione di maggior favore rispetto alla vittima, di schermare la sua identità, di fuggire comodamente, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente. L’aggravante, si è così sostenuto, risulta integrata dalla distanza tra i suddetti luoghi, cui si aggiunge l’utilizzo di clausole contrattuali che prevedono il pagamento anticipato del bene venduto: circostanze di cui l’agente consapevolmente approfitta, e che qualificano la condotta illecita per la presenza di un quid pluris “esterno” rispetto agli artifici e raggiri del reato di truffa semplici, qui individuabili nel fatto che l’agente finge di vendere un bene che non ha o del quale non si vuole privare. In linea con queste premesse, qui la Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale il tribunale della libertà aveva invece esclusa l’aggravante e, per l’effetto, aveva respinto l’appello del pubblico ministero proposto avverso l’ordinanza del Gip che, a sua volta, aveva respinto la domanda cautelare in relazione a una pluralità di delitti di truffa contestati come aggravati dalla minorata difesa. Sempre in termini, ancor più di recente, Sezione VI, 22 marzo 2017, Proc. Rep. Trib. Sassari in proc. C., dove si è ribadito che nella truffa commessa attraverso la vendita di prodotti online è configurabile l’aggravante di minorata difesa, con riferimento al “luogo” del commesso reato, in quanto il luogo “fisico” di consumazione della truffa (individuabile nel luogo in cui l’agente consegue l’indebito profitto) in tal caso possiede la caratteristica peculiare costituita dalla distanza che esso ha rispetto al luogo ove si trova l’acquirente che del prodotto venduto, secondo la prassi tipica di simili transazioni, ha pagato anticipatamente il prezzo. Proprio tale distanza tra il luogo di commissione del reato da parte dell’agente e il luogo dove si trova l’acquirente è l’elemento che pone l’autore della truffa in una posizione di forza e di maggior favore rispetto alla vittima, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi comodamente alle conseguenze dell’azione: vantaggi, che non potrebbe sfruttare a suo favore, con altrettanta facilità, se la vendita avvenisse de visu. Tenuità, margini stretti su fisco e professioni di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2019 Esercizio abusivo della professione, occupazione di alloggi Ater ma anche reati fiscali, previdenziali e edilizi. Sono questi gli ambiti su cui, nelle sentenze più recenti, i giudici sono stati più severi dell’applicare la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. In particolar modo, in campo fiscale e previdenziale l’esimente è stata riconosciuta solo per scostamenti estremamente contenuti. L’istituto - Introdotta con il decreto legislativo n. 28 del 16 marzo 2015, la particolare tenuità del fatto (articolo 131bis del Codice penale) è un istituto di natura ibrida, operante sia come causa di non punibilità atipica, sia come motivo di improcedibilità ed esprime un bilanciamento di interessi la cui sintesi è affidata alla valutazione del giudice, che opera con ampio margine di discrezionalità. Sul versante processuale della disciplina, recenti pronunce affermano che la tenuità del fatto non rientra tra le cause di non punibilità che impediscono l’arresto previste dall’articolo 385 del Codice di procedura penale, poiché al giudice della convalida dell’arresto non compete il controllo circa la gravità indiziaria, le esigenze cautelari e l’apprezzamento sulla responsabilità, ma solo la verifica del rispetto dei termini di garanzia per l’arrestato previsti dagli articoli 386, comma 3, e 390, comma 1, del Codice di procedura penale e alla sussistenza dei presupposti che hanno legittimato l’ arresto (Cassazione 28522/2018). L’applicazione - Sul piano applicativo, le prime pronunce hanno riguardato casi di maltrattamento di animali, il tentato furto di articoli di modesto valore in un supermercato, alcune violazioni minori della legge fallimentare. Successivamente, l’istituto ha trovato spazio anche con riguardo ai reati contro la fede pubblica, contro l’incolumità pubblica, contro l’ordine pubblico, contro l’amministrazione della giustizia e contro la pubblica amministrazione. In linea di principio, l’istituto è, infatti, applicabile a tutti i reati (Cassazione, 40699/2016) e la casistica è, infatti, assai variegata, tanto dal punto di vista delle tipologie delittuose coinvolte, quanto su quello dell’apprezzamento delle caratteristiche del fatto concreto. Maglie strette - Una carrellata delle pronunce più rilevanti dell’anno in corso mostra un atteggiamento severo da parte della giurisprudenza in relazione a particolari casi, per i quali è stata negata la sussistenza della speciale causa di non punibilità, come le contravvenzioni previste dagli articoli 18, comma 1, lettera a) e 71, comma 1, del decreto legislativo 81/2008 (l’imprenditore non aveva nominato il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria e non gli aveva fornito le attrezzature idonee al lavoro da svolgere), l’esercizio abusivo della professione di avvocato o di dentista in assenza di abilitazione (trattandosi di condotte necessariamente abituali, il che esclude l’esimente in esame), l’occupazione abusiva reiterata di alloggi Ater, o il fatto dell’automobilista colto ubriaco di notte alla guida lungo un’arteria stradale ad alto scorrimento. Parimenti rigoroso è il vaglio sulla ricorrenza della particolare tenuità del fatto in materia fiscale (qui l’esimente viene riconosciuta solo se l’ammontare dell’imposta non corrisposta è di pochissimo superiore a quello fissato dalla soglia di punibilità) e previdenziale (si è esclusa la non punibilità per particolare tenuità del fatto se la soglia dei 10mila euro è superata di oltre il 5 per cento, anche in caso di plurimi omessi versamenti contributivi, dovendosi avere riguardo al debito complessivo annuo) o con riguardo agli abusi edilizi (costruzione di una nuova unità immobiliare anche se adiacente ad altra realizzata in zona sismica). Analoga severità è, altresì, dispiegata nel negare la particolare tenuità del fatto in caso di assunzione di più lavoratori privi del permesso di soggiorno (articolo 22, comma 12, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286). Aperture - Maggiori aperture si sono, invece, registrate in materia di ingresso e soggiorno illegale dello straniero, di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest (articolo186, comma 7, Codice della strada.) nonché in tema di reati fallimentari (in favore del titolare della ditta fallita che non tiene l’inventario se causa del dissesto non è la scarsa attenzione alla contabilità ma le somme non riscosse dall’assicurazione), di peculato d’uso commesso dal dipendente di una società partecipata per l’uso personale del telefono di servizio (in caso di chiamate brevi e limitate nel tempo). Ciò che pare emergere, in generale, è la prevalenza attribuita, nel vaglio giudiziale, all’importanza astratta dei valori in gioco e dei beni della vita posti in pericolo dalla condotta dell’imputato piuttosto che alla gravità intrinseca del danno e all’effettivo pericolo generato nel caso concreto. L’interesse a impugnare del pubblico ministero in ordine alle statuizioni civili Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2019 Impugnazioni - Disposizioni generali - Legittimazione ad impugnare - Pubblico ministero - Tutela interessi civili della parte privata - Esclusione. In tema di impugnazioni e di azione risarcitoria civile, deve escludersi che il pubblico ministero, legittimato a proporre impugnazione con ricorso per cassazione diretta a conseguire effetti favorevoli all’imputato, come si desume dall’art. 568, comma 4-bis, c.p.p. nel testo modificato dall’art. 1, d.lgs. n. 11/2018, sia legittimato a impugnare al solo fine esclusivo di tutelare gli interessi della parte privata, surrogandosi all’inerzia di quest’ultima. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 9 gennaio 2019 n. 769. Processo penale - Impugnazioni - Soggetti del diritto di impugnazione - Pubblico ministero. Il Pubblico Ministero, in quanto parte pubblica, ha interesse a impugnare anche per contrastare l’ingiustizia di provvedimenti, sia a tutela della funzione punitiva dello Stato, che a garanzia della posizione dell’imputato e della parte offesa e quindi, pur nell’ambito del processo accusatorio, può sostituirsi alle parti private, nella impugnazione dei provvedimenti, per contrastare provvedimenti emessi in violazione del principio di legalità o per far valere questioni di interesse pubblico. Lo stesso Pm non può, però, sostituirsi alla persona offesa per sindacare statuizioni ritenute pregiudizievoli degli interessi civili, essendo il suo intervento istituzionalmente indifferente alla sorte della pretesa patrimoniale, una volta assicurate le condizioni per l’esercizio del diritto all’inserimento dell’azione civile nel processo penale. (Nel caso in esame, la parte civile era rimasta acquiescente alla decisione della Corte d’appello di revocare le statuizioni civili: i motivi di tale acquiescenza sono stati ritenuti irrilevanti, in quanto riguardano il rapporto privatistico instaurato tra imputato e parte civile, al quale la parte pubblica è estranea). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 27 marzo 2018 n. 14174. Impugnazioni - Legittimazione del Pm all’impugnazione per il mutamento della formula assolutoria - Inerzia della parte civile - Surrogazione - Esclusione. L’azione del pubblico ministero - istituzionalmente indifferente alla sorte della pretesa patrimoniale, una volta assicurate le condizioni per l’esercizio del diritto all’inserimento dell’azione civile nel processo penale - non può surrogare l’inerzia della parte privata che, rimanendo acquiescente alla decisione sfavorevole, ha consentito il formarsi del giudicato sul punto, anche a norma dell’articolo 329 cod. proc. civ., applicabile pure nel rito penale. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 ottobre 2015 n. 43952. Impugnazioni - Soggetti del diritto di impugnazione - Pubblico ministero - Legittimazione - Interesse. L’interesse del Pubblico ministero a impugnare sussiste non ogni qualvolta sia ravvisabile la violazione o l’erronea applicazione della legge, ma quando risulti concreto e attuale per l’accusa l’interesse all’impugnazione, non presentando tali requisiti l’interesse a che le parti civili possano far valere le proprie pretese risarcitorie, in quanto il Pm, poiché è estraneo al rapporto processuale civile instauratosi incidentalmente nel processo penale tra i soggetti danneggiati dal reato e l’imputato, ed è perciò indifferente ai profili di soccombenza propri dell’azione civile risarcitoria, non è legittimato a impugnare un provvedimento all’esclusivo fine di tutelare gli interessi civili delle parti private, sostituendosi alle stesse in caso di loro inerzia. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 ottobre 2015 n. 43952. Impugnazioni - Soggetti del diritto di impugnazione - Pubblico ministero - In genere - Legittimazione del Pm all’impugnazione per il mutamento della formula assolutoria a favore degli interessi delle parti civili - Esclusione - Ragioni. È inammissibile l’impugnazione del pubblico ministero per il mutamento della formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” in quella “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, in quanto l’interesse del Pm a impugnare sussiste non ogni qualvolta sia ravvisabile la violazione o l’erronea applicazione della legge, ma quando risulti concreto e attuale per l’accusa l’interesse all’impugnazione. Non presenta tali requisiti l’interesse a che le parti civili possano far valere le proprie pretese risarcitorie, in quanto il Pm, poiché è estraneo al rapporto processuale civile è perciò indifferente ai profili di soccombenza propri dell’azione civile risarcitoria, non è legittimato a impugnare un provvedimento all’esclusivo fine di tutelare gli interessi civili delle parti private, né a surrogarsi all’eventuale inerzia delle stesse. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 2 marzo 2007 n. 9174. Sardegna: visita di Irene Testa alle carceri di Cagliari, Oristano e Nuoro sardegnalive.net, 21 gennaio 2019 La candidata a Garante delle persone private della libertà personale: “I detenuti vengono mandati nell’isola da tutta l’Italia, ma al contempo abbiamo un’eccezionale carenza di organico”. Martedì 21 e mercoledì 22 gennaio, Irene Testa, candidata a Garante delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna e membro della Presidenza del Partito Radicale, insieme a Maurizio Turco, Coordinatore della Presidenza del Partito Radicale, con altri esponenti del Partito Radicale locali e con esponenti dell’Unione delle camere penali, visiteranno gli istituti penali di Cagliari (Uta), Oristano (Massama) e Nuoro (Badu e Carros). Le carceri sarde hanno bisogno di un garante regionale dei detenuti. Il Consiglio regionale uscente, nonostante abbia pubblicato il bando per la selezione e nomina di questa figura, ha preferito non nominarlo. “Speriamo che sia uno dei primi atti del prossimo Consiglio - spiega Irene Testa. Oggi si parla del carcere di Oristano, balzato agli onori della cronaca per la reclusione di Cesare Battisti. La questione però è un’altra, e rappresenta un po’ una vergogna per la Sardegna, regione che invece potrebbe rappresentare un esempio di buona detenzione con le esperienze delle Colonie penali agricole, tre delle quattro attive in Italia ricadono sul territorio regionale. In Sardegna c’è un numero elevato di istituti, con detenuti che vengono mandati nell’isola da tutta l’Italia, ma al contempo abbiamo un’eccezionale carenza di organico e tipologie particolarmente critiche di detenuti rispetto alle altre regioni: dall’alta sorveglianza, al 41 bis, ai detenuti terroristi di matrice islamica. Questi ultimi parlano una lingua spesso incomprensibile per i nostri operatori, mentre sono insufficienti - quando non del tutto assenti - figure professionali come gli interpreti”. “Nel carcere di Bancali (Sassari) - dice la candidata a Garante delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna e membro della Presidenza del Partito Radicale - si sconta la pena nei sotterranei dell’istituto, in assenza di luce e aria naturale e di ogni tipo di comunicazione con il mondo esterno. È altissimo il numero di giovani malati psichiatrici detenuti nelle carceri sarde, che non riescono ad accedere alle Rems (residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza), poiché l’unica struttura di questo tipo, nel Comune di Capoterra, può ospitare solo una quindicina di pazienti”. Le carceri isolane avrebbero bisogno di più attenzione e di maggiori interventi, sia da parte delle istituzioni nazionali, sia da parte della Giunta e del Consiglio regionale. “Con il Partito Radicale - conclude Irene Testa - continueremo a visitare gli istituti di detenzione, in Sardegna come in tutta Italia, e ad accendere un faro di allarme là dove le cose non funzionano, come cittadini e come militanti dello Stato di Diritto”. Napoli: carceri sovraffollate, il record a Poggioreale, +40,2% di detenuti Il Mattino, 21 gennaio 2019 La capienza delle carceri negli ultimi 10 anni è aumentata del 17,4% ma il problema del sovraffollamento non è stato risolto. Anzi. Nel 2018 è i detenuti in esuberò erano il 17,9% (59.655 persone per una capienza di 50.581 posti). È quanto emerge dai dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, elaborati dall’Adnkronos. Rispetto al 2015, quando è stato toccato il picco minimo del 5,2% di carcerati in eccesso rispetto al numero dei posti disponibili, la situazione è notevolmente peggiorata confermando per il terzo anno consecutivo un incremento del gap (8,8% nel 2016 e 14,1% nel 2017). Il carcere con il maggior numero di detenuti nel 2018 è Poggioreale, in Campania, che ospita 2.296 persone; rispetto alla capienza di 1.638 risulta un sovraffollamento del 40,2%. Al secondo posto Rebibbia, nel Lazio, con 1.505 carcerati per una capienza di 1.167 posti (29% di esuberi); segue Le Vallette nel Piemonte con 1.398 detenuti per 1.062 posti (+31,6%) e il carcere Opera in Lombardia con 1.351 detenuti e 918 posti (+47,2%). I dati relativi agli ultimi anni vanno letti tenendo conto della legge introdotta nel 2010 sull’esecuzione domiciliare delle pene, che ha consentito di scontare presso la propria abitazione (o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza) la pena detentiva non superiore a 18 mesi. Proprio in quell’anno è stato raggiunto il picco massimo, di 67.961 persone ospitate da strutture con una capienza di 44.073, pari al 54,2% di presenze in eccesso rispetto ai posti disponibili. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia, aggiornati al 31 dicembre 2018, a beneficiare della norma sono state 24.782 persone. Con il decreto legge semplificazioni è previsto un piano straordinario di edilizia penitenziaria, che prevede la realizzazione di nuove strutture carcerarie e la manutenzione o la ristrutturazione di quelle già esistenti. Per l’anno 2018 era previsto uno stanziamento di 26 milioni che salgono a 30 milioni per quest’anno e il prossimo. È inoltre assegnato un importo complessivo, all’amministrazione penitenziaria, pari a 185 milioni di euro nel periodo 2018-2033. Rispetto al passato di registra un’inversione di tendenza: i tecnici del Senato ricordano che dal 2001 le leggi finanziarie non hanno stanziato risorse aggiuntive e, nel 2005, è stata addirittura prevista una riduzione di 20 milioni di euro. Cuneo: detenuti innescano incendio in carcere di Matteo Borgetto La Stampa, 21 gennaio 2019 Al Cerialdo di Cuneo, per protesta per la presunta morte di un detenuto, che invece era stato salvato dalle guardie dopo il tentativo di suicidio. Una violenta protesta, poi un principio incendio nel carcere di Cuneo, innescato da alcuni detenuti, convinti che un loro compagno fosse morto suicida. È accaduto sabato sera alla terza sezione della Casa circondariale di frazione Cerialdo, dove i reclusi hanno lanciato bombolette di gas e hanno dato fuoco a carta, lenzuola e coperte. In realtà, il detenuto ha tentato di togliersi la vita, ma è stato salvato dalle guardie carcerarie, subito intervenute, insieme agli agenti del gruppo operativo mobile. La protesta è rientrata, dopo una lunga trattativa, intorno all’una e mezza di notte. Agenti feriti - Alcuni agenti con lievi ferite sono stati medicati al Pronto soccorso del “Santa Croce” di Cuneo. “La voce della morte dell’uomo - spiega Donato Capece, segretario generale Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, era stata diffusa da un altro detenuto. Il tempestivo intervento dei poliziotti, con grande senso di responsabilità coraggio e professionalità, ha permesso di evitare più gravi e tragiche conseguenze”. Il segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, Leo Beneduci: “L’episodio dovrebbe far riflettere le autorità politiche del ministero della Giustizia e l’intero Governo sulle condizioni gravemente critiche e senza ritorno del sistema penitenziario italiano, nonché rispetto ai crescenti rischi e all’assenza di qualsiasi forma di tutela del personale di Polizia penitenziaria”. “Soprattutto - prosegue - in distretti quali quello del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, dove da tempo manca una qualsiasi forma di attenzione”. Lanciano (Ch): “Togliamoci la maschera”, il teatro contro il pregiudizio di Andrea Rapino Il Centro, 21 gennaio 2019 Sul il sipario della rassegna del carcere di Lanciano che chiuderà al Fenaroli. Il curatore Marino: “Per i detenuti il palco è un riscatto, non sono animali feroci”. Si alza il sipario sulla rassegna teatrale Togliamoci la maschera, una serie di cinque spettacoli che arricchisce la stagione del Fenaroli di Lanciano. Un arricchimento che non è solo numerico, ma anche di qualità dal punto di vista umano e sociale, perché coinvolge i detenuti del carcere di Villa Stanazzo. In quello che è stato ribattezzato “Piccolo Fenaroli”, dentro l’istituto di pena, si fanno i primi quattro spettacoli, sempre di domenica alle 16 (oggi, il 3 febbraio, il 10 e 31 marzo, il 14 aprile). Li portano in scena l’associazione culturale Il Ponte in collaborazione con Teatro Studio di Lanciano e Teatro Studio di Vasto. In quello conclusivo del 26 maggio invece reciteranno i detenuti che, durante l’anno, seguono le lezioni di recitazione di Carmine Marino, direttore artistico de Il Ponte e curatore della rassegna. Marino, come è nata e come si è sviluppata questa “avventura” in carcere? L’anno scorso sono stato invitato per un progetto con una decina di detenuti, che comportava la messa in scena di una riduzione della commedia di Eduardo Scarpetta “Il medico dei pazzi”. Abbiamo fatto una decina di repliche, una delle quali al collegio Celimontano di Roma. Oggi a Villa Stanazzo esiste un gruppo di teatranti che possiamo considerare una sorta di filiale dell’associazione Il Ponte. Il suo primo impatto com’è stato? Non facile, diciamo pure duro. Poi è nato un rapporto di fiducia, di confidenza di collaborazione. Anche loro all’inizio erano tutti un po’ diffidenti, ma in seguito si è creato feeling. Molto ha contribuito il fatto che i detenuti coinvolti sono napoletani, e quella vena artistica insita nella napoletanità ha favorito lo sviluppo del progetto teatrale. Che cosa dà il teatro ai reclusi? Un’opportunità di riscatto, quasi di rivincita, la possibilità di rimettersi in gioco. E poi aiuta a entrare in sintonia persone che magari prima non andavano d’accordo, ma che sul palco collaborano e si sostengono. Inoltre arricchisce culturalmente i detenuti, e gli consente di entrare in contatto con chi vive fuori dal carcere. Perché la rassegna si chiama “Togliamoci la maschera”? Chi incontra i carcerati deve togliersi la maschera del pregiudizio secondo il quale chi sconta una pena è una sorta di animale feroce in gabbia: non è assolutamente così, dietro le sbarre ci sono semplicemente uomini, che spesso hanno bisogno di una stretta di mano, di un sorriso, di due chiacchiere. E poi c’è la maschera che devono togliersi i reclusi: devono smascherare la vita passata, e rieducarsi al bene, alla legalità e alla socialità. Che spettacoli vanno in scena al “Piccolo Fenaroli”? Alcuni più sul comico, altri drammatici. Visto che iniziamo in prossimità del Giorno della Memoria, si parte con “Tiergartenstrasse 4”, pièce dolcissima e tragica ambientata negli anni 40 ad Amburgo, che racconta l’incontro tra un giovane disabile mentale e l’infermiera nazista mandata a verificarne le condizioni per sottoporlo al programma che ne prevedeva l’eliminazione: un incontro che si trasforma in un’amicizia profonda. Ci sarà un ultima data molto particolare... Già, perché mentre durante la rassegna siamo noi a entrare in carcere per recitare di fronte ai detenuti, nell’ultimo appuntamento loro usciranno per salire sul palco del Fenaroli vero: il 26 maggio con “L’avaro” di Molière, lo spettacolo al quale lavoriamo quest’anno con un appuntamento a settimana. In carcere non è facile portare il pubblico: chi e come può assistere? Possono venire a vederci alcuni detenuti e una ventina di esterni. Chi è interessato può informarsi da Partymania in via Montegrappa a Lanciano. Per l’ingresso non chiediamo un vero biglietto, ma un contributo-offerta il cui ricavato sarà destinato interamente alla ristrutturazione del “Piccolo Fenaroli” per rifare palco, audio e luci. Ci sarà una seconda edizione di “Togliamoci la maschera”? Lo spero, perché questa per me sta diventando una seconda casa. Una mattina, prima di andare in carcere, un amico mi fece i complimenti perché andavo a portare qualcosa lì dentro; risposi istintivamente che non andavo a dare ma a prendere: è vero che io lì do lezioni di teatro, ma è altrettanto vero che questa è un’esperienza umana dalla quale si riceve tanto. Migranti. Quel cimitero in mare: affidarsi alla Libia è una partita mortale di Franco Venturini Corriere della Sera, 21 gennaio 2019 Giusto intervenire in Africa ma i risultati si avranno dopo anni. Nel frattempo si potrebbe dare la caccia ai basisti che i trafficanti di carne umana hanno in Italia. Una strage nella notte tra venerdì e sabato, ieri altri morti al largo di Misurata, eppure questo Mediterraneo trasformato in cimitero commuove sempre di meno, lascia spazio semmai a una lugubre assuefazione e persino al cinismo di un ministro che ama troppo le battute. Le sembra opportuno, ministro Salvini, dire proprio ieri che “meno persone partono, meno persone muoiono”? Non è nemmeno vero, di questi tempi i migranti diminuiscono e le morti aumentano. Oggi si riunisce a Bruxelles il consiglio Affari generali. Temi in discussione: Venezuela, Siria, Yemen, Repubblica Democratica del Congo. Soltanto domani si parlerà di Africa in una riunione di routine e il ministro Moavero potrà chiedere più aiuti dall’Europa. Ma questa è una Europa che non capisce come i flussi migratori siano per lei l’unico vero pericolo di distruzione. Matteo Orfini, del Pd, dice una cosa giusta: non bisogna affidarsi alla Libia. La critica investe dunque anche il collega Minniti, come investe la linea di Salvini. L’avete sentito, quel grido di un sopravvissuto “meglio morti che in Libia”? Non sappiamo come lì vengono trattati e torturati gli aspiranti migranti? E non sappiamo in che stato è la Libia, non sappiamo che a Tripoli si spara, abbiamo il coraggio di parlare della conferenza di Palermo? La Libia è perduta, e per questo va fermata o almeno isolata dalle vie del Sahel, cosa che i nostri militari contribuiscono a fare nel Niger. Ma bisogna allargare il raggio d’azione. Il presidente del Parlamento europeo Tajani dice che bisogna intervenire in Africa con un massiccio piano di investimenti. Giusto, anche se per vederne i frutti servirebbero molti anni e nel 2050 l’Africa avrà due miliardi e mezzo di abitanti. Nell’attesa si potrebbe dare la caccia ai basisti che i trafficanti di carne umana hanno in Italia, e modificare le lungaggini giuridiche che ci impediscono di effettuare rimpatri. Non in Libia, però. Basterà ad evitare i morti? No. Ma almeno avremo tentato di fare qualcosa, senza nasconderci dietro la chiusura dei porti. Migranti. Conte chiama Tripoli. E un cargo riporta i 100 migranti in Libia di Marta Serafini e Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 21 gennaio 2019 Un altro barcone in pericolo. Poi l’arrivo di una nave della Sierra Leone Il Papa: dolore per le 170 vittime, prego per loro e per chi è responsabile. Il cargo “Lady Sharm” è arrivato giusto in tempo, alle dieci di sera, quando i 100 profughi sul barcone alla deriva al largo di Misurata temevano ormai di essere spacciati. Ma Giuseppe Conte, per tutto il giorno da Palazzo Chigi, ha premuto perché Tripoli intervenisse. Prima i libici hanno risposto di non avere motovedette. Il premier, attraverso l’intelligence, ha continuato ad insistere. Infine ha convinto le autorità di Tripoli - che avevano già salvato altri 150 migranti su due gommoni - a inviare in zona il mercantile battente bandiera della Sierra Leone, la “Lady Sharm”, per iniziare le operazioni di trasbordo. “I naufraghi andranno a Tripoli”, il tweet a tarda sera del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Esattamente dove chiedono di non andare per il terrore di essere chiusi nei centri di detenzione. La mossa di Sea Watch - La tragedia è stata evitata, dopo i due naufragi e i 170 morti complessivi con cui si è aperto il 2019. L’Sos era stato lanciato ieri mattina alle 10. La nave della Ong tedesca Sea Watch, coi “suoi” 47 migranti a bordo già soccorsi due giorni fa al largo di Tripoli, era in attesa di un segnale dall’Ue per avere un porto dove attraccare. Poi, però, è arrivato quell’Sos disperato: “Presto, veniteci a salvare”. Era il grido d’aiuto proveniente dall’imbarcazione a 60 miglia dalle coste di Misurata. La voce al telefono descriveva scene terribili: un bimbo sul ponte apparentemente morto, diversi migranti in stato d’ipotermia. E poiché dalla capitaneria di Tripoli sembrava proprio che non si muovesse nessuno, Sea Watch era partita senza indugi: “Andiamo noi, ormai nel Mediterraneo siamo rimasti da soli”. Un viaggio di 15 ore verso quelle 100 nuove vite da salvare. Intanto, però, c’erano state le parole del Papa all’Angelus dedicate alle ultime due stragi nel Mediterraneo: “Penso alle 170 vittime, cercavano un futuro, vittime forse di trafficanti di esseri umani. Preghiamo per loro e per chi ha responsabilità di quello che è successo”. Su “quelli che hanno la responsabilità” indagano ora la Procura militare di Roma e quella ordinaria di Agrigento. La competenza dei soccorsi, per il naufragio al largo di Garabulli che ha fatto 117 morti, era libica, ma dopo molte ore è intervenuto un elicottero della Marina per i tre sopravvissuti. “In galera gli scafisti” - Per i nuovi 100 in pericolo ieri si era levato l’appello di Save the Children: “Scongiurate un’altra tragedia”. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, non ha cambiato idea: “Bisogna mettere in galera gli scafisti. Devono avere la certezza che i porti italiani sono chiusi: è l’unico modo per salvare vite umane. L’anno scorso di migranti ne sono arrivati di meno e ne sono morti di meno”. Immigrati, sono una cosa positiva soltanto per il 30% degli italiani di Giuliana Ferraino Corriere della Sera, 21 gennaio 2019 Contro il 56% della media globale secondo un sondaggio del World Economic Forum. In Germania la percentuale è del 48% e in Francia del 39%, nel Regno Unito sale al 60% e negli Usa al 63%. Il pessimismo sulla mobilità sociale e la fine del sogno americano. E per l’ambiente tutti vogliono più tasse contro chi inquina. L’Italia è la nazione più impaurita del mondo davanti all’immigrazione: soltanto il 30% dei cittadini pensa che i nuovi immigranti siano per lo più un fattore positivo per il Paese. Meno dei russi (32%) e dei polacchi (33%), in fondo alla classifica del sondaggio “Globalization 4.0, The Human Experience”, pubblicato alla vigilia del World Economic Forum, che viene inaugurato ufficialmente lunedì pomeriggio a Davos. A dispetto del presidente Donald Trump, che proprio sull’immigrazione e l’intenzione di costruire un muro tra Usa e Messico finanziato dai contribuenti ha “chiuso” il governo federale per il periodo più lungo della storia, gli Stati Uniti sono invece tra i Paesi più ottimisti verso gli immigrati: il 63% degli americani li percepisce come una cosa fondamentalmente buona. Dal sondaggio, realizzato a livello globale dal Wef in collaborazione con Quantrics su un campione di oltre 10 mila tra il 4 e il 17 gennaio in 29 Paesi, in realtà emerge che la maggioranza del mondo rifiuta il populismo e ha fiducia nella cooperazione internazionale. L’80% degli intervistati in tutto il pianeta ritiene infatti che tutti i Paesi possano migliorare contemporaneamente, respingendo l’idea che il miglioramento nazionale sia un gioco a somma zero. Dopo il Sudest asiatico, con in testa India (78%) e Cina (70%), il Nord America è la regione del mondo psicologicamente più “aperta” verso gli immigrati, anche grazie al Canada, dove il 72% della popolazione vede l’immigrazione con favore. L’Europa è invece l’area del mondo più ostile all’immigrazione: contro una media globale del 56% che vede i nuovi immigrati come una cosa buona per il proprio Paese, la percentuale scende al 48% in Germania e al 39% in Francia, ancora più in basso in Italia, Polonia e Russia. Sopra la media invece Spagna (58%) e Regno Unito (60%), con buona pace della Brexit, votata anche per la paura dell’immigrazione. L’Europa occidentale svetta anche per il pessimismo verso al mobilità sociale, uno dei numerosi temi, dalla tecnologia all’istruzione, dal lavoro all’ambiente fino al multilateralismo, affrontati dal sondaggio del Wef. Solo il 20% in media degli intervistati pensa che sia estremamente comune o piuttosto comune per qualcuno essere nato povero e diventare ricco attraverso il duro lavoro. In Italia ci crede solo il 16%, in Spagna appena il 13%, in Germania il 18% e in Francia il 23%. Ma il “sogno americano” perde consensi anche negli Usa, dove soltanto un terzo della popolazione (36%) continua a credere che si possa diventare ricchi se si lavora duramente. Per trovare più ottimismo bisogna guardare a Oriente, all’India (69%), al Pakistan (57%),all’Indonesia (54%) e lla Bangladesh (51%). Oppure verso Arabia Saudita (63%) ed Egitto (55%). Sulla sostenibilità, il 54% della popolazione dichiara di avere “molta” fiducia in ciò che dicono gli scienziati del clima. Ma la regione del mondo in cui la maggior parte degli intervistati ha poca o nessuna fiducia negli scienziati del clima è il Nord America, solo il 17% risponde positivamente. Ma, a sorpresa, una grandissima maggioranza in tutto il mondo giudica con favore di una “carbon tax” per tassare chi inquina. In Nord America è favorevole addirittura il 78% degli intervistati, percentuale identica all’Europa occidentale. Sul multilateralismo, l’83% degli intervistati negli Stati Uniti crede che tutti i Paesi possano migliorare contemporaneamente allo stesso tempo, rispetto al 35% del Giappone o al 65% della Francia. Ma quando si tratta di considerare i vantaggi personali che derivano dalla cooperazione internazionale negli Usa gli ottimisti si riducono al 68%, come in Italia, rispetto all’80% dei cinesi. Ma Germania (56%) e Francia (44%) le persone appaiono ancora più sfiduciate. Migranti. Il dossier di Human Rights Watch: “Libia un inferno senza uscita” di Fabrizio Gatti La Repubblica, 21 gennaio 2019 La denuncia dell’associazione: “Lì abusi e terrore che proprio le politiche dell’Italia e dell’Ue hanno contribuito a creare”. “Un inferno senza uscita”. Questa è la condizione dei migranti in Libia. La stessa che si troveranno a vivere di nuovo anche i cento salvati la scorsa notte, dopo un soccorso lanciato solo per le pressioni di Palazzo Chigi, ora diretti a Misurata. Ma un dossier di Human Rights Watch ricorda a tutti la grande ipocrisia dell’Europa: fingere che la Libia offra condizioni dignitose ai migranti. No, in quel Paese c’è “un ciclo estremo di abuso che proprio le politiche dell’Italia e dell’Ue hanno contribuito a creare”. Human Rights Watch documenta i gironi di questo inferno. Una grave sovrappopolazione carceraria, mancanza di igiene, malnutrizione, assenza di cure sanitarie adeguate. “Gravi violenze sono state registrate in quattro centri di detenzione nell’ovest del Paese, incluse percosse e frustate”. Non sono deduzioni, non sono notizie di seconda mano ma il risultato delle ispezioni condotte sul campo. Che hanno messo in luce la situazione disperata in cui sopravvivono decine di bambini, compresi alcuni neonati, “costretti in locali spartani e inadeguati in tre dei quattro centri visitati”. Quelle piccole vittime non sono un’eccezione: il 20 per cento degli arrivi totali in Europa dalla Libia è rappresentato da bambini. “Migranti e richiedenti asilo detenuti in Libia, anche bambini, sono intrappolati in un incubo - afferma Judith Sunderland, condirettrice per l’Europa di Hrw - e i governi dell’Ue non fanno che perpetuare questo stato di cose, invece di sottrarre i migranti agli abusi”. “Mettere toppe per migliorare le condizioni in cui si trovano - aggiunge - non assolvono l’Ue dalla responsabilità di aver consentito in prima battuta un sistema barbaro di detenzione”. Alla denuncia dell’organizzazione umanitaria, la Commissione europea ha risposto che “il suo dialogo con le autorità libiche è concentrato sul rispetto dei diritti umani di migranti e rifugiati. Ci sono stati concreti miglioramenti, pur permanendo altre sfide”. Ma parlare di autorità libiche è un eufemismo. Tutta la Cirenaica, da dove partono i barconi verso l’Europa, è nel caos. Persino a Tripoli si è combattuto per l’intera scorsa settimana, con lanci di razzi e cannonate che hanno ucciso tredici persone e lasciato a terra 52 feriti. Il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite appare sempre più fragile, sgretolato dalle faide interne. E nel Paese c’è un solo potere: quello delle milizie. Le stesse che spesso si arricchiscono con il doppiogioco: gestiscono il traffico di migranti e poi incassano gli aiuti europei per fermarlo. Aprono e chiudono il rubinetto degli imbarchi secondo il loro tornaconto, trattando gli esseri umani come merce da sfruttare al massimo. “Le milizie hanno terrorizzato sia i libici che i migranti mentre nessuna autorità osa tenergli testa ed assicurare giustizia”, ha detto Hanan Salah, ricercatrice esperta sulla Libia a Human Rights Watch. Migranti. Perché sono riprese le partenze dall’Africa di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 21 gennaio 2019 Una forma di pressione forte nei confronti dell’Europa che non sembra più disposta a fornire aiuti e un tentativo di alzare la posta rispetto all’Italia che non ha mantenuto le promesse. Sembra essere questo il motivo che spinge i libici ad allentare ulteriormente i controlli sulle coste e soprattutto ad ignorare le richieste di aiuto che arrivano da chi si trova già in mare. I trafficanti non hanno mai smesso di riempire i barconi di uomini, donne e bambini disposti a tutto pur di fuggire dalla Libia. Prova ne sia che dopo il muro alzato dall’Italia con la chiusura dei porti e le minacce di Matteo Salvini nei confronti delle Ong, sono aumentati gli sbarchi in Spagna. Ma nei mesi scorsi le autorità di Tripoli avevano assicurato di voler effettuare pattugliamenti, quantomeno si erano impegnate a salvare chi si trovava in navigazione e rischiava il naufragio. Ora tutto è di nuovo cambiato. Le motovedette spesso non intervengono, quando c’è un’emergenza fanno sapere di aver chiesto aiuto ai cargo che si trovano nell’area e si giustificano sostenendo di avere i mezzi in avaria. Un modo che probabilmente serve a ribadire il mancato impegno dell’Italia per mezzi navali, macchine, ambulanze, apparecchiature che dovevano essere consegnati a partire dal 2018 e invece non sono arrivati. Basti pensare che non sono state trasferite nemmeno le dieci barche che il ministro dei Traporti Danilo Toninelli aveva annunciato di aver regalato ai libici nel luglio scorso. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, è fin troppo chiaro che il dialogo con i libici avviato dall’Italia prima dell’arrivo di questo governo per gestire insieme il problema dei migranti a condizione che fosse garantito il rispetto dei diritti umani, è definitivamente interrotto. Roma ha dimostrato di non avere alcuna preoccupazione rispetto al destino degli stranieri che si trovano in Africa e di quelli che lì vengono riportati dopo essere stati soccorsi. E questo evidentemente spinge gli stessi libici a far esplodere nuovamente l’emergenza nel tentativo di poter presentare nuove richieste o comunque ottenere risposte su quelle già presentate. Compresa l’autostrada che deve attraversare l’intero Paese e che è diventata la più forte arma di ricatto sin da quando a palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi e a Tripoli comandava il colonnello Gheddafi. Dai preti rapiti alla volontaria, il rebus degli italiani scomparsi di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 21 gennaio 2019 Il caso più recente: la cooperatrice Romano sequestrata in Kenya, trattativa al palo. Ancora giallo sulla sorte dei tre napoletani in Messico: le speranze ridotte al lumicino. Mentre si cerca di riportare a casa Luca Tacchetto, scomparso in Burkina Faso, ci sono altri otto italiani nel mondo che ancora non sono rientrati in patria. C’è chi è stato rapito dall’Isis o da al-Qaeda, ma anche chi ha fatto misteriosamente fatto perdere le proprie tracce. Casi irrisolti, ma su cui resta alta l’attenzione della Farnesina, dell’intelligente e delle forze dell’ordine. Il caso più recente riguarda il rapimento di Silvia Romano, giovane cooperante prelevata dal suo villaggio di Chakama, in Kenya, dove si trovava per portare avanti il progetto Africa Milele Onlus. Non sono state perse le speranze di riportare Silvia in Italia e la polizia keniota è stata sin da subito molto attiva collaborando con le autorità italiane. È stato arrestato uno dei tre rapitori insieme ad almeno un centinaio di persone ritenute informate dei fatti o coinvolte nel sequestro mentre altri due indiziati sono ancora in fuga. L’italiana è stata rapita lo scorso 20 novembre in una zona a ottanta chilometri da Malindi, da due mesi la sua famiglia è in ansia aspettando la sua liberazione per cui si sta lavorando a testa bassa con il massimo riserbo. A settembre fu la volta di Padre Luigi Maccallí, religioso appartenente alla Società delle missioni africane (Sma). Il sacerdote è stato preso in Niger da presunti jihadisti attivi nella zona. Padre Maccalli è stato più volte in Africa, missionario in Costa d’Avorio per diversi anni, è originario della diocesi di Crema. Al momento del rapimento il prelato era nella sua parrocchia di Bomoanga nei pressi della capitale nigerina di Niamey. Le speranze di ritrovarlo vivo non sono ancora svanite. Si protrae invece da quasi sei anni la storia di Padre Paolo Dall’Oglio. Del gesuita italiano non si hanno più notizie dal luglio 2013, quando fu rapito nella zona di Raqqa, in Siria, dove avrebbe dovuto incontrare un esponente dell’Isis per negoziare la liberazione di un prigioniero. Dall’Oglio, 64 anni, ha vissuto per quasi trent’anni in Siria, ed è conosciuto per aver rifondato la comunità monastica cattolico-siriaca di Mar Musa. In passato sono state diffuse notizie contrastanti sul suo conto, quando un mese dopo il suo rapimento venne annunciata la sua morte, l’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino, non fu in grado di smentire o confermare la notizia. Ovviamente il tanto tempo trascorso rende molto complesso tenere vive le speranze per una felice risoluzione del caso. Tra i rapiti nelle mani di al-Qaeda ci sarebbe anche il 32enne bresciano, Alessandro Sandrini. L’uomo è sparito nell’ottobre del 2016 dopo essere partito per una vacanza in Turchia dalla quale non ha fatto più ritorno. Da allora quattro telefonate, l’ultima nel gennaio dello scorso anno, in cui chiedeva aiuto. A luglio Sandrini comparve in un video in cui indossava la solita tuta arancione, utilizzata dagli estremisti islamici per i rapiti, con due uomini che gli puntavano un mitra contro. Secondo l’agenzia americana Site, l’italiano sarebbe stato preso da un gruppo che aveva tra le mani anche il giornalista giapponese Jumpei Yasuda, il nipponico è stato liberato lo scorso ottobre e si spera uguale sorte per Sandrini. Il caso più particolare è quello che riguarda Sergio Zanotti, imprenditore bresciano, scomparso nell’aprile del 2016 mentre si trovava in una località al confine tra la Siria e la Turchia. Il Mattino entrò in contatto con i presunti rapitori dell’uomo, mettendo a disposizione delle autorità italiane le conversazioni intercorse con la persona che asseriva di essere il jihadista autore del rapimento. Al nostro giornale furono inviati video con richieste di aiuto da parte di Zanotti e alcune immagini tra cui la foto del passaporto dell’uomo. In tutti í messaggi l’italiano e il presunto aguzzino avevano chiesto l’intervento del governo per evitare una sua eventuale esecuzione. Da almeno un anno non se ne sa più nulla e la notizia del suo effettivo rapimento non è mai stata confermata né smentita dalle autorità italiane che sono comunque in contatto con la famiglia dell’uomo. Complesso anche il caso dei tre napoletani rapiti in Messico un anno fa. Si tratta di Raffaele Russo, 60 anni, suo figlio Antonio, 25 anni, e suo nipote, Vincenzo Cimmino, 29 anni. I tre napoletani sono scomparsi dopo essere stati fermati dalla polizia in una stazione di servizio a Tecalitlan, nello Stato messicano di Jalisco, il 31 gennaio 2018. Si ritiene che proprio questi agenti avrebbero venduto i tre italiani a un gruppo criminale. Le speranze di un loro ritrovamento sono purtroppo ridotte al lumicino, ma le autorità sono al lavoro su questo caso come per tutti gli altri.