Ecco perché serve parlare di corruzione di Raffaele Cantone e Enrico Carloni* La Repubblica, 20 gennaio 2019 Pochi giorni fa l’Eurispes ha presentato un’indagine ed uno studio compendiato in un saggio che propone un’immagine dell’Italia tutto sommato confortante sul versante della corruzione “reale”. Un Paese meno corrotto di quanto si consideri, vittima di quello che viene chiamato il paradosso di Trocadero: “Più si perseguono i fenomeni corrottivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno”. In questo senso, la stessa azione della magistratura e dell’Autorità anticorruzione rischierebbe, dunque, di alimentare una “rappresentazione” che non corrisponde al dato reale: quello di un paese con evidenti criticità, ma meno di quanto appaia nella percezione diffusa. Saremmo in sostanza vittima di una errata percezione di noi stessi: “L’85% dei cittadini è convinto che i livelli di malaffare siano alti, ma non ha vissuto episodi sulla propria pelle né su quella dei familiari”. Il rischio, tutto italiano, di un’eccessiva tendenza all’autocritica, è un dato sicuramente da non sottovalutare. Questo, però, non deve farci trascurare i problemi, o sottovalutarne la portata. Si possono condividere, in particolare, alcune critiche alle classifiche ed alle “misurazioni” della corruzione basate sulla percezione, come il noto “Corruption Perception Index” di Transparency International nel quale l’Italia occupa tradizionalmente una delle ultime posizioni tra i paesi dell’Unione europea. Però bisogna stare attenti a trarne le giuste conseguenze, non sottovalutando che quello di Transparency è un indice considerato abbastanza attendibile dalla letteratura scientifica in materia, e, soprattutto, utilizzato ampiamente dagli operatori economici internazionali. Se guardiamo, del resto, ai dati dello stesso indice, va detto infatti che non pare essere l’enfasi sul contrasto alla corruzione a farci apparire più corrotti di quanto siamo: basta dire che da quando in Italia sono state avviate numerose indagini giudiziarie ed è stata sviluppata una politica più attenta di prevenzione, la “percezione” del paese è migliorata e l’Italia ha segnato un miglioramento proprio nelle classifiche di Transparency International. Cinquantesima nell’ultima classifica, l’Italia era 60° nel 2016, addirittura 69° nel 2013. Al contrario, proprio mentre di anticorruzione si parlava meno nel dibattito pubblico, l’Italia precipitava nello stesso indice (39° nel 2000, 45° nel 2006, 67° nel 2010). Dire, quindi, che nel nostro Paese la corruzione è maggiormente percepita perché se ne parla di più, e che in sostanza il dibattito alimenta la percezione del male, è un dato messo in discussione dai fatti: è proprio quando i cittadini avvertono un’azione “contro” la corruzione che si assiste a un miglioramento anche sul fronte della sua percezione. Questo, non per rivalutare oltre misura il valore della “percezione” della corruzione: si può condividere anzi il rischio, di cui parla Eurispes, di un clima di opinione nel quale la “percezione” può essere non fondata ed aumenta la distanza tra “ciò che sembra” e ciò che è. Piuttosto, per suggerire di leggere con attenzione tutti i dati, dati che nel loro complesso non sembrano consentire letture semplicistiche o troppo ottimistiche: il problema esiste, è molto complicato, richiede una strategia di contrasto e prevenzione costante ed insistita. Rispetto a questo l’idea di un “falso problema” alimenta miraggi e può portarci fuori strada. Insomma, se, in termini positivi, va colta l’attenzione, crescente, al tema, ed anche la sempre maggiore disponibilità di dati e di analisi, il rischio, però, è quello di ricadere nell’errore di sottovalutare il fenomeno. Così come si è fatto tante volte, quando si è posto troppo affidamento sui dati giudiziari, che sono sicuramente importanti ma finiscono purtroppo per essere poco significativi nel rappresentare il fenomeno nella sua effettiva consistenza. *Gli autori sono rispettivamente presidente dell’Anac e professore di diritto amministrativo a Perugia Beni sequestrati alle mafie. Il decreto sicurezza “liberalizza” la vendita e apre ai privati di Lorenzo Calò Il Mattino, 20 gennaio 2019 La novità assoluta per l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è contenuta tra le pieghe del “Decreto Sicurezza”. Tra queste figura il nuovo regime di vendita degli immobili che amplia la platea dei potenziali acquirenti. La norma della “discordia” che ha invece suscitato diverse perplessità e critiche, sancisce la possibilità che i beni per i quali non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per finalità di pubblico interesse, “siano destinati con provvedimento dell’Agenzia alla vendita, osservate le disposizioni del codice di procedura civile”: in soldoni, dunque, apertura ai privati. Il rischio paventato dalle opposizioni è che possa essere la stessa mafia a “ricomprarsi” i suoi averi. Nella precedente formulazione rientravano nel novero dei possibili acquirenti dei beni immobili, solo gli enti territoriali, le cooperative edilizie costituite da personale delle Forze armate o delle Forze di polizia, gli enti pubblici aventi, tra le altre finalità istituzionali, anche quella dell’investimento nel settore immobiliare, le associazioni di categoria che assicurano maggiori garanzie e utilità per il perseguimento dell’interesse pubblico e le fondazioni bancarie. Le nuove norme ampliano di fatto la platea degli acquirenti prevedendo la possibilità di aggiudicazione al migliore offerente - pur prevedendo diverse preclusioni e cautele - tra cui il rilascio dell’informazione antimafia, per scongiurare che il bene poi ritorni nella disponibilità della criminalità organizzata all’esito dell’asta. Sono questi, insomma, gli aspetti salienti di un riassetto dell’Anbsc concepita come una holding in grado di gestire e mettere a profitto economico imprese che spaziano dall’alimentare al settore energia, dall’edilizia ai servizi. Un patrimonio che nel suo complesso è stimato in almeno 2,3 miliardi di euro e che recepisce un principio basilare nella lotta alle mafie: quello secondo cui lo Stato fa fruttare un bene sottratto ai patrimoni illeciti dei clan per restituirlo alla fruizione pubblica, spesso con finalità sociali molto accentuate. Oggi l’Agenzia gestisce 2771 imprese di cui almeno 500 attive (513 quelle censite nel bilancio 2014 in grado di evidenziare un valore di produzione attivo). In molti altri casi si tratta di aziende solo sulla carta, società “fantasma” molto spesso utilizzate dalla criminalità organizzata per riciclare denaro o far circolare fatturazioni fittizie. Con il decreto sicurezza, inoltre, viene anche ampliato il novero degli enti territoriali cui possono essere trasferiti i beni immobili confiscati ricomprendendo anche le Città metropolitane: i beni confluiscono nel relativo “patrimonio indisponibile”, con ciò rendendo esplicito il vincolo che ne preclude la sottrazione dal fine pubblico assegnato. I beni immobili confiscati per il reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope sono altresì “trasferiti prioritariamente al patrimonio indisponibile dell’ente locale o della regione ove l’immobile è sito” escludendo la possibilità di assegnare tali beni in concessione, ad associazioni, comunità o enti per il recupero di tossicodipendenti. La ratio della modifica è da rinvenirsi nella circostanza che non tutti i beni confiscati per i reati di droga possono prestarsi al recupero dei tossicodipendenti e che gli enti coinvolti potrebbero non essere in grado di utilizzarli al meglio. Un’altra novità è rappresentata dalla destinazione dei proventi dei beni immobili mantenuti al patrimonio dello Stato utilizzati dall’Agenzia per finalità economiche: essi affluiscono al Fondo Unico Giustizia ma in parte lo Stato li restituisce alla medesima Agenzia per migliorarne il funzionamento. Gli immobili potranno essere anche destinati, tramite procedure ad evidenza pubblica, per incrementare l’offerta di alloggi da cedere in locazione a soggetti in particolare condizione di disagio economico e sociale. Palermo: nasce la figura del Garante comunale dei diritti dei detenuti di Vera Montalbano ilsicilia.it, 20 gennaio 2019 La settima commissione consiliare del comune di Palermo è pronta a varare un nuovo regolamento per dare voce alle carceri, nasce la figura del garante comunale dei diritti dei detenuti. Prima del voto definitivo, lunedì 21 gennaio alle ore 10 a Palazzo delle Aquile, avrà luogo un tavolo tecnico organizzato dalla commissione stessa. A renderlo noto i consiglieri Rosario Arcoleo, Sabrina Figuccia, Claudio Volante, Giuseppina Russa e Marcello Susinno. Sarà un momento di incontro e confronto con chi conosce il mondo delle carceri in maniera profonda per dare poi il via libera definitivo al testo su cui la commissione lavora già da alcuni mesi. All’evento parteciperanno il Garante regionale dei diritti dei detenuti, i direttori delle carceri palermitane, l’assessore alle attività sociali del Comune di Palermo, il presidente della Camera penale, avvocati, medici e psichiatri penitenziari, esponenti del partito radicale, da sempre in prima linea sul fronte della giustizia e delle carceri. Sarà, inoltre, presente per una testimonianza personale Salvatore Cuffaro. L’iniziativa mira a colmare il vuoto di una figura di garante anche a livello comunale come previsto dalla vigente normativa. Il passaggio successivo sarà l’approvazione del Consiglio comunale. Lecce: la Direzione del carcere “sanità garantita e carenze strutturali segnalate” trnews.it, 20 gennaio 2019 Dopo le polemiche sulle condizioni in cui vivrebbero i detenuti nella sezione C2 del carcere di Lecce, la direttrice Rita Russo dice la sua. In merito alla presunta mancanza di acqua sanitaria calda, alle condizioni strutturali del fabbricato e alle temperature nelle camere di pernottamento, precisa che, da un lato, la fornitura di acqua calda nei locali doccia è regolarmente assicurata; dall’altro lato, a fronte di un’usura delle infrastrutture connessa alla presenza di una popolazione detenuta considerevole, “..Questa amministrazione -scrive- effettua periodicamente interventi di ordinaria manutenzione edilizia e ha tempestivamente segnalato ai superiori Uffici la necessità di interventi di straordinaria manutenzione con riferimento ad alcune parti del fabbricato, per i quali si è in attesa di definizione dei relativi procedimenti”. Per quanto riguarda la presunta impossibilità per alcune persone detenute di ricevere le terapie farmacologiche cosiddette “salvavita”, assicura che la Asl, tramite l’unità operativa di Medicina Penitenziaria, si preoccupa di fornire a tutta la popolazione detenuta i livelli essenziali di assistenza, e che forse alla base di quanto detto c’è un equivoco, che forse si parla di farmaci non compresi nella fascia “A”, bensì nella fascia “C”, in relazione ai quali le procedure di approvvigionamento seguono gli stessi criteri validi per la popolazione non detenuta. In merito allo spazio a disposizione nelle camere di pernottamento, la direttrice assicura che esse rispettino il criterio fissato dalla C.E.D.U., con lo spazio minimo stabilito di 3 metri quadri pro capite. E che solo alcune sezioni non consentono non consentono la permanenza all’esterno delle camere per più di otto ore al giorno, ai sensi di legge, ma che in ogni caso garantiscono “…la fruizione di spazi e tempi di socialità, delle attività di reinserimento sociale e, ovviamente, della permanenza all’aperto”. A proposito degli episodi di protesta collettiva, precisa che “Recentemente, in una sezione detentiva del plesso C2”, a seguito di gravi fatti consistiti nell’aggressione ai danni di un detenuto da parte di di altre persone detenute, la Direzione, ai sensi della legge, ha disposto temporaneamente la sospensione dell’ammissione alla permanenza all’esterno delle camere per almeno otto ore al giorno, garantendo comunque gli standard minimi previsti dalla normativa, come provvedimento di natura cautelare per prevenire ulteriori violenze” e che le manifestazioni di protesta che ne sono conseguite sarebbero culminate, in alcuni casi, con minacce nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria, nel tentativo di far revocare il provvedimento. Che, però, fa sapere la dottoressa Russo, permarrà fino a quando le esigenze di sicurezza che lo hanno determinato lo richiederanno. Empoli (Fi): 31enne morto durante fermo polizia, con manette ai polsi e piedi legati di Carmela Adinolfi La Repubblica, 20 gennaio 2019 Salvini: “Cosa dovevano fare, offrire cappuccio e brioche?”. Il vicepremier sul caso dell’uomo, 31 anni, di origine tunisina, colto da malore con manette ai polsi e piedi legati. Ilaria Cucchi: “So già come va a finire”. Il direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali Manconi: “Ci siano indagini accurate”. La Procura indaga per omicidio colposo. “Se i poliziotti non possono usare le manette, che fanno, offrono cappuccio e brioche?”. Così, nel corso di una diretta Facebook - indossando la giacca della tuta delle Fiamme Oro, e la scritta Polizia sul petto - il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, torna sul caso del giovane di 31 anni, cittadino italiano di origine tunisina, morto giovedì a Empoli durante un fermo di polizia. Ieri il vicepremier era già intervenuto esprimendo “totale e pieno sostegno ai poliziotti che a Empoli sono stati aggrediti, malmenati, morsi”. Questa mattina sulla vicenda si è espressa anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano: il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale Sandro Pertini di Roma. E in serata è arrivata anche la presa di posizione di Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto dopo essere stato portato in caserma a Varese nel 2008: “Questo è il metodo delle forze dell’ordine. Con l’appoggio di Salvini, ora, hanno la licenza di uccidere”. Lucia Uva, precisando di non “avercela con le forze dell’ordine” ma con chi “abusa della divisa che indossa a scapito dei più deboli”, ha aggiunto che “siamo in un tritacarne”, riferendosi a tutti i parenti delle vittime di casi analoghi. “Dava in escandescenza? Questi fatti sono tutti uguali e sappiamo già come andrà a finire. La quarta sezione della Cassazione dirà che non c’è nessun colpevole”, le parole di Ilaria Cucchi all’Adnkronos. In merito alle prime ricostruzioni di quanto accaduto, da cui emerge che l’uomo sarebbe morto per arresto cardiocircolatorio, Ilaria Cucchi aggiunge: “Come Magherini”. Il riferimento è al quarantenne, ex calciatore delle giovanili della Fiorentina, morto il 3 marzo 2014 dopo l’arresto in una strada del quartiere di San Frediano, a Firenze. Lo scorso 15 novembre la quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la sua morte. “Io rispetto le vittime e i loro familiari, chiedo che analogo rispetto sia riferito a uomini e donne che lavorano per riaffermare le legalità”, ha detto invece il capo della Polizia Franco Gabrielli. “Se qualcuno ha sbagliato pagherà per un giusto processo e non per le farneticazioni del tribuno di turno”, ha concluso. Mentre indagini tempestive e accurate sono state richieste dal direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, Luigi Manconi. “La vittima aveva, oltre che le manette ai polsi, le caviglie legate e si trovava, di conseguenza, in una condizione di totale incapacità di recare danno ad altri e a sé. Come è potuto accadere, dunque, che in quello stato abbia perso la vita e che non si sia trovato modo di prestargli soccorso?” si chiede Manconi. “Sappiamo che le forze di polizia dispongono di strumenti per limitare i movimenti della persona fermata, ma mi chiedo se la corda usata per bloccargli le gambe sia regolamentare oppure occasionale, se fosse in quel momento strettamente indispensabile o se non vi fossero altri strumenti per contenere l’uomo. In altre parole, non si può consentire che vi siano dubbi sulla legittimità di un fermo o sulle modalità della sua applicazione. Tanto più qualora riguardi chi si trovasse, secondo testimoni, in uno stato di agitazione dovuto all’abuso di alcol, e tanto più che, negli ultimi dieci anni, sono state numerose le circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Peraltro, vi è qualche testimone che parla di una condizione di relativa calma del giovane tunisino e anche quest’ultimo fatto impone una indagine, la più rapida e incisiva”, conclude il direttore dell’Ufficio Nazionale Anti discriminazioni Razziali. Empoli (Fi): caso Arfaoui, la procura indaga in silenzio, Salvini straparla di Riccardo Chiari Il Manifesto, 20 gennaio 2019 Morto in manette. La vedova di Arefet Arfaoui sarà assistita dai legali dell’associazione Acad contro gli abusi in divisa, all’autopsia anche un consulente di parte civile. Luigi Manconi chiede indagini tempestive e accurate, ma il titolare del Viminale ha già la verità in tasca. Scettici sulla volontà di dare verità e giustizia i familiari di altre vittime di Stato, botta e risposta fra l’avvocato Anselmo e il capo della polizia Gabrielli. Ci sarà anche un consulente tecnico di parte civile all’autopsia in programma domani sul corpo di Arefet Arfaoui, il giovane italiano di origine tunisina morto giovedì all’interno di un negozio di alimentari e money transfer nel centro di Empoli, dopo che era stato ammanettato, e con i piedi legati da una corda, nelle pieghe di un fermo di polizia. A far sapere che i familiari della vittima si sono rivolti a un legale è stata l’associazione contro gli abusi in divisa Acad, che ha avuto il nulla osta della vedova italiana di Arfaoui perché un avvocato accerti che non ci siano stati abusi e violenze. Al tempo stesso la donna ha chiesto a tutti un giustificato riserbo. L’autopsia è attesa anche dalla pm Christine Von Borries della procura di Firenze, che da sostituto di turno era andata subito ad Empoli e aveva ascoltato le prime dichiarazioni dei quattro agenti intervenuti, dei sanitari che avevano cercato di soccorrere il giovane, e dei testimoni sia dentro che fuori il negozio di via Ferrucci, il Taj Mahal. Con Von Borries anche la polizia scientifica, incaricata di “congelare” lo scenario della morte di Arfaoui. Per il momento l’indagine aperta dalla magistratura con l’ipotesi di reato di omicidio colposo resta a carico di ignoti. Anche ieri sia in procura che negli uffici della squadra mobile il lavoro è andato avanti, e sono state analizzate le testimonianze di almeno quindici persone tra agenti, medici e sanitari del 118, clienti di quella sera al Taj Mahal e negozianti vicini. I poliziotti, in forza al commissariato di Empoli e con una lunga anzianità di servizio, sono stati interrogati in procura da Von Borries, le loro versioni sarebbero concordanti. Anche la prima visione dei filmati delle telecamere interne ed esterne al negozio non avrebbe offerto novità. I filmati saranno comunque esaminati anche da un consulente della procura. Non ci sono peraltro filmati su quanto accaduto nel retrobottega del negozio, dove Arfaoui era stato prima perquisito, poi dopo alcune decine di minuti bloccato dagli agenti, e infine colto dal malore. Prima, o forse nel corso dell’intervento dei sanitari. Una richiesta di svolgere indagini tempestive e accurate arriva da Luigi Manconi. “La vittima aveva, oltre che le manette, le caviglie legate, e si trovava in una condizione di totale incapacità di recare danno ad altri e a sé. Come è potuto accadere che in quello stato abbia perso la vita, e che non sia trovato modo di prestargli soccorso?”. Ancora: “Non si può consentire che vi siano dubbi sulla legittimità di un fermo o sulle modalità della sua applicazione. Tanto più qualora riguardi chi si trovasse, secondo testimoni, in uno stato di agitazione dovuto all’abuso di alcol, e tanto più che, negli ultimi dieci anni, sono state numerose le circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Peraltro, c’è qualche testimone che parla di una condizione di relativa calma del giovane tunisino”. Sulla tragedia continua a distinguersi il titolare del Viminale, Matteo Salvini, con parole (“Se i poliziotti non possono usare le manette, che fanno, offrono cappuccio e brioche?”) e dirette facebook in divisa, di fronte alle quali i Radicali italiani reagiscono: “Le sentenze le fanno i tribunali, lo ricordiamo al ministro: i suoi tweet non sostituiscono indagini, referti medici, e decisioni dei giudici. Soprattutto su una questione così delicata, nel paese di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri morti per mano dello Stato”. Scettici sulle indagini sono appunto i familiari di altre vittime: da Ilaria Cucchi alla mamma di Federico Aldrovandi, passando per Guido Magherini e Lucia Uva. Dopo un botta e risposta con l’avvocato Fabio Anselmo, ancora (giustamente, ndr) scandalizzato dal colpo di spugna della Cassazione sull’omicidio di Riccardo Magherini, il capo della polizia Franco Gabrielli ha voluto puntualizzare: “Io rispetto le vittime e i loro familiari, chiedo che analogo rispetto sia riferito a uomini e donne che lavorano per riaffermare la legalità”. Torino: carceri, una cerimonia ha ricordato Giuseppe Lorusso torinoggi.it, 20 gennaio 2019 L’agente di custodia venne assassinato esattamente 40 anni fa da un commando di terroristi di Prima Linea. “Il 19 gennaio è indubbiamente una giornata triste per la polizia penitenziaria”: lo afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria (Osapp), in occasione del 40esimo anniversario dell’omicidio di Giuseppe Lorusso, in servizio alla Casa Circondariale “Le Nuove” di Torino. L’agente di custodia venne assassinato da un commando di terroristi di Prima Linea nei pressi della sua abitazione, mentre stava per recarsi al lavoro. Sul luogo dell’omicidio è stata deposta oggi una corona di alloro. “Vogliamo ricordare il collega, ma anche quei valori - commenta Beneduci - impressi nel nostro cuore e nelle uniformi che con onore indossiamo in difesa dei cittadini e dello Stato. Per questo motivo, aggiunge, non accetteremo mai che si faccia finta di niente nel consentire che ex terroristi responsabili della violenza di quegli anni e mai pentitisi facciano ingresso, perfino con tanto di onori e riconoscimenti in quelle carceri teatro tra gli altri del dolore e delle lacrime dei familiari degli amici e dei colleghi. Il riferimento è anche in relazione alle visite in carcere di ex terroristi come, Liliana Tosi, Sergio Segio o la moglie, Susanna Ronconi”. “In conclusione - dichiara Beneduci - non si tratta di negare la possibilità di emenda e di recupero sociale, ovvero la stessa funzione del sistema penitenziario ne di negare la possibilità di perdonare gli orrori di un periodo storico che ha devastato il nostro paese, ma il non volere ex terroristi in carcere e in mezzo a noi come se nulla fosse accaduto ha il significato di ribadire, ovvero di non dimenticare la memoria di chi è stato ingiustamente colpito per quei valori di giustizia e di libertà nel civile rispetto a cui al pari delle vittime noi continuiamo a credere”. Erano presenti alla cerimonia i famigliari, una rappresentanza della polizia penitenziaria, una rappresentanza dell’amministrazione penitenziaria, colleghi, amici, pensionati, il presidente delle vittime del terrorismo, il presidente dell’Associazione nessun uomo è un’isola, una rappresentanza della città di Torino, una rappresentanza della città Metropolitana e una rappresentanza della regione Piemonte. Milano: un Tribunale “fuorilegge”, un puzzle di parapetti pericolosi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 gennaio 2019 Dopo la caduta di un avvocato dal quarto piano. Balconate, parapetti e corrimani a rischio. Nessun intervento dopo il dossier sulla sicurezza. I medici non nutrono molte speranze sul recupero delle gambe da parte del giovane avvocato precipitato per disgrazia venerdì per sei metri dal quarto piano della Procura da una delle basse balaustre di cui era stata denunciata la pericolosità nel 2015-2016-2017 e ancora due mesi fa. Quelle del Palazzo di Giustizia, del resto, sono un puzzle assurdo di situazioni eterogenee. Nell’atrio del terzo piano su Porta Vittoria, ad esempio, si affacciano balconate del quarto piano schizofreniche, nel senso che qui anni fa vennero quasi tutte chiuse con vetrate a completa o mezza altezza, mentre sul lato di via Freguglia ce ne sono ancora di non chiuse. Le scalinate che scendono hanno parapetti in muratura di 80 centimetri, mentre quelli invece di altre scale che collegano i piani misurano 60 centimetri, rialzati anni fa da un corrimano di legno sino a 95 centimetri. Ma al quarto piano, sul lato San Barnaba, nel passaggio che collega i vari corridoi e ammezzati, un affaccio sull’atrio sottostante è protetto, si fa per dire, da un parapetto alto solo 75 centimetri. Ancora diverse, pur comunque tutte basse, le aperture dell’ammezzato del quarto piano e di altri piani sugli atri sottostanti, cintate da un parapetto di muratura di 60 centimetri, che diventano 90 se si conta il segmento di ringhiera (e curiosamente 115 soltanto su un corridoio del quarto piano su San Barnaba). E gli scaloni nobili centrali da Porta Vittoria, che hanno un corrimano con tanto vuoto in mezzo (perché i piantoni che lo reggono sono orizzontalmente distanziati ben 72 centimetri l’uno dall’altro) non hanno altre difese da queste possibili cadute laterali. Campobasso: tirocini di inclusione per detenuti e affetti da dipendenze informamolise.com, 20 gennaio 2019 L’Ambito Territoriale Sociale di Campobasso pubblica un avviso per l’avvio di tirocini di Inclusione per detenuti e affetti da dipendenze al fine di incrementare l’occupabilità e la partecipazione al mercato del lavoro, attraverso percorsi integrati e multidimensionali di inclusione attiva delle persone maggiormente vulnerabili e prevede la realizzazione di interventi che intercettino i bisogni delle componenti più fragili dal punto di vista sociale e occupazionale. L’azione prioritaria per favorire le opportunità di inserimento e/o reinserimento occupazionale è l’adozione di misure di supporto quali l’erogazione di finanziamenti per Progetti di inserimento lavorativo diretti a soggetti in situazione di particolare svantaggio sociale ed occupazionale. Lanciano (Ch): teatro in carcere, è cultura e solidarietà Il Centro, 20 gennaio 2019 Il teatro in carcere per liberare la cultura e la solidarietà. Prende il via domani la rassegna “Togliamoci la Maschera” a cura dell’associazione culturale “Il Ponte” e del Teatro Studio Lanciano-Vasto. Inclusa nella stagione teatrale del Fenaroli, la rassegna propone quattro appuntamenti nel “Piccolo Fenaroli” all’interno della casa circondariale di Villa Stanazzo, per concludersi con lo spettacolo dei detenuti sul palcoscenico del teatro comunale. L’iniziativa punta a valorizzare il programma di socializzazione tra detenuti e comunità esterna e l’incremento delle attività culturali all’interno del penitenziario. Agli spettacoli, infatti, partecipano come pubblico sia i detenuti di Villa Stanazzo che il pubblico esterno composto da 50 spettatori. Per partecipare all’iniziativa si può acquistare un abbonamento ai cinque spettacoli in programma, che si terranno sempre di domenica pomeriggio con inizio alle ore 16- nel negozio Partymania, in via Monte Grappa (prezzo 40 euro). Il ricavato dalla vendita degli abbonamenti sarà destinato alle attività a carattere culturale che si svolgono nella casa circondariale di Lanciano. Il primo spettacolo, in programma domani, è “Tiergartenstrasse 4” di Pietro Floridia, regia di Carmine Marino. La rassegna si concluderà il 26 maggio al teatro Fenaroli con la messa in scena della commedia “L’avaro” di Moliere ad opera della compagnia teatrale “Il Ponte per la libertà”, composta dai detenuti del penitenziario lancianese, grazie anche al contributo del Rotary Club di Lanciano. “Partecipare a questa iniziativa non è soltanto andare a vedere uno spettacolo in un luogo diverso da quello del teatro”, sottolineano gli organizzatori, “ma è offrire solidarietà a chi sta vivendo un particolare momento della propria vita”. Bollate (Mi): raccontarsi “InGalera”, in tavola le storie dei detenuti di Roberta Rampini Il Giorno, 20 gennaio 2019 Venerdì una serata speciale nel ristorante all’interno del carcere. Il “racconto del carcere” tra i tavoli del ristorante InGalera per ricordare i primi tre anni di attività ma soprattutto per non dimenticare l’obiettivo del progetto: “Avvicinare le persone e far riflettere sulla realtà carceraria, in particolare sui progetti come il nostro che abbassano la recidiva”, spiega Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc La Sapienza a tavola. Accadrà venerdì prossimo nel carcere di Bollate, alle porte di Milano, il primo istituto di pena con un ristorante aperto al pubblico. Inaugurato il 25 ottobre 2015, in questi tre anni e ormai qualche mese, ha avuto 40.000 clienti. “È un numero importante - commenta Polleri - all’inizio non mi aspettavo tanto successo e tanto entusiasmo. Avevamo le liste d’attesa di mesi per venire a mangiare da noi. Abbiamo vinto la prima sfida. Adesso però dobbiamo vincere anche la seconda, che è quella di tenere alta l’attenzione sul ristorante e sul progetto di reinserimento sociale. Non siamo un ristorante sulla strada che si vede passando e uno può decidere di entrare, non siamo un ristorante nel centro della città. Chi viene InGalera ci deve conoscere e scegliere di mangiare da noi”. Venerdì sera il menù sarà creato da Davide, executive chef del ristorante, detenuto che ha conseguito questo titolo nell’ottobre 2016, dopo aver ottenuto la facoltà di poter lavorare grazie all’Articolo 21 dell’ordinamento penitenziario che permette ai detenuti o agli internati di poter svolgere attività lavorative all’esterno del carcere. Tra una portata e l’altra i racconti di detenuti che lavorano nella cooperativa, quello di operatori e volontari dell’istituto di pena. Ci sarà anche Pino Cantatore, ex detenuto, fondatore della coop sociale Bee4, che dal 2013 dà ai detenuti una seconda opportunità. “Cibo e cultura carceraria faranno da filo conduttore della serata - aggiunge la presidente della cooperativa - tutto è cominciato nel 2004 con il catering esterno che facevo con alcuni detenuti in misura alternativa. L’obiettivo era ed è quello di mettere alla prova le persone prima del fine pena, in modo che la recidiva potesse ridursi. Oggi sono 14 i detenuti che lavorano nella cooperativa, otto di loro nella cucina del ristorante o tra i tavoli”. In questi tre anni al ristorante InGalera sono arrivati migliaia di clienti e anche volti noti, come l’ex ministro Maurizio Martina, lo chef stellato Carlo Cracco, il giornalista Vittorio Feltri, firme del New York Times, imprenditori, politici e rappresentanti delle istituzioni. Quella di venerdì sarà la prima cena all’insegna di cibo e cultura carceraria. L’appuntamento successivo tra i tavoli del ristorante dietro le sbarre sarà sempre con i piatti dello chef Davide, fiore all’occhiello insieme alla realtà dell’asilo nido aziendale, aperto due anni e mezzo fa, caso unico in Italia, perché frequentato dai figli degli agenti polizia penitenziaria, figli delle detenute e figli delle famiglie del territorio. Il carcere di Santo Stefano fa i miracoli: fa diventare garantisti tutti di Simonetta Sciandivasci Il Foglio, 20 gennaio 2019 Un documentario su Rai Storia che parla di giustizia giusta. Il carcere di Santo Stefano è stato chiuso nel 1965. L’isola che gli dà il nome, una delle Ponziane più vicina a Ventotene, però, è ancora sotto il suo scacco, la sua ombra, la sua anima. L’isola di Santo Stefano è il carcere di Santo Stefano (qui lo chiameremo anche SS). E non potrà che essere così per sempre. Non conta che sui fondali del mare intorno ci siano anfore e tracce di traffici commerciali, né che una volta abbiano provato a farci un albergo, e che un sacco di altre volte molti cervelli abbiano immaginato piani di recupero, innovazione, cambiamento. I ministri Matteo Salvini e Alfonso Bonafede, I Due carabinieri, dovrebbero andarci in visita un giorno intero, ma non lo faranno perché laggiù non ci sono detenuti da usare come prova della propria efficienza nella lotta al crimine. Ci sono solo fantasmi, e ovunque ci siano fantasmi i vivi devono fare i conti con le proprie ingiustizie. Dovremmo andarci tutti, a Santo Stefano. Però, siccome ci vuole il traghetto, siccome è fuori mano ed è inverno eccetera eccetera, possiamo anche accontentarci di guardare il documentario che lo racconta (lunedì sera alle 21 e 15 su Rai Storia, primo appuntamento del ciclo di documentari “I Grandi dimenticati. Storie perdute di capolavori abbandonati”; regia di Matteo Bruno; capoprogetto Luca Parenti; altre puntate sono dedicate al Forte Aurelia di Roma, i Quattro Pizzi di Palermo, la stazione di Canfranco, le Gualchiere di Remole). La pianta del Santo Stefano è quella del Panopticon di Jeremy Bentham: al centro la torre di controllo (sacro e temporale: c’era la cappella e c’era pure la cabina delle guardie) e intorno le celle, di modo che ai prigionieri fosse chiaro d’essere sorvegliati continuamente. Ciascuna cella era dotata di finestre a bocca di lupo che impedivano ai detenuti di vedere il mare (tuttavia ne sentivano l’odore e il rumore suo e di chi lo abitava o attraversava: è scritto nelle memorie di moltissimi internati). All’SS si scontavano gli ergastoli. Il fine pena mai. La ragione per cui andare a visitare quelle gabbie per uomini sbagliati la spiega a un certo punto uno degli intervistati: “Questo posto è l’espressione massima del fine pena mai, di cosa un uomo può fare a un altro uomo”. Un carcere dismesso è il solo posto al mondo in cui c’è speranza che persino a Salvini diventi chiaro come e perché, stante il sacrosanto principio di responsabilità personale, quando un membro di una comunità finisce in galera, quella comunità ha fallito. Un ferito a morte ha il diritto di levare per sempre il cielo e il mare al suo feritore? Non è importante rispondere (perché è impossibile rispondere), ma domandarselo sì. Sempre. Dovremmo domandarcelo continuamente. Viene raccontato nel documentario che quando Sandro Pertini finì a Santo Stefano (pena: 10 anni e nove mesi; fu avvistato a Pisa da un avvocato fascista di Savona che era lì per andare allo stadio ma non si lasciò sfuggire l’occasione di denunciare l’eversivo comunista), scrisse: “Al pensiero che sarei stato nello stesso carcere dove era stato rinchiuso Luigi Settembrini, mi sentii orgoglioso”. All’SS finirono patrioti, prigionieri politici, carbonari, giacobini, antifascisti: due secoli e mezzo di opposizione e rivoluzione fatte a spese della propria pelle. I trenta minuti di questo documentario bastano a capire che là dentro, per tutto quel tempo, uomini che hanno sbagliato anche solo la parte in cui stare, hanno avuto l’immensa, disgraziata fortuna di conoscere l’uguaglianza. Perché così ha detto De Andrè: il carcere è una realtà non individualista, il massimo dell’essere uguali. La storia di “Liberi di scegliere”, diventata fiction sulla Rai di Mario Nasone* ildispaccio.it, 20 gennaio 2019 “O stai cu previti, o stai cu nui”. Questo l’ultimatum che Antonio (nome di fantasia) ricevette dalla madre, moglie di un boss ucciso in una delle tante guerre di mafia, che don Italo Calabrò conobbe al carcere minorile di Reggio Calabria e che al termine del percorso di affidamento fatto dal Tribunale per i Minorenni all’associazione Agape, con il compimento della maggiore età doveva fare una scelta. Ritornare al suo paese, prendere il posto del padre ucciso e curare i suoi affari come chiedeva la madre o fare una scelta dolorosa di rottura. Un passaggio lacerante per il giovane che dopo essere stato coinvolto in diversi atti criminosi ed avere quasi concluso il suo apprendistato nella mafia, grazie agli incontri fatti, aveva scoperto che un’altra vita era possibile. Scelse di stare dalla parte giusta e per questo è stato costretto ad andare via al nord dove, grazie alla rete di solidarietà attivata, trovo un lavoro, un inserimento sociale positivo, nuove amicizie. Vinse definitivamente la sua sfida quando convinse la madre a rompere anche lei con il clan ed a raggiungerlo. Una delle tante storie emblematiche di quegli anni ‘80 e ‘90. Don Italo Calabrò fece la stessa cosa con gli undici minori coinvolti nella faida di Cittanova che aveva visto alcuni di essi uccisi da quella guerra che provocò 49 morti ammazzati. Anticipando quello che oggi fa Di Bella., nel tentativo di salvarli da un destino di morte e di devianza, convinse il Tribunale per i minorenni ad allontanarli dalla loro famiglie ed a collocarli presso famiglie e comunità del reggino e del nord, grazie anche all’aiuto del gruppo Abele di don Ciotti. A queste storie, non tutte a lieto fine, si è ispirato il presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria Roberto Di Bella quando iniziò, con la collaborazione dei volontari del centro comunitario Agape e di Libera, a sperimentare il programma Liberi di scegliere che in modo più strutturato ed organico sta realizzando una vera e propria strategia per la liberazione da un destino di ndrangheta di tanti minori. Un lavoro che nei primi anni ha trovato diffidenze, silenzi, attacchi anche da esponenti della magistratura ma che oggi, dopo il riconoscimento avuto dal CSM e ora con la risonanza della televisione di Stato, ha ottenuto apprezzamento e visibilità. L’auspicio è quello di potere avere un recepimento delle finalità e della metodologia del programma Liberi di scegliere attraverso una legge che la regolamenti e la faccia applicare in tutto il territorio nazionale prevedendo investimenti e risorse. Anche per evitare che la coraggiosa sperimentazione di Di Bella rischi di concludersi alla fine del suo mandato al tribunale per i minori di Reggio. Se sarà così la fiction di Rai Uno oltre che a smuovere le coscienze sarà uno stimolo per i nostri governanti a sposare a livello politico un lavoro eccezionale svolto da tanti operatori e volontari della giustizia minorile reggina. *Coordinatore dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere e Presidente del Centro Comunitario Agape Sezione femminile: un film “fuori norma” di Barbara Rossi alessandrianews.it, 20 gennaio 2019 Eugenio Melloni, regista bolognese, coordina il progetto di ricerca sperimentale “Memofilm, a memoria di uomo” sull’uso del cinema come terapia di supporto ai malati di demenza e cura un Laboratorio Cinema presso la Sezione Femminile del Carcere di Bologna. Eugenio Melloni, regista bolognese diplomato in regia teatrale, non ha alle spalle soltanto una lunga esperienza come autore e collaboratore a svariati progetti teatrali e cinematografici (in qualità di sceneggiatore ha lavorato, tra gli altri, anche con Lucio Lunerti, Stefano Incerti, Wim Wenders): la sua sensibilità umana e artistica lo ha condotto, a partire dal 2007, a coordinare - per conto della Cineteca di Bologna, insieme all’ASP Città di Bologna, il progetto di ricerca sperimentale Memofilm, a memoria di uomo, sull’uso del cinema come terapia di supporto ai malati di demenza, avviato insieme a Giuseppe Bertolucci. Per Mimesis edizioni, nel gennaio 2014, è uscito un saggio collettivo sui primi risultati scientifici della ricerca in corso, dal titolo Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer. Da novembre 2015 Melloni cura un Laboratorio Cinema presso la Sezione Femminile del Carcere di Bologna, un’esperienza da cui è nato un lungometraggio che racconta senza retorica, con sincerità, emozione, ma senza allinearsi ai tradizionali film sul mondo del carcere la condizione umana all’interno di un contesto doloroso e complesso. Sezione femminile è una pellicola originale, lontana sia dal documentario propriamente detto sia dall’opera di pura finzione, che sta riscuotendo, dopo le prime presentazioni a Bologna e a Roma lo scorso mese di dicembre, molti riscontri positivi sia dal pubblico che dai critici (compreso il decano della critica cinematografica italiana, Adriano Aprà). Abbiamo domandato ad Eugenio Melloni di raccontarci la sua esperienza del film e quella del laboratorio di cinema in carcere da cui è nata. Com’è ti è venuta l’idea di dedicare un lungometraggio alla realtà carceraria femminile? Non è stata una mia idea. Un’associazione che si occupa di medicina di genere Meg, nell’ambito di un progetto del Comune di Bologna, me l’ha proposto. Allora pensavo che di film sul carcere se ne facessero anche troppi. E che raccontare la sofferenza di chi aveva procurato sofferenza ad altri non fosse poi così interessante. E parecchio complicato. Quando ho chiesto perché farlo, mi è stato risposto che le donne in quanto tali rischiano di pagare un supplemento di pena in carceri strutturati per i maschi. Le donne del resto costituiscono circa il 10 per cento della popolazione carceraria. Allora ho accettato, ma solo come possibile conclusione di un percorso laboratoriale. In cosa si distingue il tuo film rispetto alle opere - di finzione o documentarie - prodotte in passato sul tema? Che documenta senza essere un documentario e che emoziona senza essere una fiction tipica. Non racconta la condizione carceraria a mo’ di inchiesta o altro. È fuori norma come è stato scritto da altri. Sezione femminile nasce anche da un laboratorio biennale da te condotto in carcere, a diretto contatto con le detenute, la loro durissima esperienza, le loro memorie di vita. In che forme si è svolto il laboratorio e qual è stato il tuo vissuto personale in questo contesto? C’è voluto qualche mese di formazione e discussione prima che le detenute si potessero misurare con la propria esperienza, per poterla raccontare secondo forme narrative proprie del cinema dove la realtà è sempre trasfigurata. Il cinema è un gioco di specchi, obbliga alla riflessione che può essere più o meno profonda. Superata questa fase, ne è iniziata un’altra più creativa legata al recupero dell’immaginazione. Il film, in effetti, parla indirettamente anche di un percorso rieducativo con i media. Qual è il “messaggio” del film e quale immagine restituisce della condizione detentiva, non soltanto femminile? Uso le parole di una spettatrice, anche se sono estrapolate da un commento: r”estituisce un’immagine di carcere diversa da quella che normalmente si ha, più aperta e più positiva. La gente può farcela se viene aiutata”. Mettendo da parte il buonismo, il carcere ci sarà sempre e ci sono cittadini al posto nostro che lavorano per farlo funzionare secondo i dettami della legge, con tutto un sistema di controlli tipici di un ordinamento democratico. Il fatto che alcune agenti abbiano deciso di dare un contributo al film su un tema doloroso, dice molto sul fatto che la dimensione umana è inevitabilmente presente in quei luoghi. Qual è stata la reazione delle donne che hanno frequentato il tuo laboratorio a contatto con il mezzo cinematografico? La fascinazione del cinema è sempre più che mai viva. Tema complesso. Averlo, però, accettato come viatico di riflessione ha permesso a loro di conoscerlo in modo più disincantato. La creatività, l’arte in genere, possono - a tuo parere - supportare chi si trova a vivere l’esperienza carceraria? Certamente, se non è strumentale a chi la porta dentro. Per ciò che riguarda il nostro laboratorio, una delle condizioni era quella di non pensare di vendere la propria condizione di detenute all’esterno, premessa del resto perché il percorso rieducativo fosse il più possibile autentico, sincero. Quali sono le prossime tappe di presentazione del film? R2 production, che ha prodotto il film senza contributi pubblici o aiuti di grossi media, ha deciso anche di distribuirlo, accompagnandolo per mano secondo un progetto che prevede anche la proiezione dentro le carceri, un dentro e fuori al carcere. Contando sulla qualità e originalità del film, che è uscito in prima al cinema a Bologna a fine novembre, poi a Roma a dicembre con l’Associazione Fuorinorma e all’Università Roma3, con riscontri più che positivi. E voglia di parlarne. Proseguirà nei cinema dell’Emilia Romagna e mi auguro anche in Piemonte e ad Alessandria. Il ricordo del periodo di lavorazione che più è rimasto nella tua memoria? I momenti in realtà sono stati diversi, ma cito il montaggio, la conferma che non avevamo lavorato invano, che potevamo offrire al pubblico uno sguardo inedito su un tema difficile come le carceri e sulle donne rinchiuse in esse. Senza giustizia non c’è democrazia di Massimo Cacciari L’Espresso, 20 gennaio 2019 Tra i benefici che arreca quest’epoca in cui tutti sono informati su tutto e perciò esonerati dal comprendere è da annoverarsi senz’altro quello che impedirà a chicchessia domani di dire “non c’ero”, “non sapevo”. Testimonianze, foto, filmati fanno il giro del mondo a mostrare esodi sanguinosi di milioni di persone, lager, stupri, torture, naufragi. Le ragioni profonde, le cause che rendono quegli esodi irreversibili, non solo non vengono affrontate, sembrano neppure più interessare. L’Occidente che per almeno due millenni non ha lasciato il mondo in pace per un solo secondo, l’Occidente che ha fatto del pianeta un unico Globo, ora erige muraglie a sua difesa. Europa e Nord America, che erano 1/3 della popolazione mondiale alla vigilia del primo suicidio europeo (1913) e sono oggi meno di 1/7, per scendere tra breve a meno di 1/10, invocano per salvarsi la saldezza dei propri confini. L’Europa che aveva quasi cinque volte gli abitanti dell’Africa, oggi ne conta la metà. Nei prossimi trent’anni la popolazione nell’insieme dei Paesi più poveri (che continueranno a esserlo in assoluto sempre di più) raddoppierà, a fronte di nessun aumento nei paesi occidentali dell’ex-benessere. Perché le economie europee possano ancora far lavorare le loro industrie, la loro agricoltura, i loro servizi si calcola che dovremo “accogliere” in qualche modo almeno 8 milioni di persone. Con famiglie o senza? Integrandoli come? Scherziamo? Chi pone queste domande vive nel mondo dei sogni, è un “buonista”: Il politico di razza, il realista sa bene che il vero problema, invece, è quello di non concedere l’accesso di un porto a una nave, rimandare a casa a morire di fame o di guerra qualche decina di disperati, oppure, più efficace ancora rispetto ai problemi che affliggono l’umanità, promulgare una legge sulla legittima difesa. Tuttavia, ormai, anche ragionamenti basati su inconfutabili elementi di fatto e mero buon senso debbono lasciare il posto a considerazioni culturali di fondo. Uso il termine “cultura” senza alcun orpello letterario-intellettuale, si tranquillizzino i nostri politici “realisti”: Mi riferisco proprio alle trasformazioni rapidissime e radicali del nostro ethos, del senso comune, del modo in cui percepiamo il nostro mondo e i nostri rapporti con gli altri. In ogni comunità si formano dei “termini” (chiamiamoli così, altri avrebbero detto una volta “valori” - ricordate i tempi in cui tutti se ne riempivano la bocca?) intorno al cui significato ci intendiamo o fra-intendiamo, termini che ci forniscono una sorta di orizzonte comune, al di là dei diversi interessi e delle diverse tendenze politiche. Sono “termini”, lo concedo, molto vaghi, ma la loro funzione sociale è importantissima, proprio perché è intorno a essi, nel tentativo di definirli, che si accende la discussione pubblica, il confronto nell’agorà comune, e di conseguenza ciascuno può tendere ad adeguarvisi nelle sue pratiche. Potremmo chiamarli anche elementi della consuetudine o del costume; mille volte traditi nei fatti, certo, ma mai rinnegati nella loro ragione d’essere. Nulla di statico e sicuro, certo, eppure capaci di orientare la nostra azione, di fornirle un metro in grado di valutarla e correggerla eventualmente. Negli anni del dopoguerra, dopo il secondo (e per certi aspetti definitivo) suicidio europeo, questi “termini” hanno ruotato intorno a due fondamentali pilastri: che non vi potesse essere libertà senza uguaglianza di opportunità e senza ricercarla su scala globale, e che sovra-ordinato rispetto a ogni legge, norma o disposizione fosse il Principio della difesa della dignità della persona umana, senza distinzione di lingua, di religione, di etnia. Troppo cara era costata all’Europa la semplice obbedienza alla legge positiva, qualsiasi cosa essa ingiunga; a troppi disastri aveva portato l’idea di una gerarchia di culture e valori che si trasformava in strumento di potere e di sopraffazione sull’altro. L’idea dell’unità politica europea si genera da quei principi e da questa coscienza. Dubito che si stia oggi sgretolando soltanto per le ondate della crisi economica e dell’emergenza immigrazione. Credo purtroppo si tratti di una crisi di cultura (nel senso che ho spiegato) che matura da tempo e che oggi si dispiega in tutta la sua vastità. Si potrebbe così riassumerne la portata: l’idea di giustizia neglecta terras fugit, fugge disprezzata dalla nostra terra. Intendo giustizia in modo concretissimo, fattore del nostro quotidiano comportamento. Obbedienza alla legge scritta? Certo, ma insieme interpretazione e applicazione della legge sulla base di quei principi. Solo questo? Certamente no, perché giusto sarà il mio agire quando in relazione con gli altri miro anche al loro bene, e non soltanto al mio, quando opero anche per il bene dell’altro, quando comprendo che fare il bene dell’altro è alla lunga anche fare il mio. Giusto è chi prova l’intollerabilità di ogni sofferenza. E allora seppellisce il fratello e soccorre il naufrago anche quando la legge glielo proibisce. Fino a poco tempo fa si diceva da parte dei “realisti”: quando mai ciò è avvenuto? Quando mai ha regnato questa giustizia? Mai, certo. Ma si avvertiva ancora la grandiosità di simili idee e l’importanza decisiva che esse dovevano rivestire per la formazione dell’unità europea. Ne facevamo addirittura il vanto della nostra civiltà. Ora, più che ignorate, sembra quasi che mai abbiano visto la luce; forse andrebbe promossa anche per loro una Giornata della Memoria. Magari proprio a Samos; Pitagora sarebbe lieto di accogliere così degni eredi. Credete che si tratti soltanto di quell’astratta idea di giustizia, che nulla ha a che fare col diritto e ancora meno con la politica? Che irresponsabile miopia. Non vedete che è in gioco una forma mentis che investe ogni campo dell’umano agire? Pensare la legge unicamente in base al proprio utile di breve periodo, pensarla in chiave elettorale, pensarla come accomodamento passeggero in funzione di qualche emergenza e null’altro, è la stessa cosa di non aver alcuna strategia in materia di immigrazione, di integrazione, di ambiente, di politica industriale. Non concepire alcun rapporto tra legge e giustizia equivale esattamente all’impotenza a collegare politiche per l’immigrazione a politiche per il nostro sviluppo, da un lato, e a politica estera con i Paesi africani, dall’altro. La catastrofe culturale che viviamo sul piano della giustizia è segno della possibile, prossima catastrofe della costruzione unitaria europea, che, se avverrà, sarà per responsabilità degli Stati e staterelli europei, non di un’Europa politica che non c’è, degli Stati e staterelli che pretendono di continuare a fare da sé, a darsi leggi all’inseguimento di interessi particolari, che sarebbero invece difendibili soltanto all’interno di una federazione politica. La politica dei “realisti” è la più classica delle politiche dell’illusione. E la più grande delle illusioni è sperare che in questo contesto la democrazia abbia un futuro. Questa democrazia appare ogni giorno di più in contraddizione col termine stesso di futuro! Un regime capace, quando va bene, di dare qualche risposta la mattina per la sera, incurante di giovani e non nati, del tutto indifferente per ogni ineguaglianza, che non riguardi l’elettorato di questo o quel partito, lascerà inevitabilmente il campo a forme di potere elitario-autoritarie o autocratiche. Un profetico studioso del nostro tempo ce l’aveva insegnato: la democrazia ha spezzato antiche, pesanti catene, ma se poi gli anelli restano separati l’uno dall’altro, se non sussiste tra loro né patto, né amicizia, né senso di giustizia, se nulla dovrebbe tenerli uniti se non l’obbedienza alla nuda legge, e questa non risponde che a miopi calcoli di utilità, essa si rivelerà prima inutile, inefficace e poi dannosa. Sotto le bandiere di un “realismo” senza virtù e senza idea di giustizia procediamo su questa via, a un passo dal punto di non ritorno. Migranti. Strage nel Mediterraneo: muoiono 120 disperati, i barconi non si fermano di Fabio Albanese La Stampa, 20 gennaio 2019 Tragedia al largo della Libia. Altre 53 vittime tra Marocco e Spagna Salvini: “Con le Ong tornano i morti. E non accogliamo i superstiti”. La rotta del Mediterraneo centrale sembrava si fosse svuotata di migranti, visti i numeri esigui di sbarchi degli ultimi mesi e i proclami della politica. Venerdì, però, l’ennesima tragedia ha ricordato che quel tratto di mare resta il più mortale al mondo. Un gommone con 120 persone a bordo è affondato. I sopravvissuti sono tre. Gli altri 117 migranti, e tra loro donne e bambini, sono ufficialmente dispersi. Ma non ci sono dubbi che siano morti tutti annegati. A riferirlo sono stati i tre giovani salvati dalla Marina militare italiana e portati nell’hotspot di Lampedusa. La procura militare di Roma e quella ordinaria di Agrigento hanno aperto inchieste. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso “profondo dolore per la tragedia”. Il premier Giuseppe Conte ha detto di essere “scioccato da questa nuova strage” e accusa i trafficanti di “crimini contro l’Umanità”. Ma, come era facile immaginare, la polemica politica non si è fatta attendere, con il ministro dell’Interno Matteo Salvini che tuona: “Il naufragio di ieri è la dimostrazione che se riapri i porti ritornano i morti. Ribadisco, cuori aperti da chi scappa dalla guerra, ma porti chiusi. Si scordino di ricominciare come a Natale e Capodanno”. Il ministro si riferiva non solo al naufragio, ma anche ai salvataggi avvenuti ieri al largo di Zuara, uno da parte dell’unica Ong rimasta al momento attiva, la tedesca Sea Watch. Dalla Libia si parte ancora. Tre sono state ieri le operazioni di soccorso nel Canale di Sicilia, per le imbarcazioni localizzate da un aereo dell’operazione EunavforMed-Sophia: gommoni con a bordo da 40 a 60 persone ciascuno, due dei quali raggiunti da motovedette della Guardia costiera libica che hanno riportato indietro i migranti, mentre il terzo è stato soccorso dalla nave umanitaria Sea Watch 3 che ha preso a bordo 47 persone. Dalla Ong è partita la richiesta di un “pos”, il porto sicuro dove sbarcare le persone salvate, contattando Libia, Italia, Malta e Olanda, ma si prepara l’ennesima, lunga attesa in mare: “Abbiamo informato tutte le autorità competenti. Ci abbiamo provato; non siamo riusciti a raggiungere la cosiddetta Guardia costiera libica. Siamo in attesa di istruzioni”, ha twittato. La risposta di Salvini alla Ong è stata sferzante: “Vada a Berlino e faccia il giro lungo passando da Rotterdam, facendoli scendere ad Amburgo”. L’isola di Lampedusa, dove sono stati portati i tre sopravvissuti del naufragio di venerdì, in queste ore sembra tornata al centro degli sbarchi: 68 migranti, per la maggior parte di origine subsahariana, partiti dalla Libia con una barca in vetroresina, erano stati recuperati all’alba di venerdì dalla Guardia costiera all’ingresso delle acque territoriali; altri 13, stavolta tunisini, sono arrivati fin dentro il porto ieri mattina. Questi ce l’hanno fatta a non morire in mare. Ma l’Oim, l’Organizzazione per le migrazioni dell’Onu, stima che da inizio anno sono quasi duecento i morti o i dispersi nel Mediterraneo, 140 solo nella pericolosa rotta tra Libia e Italia, altri 53 appena tre giorni fa tra Marocco e Spagna. Negli ultimi 5 anni sono stati 17.644, più della metà di tutti i migranti morti nel mondo. Con o senza navi di soccorso, la presenza o meno di testimoni diretti, quello tra Europa e Africa continua ad essere un mare di dolore e di morte. “Non ci si può permettere che la tragedia in corso nel Mediterraneo continui - dice Filippo Grandi, Unhcr. Nessuno sforzo deve essere risparmiato, o precluso, per salvare le vite di quanti sono in pericolo in mare”. Migranti. Salvini contro tutti: Ong, chiesa e intellettuali di Adriana Pollice Il Manifesto, 20 gennaio 2019 Strage nel Mediterraneo. Il vice premier attacca le ong, alludendo a una loro presenza in mare in concomitanza con i naufragi. Il sindaco di Palermo: “Al ministro Salvini direi: si farà un secondo processo di Norimberga e non potrà dire che non sapeva”. “Tornano in mare davanti alla Libia le navi delle Ong, gli scafisti ricominciano i loro sporchi traffici, le persone tornano a morire. Ma il cattivo sono io. Mah”: è la riflessione che Matteo Salvini ieri ha messo a commento della diretta Facebook. Brevi divagazioni sull’universo con un tema centrale: porti chiusi anche a costo di altri morti nel Mediterraneo. Un tema difficile sviluppato in un ambiente bucolico: felpa del gruppo sportivo della polizia in omaggio al pomeriggio di relax, gli utenti collegati oltre alla propaganda hanno potuto consumare anche un tour virtuale nell’orto tra cani, oche, galline, il tramonto sullo sfondo. Gran finale con saluti personalizzati, come nelle radio anni ‘80. La notizia ieri erano i dispersi dell’ennesimo gommone affondato per i ritardi nei soccorsi della Guardia costiera di Tripoli, mentre in 47 si erano salvati grazie alla Ong tedesca Sea Watch. Il presidente Sergio Mattarella nel pomeriggio ha espresso “profondo dolore per la tragedia che si è consumata nel Mediterraneo”. Il leader leghista ha attaccato via social: “Finché i porti europei rimarranno aperti, finché qualcuno continuerà ad aiutare i trafficanti, purtroppo gli scafisti continueranno a fare affari e a uccidere. Magari cominceranno le litanie “aprite, spalancate, accogliete”: no, no, no. Cuori aperti per chi scappa dalla guerra ma porti chiusi per Ong e trafficanti”. Il bersaglio sono le organizzazioni non governative: “Una Ong ha recuperato decine di persone. Si scordino di ricominciare la solita manfrina del porto in Italia. Si scordino di ricominciare come a Natale e Capodanno. La difesa dei confini nazionali è un dovere costituzionale”. E ancora: “Sarà una coincidenza che da tre giorni c’è una nave di una Ong olandese e tedesca che gira davanti alle coste della Libia e gli scafisti tornano a far partire barchini e barconi, che poi affondano. Se uno schifoso trafficante sa che se mette in mare questi disperati c’è qualcuno che li aiuterà, continuerà a far quattrini. Quelli che si fingono buoni si rivelano aiutanti dei cattivi”. Per poi concludere: “Vada a Belino e faccia il giro lungo passando da Rotterdam, facendoli scendere ad Amburgo”. Un utente, Michele, gli scrive: “Sono morte 112 persone in mare, di certo santo lei non è”. Salvini replica: “Nei loro paesi, con vie regolari, con associazioni e Ong per bene si distinguono coloro che scappano dalla guerra, e sono pochi, da coloro che non hanno diritto a partire”. Il ministro dell’Interno snocciola i numeri: nei primi 19 giorni di gennaio il calo degli arrivi è stato del 94%; più di 2mila sbarchi l’anno scorso, nel 2019 “siamo fermi a quota 100, meno problemi per chi parte e per gli italiani. Risolti i problemi dell’immigrazione - promette Salvini - potremo tagliare le tasse, azzerare la Fornero in modo da lasciare i posti ai giovani. In Italia prima c’erano diritti per tutti, casa per tutti, sanità per tutti”. Una frase che sarà suonata come musica alle orecchie di Forza nuova, che ieri ha manifestato a Milano al grido di “casa e lavoro solo agli italiani”. Salvini se la prende anche con la Chiesa: “Adesso cominceranno le litanie degli intellettuali, dei professoroni, di un cardinale. Qualche parroco su qualche giornale scriverà “chi viene a messa non può votare Lega”. Siete superati”. L’Osservatore romano ieri titolava “Strage nel Mediterraneo” e padre Alex Zanotelli attaccava: “Abbiamo un governo di barbari, la situazione è insostenibile. I nostri nipoti ci paragoneranno ai nazisti”. E il premier? Giuseppe Conte era in missione a Matera (da ieri Capitale della cultura 2019). Si è affidato a una diretta Facebook per allinearsi alla dottrina Salvini, evitando però di accusare le Ong: “Sono scioccato, siamo più convinti di prima nel contrastare i trafficanti. Non avrò pace fino a quando non saranno assicurati alla Corte penale internazionale. Quando avrò smesso il mandato di premier, mi dedicherò al diritto penale per perseguirli”. Di Maio accusa Parigi: “Ci sono paesi europei, in particolare la Francia, che tengono sotto scacco le economie africane impoverendole”. Diverso il pare di Roberto Fico, “Salvare vite umane è quello che fa una società sana”, e della ministra della difesa Elisabetta Trenta che ha commentato: “Il mio più profondo dolore per il naufragio nel quale hanno perso la vita oltre 100 persone. L’Europa non può più restare a guardare”. Il sindaco di Palermo Orlando attacca: “Al ministro Salvini direi: si farà un secondo processo di Norimberga e non potrà dire che non sapeva”. Migranti. Quelli che brandiscono il Vangelo e poi lo tradiscono ogni giorno di Roberto Saviano L’Espresso, 20 gennaio 2019 Matteo Salvini giura sui testi sacri, Luigi Di Maio bacia il sangue di San Gennaro, Giuseppe Conte visita Padre Pio. E poi sfruttano la sofferenza delle persone ?in mare per aumentare i loro voti. E hanno anche il coraggio di dirsi cristiani. Mentre sui social gli esponenti di questo governo ci vomitano addosso, quotidianamente, menzogne inaccettabili riguardo alla presunta chiusura di porti che chiusi non sono affatto, arriva la proposta del ministro Di Maio di accogliere in Italia solo le donne e i bambini presenti sulla Sea-Watch3 e sulla Sea Eye e di lasciare in mare gli uomini. Non c’è che dire, un atto di vera umanità. Che Di Maio non si vergogni di farsi megafono di tali assurdità dà la cifra di che enorme bluff sia, l’unica consolazione è che all’esito delle Europee la sua carriera politica potrebbe volgere al termine, non senza aver fatto danni. Poi arriva Toninelli, ovviamente su Facebook, quel ministro delle Infrastrutture costantemente bypassato dal collega Salvini. Toninelli ci tiene a sottolineare che i porti non sarebbero affatto chiusi; lo sapevamo, verrebbe da dire, e infatti da quando la Sea-Watch3 e la Sea Eye sono in mare, nei porti italiani sono stati accolti 165 migranti, 359 in tutto il mese di dicembre (dati diffusi dal Viminale). Ma anche se i porti non sono chiusi, Toninelli ci informa che secondo lui le Ong mentono sullo stato di necessità e di pericolo quando salvano i migranti sottraendoli ai lager libici e alle assurde condizioni in cui si troverebbero tornando in Libia. Per Toninelli le Ong non dovrebbero farsi carico di quegli esseri umani, ma lasciarli in balia dei loro aguzzini. Tacere su ciò che avviene quando i migranti tornano in Libia è atteggiamento ipocrita, viscido e colpevole. In Libia i migranti sono (de)tenuti in vere e proprie prigioni gestite, abbiamo le prove, dalle stesse organizzazioni che li mettono in mare e che su di loro hanno solo da guadagnare. Guadagnano dal governo italiano che finanzia la Guardia costiera libica e dagli stessi migranti che, sperando di essere liberati e messi in mare, si fanno arrivare da casa denaro (briciole, ma gli aguzzini si accontentano di tutto) raccolto mettendo insieme i risparmi di familiari e conoscenti. Che Toninelli possa ignorare tutto questo è impossibile, che finga di non sapere o che finga che le torture non esistano è di una gravità inaudita, soprattutto perché è un ministro. Su quella che chiama “emergenza migranti” il governo ha tutto da guadagnare perché, se le promesse fatte in campagna elettorale devono fare i conti con le casse dello Stato, non vale lo stesso per la propaganda sui migranti dove, per come intende questo governo l’accoglienza, non servono coperture ma c’è solo da far cassa di voti. Dopo Macerata, Lega e M5S hanno capito che la loro linea paga (la Lega ha capitalizzato assai meglio, perché vanta un passato razzista di lungo corso), che il cattivismo e la ferocia sono i fari da seguire e che solo quella può essere la direzione da prendere ora che si apre ufficialmente la campagna elettorale per le Europee. Per Lega e M5S dovrebbero esserci 10, 100, 1.000 Traini su cui speculare, perché l’obiettivo del Decreto sicurezza, che punta a illegalizzare gli immigrati rendendoli preda delle organizzazioni criminali, non è altro che acuire la tensione sociale. E allora baciare la bibbia (Salvini) o il sangue sciolto di San Gennaro (Di Maio), finanche andare in visita nel paese di Padre Pio (Conte) serve solo ad avere photo opportunity da caricare sui social, perché questo governo di cristiano e caritatevole non ha proprio nulla, ma solo una fame arrabbiata di voti. E così accade che ai “giornaloni” e ai “professoroni” si aggiungano i “pretoni”, ovvero Papa Francesco che esorta il governo italiano ad accogliere i migranti e dice che la paura di perdere voti è superiore al senso di umanità e che quando questo accade, la società si imbarbarisce. Ora, per riportare le cose al piano della razionalità, mi domando: possibile che non si riesca a fare un semplice “follow the money” o meglio un “follow the votes” sulla questione migranti? Chi racconta ciò che accade in Libia e in mare, e invita ad avere umanità, mediamente riceve insulti, anche se si tratta del Papa; chi invece ignora sofferenze e orrori, finisce con lo sfruttare il dramma dei migranti per accrescere la propria base elettorale. Pensateci bene, dunque, chi ci guadagna davvero?. Migranti. Il nostro governo è il responsabile politico di Filippo Miraglia (Arci) Il Manifesto, 20 gennaio 2019 Speriamo che la magistratura, oltre che le istituzioni internazionali, possa accertare presto le responsabilità, quelle giudiziarie, perché quelle politiche sono chiare. Il Parlamento chieda al Governo subito di spiegare la dinamica dei fatti e i dettagli dell’intervento italiano. Una strage annunciata quella avvenuta venerdì a 45 miglia dalla Libia, 117 persone scomparse, altri esseri umani lasciati morire. Si tratta di un vero e proprio crimine contro l’umanità, una strage i cui mandanti sono i governi europei e in primo luogo quello italiano. L’Italia, saputo del naufragio in corso, ha scelto ancora una volta la linea leghista, scaricando sulla cosiddetta guardia costiera libica l’onere di rintracciare la barca che stava affondando, anziché intervenire tempestivamente con i propri mezzi e coordinando i soccorsi, come avveniva fino a non molto tempo fa. I libici non sono riusciti a intervenire. Hanno a loro volta chiesto aiuto ed è per questo che l’aereo italiano è partito salvando i 3 superstiti. Per molte ore quelle persone sono rimaste in attesa di un aiuto che non è arrivato. La volontà di perseverare nell’illegalità internazionale è prevalsa e il gommone è affondato con il suo carico umano. Speriamo che la magistratura, oltre che le istituzioni internazionali, possa accertare presto le responsabilità, quelle giudiziarie, perché quelle politiche sono chiare. Il Parlamento chieda al Governo subito di spiegare la dinamica dei fatti e i dettagli dell’intervento italiano. È la prima strage del 2019 riconducibile al mancato soccorso italiano, giustificato dal ricorso a una finzione internazionale: l’esistenza di una guardia costiera e di una Sar libica. Quel tratto di mare oggi è un deserto, perché Salvini ha aperto una vera guerra contro le Ong e la loro attività di salvataggio in mare (in verità la campagna contro le Ong l’aveva promossa già il precedente governo con il codice Minniti), facendo prevalere il cinismo alla responsabilità istituzionale e al diritto internazionale. Responsabile della morte di 117 uomini, donne e bambini che avevano l’unica colpa di essere fuggiti dall’inferno libico, dalle violenze e dalle torture delle milizie sostenute dall’Italia, è quindi il nostro governo che, senza vergogna, davanti alla strage, continua a criminalizzare il salvataggio e a ricorrere alla solita retorica anti scafisti. Il salvataggio in mare, è bene ricordarlo, è un dovere in primo luogo degli Stati e poi di chiunque si trovi in prossimità di un naufragio. La retorica anti scafisti nasconde il sostegno alle milizie, cioè a coloro che ancora oggi, grazie all’aiuto italiano e internazionale, lucrano sulla pelle dei migranti. Impedendo alle Ong di operare nel Mediterraneo centrale, oltre a determinare un aumento dei morti, non si fa altro che dare una mano agli scafisti finalmente liberi di operare in quel tratto di mare senza testimoni, perché anche le navi commerciali se ne tengono lontane, per evitare guai col il nostro governo e anche con qualche magistrato troppo solerte. Intanto le partenze continuano, anche in pieno inverno, come dimostrano gli sbarchi sulle nostre coste di questi primi giorni del 2019. Dalla Libia, sempre più instabile a causa di una guerra civile che la comunità internazionale finge di non vedere solo per interessi interni, nei prossimi mesi le partenze rischiano di aumentare proprio a causa delle violenze e del conflitto in corso tra le milizie che controllano il territorio. Poche ore dopo il salvataggio dei 3 superstiti, la Sea Watch, sola Ong rimasta in quel tratto di mare (tutte le altre sono bloccate o si sono ritirate a seguito della guerra aperta da Salvini) ha tratto in salvo altre 47 persone che altrimenti, se fosse dipeso dal nostro Ministro dell’interno, sarebbero sicuramente morte. È importante che in questo momento si allarghi la mobilitazione intorno a Mediterranea, la piattaforma italiana che ha promosso un’azione di monitoraggio e denuncia nel mediterraneo centrale, concretizzatasi con tre missioni tra ottobre e dicembre del 2018 e con l’alleanza di soggetti europei United4Med per un programma europeo civico di ricerca e salvataggio. C’è bisogno di una grande mobilitazione della società civile italiana ed europea per garantire subito un approdo sicuro ai 47 naufraghi a bordo della Sea Watch, evitando che diventino ostaggi del cinismo dei governi. Bisogna dare voce e visibilità all’Italia e all’Europa che non vuole arrendersi al razzismo di Stato e che non vuole continuare ad assistere inerme alla strage di esseri umani perpetrata con ferocia in nome del consenso elettorale. Europa. I sovranisti vogliono un sovrano di Michele Ainis L’Espresso, 20 gennaio 2019 Nessuno Stato può vestirsi di panni aggressivi verso l’esterno conservandosi pienamente democratico al suo interno. Uno spettro s’aggira per l’Europa, scrivevano nel 1848 Marx ed Engels. A quel tempo il fantasma si chiamava comunismo, adesso è il sovranismo. Categoria politica in apparenza più precisa, più chiara da definire e da comprendere, rispetto al populismo cui viene spesso apparentata; ma chissà poi se è vero. Sappiamo che la parola deriva dal francese souverainisme, e infatti il Front National dei Le Pen (padre e figlia) è un po’ l’antesignano dei partiti sovranisti. Sappiamo che questi ultimi s’oppongono al trasferimento di poteri e competenze verso ogni istituzione sovranazionale, cavalcando la rivincita del vecchio Stato ottocentesco contro le malefatte della globalizzazione. Sappiamo che Brexit ne ha rappresentato, finora, il successo più vistoso. Infine sappiamo che la voglia di confini, la richiesta d’una diga contro i barbari invasori, riecheggia sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico. America First, tuona Donald Trump. Prima gli ungheresi, ruggisce a sua volta Victor Orbán. O gli austriaci, per il cancelliere Kurz. O gli olandesi, come diceva Wilders, fondatore del Partij voor de Vrijheid. O i tedeschi, secondo l’Alternative für Deutschland di Alice Weidel, che in Germania, l’anno scorso, ha sbancato alle elezioni. O gli sloveni, per l’ex Primo ministro Janez Jansa. E ovviamente, in Italia, prima gli italiani, ripetono in coro Salvini e Meloni, ma un po’ anche i 5 Stelle, e un po’ qualche formazione d’estrema sinistra, non soltanto alle nostre latitudini. Il protezionismo doganale viene infatti percepito come una misura in difesa degli strati più deboli della popolazione, come un soccorso per i cassintegrati, mentre l’euroscetticismo s’alimenta anche dei sentimenti d’avversione verso le politiche liberiste dell’Unione europea. Insomma, a quanto pare i sovranisti hanno una politica estera comune, non una politica interna, non la stessa concezione delle dinamiche sociali. S’incontrano sovranisti di destra e di sinistra, rossi o neri o gialloverdi. E semmai li accomuna una versione radicale del principio democratico, giacché quest’ultimo si nutre della relazione diretta fra cittadini e decisori, mentre le istituzioni sovranazionali sono remote, arcane, irresponsabili rispetto alle proprie scelte di governo. Errore, anzi doppio errore. Nessuno Stato può vestirsi di panni aggressivi verso l’esterno conservandosi pienamente democratico al suo interno. E il nazionalismo, l’autarchia, il respingimento dei migranti come fossero appestati, il presidio militare alle frontiere, incarnano per l’appunto una politica autoritaria. La storia, d’altronde, offre molte prove di quest’equazione. Per esempio l’Atene del V secolo, dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso: ne ricevette in sorte il governo dei Trenta tiranni, nonché l’eclissi delle antiche libertà. E a proposito di libertà, di diritti individuali e collettivi. O sono di tutti o di nessuno, giacché la libertà di pochi non è più un diritto, è un privilegio. I diritti costituzionali hanno una vocazione universale; e infatti il loro manifesto consiste nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata a Parigi nel 1948, lo stesso anno di nascita della Costituzione italiana. Non a caso la parola “tutti” si ripete per 21 volte nel testo licenziato dall’Assemblea costituente. Perché i diritti sono indivisibili. E sono tutti uguali, senza gerarchie né graduatorie al loro interno. Se li togli agli immigrati, ne stai rubando un pezzo pure ai cittadini. Altrimenti sarebbe come dire che è possibile confiscare le libertà dei calabresi, senza intaccare le libertà degli italiani. È dunque questa l’anatomia del sovranismo: una stretta sui diritti, in nome della sicurezza interna, della difesa contro l’aggressore. Nei tempi di pericolo la Repubblica romana s’affidava a un dittatore; può succedere di nuovo, anche se adesso il pericolo è presunto, gonfiato ad arte per gonfiare le vele del consenso. E allora, gratta gratta, esce allo scoperto la natura illiberale dei partiti sovranisti. Il sovranismo è la voglia d’un sovrano. Polonia. Danzica frontiera dell’odio di Wlodek Goldkor L’Espresso, 20 gennaio 2019 L’omicidio del sindaco Adamowicz segna l’abisso tra la cultura dell’apertura e i neo-nazionalismi. La tranquilla rivoluzione di Pawel Adamowicz, sindaco di Danzica accoltellato la domenica 13 gennaio, è stata aver compreso che la sua città aveva molto più in comune con Amburgo, in Germania o con Tallinn, capitale dell’Estonia, che non con certe province della Polonia. All’epoca dei sovranismi, della riscoperta delle identità nazionali di stampo etnico e soprattutto dell’esaltazione dei muri invalicabili, confini ermetici e porti chiusi, Adamowicz ha cercato invece di far rivivere, nella metropoli che amministrava e gestiva, lo spirito della città anseatica. Si è detto, Tallinn e Amburgo, ma l’elenco delle città della Lega anseatica nata alla fine del Medioevo, ma che nelle menti di tante persone, e soprattutto nelle architetture non ha mai cessato di esercitare un grande fascino, comprendeva tanti altri agglomerati urbani e la parola urbani è la chiave, affacciati sul Baltico, dominati da una borghesia che viveva grazie ai commerci, curiosa quindi del mondo e dei modi di vita degli altri. Adamowicz sapeva che, oltre alle frontiere e alla divisione del continente in Stati nazionali, esistevano altre, pregresse reti di collegamenti risalenti alla Storia di lunga durata, e che tenacemente sopravvivevano sotto la superficie dello stato presente delle cose. Ci sono in Europa una geografia, una geopolitica e una cultura alternative alla narrazione nazionalista, un passato che una volta riscoperto e riportato alla superficie diventa un presente interessante e bello da viversi e un progetto dell’avvenire non utopico, ma molto concreto perché fatto appunto dai modi di vita e di riconoscimenti dei segni e dei simboli esistenti da secoli. Va aggiunto che alle ultime elezioni amministrative, pochi mesi fa, in Polonia, la divisione tra grandi città e campagna era netta: in tutti i centri urbani sopra í duecentomila abitanti hanno vinto i candidati liberali e europeisti, nei luoghi sotto i cinquantamila abitanti hanno prevalso i sovranisti e i populisti. Danimarca. L’isola degli indesiderati, una soluzione danese di Lorenza Formicola lanuovabq.it, 20 gennaio 2019 Nota per essere progressista e molto tollerante, la Danimarca, sotto la guida del governo Rasmussen, ha adottato una politica molto dura sull’immigrazione. Gli stranieri condannati sul suolo danese, ma che non possono essere rimpatriati, verranno relegati sull’isola di Lindholm, in attesa di trovare un nuovo accordo per il rimpatrio. Il governo danese ha reso noto a novembre che i criminali stranieri condannati sul suolo danese verranno relegati su una isola al largo della costa della Danimarca, in attesa di trovare il modo di rimpatriarli. Il ministro delle finanze Kristian Jensen ha dichiarato che i criminali saranno detenuti in una struttura sull’isola di Lindholm, e che il progetto nasce da un accordo tra il governo danese guidato dal Partito Liberale del premier Lars Løkke Rasmussen, con il sostegno del Partito popolare danese (DF) e di altre due formazioni politiche. La proposta è stata approvata dal parlamento danese prima di Natale, e adesso sull’isola di Lindholm sono iniziati i lavori per poter accogliere al meglio gli immigrati che il Paese non vuole, e non è in grado, di gestire. L’immigrazione è diventata una spinosa questione politica in tutta l’Europa occidentale, a seguito dell’afflusso record di immigrati dal Medio Oriente e dall’Africa nel 2015, ma la vicenda dell’isola di Lindholm suggerisce che la questione ha assunto - come in tanti altri paesi europei - dimensioni insolite in Danimarca. Nonostante la reputazione di nazione progressista, umanitaria e fondata su un generoso stato sociale, la Danimarca ha alcune delle politiche anti-immigrazione più aggressive nel Vecchio Continente. La stampa, anche estera, ostile all’iniziativa di governo è da tempo che specula sull’argomento, denunciando anche, tra le altre cose, il grave pericolo per la Danimarca, in questo modo, di andare incontro ad una crisi demografica smisurata. Il Paese, però, ha deciso di dare una sterzata alle politiche che lo hanno reso ben visto a Bruxelles in passato, perché ad essere insostenibile è solo l’aria che l’immigrazione fuori controllo ha prodotto. Il gruppo di richiedenti asilo che sarà mandato a Lindholm è composto da criminali di vario genere, compresi quelli che sono stati condannati per essere espatriati, quelli che sono considerati una minaccia per la sicurezza della Danimarca e i cosiddetti “guerrieri stranieri”. E tra questi ci sono anche i richiedenti asilo che per varie ragioni - come il non aderire dei paesi d’origine alle convenzioni sui diritti umani, che vietano per esempio l’uso della tortura - non possono o si rifiutano di riprenderli. Ma il primo viaggio sull’isola è stimato da qui a tre anni. Fino al completamento della ristrutturazione, i richiedenti asilo rimarranno nel centro di Kærshovedgård, un’ex prigione istituita come centro per l’accoglienza nel 2016. Nel giro di due anni e mezzo da allora, la città di Bording, a due passi dal centro d’accoglienza, è diventata un “inferno in terra”, giurano i residenti. Dove, e nei d’intorni, tra l’altro, è in crisi anche il settore immobiliare. E non è complicato capire il perché. Raggiungono l’ordine quasi delle centinaia le accuse di violenza, vandalismo, rapine e crimini legati alla droga, che la polizia ha presentato ai danni solo degl’inquilini del centro per gl’immigrati. Senza contare quello che accade nel resto delle città. Tant’è che la decisione di inviare gl’immigrati criminali sull’isola di Lindholm ha generato solo sollievo e giubilo nei danesi. Specie nei residenti di Bording. Sentimenti opposti hanno pervaso, invece, i vicini di Lindholm: nella piccola città di Kalvehave, sulla terraferma, sono terrorizzati dal futuro centro di asilo. Al punto di proporre videocamere, recinzioni e persino filo spinato. Nel frattempo, è un po’ tutto il Paese che è alle prese con la presenza di società parallele musulmane. Un problema che riguarda le principali città danesi, e che è stato denunciato già due anni fa in un’indagine sotto copertura - di cui è stato poi fatto un documentario - che svelava il lavoro degli imam nel diffondere e difendere una società islamica governata dalla shari’a, e parallela a quella danese. Nel febbraio 2018, ad esempio, la televisione danese TV2 News ha visitato Vollsmose, un quartiere della terza città più grande della Danimarca, Odense, dove prevalgono questo tipo di società musulmane e ne è emersa un’importante segregazione di genere: interi quartieri dove le donne non sono ammesse perché “questa è la legge islamica, uomini e donne non si siedono insieme”. Anche l’orizzonte danese è cambiato, e nell’arco di una sola generazione. Il crescente numero di moschee ha modificato, però, anche l’impatto culturale e le abitudini di una nazione, che ormai è assuefatta a minareti e chiamate alla preghiera islamica. Obbiettivo dichiarato tempo addietro dall’associazione culturale turca, promotrice della costruzione dell’imminente moschea - alta 24 metri e visibile dall’autostrada - a Århus, seconda città della Danimarca. Complice il progetto di Erdogan di diffondere l’islam in Occidente, grazie ai turchi immigrati in Europa. Pensare che in Danimarca ci sono già 30 moschee turche sulle 170 del Paese. Nel 2006, erano 115 in tutta la Danimarca - un aumento di quasi il 50% in poco più di un decennio. Oggi gl’immigrati costituiscono l’8,5% della popolazione, ed è stato pronosticato che entro il 2060 saranno il 13% a pesare, comunque, sulle spalle dei contribuenti. Il costo, infatti, per lo Stato danese è di 33 miliardi di corone danesi (4,4 miliardi di euro). E intanto, uno studio governativo di dicembre ha denunciato gli enormi problemi di integrazione degli immigrati di prima, seconda e terza generazione. Enormi difficoltà si stanno manifestando soprattutto nelle scuole, anche perché i più rifiutano di imparare la lingua. Cina. Il rating del “buon cittadino”: così si realizza l’incubo di Orwell di Alessandro Gilioli L’Espresso, 20 gennaio 2019 È partito in Cina il primo esperimento di classificazione delle persone. A ogni essere umano viene dato un punteggio a seconda dei suoi comportamenti. Con premi e punizioni. Da poche settimane l’aeroporto di Shenzhen, in Cina, ha iniziato la sua prima sperimentazione basata sul Sistema di Credito Sociale. I passeggeri che fanno parte del programma hanno una card che ne definisce l’affidabilità e la reputazione. Chi ha un punteggio alto avrà un canale preferenziale nei controlli e al check-in; chi ce l’ha basso, sarà sottoposto a controlli più approfonditi. Il punteggio viene dato, nel tempo, dalle autorità aeroportuali e dalle compagnie aeree che hanno aderito all’iniziativa. Si perdono punti litigando in aereo, ad esempio; se ne guadagnano attraverso azioni virtuose, come indicare alla sicurezza dello scalo un bagaglio incustodito. L’esperimento fa parte di un programma molto più ampio annunciato da Pechino già nel 2014 e che ha come obiettivo il 2020, quando dovrebbe essere esteso a tutti i cittadini della Repubblica popolare - e non soltanto per gli aeroporti. Un esempio è quanto sta già accadendo nella cittadina di Rongcheng, poco meno di 700 mila abitanti, 800 chilometri a est di Pechino, sul mar Giallo. Qui la macchina del rating individuale è partita l’anno scorso e riguarda una serie di comportamenti civici: ad esempio si perdono punti se non ci si ferma con la macchina alle strisce pedonali, se ne guadagnano facendo volontariato nel quartiere. Si parte tutti da mille punti, poi si può scendere o salire. Chi scende, per esempio, non potrà acquistare biglietti aerei o del treno ad alta velocità: per uscire da Rongcheng dovrà accontentarsi del vecchio autobus; oppure viene bannato dagli acquisti di alcuni generi di consumo. Chi sta in alto con i punti invece avrà sconti sulle bollette del riscaldamento e un trattamento di favore nella concessione di prestiti bancari. I punteggi di ciascuno sono attribuiti da un combinato tra dati oggettivi (ad esempio, se si ritarda un pagamento dovuto o si prendono multe) e di valutazioni sulla base di informazioni raccolte da funzionari della pubblica amministrazione. I risultati complessivi sono pubblici, perché la comunità sappia quali suoi concittadini sono più virtuosi e quali meno; e affinché si inneschi nelle persone la vergogna del pubblico ludibrio o l’orgoglio del pubblico elogio. Chi scende nella classifica può risalire in vario modo: ad esempio facendo beneficenza, donando sangue, svolgendo del lavoro gratuito per la collettività o con altre azioni meritorie come ospitare in casa propria parenti in difficoltà economica. La tv americana Vice News, in un reportage del mese scorso, ha raccolto la testimonianza di un cittadino di Rongcheng che non aveva più il punteggio sufficiente per prendere il treno ma, dopo varie azioni considerate virtuose, è riuscito a risalire da rating B a rating A: “Finalmente sono tornato una persona normale”, ha spiegato sorridente alla telecamera. I meccanismi punitivi variano a seconda delle 12 diverse zone in cui il credito sociale viene sperimentato: oltre al ban su trasporti e acquisti, si può incorrere nell’esclusione da determinati hotel (quelli più di lusso), nel rallentamento della connessione a Internet e nell’esclusione dei figli dalle migliori scuole. Per contro, tra i premi ci sono facilitazioni nell’assegnazione degli alloggi e nella concessione dei permessi di viaggio; e niente caparre per noleggiare un’automobile. Non è ancora chiaro come dalle zone di sperimentazione locale il sistema si estenderà dal 2020 a livello nazionale. I ricercatori cinesi che ci stanno lavorando escludono, almeno per ora, un unico “grande fratello” accentrato a Pechino: il Credito sociale, dicono, sarà piuttosto un ecosistema costituito da più piattaforme di varie dimensioni e portata, gestite da città, ministeri, fornitori di servizi online, quartieri, biblioteche e imprese. Si sa già invece che diverse corporation digitali cinesi sono coinvolte nel progetto, sempre sotto il controllo del governo: tra queste Alibaba, Baidu e Tencent Holdings, la proprietaria di WeChat. Quest’ultima è nata e ha sede proprio a Shenzen, il cui aeroporto - come si diceva - è il primo a sperimentare il Credito sociale. Non è esattamente un caso se a guidare la ricerca e l’applicazione nel Credito sociale sono le compagnie digitali, quelle che da tempo operano in Rete. Prima di tutto perché sono queste a raccogliere i big data su persone fisiche e giuridiche, quindi sono già una sorta di panopticon, come del resto Facebook, Google e le altre over the top elettroniche. Già oggi, per esempio, queste aziende sanno se acquistiamo on line innocui pannolini e cibo per gatti o brani di trap diabolica, superalcolici e scommesse. Ma il compito è “naturalmente” affidato alle big digitali anche perché il sistema del rating nasce proprio in internet: da più di vent’anni eBay funziona così, a stelline, e allo stesso modo la valutazione reputazionale è alla base di tutti gli altri servizi commerciali on line, da Airbnb alle piattaforme di mobilità. È l’economia della reputazione: per capirci, quella che recentemente ha convinto Dolce e Gabbana a un video di contrizione per non perdere il mercato asiatico. Dalle aziende e dai marchi, l’economia della reputazione tracima già oggi sui singoli, sui cittadini - e da qui le tante controversie sul cosiddetto “diritto all’oblio”, o più semplicemente la misurazione della nostra autorevolezza sulla base dei follower nei social network o sui like e le condivisioni che otteniamo con un singolo post. La persona diventa così un prodotto - o un brand - che ha un suo rating come ogni altro brand: una catena di hotel, un marchio della moda, un sugo pronto. In altre parole, il Sistema di Credito Sociale cinese non nasce dal nulla, ma da una prassi che ormai è consolidata nella società contemporanea: quella in cui ciascuno di noi è continuamente sottoposto a valutazione reputazionale e al conseguente rating, come fornitore o cliente di servizi, ma anche come persona a tutto tondo. Fino alle conseguenze più estreme come quelle raffigurate da una recente pubblicità on line di The Inner Circle, sito di “dating selettivo” (come si autodefinisce) che per fare concorrenza a Tinder si rivolge così ai suoi potenziali clienti: “You’re a ten so date a ten” (sei un dieci, perciò esci con un dieci). Un’applicazione insomma del rating sociale al campo seduttivo-sessuale, almeno nelle promesse pubblicitarie (cit. Fabio Chiusi, autore del recente libro “Io non sono qui”, edizioni DeA, che affronta diversi di questi temi). Più genericamente, anche una semplice ricerca su Google con il nostro nome è già una valutazione reputazionale. Non a caso googlare un nome è la prima cosa che fa un capo del personale nel valutare un candidato - o un single nel valutare un possibile partner. Il Sistema di Credito Sociale voluto da Pechino non fa quindi che universalizzare e sistematizzare il mantra globale del “rate and be rated”, creando una sorta di patente a punti della buona o cattiva persona. Quella cinese è un’enfatizzazione e accelerazione della dinamica basata sulla valutazione continua delle persone che nel gigante asiatico è più estremizzata, forse anche grazie all’incontro con la cultura confuciana dell’armonia sociale e con quella autoritaria, pervasiva e securitaria del partito comunista. È tuttavia interessante osservare come la case history di Rongcheng - e altre simili - mescoli aspetti elettronici (telecamere, algoritmi, internet etc.) ad altri che invece sono del tutto fisici: i funzionari che valutano le persone girano per le strade a piedi, chiacchierando con i passanti, osservandoli, raccogliendo informazioni e segnandosi il tutto su un quadernetto di carta. Digitale e analogico insomma che marciano divisi per colpire uniti, all’interno della stessa visione, in un cerchio che parte dal virtuale per tornare al fisico e reincluderlo. In Occidente le reazioni alla sperimentazione cinese sono molto diverse tra loro, divise tra quelle degli apocalittici e quelle degli integrati. I primi vi leggono la fine delle democrazie liberali e trovano questo passaggio dolorosamente coerente con la diffusione delle “democrature” autoritarie, con la trasformazione del soft power in “sharp power” digitale (cit. Paolo Messa). I secondi non vi vedono altro che un confortevole strumento di stabilizzazione delle società complesse, in cui ognuno ha un impatto sugli altri e quindi deve risponderne: se il vicino di casa non fa la differenziata e anzi lascia il materasso accanto ai cassonetti, cosa c’è di sbagliato se perde un po’ di punti sulla sua patente di cittadino ne paga le conseguenze? È giusto così. Le reazioni più comuni rimandano però alle serie tv che hanno già ipotizzato questa deriva con toni distopici: il celebre episodio “Nosedive” (Caduta libera) di Black Mirror, che immaginava una società in cui a ogni persona era associato un punteggio da 1 a 5 in base alla sua reputazione pubblica, con premi e punizioni corrispondenti; ma anche la puntata “Majority Rule” della serie The Orville, in cui gli astronauti atterrano in un pianeta dove ogni cittadino schiaccia like o dislike sul petto dell’altro e i peggio quotati finiscono in un processo-talk show dove vengono condannati o assolti dai telespettatori via internet. Fiction di successo che sembrano tuttavia avere una funzione più che altro apotropaica, scaramantica: le guardiamo e pensiamo che possa succedere solo lì, in quei mondi fantascientifici, non certo da noi. Così come guardando gli esperimenti cinesi siamo portati a ritenere che il sistema di credito sociale riguardi soltanto quel Paese, il suo assetto autoritario e il suo partito-Stato. Non sono cose che coinvolgono noi, pensiamo: pur essendo tutti ogni giorno indicizzati, taggati e sottoposti a rating; pur consegnando alle major digitali tutti i nostri dati, i nostri gusti, i nostri desideri, le nostre simpatie politiche, le nostre preferenze sessuali, i nostri volti, i nostri comportamenti quotidiani e qualsiasi altra cosa che ci riguardi. Noi non c’entriamo, noi siamo salvi. O no?