Carceri, che anno è stato il 2018? di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 1 gennaio 2019 L’aumento dei suicidi, la crescita del sovraffollamento, ed una “riformina” dell’ordinamento penitenziario. Sono questi alcuni dei tratti salienti che hanno caratterizzato il 2018 per quanto riguarda il sistema carcerario italiano. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i detenuti sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Con una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%. Il sovraffollamento è però molto disomogeneo nel paese. Al momento la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 161%, seguita dalla Lombardia con il 137%. Se poi si guarda ai singoli istituti, in molti (Taranto, Brescia, Como) è stata raggiunta o superata la soglia del 200%, numeri non molto diversi da quelli che si registravano ai tempi della condanna della Cedu. “L’indirizzo dell’attuale governo - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. Ciò significa che ad oggi servirebbero circa 40 nuovi istituti di medie dimensioni per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti dal 2014 ad oggi ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo”. “Quello che si potrebbe fare subito - sostiene Gonnella - è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre - conclude il presidente di Antigone - andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente”. Il 2018 ha inoltre visto crescere il numero dei suicidi avvenuti dietro le sbarre. Sono stati 63 (4 nel solo istituto di Poggioreale a Napoli), il primo avvenuto il 14 gennaio nel carcere di Cagliari e l’ultimo il 22 dicembre in quello di Trento. Era dal 2011 che non se ne registravano così tanti. Ogni 900 detenuti presenti, durante l’anno, uno ha deciso di togliersi la vita, venti volte di più che nella vita libera. “Di fronte a questa lunghissima serie di tragedie - dice Patrizio Gonnella - abbiamo promosso una proposta di legge per prevenire i suicidi”. La proposta si articola in tre punti: maggiore accesso alle telefonate, maggiore possibilità di passare momenti con i propri famigliari, inclusa l’opportunità di avere rapporti sessuali con le proprie compagne o con i propri compagni, una notevole diminuzione dell’utilizzo dell’isolamento. “Per prevenire i suicidi in carcere bisogna togliere la volontà di ammazzarsi e non limitarsi a privare i detenuti degli oggetti con cui farlo. La prevenzione dei suicidi - sostiene il presidente di Antigone - ha a che fare con la qualità della vita interna, con la condizione di solitudine, con l’isolamento e con i legami affettivi all’esterno. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo. Abbiamo inviato questa proposta ai parlamentari - conclude Gonnella - e a gennaio incontreremo alcuni di loro affinché arrivi presto in Parlamento”. L’anno che sta per chiudersi ha visto anche l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, a conclusione di un iter avviato dal precedente governo che aveva convocato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale a cui avevano partecipato addetti ai lavori provenienti da diversi mondi. Gran parte delle indicazioni uscite da quella consultazione sono state disattese, in particolare proprio sulle misure alternative alla detenzione. Tuttavia su alcuni temi si sono fatti dei piccoli passi avanti, ad esempio con la creazione di un ordinamento penitenziario per i minorenni. Nel corso del 2018 Antigone, grazie alle autorizzazioni che da 20 anni riceve dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha visitato con i propri osservatori 86 istituti penitenziari. L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso ma, nei 70 istituti per cui è conclusa, abbiamo rilevato che nel 20% dei casi ci sono celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq ciascuno. Nel 36% degli istituti visitati c’erano celle senza acqua calda e nel 56% celle senza doccia. Nel 20% non ci sono spazi per realizzare lavorazioni di tipo industriale e nel 29% non c’è un’area verde in cui incontrare i familiari d’estate. E queste, è importante ribadirlo, sarebbero tutte cose previste per legge. Si continua a registrare carenza di personale. Negli istituti visitati c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti. Ma in alcuni realtà si arriva a 3,8 detenuti per ogni agente (Reggio Calabria “Arghillà”) o a 206 detenuti per ogni educatore (Taranto). Dove siamo stati lavorava per il carcere il 28,9% dei detenuti, mentre solo il 2,5% lavorava per datori di lavoro privati. La scuola è presente quasi ovunque ma la grande assente è la formazione professionale. Questa coinvolgeva in media il 4,8% dei detenuti negli istituti da noi visitati e tra questi, in 28 (40%), non c’era alcuna offerta di formazione professionale in corso. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Di prigione si muore di Pietro Palau Giovannetti* lavocedirobinhood.it, 1 gennaio 2019 Lettera aperta al Ministro della Giustizia, al Presidente del Consiglio e al Presidente della Repubblica. A nome dell’Associazione che rappresento e degli italiani pensanti che si riconoscono nei princìpi dell’Illuminismo, delle libertà fondamentali e dei diritti umani, Vi invito ad aiutarci a far uscire il nostro Paese dal buio dell’economia medievale del castigo e del supplizio dei corpi e dell’anima. Ditelo insieme a noi: “Io sto con Cesare Beccaria!”. Fate sentire la voce delle 67 vittime che anche quest’anno si sono suicidate in carcere per disperazione. È di Natale la notizia che un operaio, malato cronico è morto in cella, vedendosi negare per tre volte i domiciliari, seppure detenuto per reati lievi, per cui non avrebbe dovuto neppure entrare in carcere, avendo diritto di usufruire di misure alternative. Lasciare morire in cella un uomo malato bisognoso di cure è un gravissimo crimine sociale. Così come lo è privare della libertà e di ogni speranza oltre 60.000 detenuti, sino a spingere molti di essi al suicidio. Degli ultimi tre suicidi di Stato dei giorni scorsi, quello più emblematico dell’agghiacciante arretratezza culturale e morale della Giustizia italiana è la morte di Daniele Giordano, noto alle cronache come il “ladro di merendine”, tanto da essere stato ribattezzato “serial Kinder”, per avere rubato 68 confezioni per un valore di circa 200 euro. Sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno è stato rispedito in carcere, dove si è poi suicidato nel bagno della cella, con un lenzuolo legato alla finestra, quando avrebbe avuto bisogno solo di cure per liberarsi dall’ossessione di rubare merendine Kinder dai supermercati della sua città (Catania). La certezza della pena non è riempire le carceri di poveri cristi, malati, anziani, tossicodipendenti, extracomunitari, soggetti svantaggiati e nullatenenti, spesso internati per reati di lieve entità a pene sproporzionate e degradanti. Va imprigionato solo chi è socialmente pericoloso, chi può ancora uccidere, rapinare, corrompere o, usare violenza su donne e bambini, chi può ancora ricattare, estorcere e rubare danaro pubblico, chi può ancora abusare della sua posizione dominante, dopo avere assicurato tutte le garanzie costituzionali del giusto processo. Ma che senso può avere oggi la singolare pretesa di rinchiudere solo la povera gente? Questo sistema penitenziario è privo di qualsiasi umanità e giustificazione etica, morale, politica. È una barbarie, una reminiscenza ereditata dalle segrete medievali, senza alcun contenuto pedagogico, curativo, correttivo, rieducativo. Nelle moderne “città della sofferenza”, corpi e anima si trovano irretiti in un sistema di costrizioni e privazioni, di obblighi e divieti, continui e laceranti, che soffocano ogni speranza e lo stesso desiderio di vivere. Il castigo è passato dai patiboli innalzati nelle piazze, dove venivano esercitati in pubblico supplizi insopportabili, sino alla morte, ad una violenza privata sistematica di diritti sospesi, consumata in silenzio all’interno delle oscure e più discrete mura carcerarie, straziando e manipolando i corpi e l’anima dei giustiziandi. Un supplizio moderno che agisce sui cuori, le menti, i desideri e la volontà, con l’obiettivo di renderli docili e farli morire dentro. Lei stesso Ministro Bonafede ha di recente ricordato che i “colletti bianchi” rappresentano solo lo 0,6% dell’intera popolazione detenuta e che, in relazione all’alta percentuale di suicidi, “è inaccettabile che in uno stato di diritto un detenuto possa preferire la morte al carcere”. Cosa che io stesso mi sono, mio malgrado, trovato a desiderare, proprio in questi giorni, quando lo scorso anno ero stato ingiustamente privato della mia libertà personale, a Rebibbia, in una cella gelida e fatiscente, solo per avere denunciato la vasta corruzione della magistratura italiana. Mi permetto quindi di suggerire che la soluzione non sta nel costruire nuove carceri, assumere nuovo personale, restringere l’accesso alle misure alternative o inasprire le pene e il regime carcerario, già di per sé molto duro, tanto da spingere molti detenuti al suicidio. Ma, nell’inaugurare, nel 2019, una nuova era dei diritti, dando fiducia e speranza anche ai soggetti più deboli che hanno commesso dei reati, senza farli marcire nelle patrie galere. Lasciate la sottocultura della galera alla miserabile propaganda di coloro ai quali consiglio di andarsi a rileggere Cesare Beccaria (se mai lo hanno letto) o, di provare a far visita anche una sola volta ad un carcere, dove molto spesso sono reclusi vittime innocenti di errori giudiziari o perseguitati politici dell’ancien régime. Noi cittadini comuni chiediamo giustizia vera e subito. I diritti negati non possono aspettare. Bisogna cambiare le logiche corrotte e anacronistiche del sistema giudiziario proteso a difendere ad oltranza gli interessi delle élite dominanti, che soffocano la crescita democratica e inquinano le regole del processo. Il Paese abbisogna solo di magistrati liberi e indipendenti non asserviti ai partiti. Un Governo del Cambiamento deve avere il coraggio di fare una rivoluzione culturale, cacciando le molte mele marce, spesso annidate nei più alti gangli di comando delle procure italiane e del C.S.M., che impediscono l’esercizio dell’azione giudiziaria nei confronti di soggetti in posizione dominante, sancito dall’art. 112 Cost. (principio dell’obbligatorietà dell’azione penale), calpestando il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3) e il principio di legalità (art. 25 c. 2), intimamente collegati al principio dell’indipendenza esterna (o, anche detta, “indipendenza istituzionale”) dei pubblici ministeri, discostandosi da un passato autoritario (quello fascista), ove la soggezione dei P.M. al Ministro della Giustizia, di fatto nullificava la concreta applicabilità dell’omologo principio, pur se anche allora formalmente espresso. A mio sommesso avviso, se si vuole veramente restituire alla Giustizia la sua più nobile funzione bisogna rieducare alla legalità e al rispetto dei diritti umani, per primi coloro che l’amministrano: magistrati, avvocati, forze dell’ordine, polizia penitenziaria. La lentezza della giustizia e l’enorme carico di processi dipendono solo dal disegno criminogeno di negare i più elementari diritti dei cittadini, ritardando all’infinito il riconoscimento delle libertà fondamentali, quali il lavoro, la casa, la sicurezza, la buona sanità e amministrazione della cosa pubblica, l’accesso al credito, alla giustizia giusta. Rivolgo quindi a Voi Sig. Ministro della Giustizia, Sig. Presidente del Consiglio e Sig. Presidente della Repubblica, quest’ultimo appello di fine anno di affermare a chiare lettere, senza se e senza ma: “Io sto con Cesare Beccaria!”. Se volete essere veramente rappresentativi di tutti gli italiani ed orgogliosi di avere fatto qualcosa di veramente utile per il Paese, Vi invito ad incontrare le Associazioni che lottano da decenni per l’affermazione dei diritti e della legalità, facendo piazza pulita degli infedeli servitori dello Stato. Noi sappiamo chi sono e basterebbero poche indagini patrimoniali per smascherarli tutti. *Presidente di Avvocati senza Frontiere Messaggio di fine anno del Capo Dap al Corpo di Polizia Penitenziaria di Francesco Basentini* penitenziaria.it, 1 gennaio 2019 In Italia ci sono quasi 37mila uomini e donne che ogni giorno lavorano (anche) alla nostra sicurezza. Ma pochi lo sanno. Perché la gran parte del loro lavoro si svolge dietro pesanti cancellate di ferro e al di là di enormi mura, talvolta vere e proprie fortezze, che non lasciano molto spazio all’immaginazione né alla fantasia. E poi perché quello che avviene dietro quelle sbarre e quelle mura interessa a pochi, salvo quando capita qualcosa di grave. Eppure, per ventiquattro ore al giorno e per trecentosessantacinque giorni all’anno questi uomini e donne in divisa blu e basco azzurro contribuiscono direttamente o indirettamente a farci sentire più sicuri, noi e la nostra società. Come? Svolgendo tutta una serie di compiti istituzionali che rendono la loro mission qualcosa di unico rispetto alle altre Forze dell’ordine: perché assicurano l’esecuzione delle pene attraverso la custodia in carcere dei detenuti, garantendo la loro salvaguardia dentro e fuori dall’istituto; ma al tempo stesso partecipano all’osservazione e al trattamento rieducativo dei reclusi, contribuendo con operatori specializzati e volontari a rendere più concreto quel recupero sociale che la nostra Costituzione ci impone e che altrimenti rimarrebbe un mero principio. Rivestono le attribuzioni di Sostituti Ufficiali di Pubblica Sicurezza, Agenti di Pubblica Sicurezza, Ufficiali ed Agenti di Polizia Giudiziaria e Polizia Stradale. E lo fanno con lo sguardo fiero e orgoglioso, nonostante le tante difficoltà in cui da anni si trovano costretti ad operare. Qualche giornalista disattento continua a chiamarli “secondini” o “guardie carcerarie”, forse con una punta di maliziosa irriverenza. Qualcun altro, in un impeto di solidarietà, scrive che in galera ci stanno anche loro, oltre ai detenuti. Pochi giorni fa il Ministro Bonafede li ha ringraziati per l’ennesima volta, chiedendo al tempo stesso pubblicamente “scusa per le condizioni in cui lo Stato vi ha costretti a lavorare”. Sono gli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria. Avrebbero bisogno di forze fresche e di risorse: il loro organico è stato tagliato improvvisamente di oltre 4mila unità dal precedente governo ed è particolarmente carente in alcune figure professionali. Il Governo Conte sta correndo ai ripari e qualche giorno fa il Guardasigilli ha annunciato “l’assunzione di circa 1.300 agenti nel 2019”. Nonostante ciò si trovano a fronteggiare un sovraffollamento che è tornato a risalire: il numero dei detenuti presenti ha superato quota 60mila, ben tremila in più rispetto a un anno fa. E sono in aumento anche gli eventi critici da fronteggiare, di certo quelli più gravi che costringono questi uomini e donne in divisa blu a turni massacranti e interventi sempre più in emergenza. Perché se è vero che il totale dei suicidi di detenuti è ad oggi salito a 61, sono stati quasi 1.200 i tentati suicidi nel 2018 e molti di questi sono rimasti solo tentati proprio grazie alla pronta capacità di intervento del personale in servizio; così come negli oltre 10mila casi di autolesionismo e 11mila casi di invio urgente di reclusi in ospedale numerosi sono coloro che i medici hanno potuto salvare per la tempestività del primo soccorso prestato loro dagli agenti. Per non parlare delle quasi 700 aggressioni fisiche subite dai detenuti quest’anno; dei 300 incendi dolosi appiccati per protesta all’interno dei reparti detentivi; degli oltre 3mila casi di violenze, minacce e atti di resistenza a pubblico ufficiale; delle 3.600 aggressioni, ferimenti, colluttazioni e persino tentati omicidi fra detenuti; delle oltre 3mila perquisizioni ordinarie e straordinarie che hanno portato al sequestro di droga, telefonini, coltelli e armi rudimentali. Quattro sono stati gli evasi dagli istituti, tutti ripresi grazie all’opera del Nucleo Investigativo Centrale (Nic) della Polizia Penitenziaria e più di 40 i tentativi sventati fra interventi da parte degli agenti e attività di controllo preventiva. Due le rivolte sedate e senza dover ricorrere alla forza: la seconda qualche giorno fa a Trento, complicata, dura e con gravi pericoli per l’incolumità di personale e detenuti coinvolti. Non una vita facile quella dei poliziotti penitenziari, che comunque continuano a lavorare con immutata professionalità. Nell’anno che si sta concludendo hanno portato a casa risultati importanti: sono numeri frutto del lavoro svolto da ognuno di loro, ciascuno per la propria parte; ma rappresentano la cifra di un impegno dalle diverse sfaccettature. Che pochi conoscono. A loro auguro di cuore un 2019 migliore. *Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Mattarella in campo contro i “cattivisti” di Ugo Magri La Stampa, 1 gennaio 2019 Nel suo messaggio agli italiani, il presidente ha puntato sui “buoni sentimenti”. Senza risparmiare bacchettate a molti protagonisti. Sergio Mattarella suona la carica dei buoni sentimenti. Invita quanti ancora ci credono ad alzare la voce, a venire allo scoperto senza più timidezze. Basta con i predicatori di rancore, stop all’astio, all’insulto, all’intolleranza che dilagano sui social e nella politica, dice il presidente. È un’esortazione che sa un po’ di predica, magari suona anche un filo retorica, e Mattarella stesso lo riconosce. Ma se la sera di San Silvestro sente il bisogno di riaffermare ciò che tiene unita una comunità, la nostra, un motivo ci dovrà pur essere. Forse si è oltrepassato il segno del confronto civile. O magari, il Capo dello Stato avverte che la “faccia feroce” di alcuni noti protagonisti sta incominciando a stancare, una parte dell’Italia ormai non ne può più, per cui sente che è giunto il momento di cambiare la narrazione. Contro gli ultras del “cattivismo” Mattarella mobilita la forza mite dei sentimenti civili. Un paio di messaggi a Salvini - Il senso “buonista” del messaggio non deve tuttavia ingannare: pur senza calcare troppo, e sempre con il sorriso sulle labbra, il presidente distribuisce diverse bacchettate. La prima al governo, che nella Manovra del Popolo ha messo nel mirino il volontariato: no alla “tassa sulla bontà”, avverte. L’ultima reprimenda arriva verso la fine, quando il presidente sottolinea - quasi en passant - che la funzione delle Forze armate “non può essere snaturata”: altro che fare riparare all’Esercito le buche di Roma, come vorrebbero alcuni grillini. Poco prima, parlando di Forze dell’ordine, Mattarella ha segnalato l’importanza della divisa, “patrimonio da salvaguardare perché appartiene a tutti i cittadini”: forse, chissà, anche un modo soave per ricordare a Salvini che farebbe meglio a non circolare con le felpe della Polizia. Anche perché la sicurezza rimane, nonostante i suoi proclami, un nervo scoperto della collettività. Mattarella è molto netto al riguardo: “Non sono ammissibili zone franche dove la legge non è arrivata e si ha talvolta l’impressione di istituzioni inadeguate, con i cittadini che si sentono soli e indifesi”. Il sottinteso è che resta molto da fare, forse Salvini dovrebbe concentrarsi di più. Richiamo preventivo ai “sovranisti” - Senza mai alzare la voce, il presidente constata come la “grande compressione del dibattito parlamentare” e la “mancanza di un opportuno confronto” sulla legge di bilancio non siano state un bello spettacolo. Si augura che in futuro lo sfregio alle Camere non debba ripetersi. E dal momento che sui conti è stata siglata una tregua con l’Europa, Mattarella lancia un richiamo preventivo: alle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo si evitino, per favore, campagne denigratorie contro l’Unione. È un monito rivolto, si capisce, ai cosiddetti sovranisti, non certo a chi nell’Europa ci si trova bene. Insomma, con il suo tono gentile, rispettoso e garbato, il Capo dello Stato ha rivolto agli italiani il discorso forse più sottilmente politico del suo settennato. Dal Palazzo del Quirinale, in 14 minuti, cronometro alla mano. Mattarella e i “buoni sentimenti” di cui non aver paura di Marzio Breda Corriere della Sera, 1 gennaio 2019 Il capo dello Stato cita in tv l’esempio della gente comune, che dà vita a forme di solidarietà e senso civico, lavorando con tenacia e competenza. Non è un paradosso che la parte più politica del discorso di fine anno del presidente della Repubblica sia quella destinata a esser liquidata da qualche critico come “la retorica dei buoni sentimenti”. Mattarella l’ha messo in preventivo, quando ha scelto il modo per rilanciare ai cittadini e ai capipartito la sua idea di Costituzione e di Stato-Comunità, parlando in un modo ben diverso da quello in voga, dominato da “astio, intolleranza, insulto”. (E resterà deluso chi si aspettava espliciti moniti al governo o fiancheggiamenti all’opposizione). Il preambolo su cui fa calare l’appello a non aver timore di manifestare - praticandoli - appunto “i buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società”. E fa perno dunque sull’”Italia che ricuce e dà fiducia” e che evoca anche quando parla di questioni strettamente politiche. Come “la sicurezza” che - ricorda, rivolto a quanti sanno solo aizzare paure - si fa certo sentire dove dominano le mafie e in molte periferie urbane e purtroppo pure negli stadi, ma che è anche altro. Infatti, se per sicurezza intendiamo le basi stesse della convivenza civile, secondo lui a quei concetti dobbiamo aggiungere “lavoro, istruzione, più equa distribuzione di opportunità per i giovani, attenzione per gli anziani e serenità per i pensionati”. Certo, nel memorandum ci sono pure rimandi espliciti alla politica. C’è un riferimento alle “tasse sulla bontà” presenti nella manovra e che il governo ha promesso di correggere, perché, come lui dice, “vanno evitate”. E anche un’allusione al pilastro del Welfare come il servizio sanitario nazionale, “da preservare”. O, ancora, un cenno al Parlamento, il cui ruolo e la cui dignità non vanno più mortificati con “la grande compressione” che abbiamo visto fino all’altro ieri con il voto sulla manovra finanziaria. Ma ciò che preme a Mattarella, alla vigilia del voto europeo e di altre prove difficili che ci attendono, sono gli esempi di tanta gente comune che dà vita a forme di solidarietà e senso civico, lavorando con tenacia e competenza. Perché spera che le loro storie spezzino la spirale del tutti contro tutti e alimentino un processo imitativo di cui abbiamo bisogno. Dentro le caverne della giustizia amministrativa di Rocco Todero Il Foglio, 1 gennaio 2019 Il Governo guidato da Di Maio e Salvini ha reso definitivo l’obbligo di depositare una copia cartacea del ricorso nonostante l’obbligatorietà del processo amministrativo telematico. Follia. Ci sono storie che non riescono a conquistare nemmeno un trafiletto nella pagina interna d’un voluminoso quotidiano nonostante rappresentino l’emblema della schizofrenia in cui versa un intero Paese. È il caso della vicenda del PAT, il processo amministrativo telematico, introdotto oramai due anni addietro. Dal 1 gennaio 2017, infatti, i ricorsi presentati ai Tribunali Amministrativi Regionali e al Consiglio di Stato devono essere depositati esclusivamente con modalità telematica. L’avvocato non è più costretto a predisporre da tre a cinque voluminosi fascicoli (ciascuno dei quali a sua volta composto da centinai di pagine), non è obbligato a recarsi al Tribunale per effettuare il deposito e non deve vivere con l’ansia di chiedere ogni giorno in cancelleria se la controparte processuale ha depositato memorie e documenti per poterli ritirare in seguito. Il difensore può depositare atti e documenti a qualsiasi ora e da qualsiasi posto; dall’ufficio, da casa o da sopra il treno. Può controllare lo stato del fascicolo dal telefono cellulare e può leggere gli atti depositati dagli avversari, comodamente seduto, da qualsiasi parte del globo. Gli studi legali possono fare a meno dell’assistenza dell’avvocato domiciliatario e risparmiare i relativi costi; non è più necessario che il procuratore di Catania invii un voluminoso plico a quello di Roma per effettuare il deposito presso il TAR del Lazio, ad esempio, e non serve più che il collega di Roma si rechi in Tribunale per prelevare la memoria di controparte da inviare via fax al dominus della causa che opera prevalentemente in Sicilia. Le sentenze scritte dai magistrati amministrativi sono adesso depositate per via telematica; una pec avvisa l’avvocato della pubblicazione del provvedimento che può essere letto on line e non v’è più necessità di richiederne una copia conforme presso la cancelleria del Tribunale per potere procedere alla notifica all’avversario o al deposito dell’atto d’appello. Il legislatore, però, per una ragione imperscrutabile, ha disposto, nonostante l’introduzione del PAT, l’obbligo per gli avvocati di depositare presso la cancelleria del Tribunale una copia cartacea del ricorso e degli altri scritti difensivi depositati per via telematica. Senza la copia cartacea l’avvocato non vedrà fissata né la camera di consiglio per la discussione della richiesta sospensiva in via d’urgenza, né l’udienza cosiddetta di merito. L’obbligo di depositare la copia cartacea è stato introdotto prima in via transitoria per tutto il 2017, poi, in via ancora transitoria, per tutto il 2018. Adesso, il Governo e la maggioranza giallo verde hanno deciso di eliminare qualsiasi transitorietà e di rendere il deposito cartaceo un obbligo definitivo, senza alcun scadenza. Tutti i vantaggi che il PAT ha introdotto in termini di maggiore produttività, risparmio di costi, tempi ed energie, maggiore flessibilità del lavoro per gli avvocati, sono, ipso facto, azzerati dall’obbligo di depositare comunque una copia cartacea (asseverata dalla firma del difensore). Chi scrive ha assistito personalmente, nel corso di un convegno, all’esposizione d’un Presidente di Sezione del Consiglio di Stato che perorava la necessità del deposito della copia cartacea con la difficoltà di consultare contestualmente, a mezzo monitor del computer, il contenuto del ricorso e quello dei documenti allegati. Il Movimento cinque stelle e la Lega hanno dato ragione all’anziano Presidente: nell’anno del Signore 2019 il deposito della copia cartacea (nonostante l’obbligatorietà del PAT) rappresenta ancora un adempimento indispensabile senza il quale è necessario procedere all’arresto del processo amministrativo e al rinvio sine die della tutela dei diritti dei cittadini. Benvenuti nella preistoria. Jole Santelli (Antimafia): rivedere normativa su protezione collaboratori di giustizia cn24tv.it, 1 gennaio 2019 “Le parole del procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, che ha insistito sul fatto che il fratello del pentito Bruzzese, ucciso sotto casa sua, andasse protetto, sono giuste e chiare”. - Lo afferma l’on. Jole Santelli, Vicepresidente della commissione parlamentare antimafia, di Forza Italia. “È necessario ora che come dice De Raho ci si adoperi per una mappatura delle situazioni a rischio e per evitare che si ripeta quanto successo nelle Marche. Se riteniamo indispensabile l’apporto dei collaboratori di giustizia - dice Santelli - sui quali vanno sempre operati controlli ferrei e riscontri inoppugnabili circa la veridicità delle dichiarazioni, non possiamo non garantire una copertura completa di protezione, adottando tutte le misure previste dalla normativa. De Raho ha con equilibrio e compostezza messo il punto su una situazione che necessita di una valutazione globale, anche prevedendo un aggiornamento (ove necessario) dell’impianto legislativo”. Detenuto suicida: il Ministero deve risarcire i familiari La Stampa, 1 gennaio 2019 Spetta il risarcimento ai familiari del detenuto suicida che aveva manifestato il proprio intento, qualora l’amministrazione penitenziaria non abbia posto in essere tutte le misure idonee a prevenire l’evento. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 30985 del 30 novembre 2018. Il caso. Un uomo, arrestato per presunta violenza sessuale, durante la sua detenzione si toglie la vita, impiccandosi. Dal momento che aveva già dichiarato la propria intenzione suicida, ma ciò nonostante non era stato posto in regime di sorveglianza speciale, né posto in regime comune, come richiesto dal giudice di turno, i suoi familiari si rivolgono al Tribunale di Catanzaro per ottenere dal Ministero della Giustizia il risarcimento del danno per omessa vigilanza. Il giudice di prime cure condanna il Ministero al pagamento di € 195.696,00 a titolo di risarcimento del danno, ma la Corte d’appello accoglie la richiesta del Ministero, sottolineando come non fosse prevedibile, né prevenibile l’evento suicida, ritenendo il collegamento causale tra comportamento dell’amministrazione penitenziaria e la morte dell’uomo fosse da considerarsi interrotto dall’eccezionalità dell’evento. La Corte territoriale aveva specificato che, nonostante non fosse rinvenibile alcun intento suicida, l’uomo era stato posto in regime di grande sorveglianza, ossia guardato a vista ogni 20 minuti, che il colloquio psicoterapico era stato svolto senza esiti apprezzabili e che il detenuto era in una cella singola in attesa di destinazione definitiva. I congiunti ricorrono dunque per la Cassazione della sentenza. Prevenzione del suicidio. La Suprema Corte ritiene fondato il ricorso dei familiari, poiché non erano state effettivamente adottate tutte le misure idonee a prevenire il suicidio, la cui intenzione era stata chiaramente manifestata dall’uomo. Precisa infatti che non è possibile affermare che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento; dichiara la Corte che circostanza decisiva doveva considerarsi, inoltre, il fatto che l’uomo non era stato sottoposto ad alcuna “osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere non c’erano ne l’educatore, né lo psicologo”. Evidente la responsabilità dell’amministrazione. Decisiva, infine, secondo la Cassazione, l’inottemperanza all’ordine del PM di sottoporre il detenuto a regime di detenzione in regime comune, poiché è “incontestabile, sul piano causale che, ove il detenuto fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro chiesto dal PM, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti”. La Terza Sezione cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello, che dovrà riesaminare la questione stabilendo il quantum del risarcimento. Cagliari: Cossa “carcere di Uta con troppe criticità, ha deluso tutte le aspettative” di Alessandro Congia sardegnalive.net, 1 gennaio 2019 Una visita istituzionale nel carcere cagliaritano per incontrare il direttore Marco Porcu e i vertici della Polizia Penitenziaria. Il consigliere regionale, Michele Cossa (Riformatori Sardi), ha riscontrato numerose criticità che di fatto hanno deluso le aspettative del sistema carcerario italiano: “Il carcere - dice Cossa - non è la discarica della società ma un luogo dove chi ha sbagliato sconta la pena, ma deve anche essere aiutato a reinserirsi. Istituti di pena bene organizzati ed efficienti - aggiunge - danno un contributo essenziale alla sicurezza della comunità. Purtroppo - ha sottolineato Cossa - gli agenti e i diversi rappresentanti sindacali della Polizia Penitenziaria devono scontrarsi ogni giorno con disagi non indifferenti, problemi che mettono a repentaglio la sicurezza di chi lavora in una struttura dello Stato”. La visita - “Le criticità che ho potuto rilevare - afferma Michele Cossa - sono in primis gli aspetti legati alla situazione sanitaria, gravi proprio per la presenza di detenuti psichiatrici. Ben 211 su una popolazione carceraria che si attesta attorno alle 600 unità. Pazienti che hanno necessità di una cura e di una detenzione diversa, attenzione particolarmente attenta rispetto a quella riservata ai detenuti comuni, anche con un’assistenza h.24, ecco perché - ha proseguito l’esponente dei Riformatori - un dato che fa riflettere è proprio questo, ossia a fronte di 211 detenuti psichiatrici di Uta, l’unica alternativa dopo la chiusura degli Opg, questi detenuti dovrebbero stare nelle Rems, l’unica che c’è esiste è quella di Capoterra, in carico all’Ats, con appena 18 posti: una situazione assurda, paradossale, di pura emergenza. La casa circondariale di Uta “Ettore Scalas” è tra i primi 12 istituti di pena a livello nazionale classificati come complessità gestionale”. Carenza di organico - “Un supplemento di responsabilità elevato è tuttora in capo ai pochi agenti - evidenzia Michele Cossa - con situazioni davvero complesse che si sono presentate anche quest’anno. Un lavoro delicatissimo, il carcere non è estraneo alla società, ma anzi è strettamente legato ad essa; a Uta ci sono errori di progettazione clamorosi, chi ha progettato quella struttura non è qualificato, anche un profano capirebbe che ad esempio il gabbiotto all’ingresso non ha una visione completa su ciò che accade nei paraggi e nel piazzale. Tante altre criticità strutturali che gridano vendetta, c’erano tante aspettative sul carcere di Uta, una progettazione adeguata sarebbe stata l’ideale”. “La carenza cronica di personale - aggiunge Cossa - con un numero di agenti in servizio inferiori di ben oltre al centinaio rispetto al fabbisogno ideale è un fatto gravissimo, fortunatamente non c’è sovraffollamento come accadeva a Buoncammino, ma la carenza dell’organico dei poliziotti della Penitenziaria crea disagi sui turni. Lavoro degli agenti di Polizia Penitenziaria - dice il consigliere regionale - è messo a dura prova ogni giorno, per via anche della diversa tipologia di servizio, tra il Tribunale, sorveglianze speciali per i pazienti-detenuti critici, negli ospedali sardi non ci sono luoghi di detenzione sicuri per questi detenuti. Al Santissima Trinità c’è davvero un esempio emblematico”. Bologna: il Sottosegretario Morrone in visita al carcere minorile bolognatoday.it, 1 gennaio 2019 Morrone si è particolarmente interessato alle attività e ai progetti svolti all’interno del Centro e alle problematiche da affrontare. Visita del sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, al Centro di giustizia minorile di Bologna. Accolto dal direttore, Alfonso Paggiarino, dal funzionario al Cgm, Maria Giovanna Santoli, dal funzionario dell’area pedagogica, Romina Frati, e dal sostituto commissario coordinatore, Angelo Pace, Morrone si è particolarmente interessato alle attività e ai progetti svolti all’interno del Centro e alle problematiche da affrontare. “Ho visitato una struttura ben organizzata, seppure con carenze di organico per quanto riguarda gli agenti di Polizia penitenziaria - afferma. Sono in corso molti progetti, come quello della scuola alberghiera con un laboratorio di cucina, corsi di alfabetizzazione per stranieri e di scuole di ogni grado, in particolare elementari sempre destinate agli stranieri, che sono circa l’80 per cento dei 21 detenuti presenti (su una capienza di 22), tra i 16 e i 23 anni di cui solo 3 minorenni, ristretti in questo istituto per reati di spaccio, omicidio e associazione mafiosa”. “Sono la legge e la nostra comunità che chiedono pene certe per chi ha commesso reati più o meno gravi, seppure in giovane età, ma ci sollecitano anche a offrire ai detenuti la possibilità concreta di reinserirsi nella società, dopo aver saldato il proprio debito con la giustizia, con un bagaglio di conoscenze e di formazione che consenta loro di poter intraprendere un’attività onestamente - conclude. È questo il nostro auspicio e quello delle tante professionalità che sono al servizio di questi giovani per fornire loro i mezzi per avere una seconda opportunità”. Palermo: Penna (M5S) in visita al carcere minorile “Malaspina” blogsicilia.it, 1 gennaio 2019 “Oggi siamo stati al carcere minorile di Malaspina dove sono detenuti ragazzi fino a 25 anni di età. L’incontro è stato interessante, sia perché abbiamo appreso quali sono le attività di cui si occupa e come vengono intrattenuti i ragazzi in questo istituto, sia per individuare le prospettive che si possono aprire per loro. Una delle cose che mi sono impegnato a fare è cercare di fornire loro gli strumenti perché il futuro sia occasione di indipendenza economica e di riscatto, attraverso per esempio l’accesso al micro-credito e abbattendo gli ostacoli che attualmente permangono nel nell’accedere alle agevolazioni. Il prossimo appuntamento sarà, con loro, un resoconto dettagliato su come avviare un’attività di autoimpiego. Oltre a questo cercheremo, insieme ad altri deputati e senatori, di rendere ai giovani detenuti meno triste e grigia questa pagina della loro vita, rendendo più accoglienti (già molti sono gli sforzi della direzione e del personale in questo senso) gli ambienti dell’istituto. Ho augurato loro che i loro sogni possano, nel solco della legalità, trasformarsi in realtà”. Napoli: ritorna in diffusione gratuita “Liberi di informare, dentro ma fuori le mura” agensir.it, 1 gennaio 2019 Ritorna, in diffusione gratuita, “Liberi di informare, dentro ma fuori le mura”, periodico mensile cartaceo dell’Associazione Liberi di Volare Onlus, associazione di volontariato nel penitenziario, nata su iniziativa della Pastorale Carceraria dell’arcidiocesi di Napoli, braccio operativo della Pastorale stessa, guidata da don Franco Esposito, cappellano della casa circondariale di Poggioreale in Napoli e direttore dell’ufficio Pastorale carceraria della diocesi di Napoli. “Liberi di informare” ha il contributo gratuito di Edizioni San Gennaro, marchio editoriale della Fondazione di Comunità San Gennaro Onlus. Diretto da Emanuela Scotti, si legge in una nota, “si ripresenta con una nuova redazione e con una voglia di rappresentare un ponte da fuori a dentro il carcere e viceversa. La vita del carcere, i racconti, le notizie e il sostegno alla vita carceraria: “Liberi di informar non è solo un giornale da leggere ma anche un mezzo sul quale poter scrivere ed esprimere il proprio pensiero; è prevista, infatti, una finestra dedicata alle lettere scritte dai detenuti. Con una tiratura inziale di 2500 copie, il primo numero sarà pubblicato il 1° gennaio 2019,e verrà gratuitamente distribuito ai detenuti dei penitenziari, in particolar modo a quelli della casa circondariale di Poggioreale, alla curia, alle parrocchie e alle associazioni di pertinenza. La prima copia del periodico è stata omaggiata, stamattina, al card. Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, in occasione della tradizionale celebrazione eucaristica che il porporato ha presieduto alle ore 10 nella cappella della casa circondariale di Poggioreale, alla presenza dei detenuti, della polizia penitenziaria, dei dirigenti della struttura e dei volontari. “Questo giornale non vuole trasmettere notizie ma comunicare sentimenti, bisogni, testimonianze, vita, proprio come quando si scrive una lettera a chi è momentaneamente lontano ma non per questo mi è estraneo - chiarisce don Franco Esposito -. Un piccolo segno per raccontare l’umano, costruendo attraverso una libera informazione, una comunità di persone vere che anche attraverso lo scritto sanno guardarsi negli occhi, riconoscendo al di la degli steccati e dei muri, simbolici o reali, storie di vita, attese di speranza, voglia di redenzione”. Ancona: palestra e cinema, ecco i progetti per migliorare le condizioni dei penitenziari cronacheancona.it, 1 gennaio 2019 Sport e cultura: un binomio vincente per dare al carcere quella indispensabile funzione di riabilitazione e reinserimento sociale che spesso non riesce a svolgere appieno. La proiezione dei finalisti del Festival Corto Dorico a Barcaglione è ormai una tradizione - quest’anno condivisa anche da Montacuto e Villa Fastiggi (Pesaro), ed è in cantiere un altro progetto atto ad offrire momenti di svago. Al fine di garantire condizioni di vita migliori all’interno della Casa Circondariale di Montacuto, la Direttrice dell’Istituto, Santa Lebboroni, ha presentato un progetto per l’allestimento di una palestra interna, con attrezzatura sportiva per un primo allestimento, su richiesta dei detenuti. Una stanza da 60 mq, all’interno della quale verranno messi a disposizione tre tapis roulant, tre bikes e tre panche ginniche, oltre ai pesi. Inoltre, con la collaborazione del Coni, è prevista la presenza, anche saltuaria, di un istruttore che possa indirizzare i detenuti verso idonei esercizi fisici. La palestra sarebbe aperta tutti i giorni e funzionerebbe con turni mattutini e pomeridiani, a ciascuno dei quali potranno prendere parte dai 15 ai 20 detenuti. Obiettivo: promuovere la salute e il benessere psico-fisico della popolazione carceraria, oltre ad offrire un’opportunità di svago. L’ipotesi iniziale del progetto era quella di attivare il locale entro l’autunno 2018, ma la tabella di marcia è stata ampiamente mancata. Nel frattempo, però, è arrivato l’ok del Garante regionale dei diritti della persona, Andrea Nobili, che ne ha evidenziato la “rilevanza della finalità trattamentale” ed ha quantificato in 8 mila euro la spesa possibile per 1’acquisto delle attrezzature sportive, chiedendo la collaborazione urgente al Comune di Ancona per la stipula dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, necessario a dare avvio all’iter. Un modo per lenire le condizioni di disagio, lesive dei diritti civili umani e civili, vissute da detenuti stipati in carceri sovraffollati. Stesso obiettivo perseguito, ad inizio dicembre, dal progetto “Cinema in carcere” nei penitenziari regionali di Ancona (Barcaglione e Montacuto) e Pesaro (Villa Fastiggi), nell’ambito del Festival Corto Dorico 2018, durante il quale sono stati proiettati in anteprima i Corti Finalisti all’interno dei tre istituti. Milano: “Antigone”, con i giovani detenuti del Beccaria udite-udite.it, 1 gennaio 2019 Dal 22 al 27 gennaio 2019 al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano con gli attori della Compagnia Puntozero. Dopo Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, torna al Piccolo - al Teatro Studio dal 22 al 27 gennaio - in un nuovo spettacolo, Antigone di Sofocle, la Compagnia, diretta da Giuseppe Scutellà, in cui recitano giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano con gli attori della Compagnia Puntozero. Scritta da Sofocle nel 442 a.C. circa, Antigone colpisce per l’incredibile attualità dei temi, celebrazione dell’umana pietà di una donna, Antigone, che contravviene a rischio della vita all’intimidazione di Creonte, re di Tebe, per impedire la sepoltura del fratello Polinice, considerato nemico della patria. Lo spettacolo ha come impetuoso protagonista il coro, vestito di teli e cordami, che, commentando la storia, si muove su una scenografia essenziale, come un’unica voce ed un unico corpo, in un tumulto gestuale di passioni, con scene marziali e contorsioni corporali che, al ritmo incalzante delle percussioni, traducono il declamato sofocleo in un parossismo fisico di barbarica violenza. Le tonalità cambiano: dalle voci di imbattibili guerrieri, intense e gioiose, a quelle di fanciulle che accompagnano Antigone alla morte. Il coro comunica con il pubblico, lo rende partecipe delle vicende che si svolgono sulla pedana, simbolo di Tebe: si crea così un’atmosfera di inquietudine, in cui non si riesce sempre a comprendere chi parli e da quale punto del palco, come se le voci fossero un’eco lontana proveniente da antenati perduti nel regno dell’Ade. Lo spettacolo offre molti spunti di riflessione nel testo e nella messa in scena della compagnia, composta anche da giovani che la legge, tema portante della tragedia, l’hanno vissuta letteralmente sul proprio corpo. Antigone apre un dibattito moderno e intenso tra la rigida ma coerente logicità di Creonte e il richiamo a leggi umane basate sul senso di pietà e sull’amore. Si inserisce anche la figura dello straniero, sentito da alcuni come pericoloso e portatore di caos, indegno dei riti funebri, e da altri come fratello da onorare e proteggere, almeno nella morte. Antigone lancia un grido di ribellione, contro i poteri assoluti che non tollerano chi tenta di cambiare e di dire la propria idea. Diretto dal regista Giuseppe Scutellà, Antigone è un lavoro corale, che unisce arte e tecnica, coinvolgendo attori - quelli di Puntozero insieme ai giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria - ma anche apprendisti scenografi, costumisti, attrezzisti e fonici, per i quali lo spettacolo diventa preziosa occasione di esperienza professionale nella prospettiva di un futuro di riscatto, attraverso il lavoro, e di inclusione sociale. Sea Watch con 32 migranti in mare senza risposta. Altri 114 salvati di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 1 gennaio 2019 La prospettiva è quella di inaugurare il 2019 vagando tra Lampedusa e Malta. “A bordo situazione drammatica”. Anche la Sea Eye, con 17 a bordo, chiede un porto sicuro. La prospettiva, ormai concreta, è quella di salutare l’inizio del 2019 in alto mare, con una situazione sanitaria e umanitaria che va via via deteriorandosi. Dopo 10 giorni a vagare per il Mediterraneo, sono ancora senza approdo le due navi Ong tedesche Sea Watch 3 e Sea Eye: la prima ha a bordo 32 migranti raccolti al largo della Libia prima di Natale, la seconda ne ha soccorsi 17. Italia e Malta non hanno concesso alle due imbarcazioni l’approdo. E proprio in queste ore si va risvegliando il traffico dei barconi lungo la rotta centrale del Mediterraneo, tra Libia e Italia. Nella serata di domenica la Marina Maltese ha raccolto 69 naufraghi che stavano andando alla deriva su un barcone sbarcandoli alla Valletta. Senza risposta dal 22 dicembre - La situazione più drammatica al momento è quella a bordo della Sea Watch 3: la nave continua a incrociare le acque a metà strada tra Lampedusa e Malta in attesa di disposizioni delle rispettive guardie costiere. Disposizioni che però non stanno arrivando. L’odissea va avanti dal 22 dicembre, quando la Ong ha salvato un gruppo di migranti partiti dalla Libia. “Siamo in condizioni proibitive, a bordo abbiamo 32 persone tra cui tre bambini. Chiediamo un porto sicuro a cui farli sbarcare” è l’appello che giunge dai volontari. Non solo Malta e Italia, ma anche Spagna e Olanda al momento hanno ignorato la richiesta; Sea Watch non intende dal canto suo riconsegnare i profughi alla Libia ritenendo il paese nordafricano “non sicuro” per le condizioni umanitarie. Meteo in peggioramento - “È disumano e senza scrupoli che nessuno Stato europeo si assuma questa responsabilità” afferma in una nota Philip Hahn, capo missione di Sea Watch 3. In Germania 30 città si sono già fatte avanti per ospitare i naufraghi. La stessa Ong, nel primo pomeriggio, ha rinnovato il suo appello: “La situazione è seria: le condizioni meteo e del mare sono in peggioramento nelle prossime ore. Siamo tutti preoccupati. Abbiamo bisogno di un porto sicuro al più presto” è il messaggio comparso su twitter. 114 salvati in 24 ore - Solo di poco meno pesante la situazione a bordo della Sea Eye, l’altra imbarcazione che attende di conoscere il suo destino: il 29 dicembre scorso ha tratto in salvo 17 persone che stavano per annegare a nord delle coste libiche ma anche in questo caso l’Sos non ha ricevuto risposta. A mezzanotte di domenica l’imbarcazione si trovava a circa 70 miglia a sud di Malta. A 117 miglia dalla costa si trovava invece il barcone con le 69 persone a bordo salvate direttamente da unità militari maltese e fatte sbarcare alla Valletta. È quanto stato reso noto da un comunicato delle Forze Armate. Altre 45 persone sono invece state tratte in salvo dalle autorità tunisine nelle acque di loro competenza. Nelle ultime 24 ore sono così 114 i migranti soccorsi. La Crimea e l’indifferenza europea di Domenico Letizia aise.it, 1 gennaio 2019 “Nel giugno 2018, un evento svoltosi presso il Senato della Repubblica italiana, sollevò nuovamente l’attenzione sulle interferenze russe e sullo stato degli avvocati che scelgono di battersi per i diritti dei detenuti politici e che per questo sono sottoposti ad intimidazioni, pressioni e sanzioni amministrative, così come per i prigionieri politici ucraini detenuti ingiustamente sul territorio della Federazione Russa e della Crimea occupata. L’evento fu organizzato dalla Federazione Italiana Diritti Umani e dalla Fondazione “Open Dialog” e fu un palcoscenico per Igor Kotelianets, fratello di un prigioniero politico ucraino, detenuto in Crimea. Nel corso dell’iniziativa, alla quale partecipò anche Yevhen Perelygin l’ambasciatore ucraino a Roma, Kotelianets descrisse le torture subite dai prigionieri politici ucraini in Crimea”. Così Domenico Letizia su Periodico Italiano. “Cosa accade oggi in Crimea? Un recente rapporto delle Nazioni Unite fa luce sull’attualità in termini di democrazia e diritti nella regione, oramai dimenticata dall’informazione internazionale. Il rapporto copre un periodo che va dal 13 settembre 2017 al 30 giugno 2018 e conferma la preoccupazione degli attivisti internazionali per i diritti umani. La Russia continua ad ignorare il diritto internazionale in quanto potenza occupante senza tutelare le minoranze della Crimea. La riduzione degli spazi di partecipazione democratica in Crimea ha generato un clima di paura, rendendo impossibile manifestare liberamente critica o dissenso. Preoccupante la registrazione di un caso di una donna della Crimea condannata al carcere per aver condiviso sui social messaggi di critica alle politiche della Federazione Russa e tali casi, denunciano gli esperti Onu, sono utili per penalizzare gli attivisti, un avvertimento per la comunità locale. Il rapporto descrive anche lo stato della magistratura e dei processi evidenziando anomalie gravi nei confronti di ben 94 persone. Inoltre, evidenza il rapporto, i cittadini della zona sono oggetto di repressione da parte di giudici, pubblici ministeri, investigatori e agenti di sicurezza della “FSB”. Vengono denunciate ben 42 sparizioni di cittadini, avvenimenti del 2014, e un generale clima di terrore e impunità per i mandanti della Federazione Russa. I casi più eclatanti riguardano tre cittadini della Crimea, Oleh Sentsov, Volodymyr Balukh e Emir-Usein Kuku, in sciopero della fame per richiamare l’attenzione internazionale sulla loro condizione di detenuti senza regolare processo e senza motivazioni giudiziarie. Il rapporto descrive anche dello stato della struttura detentiva di Simferopol. Nel report vengono registrati ed evidenziati casi di detenuti privati di cibo, acqua e accesso alle cure mediche. Anche lo stato della repressione è oggetto di analisi: “gli agenti hanno utilizzato pratiche proibite, in particolare somministrazione di vere e proprie torture, attraverso elettrocuzione ed esercizio della violenza sessuale nei confronti delle persone detenute”. Inoltre, viene descritta la pratica del trasferimento dei detenuti dalla Crimea alla Federazione Russa per eseguire i processi, pratica in violazione del diritto internazionale umanitario. Nella zona viene registrata la pratica dell’arruolamento obbligatorio, per i cittadini della Crimea, nell’esercito russo. Circa 12.000 uomini della Crimea sono stati costretti all’arruolamento, raggiungendo un picco durante la primavera di quest’anno con la coscrizione obbligatoria di 2.800 persone. Per analizzare al meglio quello che sta accadendo è importante riconoscere che l’annessione della regione alla Russia non è il risultato naturale di un processo sociale e politico della popolazione della Crimea. Nel 2015, l’Organizzazione non Governativa Freedom House pubblicò un dettagliato rapporto sulle condizioni della Penisola di Crimea dall’occupazione russa. Il rapporto analizzava lo stato di deterioramento dei diritti umani in Crimea con l’avvio dell’occupazione e dell’annessione della regione, già autonoma, alla Federazione Russa. La situazione di elevata criticità iniziata nel febbraio 2014, continua ad intensificarsi a causa della legislazione russa che impone una serie di misure oppressive per la popolazione della regione. Provvedimenti legislativi che non sono conosciuti all’estero e che l’informazione occidentale ignora. Tra le disposizioni in vigore vi è la prescrizione della cittadinanza russa, restrizioni alla libertà di parola e di associazione, acquisizione di beni privati e dello stato ucraino da parte delle autorità russe, misure repressive sui media indipendenti, persecuzione verso i critici dell’annessione, minacce e persecuzioni nei confronti di minoranze religiose e gruppi etnici percepiti come sleali e non graditi al nuovo ordine istituzionale. Non dimentichiamo che secondo un sondaggio del 2011, condotto dal Centro Razumkov, il 70% degli intervistati, nella regione di Crimea, ha dichiarato di considerare l’Ucraina la propria patria. Le cifre aumentano tra i tatari della Crimea, intorno all’ 80%. Tra gli abitati della Crimea che furono intervistati solo il 18.6% dichiarò di non guardare all’Ucraina come propria patria. Durante i mesi di preparazione all’annessione della penisola, lo stato russo lanciò una campagna mediatica estremamente populista e un’accanita repressione nei confronti dell’Ucraina definendo “fascisti” coloro che nella regione non sostenevano le ragioni dei separatisti. Questa è stata la retorica utilizzata nei confronti del movimento “EuroMaiden”. La disinformazione è viaggiata parallelamente all’annessione. Durante i giorni dell’occupazione vi sono stati una serie di eventi significativi che hanno prodotto una degenerazione dei costumi e delle abitudini nella penisola: l’arrivo dei combattenti Cosacchi dalla regione di Krasnodar della Russia, truppe armate con attrezzature e unità aviotrasportate e il sequestro di molti edifici pubblici, porti e aeroporti della regione. I quadri politici delle amministrazioni comunali e di Sebastopoli furono sostituiti, aprendo la strada all’occupazione sancita dal referendum del 16 marzo, referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale. Durante le votazioni le truppe “separatiste”, compresi i Cosacchi, isolarono i valichi di frontiera, i porti e gli aeroporti, controllando i seggi elettorali e le funzioni degli Uffici addetti al voto referendario. Tali condizioni continuano a persistere in Crimea per mantenere un clima di disinformazione, intimidendo chi mette in discussione la legalità dell’annessione russa. Le istituzioni ucraine nel nostro Paese continuano a fornire dati e documentazione inerenti la sistematica violazione dei diritti civili e politici, da parte dei paramilitari filorussi, nei territori ucraini sotto occupazione. Una guerra silenziosa, alle porte dell’Europa, in Crimea contro il popolo ucraino e contro uno stato sovrano. La comunità internazionale farebbe bene a predisporre l’invio in Crimea e nella parte orientale dell’Ucraina, dove continua un conflitto che costa 10mila morti, di un contingente di osservatori e caschi blu, come richiesto dal Presidente ucraino Petro Poroshenko e, in Italia, dall’Ambasciatore Perelygin. Le denunce che arrivano dall’Ucraina meritano molta attenzione e dovrebbe essere impegno doveroso, per le istituzioni europee, agire e monitorare la situazione per il rispetto della democrazia e dei diritti civili dell’intera comunità locale. Ciò che appare certo è che attraverso una sistematica pubblicazione di notizie false, avallate e diffuse delle formazioni politiche populiste di tutta l’Europa Occidentale, la propaganda russa ha nascosto i veri motivi dell’invasione camuffandoli per un intervento contro presunti rigurgiti neo nazisti dell’esercito e delle istituzioni dell’Ucraina. Ciò che accomuna tutti i giornalisti civili in Crimea è la volontà di raccontare e denunciare una situazione attorno alla quale è stato costruito un muro dell’informazione. Una cortina di fumo che molti cittadini della penisola non intendono accettare. I rischi dei giornalisti sono gli stessi di qualunque voce indipendente. Arresti, perquisizioni, minacce e torture sono frequenti tra i dissidenti e tra coloro che cercano di fornire un’informazione diversa da quella monolitica imposta nella penisola. La vicenda di Nariman Memedeminov, attivista del gruppo Crimean Solidarity, ne è un esempio. Dopo numerose perquisizioni e fermi negli ultimi anni, Memedeminov è stato prelevato dalla propria abitazione la mattina del 22 marzo di quest’anno e incarcerato il giorno dopo, in seguito a un processo lampo. L’accusa, è quella di incitamento al terrorismo e fa riferimento a contenuti pubblicati da Memedeminov anni prima dell’annessione della penisola. Stando alle parole dell’avvocato Emil Kurbedinov è chiaro come questo sia l’ennesimo caso falsificato dalle autorità e sia una punizione per l’attività civica di Memedeminov, membro attivo della comunità tatara e reporter. Nel frattempo, la comunità intorno a Memedeminov è riuscita a mobilitare i più importanti media ucraini ed espresso la loro solidarietà con l’attivista. Sul suo caso, tuttavia, niente sembra essersi mosso. “Il rischio di essere incarcerati c’è sempre: sapendo come vengono “fabbricati” i casi in Crimea, è assolutamente possibile” dichiarano gli avvocati. I tatari sono l’unico popolo autoctono della penisola benché, a seguito della deportazione operata dai sovietici, oggi solo il 12% della popolazione è di origine tatara. I tatari, di origine turcica, si trovano nella penisola dai tempi della dominazione ottomana e hanno subito violenti tentativi di russificazione e una feroce discriminazione culminata con la falsa accusa di essere stati collaborazionisti dei nazisti, accusa che è valsa una deportazione che costò migliaia di vittime. L’annessione della Crimea alla Russia putiniana è coincisa con una ripresa delle discriminazioni e della conseguente opposizione dei tatari alle autorità russe. Opposizione che si è sviluppata in un movimento di resistenza civile e che ha dato luogo anche ad episodi di sabotaggio nei confronti dell’esercito occupante. I tatari di Crimea non rappresentano in effetti una totalità omogenea, ma piuttosto un insieme di micro-etnie unite dall’appartenenza al gruppo linguistico turco e da una storia comune. Si possono distinguere almeno tre sottoinsiemi chiaramente definiti. Gli yalboyu, che vivono sulle coste meridionali della Crimea, hanno caratteristiche culturali e linguistiche tipicamente ouz, tanto da essere difficilmente distinguibili dai turchi della Turchia. Al contrario i noay, storicamente insediati nelle zone steppose del nord, sono a tutti gli effetti identificabili come kpçak. La maggioranza dei tatari di Crimea appartiene tuttavia all’etnia tat, tradizionalmente diffusa in tutta la costa settentrionale del Mar Nero e che presenta caratteristiche intermedie tra i gruppi ouz e kpçak. A questi tre gruppi principali, costituiti quasi esclusivamente da musulmani sunniti, vanno aggiunti i cristiani turcofoni chiamati urum. Particolarità caratteristica della Crimea è anche la curiosa presenza di una piccola minoranza di ebrei di lingua turco-tatara, a loro volta divisi nei due sottogruppi dei krmçak e dei karay: i primi aderiscono all’ebraismo rabbinico, mentre i secondi al caraismo. D’altronde è dall’estate 2014 che risalgono le denunce di Mark Fejgan, avvocato russo, membro dell’opposizione politica, già legale di Mustafa Dzhemilev, il Presidente del parlamento dei Tatari della Crimea. Mark Fejgan è conosciuto all’opinione pubblica internazionale perché fu tra i difensori delle Pussy Riot, passate alla storia per il loro attivismo nella tutela dei diritti umani e nella difesa dei diritti delle donne. In un’intervista sul ruolo della Russia in Crimea e la repressione dei Tatari, Mark Fejgan dichiarò: “In Crimea, semplicemente non vi è il sostegno della popolazione con l’occupazione della penisola da parte delle forze russe. In primo luogo, si tratta dei tatari di Crimea definiti come cittadini inaffidabili. Mosca teme la ripetizione dello scenario avutosi in Cecenia all’interno del nuovo soggetto della federazione. Il Cremlino non ha l’energia per una nuova guerriglia come quella caucasica. Ecco perché l’abbandono dei tatari dal territorio della Crimea è uno degli strumenti della politica del Cremlino nei confronti dei potenziali ribelli. I tatari di Crimea non sono mai stati fedeli al vecchio impero russo, così come accadde nell’Urss e sono considerati dal governo della Federazione russa come una fonte di potenziale minaccia. Questo è il motivo per cui il governo russo sta imponendo tali misure” Sono numerosi gli analisti che, nel corso di questi anni, hanno ribadito che l’informazione pubblica sbaglia nel definire “guerra civile” quella in corso in Ucraina, invece, si dovrebbe parlare di una vera e propria aggressione della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina. Un atto di guerra che viola le stesse convenzioni che la Russia dichiara di rispettare”. Iraq. Bimbi in carcere solo perché figli di jihadisti di Carlo Carisio gospanews.net, 1 gennaio 2019 Un aereo che trasportava 30 bambini russi, alcuni di appena tre anni, che erano detenuti in una prigione di Baghdad insieme alle loro madri legate allo stato islamico, è sbarcato a Mosca. Volando da Baghdad a Mosca c’erano 16 ragazze e 14 fanciulli, che ora sono sottoposti a controlli medici presso il Centro per la salute dei bambini di Mosca. Ventiquattro di questi bambini provengono dalla Repubblica del Daghestan e tre dalla Repubblica Cecena, come ha scritto il leader ceceno Ramzan Kadyrov sul suo canale di Telegram. Gli altri tre minori provengono dalla regione di Penza e da Mosca. L’operazione di alto profilo umanitario è una svolta nella drammatica storia dei bambini di cittadini russi che si sono recati in Iraq e in Siria per entrare nei ranghi dei terroristi dello Stato Islamico. RT ha innanzitutto messo il caso sotto i riflettori avviando la campagna Bring The Home, che ha aiutato i parenti dei bambini tenuti in un orfanotrofio a Baghdad a riconoscerli dalle riprese e poi a consegnarli in sicurezza alle loro case. Oltre 120 bambini di questo tipo sono ancora tenuti in una prigione irachena con le loro madri e farli uscire non è un compito facile. Ci sono voluti gli sforzi di diversi ministeri, tra cui il ministero degli Esteri russo e una commissione speciale supervisionata dal difensore civico per i diritti dei bambini, Anna Kuznetsova, per risolvere l’impasse e trovare i mezzi legali per riunire i minori con i loro parenti in Russia, con l’aiuto degli iracheni autorità. Kuznetsova è volato a Bagdad con medici, ufficiali di emergenza e psicologi per incontrare il primo gruppo di bambini, di età compresa tra tre e 15 anni. Ha dato a ciascuno un giocattolo e li ha accompagnati nel loro volo per Mosca. Il difensore civico aveva già incontrato il primo ministro iracheno Adel Abdul-Mahdi e lo ha ringraziato per aver contribuito a organizzare l’operazione. “La prima operazione di rimpatrio dei bambini da una prigione di Baghdad. I primi 30 bambini” ha scritto Kuznetsova sulla sua pagina Vkontakte, prima della missione. L’aereo ha anche portato aiuti umanitari, vestiti caldi, giocattoli e 70 kg di caramelle per quei bambini e le loro madri che rimangono in prigione. Si stima che 700 bambini minorenni siano stati portati dai loro genitori jihadisti nelle zone di conflitto del Medio Oriente dalla Russia. Centinaia di bambini hanno subito il destino di diventare vittime innocenti della guerra, quando i loro genitori jihadisti sono arrivati in Medio Oriente per unirsi ai ranghi dei terroristi. Dopo che i loro padri o intere famiglie erano state uccise, decine di minorenni - alcuni incapaci di parlare la loro lingua madre - sono finiti in prigioni o in case per bambini. Nell’agosto 2017, una troupe di RT ha girato un video di un orfanotrofio di Baghdad sui bambini di lingua russa che sono tenuti lì. La redattore capo di RT Margarita Simonyan ha sollevato la coscienza del problema, invitando le persone a mandare un’email a children@rttv.ru se avessero riconosciuto uno dei bambini. La sua chiamata è stata ripresa da Kadyrov, che ha pubblicato il metraggio RT sul suo account Instagram. Il canale ha ricevuto decine di chiamate da persone che affermano di aver riconosciuto i bambini e molte famiglie dei bambini sono state presto individuate. Le persone condividevano storie strazianti sui loro figli, figlie, fratelli e sorelle che erano stati attirati in terre lontane per unirsi allo Stato islamico. La campagna originaria di RT ha portato almeno 11 bambini a tornare alle loro comunità di origine in Russia e, secondo quanto si riferisce, con altre diverse dozzine riportati da allora con differenti impegni. I parenti hanno detto a RT che alcuni dei bambini sono ancora traumatizzati dagli orrori della guerra che hanno vissuto mentre vivevano nella zona di conflitto. Emirati. 10 anni di carcere a un attivista “ha offeso lo Stato online” askanews.it, 1 gennaio 2019 La Corte Suprema degli Emirati Arabi Uniti ha confermato una pena detentiva di 10 anni contro il premiato attivista per i diritti umani, Ahmed Mansoor, per aver “insultato lo Stato”, sui social media. Lo ha detto Amnesty International. La sentenza è definitiva e non può essere impugnata, ha affermato in una nota il gruppo per i diritti umani di Londra. Nel 2016, Mansoor è stato insignito del premio, Martin Ennals, istituito in onore del segretario generale di Amnesty International dal 1969 al 1980. Dieci organizzazioni per i diritti umani selezionano ogni anno candidati a ricevere questo premio, destinato a chi ha dimostrato profondo impegno a favore dei diritti umani, spesso a rischio di essere imprigionato o torturato.