Quella pena doppia per i detenuti disabili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2019 Secondo l’ultimo rapporto di Antigone le persone detenute con disabilità fisica sono la seconda rilevante criticità. La vicenda della morte del detenuto con la sedia a rotelle e affetto da gravi patologie, mette in luce anche un altro aspetto sanitario del carcere. Ovvero la disabilità. La vita all’interno di un penitenziario non è facile, ma quella dei detenuti disabili è una vera e propria doppia pena a cui contribuiscono barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, carenza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri, e strutture esterne in grado di fornire loro la necessaria assistenza in caso di concessione di misure alternative alla detenzione. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, le persone detenute con disabilità fisica rappresentano la seconda rilevante criticità. Dalle visite di monitoraggio si è evinto l’assoluta inadeguatezza delle carceri italiane ad ospitare persone disabili. L’edilizia penitenziaria certamente non agevola, le barriere architettoniche e la mancanza di celle attrezzate che consentano la mobilità sono la regola, spesso occorre affidarsi alla solidarietà tra detenuti e con il personale. Appena il 30% delle carceri visitate ha spazi adeguati e pensati per accogliere detenuti disabili, negli altri casi la disabilità diventa l’ennesimo ostacolo ad una vita detentiva degna. Il diritto alla salute, teoricamente, dovrebbe prevalere sulla punizione carceraria. Eppure accade, non di rado, che il Tribunale di Sorveglianza respinge le istanze di scarcerazione, anche di fronte a condizioni cliniche oggettivamente gravi. E allora i detenuti disabili si ritrovano a dover scontare la propria condanna in condizioni precarie, aggravando la propria salute. Per far fronte a questi problemi, e alle condanne della corte europea di Strasburgo che ha condannato l’Italia per ben quattro volte per problemi legati alle particolari esigenze dei detenuti con disabilità (Sentenza Scoppola), il Dap aveva emanato una circolare nella quale detta le linee guida per riformare ed adeguare tutti gli istituti penitenziari in maniera tale da far rispettare i diritti delle persone con disabilità recluse. Gli interventi migliorativi prevedevano l’abbattimento di barriere architettoniche, la realizzazione di percorsi e varchi per gli spostamenti verticali e orizzontali, adeguatamente dimensionati e attrezzati per garantire l’accessibilità ai locali frequentati da detenuti e/ o operatori disabili, nonché ambienti con servizi igienici dedicati e una camera di pernottamento adeguata per ogni circuito. Secondo quanto indicato dal Dap laddove non siano disponibili ambienti adeguatamente attrezzati, dovrà essere verificata la presenza di luoghi idonei alle esigenze del disabile nell’istituto più vicino, così garantendo anche il principio della territorialità della pena. Altra indicazione sono l’attuazione dei progetti di caregivers, ossia i corsi che vengono effettuati per dare le competenze ai detenuti per svolgere il ruolo di “badante” per i compagni di cella con problemi di disabilità fisica. Però rimane il dilemma di fondo: il carcere è un ambiente adatto per far espiare la pena a un disabile, oppure c’è la necessità di trovare una misura punitiva e rieducativa diversa? Figli di genitori detenuti. L’Autorità Garante dell’Infanzia: “non lasciamoli soli” garanteinfanzia.org, 19 gennaio 2019 I figli non devono divenire vittime dello stato di detenzione dei genitori. Nessun bambino con padre o madre in carcere deve sentirsi diverso, né deve essere lasciato solo ad affrontare il distacco, la perdita, il confronto con gli altri. Il giudizio e la condanna del genitore diventa talora una condanna a essere indicati come figli di un detenuto. Sono figli fragili, che non devono trasformarsi in bambini e ragazzi a rischio. Hanno tutti bisogno di essere sostenuti, informati e aiutati. Sono alcuni degli aspetti sui quali è tornata oggi l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano. La Garante ha tratto le conclusioni del convegno nazionale “Tutela della genitorialità in carcere e dei diritti dei bambini e delle bambine figli di detenuti”, svoltosi stamattina a Roma a Palazzo Sciarra e promosso dalla Fondazione Terzo Pilastro e dalla coop Cecilia con il patrocinio del Ministero della giustizia. Sono numerosi i diritti, sanciti dalla Convenzione di New York, che investono i figli di genitori detenuti: quello all’identità e a preservare le relazioni familiari, quello a non esser separati dai genitori se non è contrario al preminente interesse del minore, quelli alla salute, all’educazione, al gioco. “La Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, che abbiamo rinnovato in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia con Ministero della giustizia e l’Associazione “Bambini senza sbarre” - ricorda Filomena Albano - si pone proprio l’obiettivo di non tralasciare nessuno di questi diritti per tutti i bambini e i ragazzi che entrano in contatto con l’ambiente carcerario che ospita un genitore”. Proprio grazie a essa l’esperienza italiana è stata considerata tra quelle che vanno nella giusta direzione dal Consiglio d’Europa. “Bisogna coniugare - ha concluso Filomena Albano - amore, giustizia e infanzia per sostenere la resilienza dei bambini e la fiducia nei confronti della capacità trasformativa degli adulti”. Nelle strutture detentive 47 detenute madri con 52 bambini Convegno su genitorialità e carcere, cambiare le regole. Sono 47 le madri detenute con 52 bambini presenti nelle strutture detentive italiane: 31 donne con 34 figli si trovano negli Icam, gli istituti a custodia attenuata per le detenute madri, mentre 16 con 18 bimbi sono nelle sezioni nido delle carceri. È il quadro che esce dai dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornati al 30 giugno 2018. Se ne è discusso in un convegno che ha esplorato il difficile tema “Genitorialità in carcere e diritti dei figli detenuti”, organizzato dalla Fondazione Terzi pilastro e dalla Onlus Cecilia con il patrocinio del ministero della Giustizia. Esercitare il ruolo di genitore per chi è detenuto è una battaglia contro un sistema, quello carcerario, su cui pesano spesso strutture inadeguate, sovraffollamento, tagli dei fondi oltre che implicazioni psicologiche, emotive e relazionali. Però si resta genitori e si ha diritto a esserlo anche nel carcere. La presenza di minori nelle sezioni carcerarie è una ‘patologia’ che si trascina da tempo e non è ancora superata. Ci sono poi i rapporti tra padri e madri ristretti negli istituti e i figli nel mondo esterno: in totale 58.913, secondo quanto hanno dichiarato i detenuti. In queste cifre sono compresi anche i 2.185 ristretti che di figli ne hanno quattro, 777 che ne hanno cinque, 320 che ne hanno sei e 291 che ne hanno più di sei. Dietro questi numeri ci sono persone che devono fare i conti con regole che permettono ai detenuti e ai loro familiari di incontrarsi per soli sei colloqui al mese di un’ora che salgono a due per i non residenti e scende a quattro per internati e 41 bis, è stato ricordato al convegno nel corso del quale ci si è interrogati proprio sulla necessità di cambiare la legislazione vigente. Tenendo presente che per un minore far visita al genitore significa spesso lunghe attese in ambienti che non sono adatti a un bambino. Genitori in carcere, una proposta di legge per aiutare i bambini Bambini in carcere. Genitori detenuti senza contatto con le famiglie. Sono questi i “problemi di cui si parla poco”. Il presidente della Fondazione Terzo Pilastro, Emmanuele Emanuele, ha presentato così il convegno che si è svolto a Palazzo Sciarra. “Ci auguriamo che si trovino formule per consentire ai genitori in carcere affinché non si perda il vincolo sacrale che è la famiglia”, ha detto. Oggi in Italia, per un qualche motivo, ci sono 47 madri e 52 bambini dentro un penitenziario. E l’attenzione deve essere rivolta anche agli oltre 58mila detenuti con almeno un figlio. Le “inumane condizioni di vita causate dal sovraffollamento, dalla inadeguatezza delle strutture, dai tagli ai fondi” - si sottolinea - sono ulteriori motivi di riflessione”. Lillo Di Mauro, responsabile della cooperativa sociale ‘Cecilia’ è testimone di questi problemi: “Dall’incontro di oggi vorremmo tirar fuori delle proposte da fare al Parlamento affinché i bambini possano avere garantiti i loro diritti”. La separazione forzata tra genitore e figlio influisce in modo determinante nel tempo e nella biografia di ciascuno. Anche con una proposta di legge si va incontro a questa emergenza. L’avvocato Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma, ricorda come la cronaca di recente ha fatto registrare casi allarmanti. “Bisogna porre l’attenzione ai diritti di chi non riesce a reclamare i diritti”, ha spiegato il legale. La pena non è una vendetta di Giuseppe Maria Meloni* agenpress.it, 19 gennaio 2019 L’anno passato è stato l’anno dei suicidi nelle carceri italiane, e bisogna stare attenti che continuando in questo modo non si giunga proprio al suicidio dell’intero sistema di pena. Un sistema di pena in cui la privazione di libertà arriva a privare le persone persino della speranza, così da preferire la morte alla vita, è destinato anch’esso a togliersi, prima o poi, la vita da solo. Qui non si tratta di mettere in discussione la certezza della pena, chi ha sbagliato deve scontare per intero la pena prevista, si tratta semplicemente di impedire che la pena subisca le infiltrazioni della vendetta. Nella pena, in quel voler buttare via le chiavi, in quel marcire in galera, molta gente comune vede come una vendetta, come uno sfogo, ma è poi compito delle persone che rivestono incarichi di responsabilità, non inseguire questi sentimenti privati, non far assomigliare la pena a come soventemente viene disegnata dagli stati emotivi, dalle pulsioni profonde, dai sensi di paura e di insicurezza della popolazione. L’attuale rischio di suicidio del complessivo sistema di pena è determinato proprio dalla grande confusione che sussiste tra la pena, intesa come sanzione per la violazione di un precetto penale, e la vendetta. Una confusione che a sua volta viene alimentata dalla delicata questione della sicurezza della cittadinanza, specialmente quando la stessa questione viene affrontata nell’ambito mediatico e politico. A tal riguardo ed al fine di allontanare il rischio di questo suicidio, è più che mai necessario considerare che una pena priva di trattamenti contrari al senso di umanità, non è in grado di creare alcun problema di sicurezza per la cittadinanza. È più che mai necessario considerare che mantenere viva la speranza in chi ha sbagliato, che salvaguardare la dignità e la salute delle persone ristrette, non sono delle circostanze in grado di creare un problema di sicurezza per la cittadinanza. Infine è più che mai necessario tenere presente che una pena che tenda alla rieducazione del condannato, non solo non crea alcun problema di sicurezza per la cittadinanza, ma anzi è in grado addirittura di accrescere in prospettiva la sicurezza di tutti i cittadini. *Piazza Carceri e Sicurezza Il video di Battisti? Colpa anche nostra di Luca Ricolfi Il Mattino, 19 gennaio 2019 La gestione del caso Battisti, con tanto di video che umilia il detenuto. E mette a rischio l’incolumità degli agenti che lo hanno catturato, non ha nessuna giustificazione. È pura spazzatura politica, un gesto che squalifica chi lo ha compiuto e avvilisce chi ancora crede in cose come lo Stato di diritto, il senso delle istituzioni, il valore della sobrietà e della misura. Aggiungo che trovo incredibile che, sui media, già si parli di benefici e sconti di pena, come se una latitanza di 37 anni non fosse già, di per sé, uno sconto di pena più che soddisfacente. Ed è altresì vero che, nonostante alcuni precedenti imbarazzanti (ricordate le foto del detenuto Enzo Tortora?), nulla di simile si era mai visto in Italia. Detto questo, però, non riesco a non farmi una domanda: lo spettacolo che ci è stato offerto in questi giorni va messo interamente in conto alla politica, al suo imbarbarimento, alla sua degenerazione in salsa populista? O dobbiamo registrare che, rispetto anche solo a 10 anni fa, è il nostro mondo che è completamente cambiato? O, per dirla in modo provocatorio: non sarà che la politica si limita a mostrarci, nelle sue conseguenze estreme, quel che un po’ tutti stiamo diventando? Non so se ci avete mai fatto caso ma, da qualche tempo, nelle nostre vite si sta installando un rapporto del tutto nuovo fra l’esperienza e la sua condivisione. Fino ai primi anni del secolo scorso la maggior parte di noi faceva quel che faceva per i motivi più diversi e poi - solo poi ed eventualmente - decideva che qualcosa di quel che aveva fatto meritava di essere condiviso. Una piccola frazione della nostra esperienza poteva oggettivarsi in uno scritto, in una foto, in un video, in un racconto, il resto restava privato, in disparte, irrilevante, o semplicemente non abbastanza rilevante da avanzare la pretesa di essere diffuso, socializzato, o gridato al mondo. Oggi questo schema è capovolto: facciamo determinate esperienze per poterle condividere, o per suscitare ammirazione e invidia negli altri. E quel che non possiamo condividere, o non ci permette di ostentare noi stessi, ci appare per ciò stesso irrilevante, banale, noioso. E c’è persino chi lo teorizza: quando la povera Tiziana Cantone si suicidò per le sue foto hard fatte circolare in rete, ci fu anche chi ebbe il becco di spiegare che fare sexting (mettere in rete foto audaci di sé stessi, o dei propri rapporti sessuali) fosse “assolutamente normale”, qualcosa che poteva apparire stonato solo a retrogradi e bacchettoni incapaci di sintonizzarsi con lo spirito dei tempi. Accade così che ognuno di noi sia non solo indotto a fare soprattutto e prima di tutto quel che potrà condividere, ma anche continuamente invaso, quasi sopraffatto, dalle esperienze altrui, per lo più via internet: foto, messaggini, mail, pubblicità, video, app, quasi sempre banali, seriali, per lo più significative solo per il mittente. Voglio dire che mettere in rete sé stessi è diventato quasi un riflesso automatico. Pensare sé stessi come autori di una sceneggiatura, nonché registi di una pièce che dovrà avere la massima audience, è diventata una sorta di seconda natura, Possiamo stupirci che i politici sentano il medesimo impulso? Possiamo illuderci che qualcosa come il decoro, il buon gusto o il senso delle istituzioni li possa frenare? Dopo tutto la loro vita e le loro gesta sono infinitamente più rilevanti delle nostre, e la loro sete di consenso è infinitamente più insaziabile delle nostre quotidiane pulsioni, Questo certamente non lì giustifica e non li assolve, ma ce li mostra più vicini a noi stessi di quanto siamo disposti ad ammettere. Né si tratta solo del cattivo gusto, dell’invadenza, che sono impliciti in ogni eccesso di condivisione. Ci stupiamo del fatto che i politici si insultino, trattino il nemico come avversario, cerchino di sopraffare ogni interlocutore che non li asseconda. Ma forse dovremmo riflettere sul fatto che la stessa “volgarità di parola e di pensiero”, come la chiama Enrico Letta nel suo ultimo libro (“Ho imparato”, Il Mulino), è onnipresente: non solo negli haters, gli odiatori dì professione che infestano la rete, ma anche nei media: trasmissioni radiofoniche scientemente costruite sul turpiloquio e il disprezzo, conduttori televisivi che aizzano i politici l’uno contro l’altro, dibattiti in cui c’è spazio solo per chi è capace di sopraffare l’interlocutore. A tutto questo ci siamo abituati, al punto che non ce ne accorgiamo più, lo consideriamo naturale, fisiologico. Forse ci diverte persino. Selfie col mostro di Lorenzo Erroi, 19 gennaio 2019 La Regione Criticare Salvini e Bonafede per come hanno gestito il caso di Cesare Battisti non significa difendere quest’ultimo, o peggio ancora proclamarne l’innocenza. Lo dico subito, perché nel clima da “noi contro loro” fomentato da certuni, sta passando l’idea che se non si sta dalla parte dei ministri dell’Interno e della Giustizia, allora si sia per forza da quella dei terroristi. E dico anche subito che scriverei le cose che seguono pure se Battisti fosse un fascista, o perfino una SS. Il punto, qui, non è la colpevolezza dell’ex “proletario armato”, e nemmeno la legittimità del volerlo assicurare alla giustizia. Ci mancherebbe altro. Il punto, qui, è cosa si vuole intendere per giustizia. Ché un conto è riportare in Italia Battisti, un altro è sfruttare l’occasione per ridurre quella stessa giustizia a gogna, come si è fatto in questo caso. Per questo, quanto accaduto costituisce un episodio ripugnante. Cerimonia di degradazione - Pur di ottenere una funesta autopromozione, abbiamo visto due altissime cariche dello Stato arrampicarsi su pulpiti e palchetti a Ciampino, scatenare un linguaggio feroce - “marcirà in galera”, perfino pubblicare sui social il film della “giornata indimenticabile”. E proprio quel filmino, a modo suo, risulta particolarmente indicativo di una certa temperie politica: la telecamera indugia sui volti di Battisti e delle guardie carcerarie, con un voyeurismo che peraltro viola le più elementari norme in materia; segue la scena della traduzione in caserma, dell’immatricolazione, della ripartenza per un carcere sardo; il tutto accompagnato da una musichetta da thriller. Ecco il mostro, signori, e noi lo abbiamo preso. È quella che i sociologi chiamano “cerimonia di degradazione”: il rituale destinato a fissare nell’immaginario pubblico l’abbassamento di rango di una persona. Come quando si strappano le mostrine a un soldato ritenuto indegno, davanti a tutto il reggimento. Ma qui le mostrine strappate sono quelle della cittadinanza nello Stato di diritto. Ecco: questa secondo me non è giustizia. È prova di forza, è umiliazione dei diritti fondamentali, che devono pur valere anche per i colpevoli. È “sostituire la giustizia con la vendetta”, come ha scritto Claudio Cerasa. Se oggi succede a Battisti, domani potrebbe capitare a qualsiasi altro cittadino. Cicatrici e bisturi - Poi c’è la questione di cosa fare con quei terroristi che hanno cessato di esserlo da quarant’anni. Anche alle nostre latitudini si risvegliano le fregole di chi vorrebbe andare a stanare gli ex brigatisti, rispedirli a Roma, ‘blindarli’. Proposito inapplicabile, ma minaccioso: l’ennesima aria nell’operetta di un’improbabile internazionale nazionalista. La scusa, per chi si contende visibilità tramite certe sparate, è sempre la stessa: chiudere i conti col passato, ricucire vecchie ferite. E potremmo stare a discutere per anni su quale sia il corso migliore per la giustizia in ciascuno di questi casi, ognuno a suo modo unico. Resta il fatto che gli anni di piombo sono un periodo chiuso: lo Stato ha vinto, per fortuna; i carnefici di quegli anni sono stati sconfitti. Molti di loro si sono rifatti una vita. E allora altro che ricucire ferite: chi aizza la polemica vuole semmai riaprirne le cicatrici. Non ci si illuda poi che costoro abbiano davvero a cuore quel passato - che molto spesso neppure conoscono - e tantomeno le sue vittime, prese esse stesse in metaforico ostaggio pur di incassare l’indignazione collettiva (“alle vittime non ci pensi?” è il ripetuto ricatto morale). Conta solo l’immediato ritorno d’immagine, il selfie col criminale in ceppi. Oltre le sbarre - Infine è necessario riflettere sulle funzioni del carcere, e qui ci si avventura su un terreno scivoloso. Gran parte dei politici, dei media e dell’opinione pubblica attribuiscono automaticamente al carcere una funzione punitiva; come se la privazione della libertà valesse di per sé quale risarcimento (quando non, ancora una volta, quale vendetta: spesso si invoca il gesto sadico del “buttar via la chiave”). Al massimo, si pensa anche all’utilità dissuasiva: fungere da esempio per chi abbia in animo di delinquere. Le sbarre però dovrebbero servire soprattutto ad altro. A separare dalla società gente pericolosa, ad esempio: ma questi vecchi relitti della storia non lo sono più. E poi a reinserire il detenuto. Ma nei casi degli ex terroristi - non solo nel loro, a dirla tutta - non capisco quale reinserimento possa apportare il carcere: è tutta gente che ha già completamente mutato la sua condotta sociale. A meno che la funzione rieducativa non debba includere il “pentimento”, sul quale molti di loro si sono dimostrati reticenti: ma il pentimento è un fatto privato, non pubblico. Faccio mie le parole di Adriano Sofri: “Il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza, da insinuare nel detenuto una sensazione di umiliazione e di offesa che prevale sulla ragione che ce l’ha portato. In carcere si può “pentirsi” solo maledicendo l’accidente che vi ci ha portati: una lezione a delinquere meglio, la volta che ne sarete usciti”. Cercare delle alternative non è scontato, e soluzioni facili non ne vedo. Ma si potrebbe almeno iniziare a pensarci. Battisti, Bonafede: tutelo la dignità dei detenuti Il Mattino, 19 gennaio 2019 Non si placano le polemiche sul video sulla cattura dell’ex terrorista Cesare Battisti postato su Facebook dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Chi ha visto quello che ho fatto in questi 7 mesi non può avere dubbi sul fatto che lavoro ogni giorno perché la dignità dei detenuti sia garantita e tutelata”, ha affermato il ministro. Anche di Battisti? “Ci mancherebbe, di tutti i detenuti”, ha aggiunto il titolare della Giustizia rispondendo ai cronisti sulle polemiche sul video che ha postato sull’arrivo di Battisti e per il quale i penalisti romani hanno depositato un esposto. “Il video aveva il fine di dare un tributo alla polizia. Chi mi conosce sa che il mio è un lavoro che non ha un approccio a spettacolarizzare. Rispetto le critiche ma il video non aveva questo scopo”, aveva già detto Bonafede riferendosi alle violente polemiche scoppiate dopo la pubblicazione del video sull’arresto di Battisti. “Effettivamente la musica non è piaciuta neanche a me”, aveva sottolineato Bonafede. Più agenti e certezza della pena: il piano Salvini per la sicurezza di Bartolo Dall’Orto Il Giornale, 19 gennaio 2019 Dalla Lega risorse per le divise nuove dei poliziotti. Salvini: “Riforma della giustizia per tenere in carcere i malviventi”. Salvini aveva promesso interventi in favore delle forze dell’ordine. Dalla chiusura dei porti, e dal relativo risparmio per la gestione degli immigrati, il ministro dell’Interno ha annunciato risorse per l’assunzione di 8-10mila agenti in più. L’obiettivo è aumentare la sicurezza degli italiani, quella reali così come quella percepita. “Al Viminale ieri, abbiamo trovato altri 30 milioni di euro per aiutare 200 comuni italiani, da nord a sud, a installare telecamere di sorveglianza”, ha detto stamattina il leader della Lega mentre si recava a Rigopiano per l’anniversario della tragedia. Il ministro giura che si tratta di “fatti” e non di “parole al vento”. E la concretezza significa più “poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco” e soprattutto “macchine nuove” e “certezza della pena”. Il piano di Salvini sulla sicurezza si gioca su piani diversi. Più agenti sulle strade (a Napoli ne arriveranno altri 61 dopo i 140 già arrivati nei mesi scorsi), condizioni migliori di lavoro e soprattutto una riforma della giustizia che “permetta di trattenere in carcere” i malviventi. Troppe volte i poliziotti hanno lamentato “rassegnazione e delusione” per malviventi catturati la mattina e scarcerati la sera, pronti dopo poche ore a riprendere la propria attività criminale in barba a chi rischia la vita per acciuffarli. Ma non è solo questo. In queste ore al Senato si sta infatti analizzando il ddl Semplificazioni con i relativi emendamenti. La Lega ne ha approfittato per inserire una proposta di modifica per la “semplificazione finanziaria”che dovrebbe assicurare “la funzionalità del ministero dell’Interno”. Misure per fornire risorse per le divise dei poliziotti, per aumentare i buoni pasto degli agenti, pagare i volontari dei vigili del Fuoco e premiare i dirigenti prefettizi. Come riporta Italia Oggi, infatti, il capogruppo leghista Massimiliano Romeo ha presentato l’emendamento che per ora ha superato il vaglio di ammissibilità. In particolare, se l’emendamento dovesse essere approvato, il Viminale potrebbe spendere 2 milioni di euro nel 2019 e 4,5 milioni dal 2020 al 2026 per il ricambio delle divise del personale di polizia. Una misura richiesta più volte in passato dai sindacati di categoria, che lamentano mancanza di vestiario che costringe spesso gli agenti ad acquistare a proprie spese magliette di ricambio. Per i dirigenti delle Prefetture, invece, è prevista la creazione di un fondo da 6 milioni di euro per i premi di risultato. Inoltre, l’emendamento leghista prevede anche un aumento dei buoni pasto giornalieri per il comparto di Sicurezza e Difesa. Per il Viminale la spesa - riporta Italia oggi - sarebbe di 746mila euro per il 2019 e 895mila nel 2020. L’attenzione della Lega si è rivolta poi anche ai Vigili del Fuoco. Al netto delle polemiche, e delle denunce di qualche sindacato, il ministro dell’Interno si è fatto più volte fotografare con la divisa dei pompieri. L’emendamento prevede che il fondo per la retribuzione dei volontari dei vigili del Fuoco sia aumentato di 449mila euro oggi per poi arrivare a 1,5 milioni di euro quando sarà a regime. Lotta a mafia e terrorismo? Mai senza la Polizia penitenziaria di Marco Belli giustizia.it, 19 gennaio 2019 Si può fare una efficace lotta alle mafie e al terrorismo rinunciando all’apporto delle informazioni che provengono dal sistema penitenziario? Quanto è importante per il contrasto al crimine organizzato e ai fenomeni eversivi, soprattutto per la loro prevenzione, l’attività di ascolto e di monitoraggio che gli agenti di Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente in carcere? Le risposte a queste domande sono state al centro del convegno dal titolo Il contrasto alla criminalità organizzata ed al terrorismo nell’ambito dell’esecuzione penale in un’ottica di coordinamento tra Forze di Polizia, organizzato dall’Associazione nazionale funzionari di Polizia Penitenziaria - Sindacato Dirigenti del Corpo e svoltosi questa mattina a Palazzo Giustiniani. A sottolineare e specificare le peculiarità di questo ruolo fondamentale e unico fra le competenze assegnate alle forze dell’ordine sono stati gli interventi del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, del Procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho, del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini e del Comandante del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria Augusto Zaccariello. Partendo da uno dei recenti interventi normativi contenuti nel pacchetto sicurezza divenuto legge dello Stato, che ha istituito un contingente di venti unità di Polizia Penitenziaria presso la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, l’incontro ha sottolineato l’importanza del ruolo svolto dagli agenti penitenziari nel contatto quotidiano con la popolazione detenuta. Perché se è vero che, assicurando la vigilanza sugli istituti, i baschi azzurri sono il primo baluardo a salvaguardia della sicurezza dei cittadini, è altrettanto importante sottolineare come proprio loro siano i primi e costanti interlocutori dei detenuti durante la permanenza in carcere. È in questo continuo dialogo che inizia quel trattamento penitenziario, curato dagli educatori con l’aiuto di altri operatori e volontari, che la Costituzione impone per la rieducazione del detenuto e il suo reinserimento nel contesto sociale. Ma è innegabile che proprio da questo ripetuto contatto, così come dall’attento monitoraggio di tutti i comportamenti e atteggiamenti del detenuto, possano venire preziose informazioni e utili contributi all’attività di indagine dei magistrati delle Direzioni distrettuali antimafia e antiterrorismo. “Lo spot più bello sulla Polizia Penitenziaria lo hanno fatto le parole dei rappresentanti delle altre forze di polizia”, ha detto con soddisfazione il Capo del Dap Francesco Basentini. Che ha sottolineato come “ora il tempo è maturo per superare le competizioni e le gelosie fra i diversi Corpi. Abbiamo un bagaglio importantissimo di informazioni raccolte negli istituti penitenziari da mettere a disposizione: occorrerebbe creare gli strumenti operativi per una loro condivisione sistematica”. Basentini ha ricordato “l’importanza dell’attività umana e quotidiana svolta dall’agente di Polizia Penitenziaria, nella sua veste di primo punto di riferimento offerto al detenuto nel periodo della detenzione”. E ha concluso con un monito agli stessi appartenenti al Corpo: “Da qualche tempo la Polizia Penitenziaria vuole rafforzare un’immagine fatta di tante competenze, messe a disposizione della sicurezza della società. E vuole farlo attraverso un percorso di trasparente competenza”. Trasparente, ha scandito il Capo Dap. Di “contributo fondamentale e insostituibile sul piano della prevenzione” ha parlato anche il Comandante del Nic Augusto Zaccariello. “In carcere si rinsaldano, si sciolgono o cambiano i sodalizi criminali. Tutte queste attività passano attraverso piccoli gesti, movimenti spesso impercettibili, messaggi che la Polizia Penitenziaria deve essere attenta a cogliere, monitorando e controllando i detenuti e ogni loro comportamento, anche il più insignificante. Tutto questo riguarda anche le interrelazioni fra criminalità italiana e straniera, come i collegamenti delle mafie nostrane con le mafie nigeriane o albanesi”. Zaccariello ha ricordato come questo impegno di sorveglianza, vigilanza, osservazione e controllo venga replicato anche per ciò che riguarda i detenuti per fatti di terrorismo e quelli a rischio radicalizzazione. “In un sistema integrato dove le diverse Forze di polizia contribuiscono ciascuno per la propria competenza, il lavoro della Polizia Penitenziaria è una componente essenziale nella lotta alla mafia e al terrorismo - ha concluso il Capo del Nic. Senza la presenza della Penitenziaria, questa integrazione rimarrebbe priva di una parte fondamentale”. Riconoscimenti importanti per l’operato degli appartenenti al Corpo sono venuti dalle parole dei comandanti del Ros dei Carabinieri, il generale Pasquale Angelosanto, e dello Scico della Guardia di Finanza, il generale Alessandro Barbera, nonché dal Direttore della Dcpp della Polizia di Stato Lamberto Giannini, sollecitati su questo dal Vicedirettore del Tg1 Filippo Gaudenzi. L’istituzione del contingente di uomini a disposizione della Dna potrebbe costituire il primo passo verso altri interventi normativi, come l’istituzione di sezioni di P.G. della Polizia Penitenziaria in seno agli Uffici di Procura e l’inserimento del Nucleo Investigativo Centrale del Corpo tra i servizi centrali di P.G. di cui all’articolo 12 del DL 152/1991. Per ora il Corpo ha centrato il risultato “storico” ottenuto, che, grazie alla collaborazione con la Procura Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, porterà importanti ricadute in materia di contrasto al crimine organizzato e ai fenomeni eversivi, contribuendo al contempo a rafforzare l’immagine dei baschi azzurri. Stato di diritto in Italia, giuristi in campo per difendere le regole democratiche di Paolo Lambruschi Avvenire, 19 gennaio 2019 In difesa appassionata dei principi costituzionali, della democrazia rappresentativa e liberale e del rispetto delle regole per evitare il peggio. Si è presentata così ieri mattina a Milano la nuova associazione giuridica “Italia stato di diritto”, fondata da giuristi, docenti universitari e professionisti, tra i quali numerosi giovani, tutti di diversa formazione e orientamento politico. Presieduta dall’avvocato Simona Viola, conta tra i promotori i docenti della Cattolica Aldo Travi e Dino Rinoldi ed Eugenio Bruti Liberati dell’Università del Piemonte Orientale. Oltre a promuovere la formazione nelle scuole per aiutare i giovani a capire l’importanza dei diritti e delle libertà fondamentali, l’associazione vuole sollecitare la conoscenza e il rispetto delle istituzioni democratiche e contrastare l’abuso dei poteri pubblici. Senza troppi giri di parole, l’obiettivo è ricordare le regole giuridiche vigenti e vincolanti, nonostante la narrazione prevalente. E far memoria a elettori e governanti che, anche se si gode del sostegno di una forte maggioranza, nessuno in una democrazia può mettersi sopra la Costituzione. Crea forte disagio, ad esempio, non l’arresto di Cesare Battisti, ma la frase del ministro degli Interni sui comunisti che devono “marcire in galera”. Non si era mai udito un rappresentante delle istituzioni esprimersi così violentemente su un detenuto, notano i giuristi. L’immigrazione e l’uso distorto dei media sono gli argomenti scelti dall’associazione per l’esordio. 01 prossimo 23 gennaio al tribunale di Locri, come conferma il professor Bruti Liberati, saranno a fianco del comune di Riace nel ricorso cautelare al Tar Calabria contro la revoca delle risorse assegnate per la gestione di un progetto Sprar di accoglienza dei rifugiati. Per l’associazione il provvedimento rappresenta infatti un caso paradigmatico di mancato rispetto delle regole per realizzare obiettivi politici di parte. Perché il Viminale, sostengono, ha preteso di fondare su alcune asserite irregolarità formali - negate dal Comune- la decisione di privare il Comune retto da Mimmo Lucano dei fondi statali diretti a sostenere e i progetti. Il provvedimento è ritenuto non conforme alle regole del nostro sistema giuridico, la sproporzione tra violazioni contestate e la “sanzione” comminata giustifica per i giuristi il sospetto che il vero scopo sia rendere impossibile la prosecuzione di un progetto simbolo delle politiche di integrazione non solo sul territorio nazionale. Altro provvedimento che fa a cazzotti con diversi articoli della Costituzione è l’articolo 13 del decreto sicurezza, già contestato da diversi sindaci e da alcune regioni che hanno presentato ricorso contro la norma che non consente l’iscrizione all’anagrafe del richiedente asilo finché la domanda non sia stata accolta. Per i giuristi è grave non solo la disparità di trattamento con altri cittadini stranieri, ma soprattutto lo sprezzo per le norme Ue che si riferiscono all’accoglienza. Norme che, nonostante tutti i difetti dell’Ue, abbiamo accettato di sottoscrivere con trattati internazionali che un ministro pro tempore non può ignorare né modificare, neppure a scopo di propaganda. Un’altra iniziativa riguarda il nuovo corso dell’informazione politica, ovvero i monologhi del ministro di turno in tv in trasmissioni di informazione prive di contraddittorio. L’associazione ha promosso una petizione on line da inviare all’Agcom. Come tengono a ribadire, le iniziative sono lontane dai partiti e vicine agli interessi di tutti i cittadini. Csm, la malafede di carrieristi e “correntisti” di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2019 Il precedente Csm - quello che il vicepresidente Legnini definiva nelle sue seriali esternazioni, il migliore degli ultimi anni - è riuscito nella invidiabile (si fa per dire) impresa di farsi bocciare per ben tre volte dal giudice amministrativo la nomina all’incarico direttivo di procuratore di Modena di un pm che occupava un posto semi-direttivo (l’aggiunto Lucia Musti) anziché a chi già da otto anni era titolare di un posto direttivo (il procuratore di Rimini, Paolo Giovagnoli). Tale esito appariva, peraltro, scontato perché la terza delibera - quella nuovamente annullata dal Consiglio di Stato l’8 gennaio 2019, adottata dal Csm il 25 luglio 2018 (impropriamente) in prossimità della sua scadenza - conteneva, come rileva il Cds, “una valutazione che sembrava confermare la semplice ricerca di una addizione motivazionale a una decisione in realtà già pre-acquisita”. La motivazione della delibera - redatta dal membro togato Palamara (per anni presidente dell’Anm) - si fondava su argomentazioni poco convincenti. Come la “sua (della Musti) più ampia capacità di promuovere e garantire il `lavoro di squadra’ all’interno dell’ufficio giudiziario con la piena valorizzazione dei colleghi e del personale creando nel contempo le condizioni per protocolli di intesa con altre amministrazioni”; o come il “particolare rilievo” della “istituzione del Das (Definizione affari semplici) - formato dalla dott.ssa Musti e da alcuni componenti delle aliquote di polizia giudiziaria” - cui la predetta “era giunta esaminando la posta giornaliera”. O ancora la circostanza che “la Musti aveva curato la formazione del personale di Pg per garantire il corretto utilizzo di modelli standard per la trattazione degli affari definiti semplici” (la Pg, in verità, dovrebbe essere adibita a svolgere attività investigativa più che amministrativa). A questo “record” si è aggiunta una valanga di annullamenti di nomine sempre dal precedente Csm: a) procuratore di Trani; b) procuratore di Venezia; c) quattro presidenti di sezione della Cassazione; d) presidente sezione Tribunale di Potenza; e) procuratore aggiunto della Dna (ribadita dopo un primo annullamento); f) presidente Corte di appello di Lecce. Gravi sono le accuse che il Cds muove all’organo di autogoverno: “Il Csm manifestava una irragionevole incoerenza nell’attività amministrativa”; “insistita illegittimità ed elusività dell’operato del Csm”; “intento elusivo di sottrarsi al vincolo confermativo da giudicato”; “in uno Stato di diritto il primato del diritto accertato mediante sentenze passate in giudicato vincola ogni amministrazione pubblica”. E questi sono solo alcuni dei tanti esempi dimostrativi, da un lato, di un delirio di onnipotenza per cui il Csm ritiene di non dover sottostare alle decisioni dei giudici e, dall’altro, del grave grado di degenerazione correntizia che comporta nella gestione dell’ordine giudiziario disfunzioni, ritardi, incertezze, condizionamenti, lesione dei diritti di singoli magistrati, sicché si impone l’abrogazione di qualsiasi immunità per consentire, in caso di comprovati abusi e favoritismi, il ricorso del magistrato danneggiato alla giustizia. I casi citati dimostrano, altresì, la malafede dei “correntisti” e “carrieristi” che si oppongono al sistema di estrazione a sorte dei membri togati. Quello che preoccupa è che il ministro di Giustizia - che aveva preannunciato una riforma del Csm col sistema misto sorteggio/elezione, intervistato a “Presa diretta”, si è, invece, schierato per un sistema di elezione attraverso piccoli (quanto?) collegi: sistema inidoneo a impedire la infiltrazione correntizia, posto che nessun magistrato - salvo che si chiami Davigo - potrà mai superare i candidati sostenuti dalle correnti. Forse bisogna dare ragione a quell’autorevole magistrato de1Csm che già nel 1970 affermava: “La magistratura è ingovernabile”. La corruzione? Va fermata prima, non con l’arma impropria del processo di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 19 gennaio 2019 Il margine di tempo insolitamente ampio lasciato trascorrere dal presidente della Repubblica prima di promulgare, lo scorso 10 gennaio, la legge cosiddetta Spazza-corrotti aveva probabilmente alimentato le speranze dei giuristi italiani per un esito diverso, e un rinvio motivato alle Camere. Un’aspettativa che comprensibilmente si era diffusa innanzitutto presso l’avvocatura e larga parte dei processual-penalisti italiani: tanti autorevoli rappresentanti dell’accademia infatti avevano sottoscritto l’appello predisposto dall’Unione Camere penali affinché il presidente Mattarella rinviasse la legge alle Camere per i dubbi di costituzionalità sulla prescrizione, che con lo Spazza-corrotti è abolita dopo la sentenza di primo grado. Fin dagli esordi dell’iter legislativo, i contenuti della nuova legge hanno ingenerato in effetti molte perplessità nella comunità giuridica italiana, non solo in ordine alla prescrizione ma anche al fatto che nella riforma mancasse un qualsivoglia riferimento all’uso di strumenti premiali nella lotta alla corruzione. La nuova legge anticorruzione agisce solo sul piano dell’inasprimento delle pene senza, tuttavia, predisporre un puntuale sistema di misure di prevenzione e premiali, fondamentali poiché agiscono nella fase anteriore alla configurazione della fattispecie corruttiva. La riforma, dunque, è esposta a diversi rilievi. Tuttavia, bisogna dare atto alla nuova legge di avere un merito: essere riuscita a unire dietro la stessa bandiera tutti gli attori del processo penale: avvocati e magistrati. L’elemento che più allarma la comunità giuridica italiana, aldilà della previsione di poco incisivi strumenti in ordine ad una seria e programmatica lotta alla corruzione, risiede come detto nelle norme che aboliscono la prescrizione dopo il primo grado, sia che l’imputato venga condannato sia che venga assolto. Per contrastare questa lesione, che in quanto tale pare evidente, dei diritti dell’imputato nel processo penale, si sono mossi dietro lo stesso fronte, prima volta nella storia della Repubblica, sia il Csm che appunto l’Unione Camere penali. L’associazione che riunisce l’avvocatura penalistica italiana ha cercato fino all’ultimo, con l’uso degli strumenti democratici, di contrastare la promulgazione di una legge dai contenuti che paiono incostituzionali in più di un aspetto. Così come sul tema, il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha votato in merito al parere richiesto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, bocciando il provvedimento. Il movimento creato a tutela del fondamentale diritto dell’imputato ad una ragionevole durata del processo penale ha avuto l’effetto, perlomeno, di creare non pochi dubbi al presidente della Repubblica. Peraltro, la stessa ministra Giulia Bongiorno, avvocato, ha presagito che le disposizioni sullo stop alla prescrizione avranno sul processo penale gli effetti di una “bomba atomica”. Difficile darle torto. Preme sottolineare, ancora una volta, che non è il processo la fase in cui agire per eliminare il fenomeno corruttivo. Il processo serve a verificare se vi sia o meno una responsabilità penale per un fatto già posto in essere, ma non può avere una funzione repressiva. Quella prerogativa spetta al codice penale, che deve predisporre un sistema di norme che vadano a diminuire il rischio di configurabilità dei reati; a seguito della commissione di un reato, la repressione viene meno, lasciando spazio alla fase dell’accertamento. Lo stop alla prescrizione in questo senso sarà privo di effetti; l’unica conseguenza sarà quella di costringere l’imputato, innocente fino alla sentenza passata in giudicato, ad essere oggetto di un procedimento penale senza un termine. Tutto ciò è inaccettabile in uno stato di diritto. In questo senso, sono confortanti e generano speranza le parole del presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza, con le quali lo stesso ha promesso l’impegno dell’avvocatura a contrastare la nuova legge, nei limiti degli strumenti democratici, ovviamente. *Direttore Ispeg - Istituto Studi Politici Economici e Giuridici La vendetta di chi ignora di Gianluca Perricone L’Opinione, 19 gennaio 2019 Il cerchio sembra essersi definitivamente chiuso: Cesare Battisti, dopo diversi decenni di latitanza, è nel super-carcere di Oristano e tutti vissero felici e contenti. In realtà, più che l’arresto di un latitante, abbiamo assistito nei giorni scorsi al trionfo di un giustizialismo senza senso, intriso più di odio vendicativo che non di quella giustizia che, come tale e sotto forma di adeguata pena, dovrebbe essere applicata a qualunque detenuto. Per il quale, del resto, la detenzione in un carcere altro non dovrebbe essere che il giusto scontare una pena per ciò che ha realmente commesso e non per quello che l’opinione pubblica ritiene che lo stesso debba pagare. Se del ruolo di alcuni pentiti nella vicenda Battisti in questi giorni non ne ha mai accennato nessuno (tranne Piero Sansonetti e “Il Dubbio”), un motivo ci sarà pure. Magari legato anche ad un’ipocrisia di fondo che porta ad accusare Battisti di essere il colpevole di qualsivoglia azione criminosa compiuta dai Pac: insomma, a furor di popolo, il caprio espiatorio di una serie (innegabile) di gesti criminali commessi in nome di presunti diritti di un proletariato che si dimostrò, viceversa, assai poco propenso ad accettare la pistola quale simbolo della difesa del proprio status. Certi ministri, che nei giorni scorsi hanno fatto a gara (il senso del ridicolo non ha frontiere!) ad indossare medaglie e divise pur di mostrare il merito di aver riportato in Italia il detenuto Cesare Battisti, farebbero invece il loro dovere se riuscissero ad essere super partes, a dimostrarsi in grado di difendere i diritti costituzionalmente riconosciuti a tutti i detenuti ed a evitare (qualora fossero in grado di capire che, nonostante le apparenze, sono stati chiamati a rappresentare lo Stato) di dar vita a spettacolini che neppure gli amanti del cabaret di provincia riuscirebbero ad apprezzare. Purtroppo, stiamo vivendo un clima di giustizialismo che sembra fregarsene di quanto sancito dalla Carta Costituzionale a beneficio del consenso elettorale e del plauso di chi nulla dimostra di sapere anche in tema di rispetto dei diritti personali: la vendetta prima di tutto. Salerno: morto un detenuto tossicodipendente e su sedia a rotelle di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2019 Giuseppe Montanero, stroncato da un infarto, avrebbe finito la pena tra due anni. Il 20 novembre, Rita Bernardini, insieme a una delegazione del Partito Radicale, aveva visitato l’istituto e avevano segnalato la presenza del recluso. Nel carcere salernitano di Fuorni è morto di infarto un uomo. Sembrerebbe una morte annunciata visto che era un tossicodipendente affetto da diverse patologie, tanto da dover stare con la sedia a rotelle. Si chiamava Giuseppe Montanero, nato nel 1964, ed avrebbe finito di scontare la pena tra due anni. A rinvenire il cadavere è stato un agente della polizia penitenziaria che ha subito allertato i soccorsi. Ma i sanitari non hanno potuto fare altro che confermarne il decesso. Giuseppe era rimasto quasi solo e poteva contare, negli ultimi tempi, solo sull’anziana madre e su una ex compagna di vita, che di tanto in tanto andava a trovarlo in carcere. Proprio lo scorso 20 novembre, Rita Bernardini, insieme ad una delegazione del partito Radicale e accompagnati da Donato Salzano e Fiorinda Mirabile e altri avvocati fra i quali il presidente della Camera Penale di Salerno, Michele Sarno, hanno visitato il carcere. E proprio lì avevano segnalato la presenza di Giuseppe, trattato come gli altri gli altri detenuti, nonostante sia stata avanzata più volte richiesta di trovare una sistemazione più idonea alle sue condizioni di salute. Un carcere che presentava gli stessi identici problemi della maggior parte delle patrie galere. “L’umidità si fa sentire, i materassi di gommapiuma sono bagnati perché, oltre alle perdite dalle tubature, quando piove entra l’acqua dalle finestre. Le mura delle celle sono sporche ed è usuale trovare fogli di giornale appiccicati alle pareti per coprire il sudiciume prodotto da precedenti, lontane detenzioni. Quanto al riscaldamento, il giorno della nostra visita coincideva con quello della prima prova in vista della stagione più fredda; risultato del test: termosifoni gelati, occorre evidentemente una più approfondita messa a punto considerata la vetustà delle caldaie che infatti ha richiesto nel tempo continue riparazioni”, aveva spiegato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Il dramma che si è consumato nel carcere di Fuorni riguarda ancora una volta la questione dei malati in carcere. Non è la prima volta che persone con patologie gravi, in più che fanno fatica a deambulare tanto da necessitare la sedia a rotelle, muoiono all’interno delle patrie galere. Se pensiamo alla regione Campania, proprio qualche mese fa, il garante regionale campano Samuele Ciambriello ha illustrato la complicata situazione nel corso del focus sulla sanità penitenziaria presso la sede del consiglio regionale. A partire proprio dai posti letto in ospedale da destinare ai detenuti: 32 letti su 7.400 carcerati. Il garante dei detenuti ha segnalato gli aspetti più drammatici che compongono il quadro complessivo della sanità, come quello che “riguarda il trasferimento per le visite specialistiche che avvengono in tempi lentissimi, sia a causa delle lunghe attese ospedaliere, sia per la carenza di personale. A Poggioreale c’è un buon reparto di radiologia, ma manca la Tac: mettiamola a Secondigliano per consentire meno spostamenti, con un risparmio economico e di personale, perché ogni volta che un detenuto esce per una visita specialistica deve essere accompagnato per sicurezza da tre agenti”. Alla notizia dell’ennesima morte per malattia, il garante ha ribadito che “va migliorata l’assistenza sanitaria che in alcuni casi è disastrata e va rafforzata la presenza degli educatori nei reparti e nelle sezioni. Per questo chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Per parte mia - continua Ciambriello, rafforzerò gli uffici del garante con esperienze di ascolto e sportelli informativi snelle carceri”. Il problema sanitario nelle carceri è una emergenza perenne. Non esistono dati ufficiali dove attingere, tant’è vero che la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, nel 2013, fece una proposta - tuttora non accolta - durante un’audizione al parlamento di introdurre un osservatorio nazionale per la tutela della salute in carcere. Ricordiamo che l’assistenza sanitaria nelle carceri, dal 2008, è competenza del Servizio sanitario nazionale e dei servizi sanitari regionali. Le Asloss quindi hanno la competenza della gestione, ma tante sono le situazioni dove soprattutto gli infermieri devono fare i conti con la riduzione dell’orario di lavoro, la carenza di personale e il dramma infinito delle partite Iva che rendono da sempre precario il loro lavoro. Roma: giovane suicida in carcere. Il Gip: non doveva essere lì di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 19 gennaio 2019 Valerio Guerrieri si impiccò a Regina Coeli. Chieste indagini sul direttore e sui vertici Dap. Un giudice aveva disposto la scarcerazione e il ricovero in un centro medico specializzato. Nel mirino ora ci sono il direttore del carcere e i vertici del Dap, il dipartimento dell’amministrazione giudiziaria. Vanno estesi gli accertamenti sulla morte di Valerio Guerrieri, il ventunenne che il 24 febbraio 2017 si è impiccato a Regina Coeli, dove non sarebbe dovuto stare, visto che un giudice aveva previsto la scarcerazione e l’assegnazione in una Rems. A sollecitare il supplemento di indagini è stato il gip di Roma Claudio Carini. Il giudice, infatti, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata per i vertici penitenziari dal pm Attilio Pisani - il magistrato che per il caso ha già chiesto il processo con l’accusa di omicidio colposo per due medici e sette secondini del carcere - e restituito gli atti alla sua scrivania, profilando anche il reato di indebita limitazione della libertà personale. Il pm aveva formulato richiesta di archiviazione sostenendo che la direttrice, nel non scarcerare il detenuto, non avrebbe agito con dolo, ma per negligenza. Una conclusione che è stata contestata dai familiari del giovane, assistiti dall’avvocato Claudia Serafini, che all’opposto ritenevano “necessarie ulteriori investigazioni su competenze, tempi e modalità di individuazione della Rems dove accudire Valerio. Restando comunque fermo il dato della mancata scarcerazione disposta il 14 febbraio”, dieci giorni prima del suicidio. Il gip ha sollecitato indagini non solo per il reato di indebita limitazione della libertà ma anche di omicidio colposo sia per la direttrice del carcere che per i vertici Dap. “Tra questi”, specifica il gip, “la direttrice di Regina Coeli, il cui attivismo sembra davvero escludere un atteggiamento di negligenza nella vicenda pur restando ineliminabile il fatto della mancata scarcerazione di Guerrieri in attesa della individuazione della Rems presso cui ricoverare il giovane”. “Ma anche”, aggiunge, “del personale direttivo del Dap che ha avuto un ruolo nella mancata tempestiva individuazione di idoneo istituto”. Il ruolo dei soggetti così identificati, prosegue ancora il giudice, “andrà valutato anche in relazione al possibile reato di omicidio colposo”. Il magistrato anzi allarga il cerchio e tira in ballo anche i responsabili della Rems di Ceccano che in precedenza avevano “insistentemente sollecitato l’allontanamento dalla struttura di Guerrieri secondo loro non affetto da nessuna patologia psichiatrica”, aprendogli così le porte del carcere. Invece Valerio Guerrieri lo aveva detto già davanti al giudice, tre giorni prima del suicidio, che in carcere non ce l’avrebbe fatta. “Regina Coeli è un caos. Non ce la faccio. Mi sveglio e soffro. Soffro mentalmente. Mandatemi a casa. Mi curo”. Il giudice così accertata l’incapacità ne aveva disposto la scarcerazione, con l’assegnazione a una Rems, una struttura sanitaria, da dove in passato era scappato più volte. Ai medici dell’istituto penitenziario e ai secondini il pm Pisani contesta di aver sottovalutato la situazione del detenuto. E per di più di non aver fatto scattare subito l’allarme, a causa forse di controlli blandi della cella. Il giovane, accusato di oltraggio e condannato a 4 mesi di reclusione e a 6 di misura cautelare nella Rems di Ceccano, andava scarcerato già il 14 febbraio, dopo la lettura della sentenza. Anche perché quel giorno una perizia aveva avvertito che “era ad alto rischio suicidario”. “Quindi la soluzione per contenere questo tipo di rischio”, aveva specificato lo specialista, “Avrebbe bisogno di psichiatri tutti i giorni”. “La vicenda Guerrieri è la cronaca di una morte annunciata”, ha denunciato più volte il presidente della Camera penale, Cesare Placanica. Empoli (Fi): morto durante un controllo di polizia “aveva mani e piedi legati” di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 19 gennaio 2019 L’uomo, un tunisino di 31 anni, era entrato in un money transfer di Empoli, in Toscana. Dato aveva dato in escandescenze era intervenuta la polizia che lo aveva ammanettato. Poi l’attacco cardiaco. Il post di Salvini: “Il mio sostegno ai due poliziotti”. È morto per un arresto cardiaco con le manette ai polsi e le gambe legate con una piccola corda. Arafat Arfawi, 31 anni, origini tunisine ma cittadino italiano, sposato con una donna toscana dalla quale si era separato, era stato bloccato nel tardo pomeriggio di giovedì al Taj Mahal, un negozio etnico e di spezie di Empoli che è anche un money transfert dove era entrato con in mano venti euro. “Voglio mandare questi soldi ai miei familiari in Tunisia”, aveva detto al proprietario dell’esercizio, che però, sospettando che la banconota fosse falsa, aveva rifiutato l’operazione. A quel punto l’uomo era andato in escandescenze pare tentando di aggredire il proprietario e tentando di danneggiare il negozio. L’intervento - Il titolare dell’esercizio aveva chiamato il 113 che a sua volta aveva avvertito un’ambulanza del 118. Quando gli agenti sono attivati, Arfawi era in strada. Poi è entrato di nuovo nel negozio ed è stato immobilizzato. Ed è qui che è stato colpito da una crisi cardiaca. Era a terra, scalciava e oltre alle manette gli agenti gli avevano immobilizzato le gambe con una corda. È morto poco dopo le 20 mentre medici e infermieri dell’ambulanza tentavano di salvarlo con massaggio cardiaco e respirazione assistita. Più tardi arriva un post di solidarietà agli agenti da parte del viceministro Matteo Salvini: “Tutto il mio sostegno ai poliziotti che, aggrediti e morsicati, hanno fatto solo il loro lavoro: per fermare un violento ed evitare altri danni si usano le manette, non le margherite”. Inchiesta - Sull’episodio la procura di Firenze (le indagini sono coordinate dal sostituto procuratore Christine Von Borries) ha aperto un’inchiesta e non si escludono a breve avvisi di garanzia. Il magistrato vuole capire se il tunisino sia stato soccorso quando ha accusato il malore e se manette e corda hanno avuto conseguenze sulle operazioni di rianimazione effettuate da un medico del 118. Un caso che, se pur con dinamiche diverse, ricorda quello di Riccardo Magherini, l’ex calciatore delle giovanili della Fiorentina morto di un attacco cardiaco a Firenze durante un fermo dei carabinieri che lo avevano bloccato a terra. Sembra che Arafat Arfawi soffrisse da tempo di problemi di comportamento. Dopo le nozze aveva vissuto a Montelupo Fiorentino e a Empoli per poi trasferirsi a Livorno dove pare fosse stato al centro di qualche problema legato al suo carattere instabile. Nel porto toscano lavorava saltuariamente sulle banchine come scaricatore. Cagliari: caso Pipia, il Garante dei detenuti si costituisce come parte offesa askanews.it, 19 gennaio 2019 Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha avviato le opportune richieste di approfondimento in adempimento del proprio mandato, in base anche al Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti. È questo l’ultimo aggiornamento del caso di Agostino Pipia, deceduto il 23 dicembre scorso, durante il ricovero al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale santissima Trinità di Cagliari. Il Garante è intervenuto dopo una lettera aperta delle Associazioni “Diritti alla Follia” e “Radicali Cagliari -Marco Sappia”, si spiega in una nota. La Procura del capoluogo sardo ha da settimane avviato un’inchiesta. Pipia, geometra di Quartucciu, aveva 45 anni, ed era stato ricoverato tredici giorni prima per alcuni problemi neuropsichiatrici, ma non legati in alcun modo “a episodi di violenza contro le persone”. Poi è arrivata la morte inattesa, per arresto cardiaco in seguito a una embolia polmonare. La lettera delle associazioni in favore di Agostino Pipia è stata firmata dai segretari Michele Capano e Carlo Loi. Nella missiva - si sottolinea - “si intendeva sottoporre all’attenzione della opinione pubblica la triste vicenda conclusasi con il decesso del signor Agostino Pipia, sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso)”. Il Garante nazionale - si aggiunge - ha comunicato di essersi costituito parte offesa nel procedimento. Le associazioni “Diritti alla Follia” e “Radicali Cagliari - Marco Sappia” ringraziano il Garante nazionale per quanto potrà fare nell’esercizio delle proprie funzioni ed auspicano che “si preveda normativamente la notifica al Garante medesimo dei singoli provvedimenti di adozione di tutti i Tso disposti e degli eventuali rinnovi”. Questo consentirebbe all’Autorità di Garanzia “di individuare criteri di scelta degli SPDC da visitare, sulla base di dati aggiornati”. “Come associazioni impegnate sul campo, si condivide la necessità di proseguire con le visite a campione sulla base di una informazione sull’adozione dei provvedimenti impositivi dei trattamenti sanitari”. Con il comunicato si rende poi noto che l’associazione “Diritti alla Follia”, intende costituirsi anch’essa quale Parte Offesa davanti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari in merito al procedimento Pipia e ciò alla luce dei propri obiettivi statutari di tutela degli interessi e dei diritti dei cittadini sottoposti Trattamento Sanitario Obbligatorio. Campobasso: il Giudice “permessi ai detenuti valutati sempre con tempestività” gazzettamolisana.com, 19 gennaio 2019 Sulla protesta dei detenuti nella Casa Circondariale di Campobasso che hanno intrapreso da diversi giorni uno sciopero della fame ad oltranza per ragioni connesse alla mancata concessione di permessi premio, interviene il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Giuseppe Mastropasqua. “Al riguardo - scrive Mastropasqua - nell’assoluta chiarezza e trasparenza dell’operato della magistratura di sorveglianza e dell’Amministrazione penitenziaria si fa presente che la Direzione della Casa Circondariale di Campobasso con apposita nota ha comunicato che nessuna forma di protesta delle persone ivi ristrette risulta in atto per ragioni connesse alla concessione di permessi premio. Che dal 01 ottobre 2018 ad oggi sono stati concessi ben 50 permessi premio e 8 permessi di necessità. Che il permesso premio non è oggetto di diritto soggettivo della persona detenuta, perché la sua concessione è subordinata all’accertamento di due presupposti: quello dell’ammissibilità riguardante l’espiazione del minimo di pena previsto dalla legge; quello della meritevolezza del richiedente che - come si desume dalla stessa denominazione di “permesso premio” - ha valenza premiale sia per la consapevolezza e riflessione critica in ordine ai reati commessi, sia per l’assenza del rischio di commissione di nuovi reati, cioè, per fini si sicurezza sociale. I magistrati in servizio presso il Tribunale di Sorveglianza - chiude il presidente Mastropasqua - hanno sempre valutato con tempestività e accuratezza tutte le istanze di permesso premio e continueranno a farlo secondo i suddetti criteri stabiliti dalla legge ed ai fini di sicurezza sociale. Avellino: “carcere Bellizzi, radiografie abbandonate perché manca l’addetto ai referti” Il Velino, 19 gennaio 2019 “La salute è un diritto che deve essere garantito a tutti. Un diritto che non viene assicurato nel carcere di Bellizzi Irpino, dove abbiamo avuto modo di riscontare una serie di carenze nel corso di un recente sopralluogo. Come abbiamo potuto infatti constatare in prima persona, nella casa circondariale “Antimo Graziano” mancano figure mediche fondamentali per l’assistenza ai detenuti e per la garanzia delle giuste terapie da somministrare. Gli esami radiografici non solo vengono effettuati con cadenza bisettimanale, con strumentazione in dotazione all’istituto, ma non c’è neppure uno specialista assegnato alla casa circondariale e abilitato a eseguire le diagnosi sui risultati emersi. Ad oggi, decine di radiografie effettuate fin dallo scorso mese di dicembre giacciono sugli scaffali, senza che siano mai state prese in visione. Un numero destinato a crescere inesorabilmente”. È quanto denuncia il consigliere regionale del movimento 5 Stelle Luigi Cirillo, che sulla questione ha presentato un’interrogazione al presidente della giunta regionale. “Alla stessa struttura - sottolinea Cirillo - non è mai stato assegnato neppure un ortopedico, ma vi opera soltanto un fisioterapista che ha in capo la responsabilità delle cure riabilitative. L’assenza di figure mediche fondamentali comporta, di conseguenza, continui trasferimenti presso strutture sanitarie pubbliche, con costi importanti per il servizio sanitario regionale, oltre che con un onere sui servizi straordinari e relative indennità riconosciuti agli agenti penitenziari. Chiediamo per questo di conoscere le ragioni dell’assenza di figure mediche nel carcere di Bellizzi, previste dalla normativa di riferimento e se il numero eccessivo di trasferimenti dall’istituto agli ospedali civili incida maggiormente rispetto a un’assistenza che potrebbe essere assicurata allo stesso carcere se vi fosse assegnato personale sanitario adeguato al fabbisogno dei detenuti”. Roma: il cardinale Petrocchi visita Rebibbia, i detenuti presentano un loro libro telepacenews.it, 19 gennaio 2019 Presente anche mons. Dario Viganò che ha esortato gli ospiti della casa a prendere le distanze da “odio” e “rancore”. C’è il rischio di tornare in libertà senza, però, tornare “davvero liberi”. Lo ha detto il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo di Perugia, rivolgendosi agli ospiti della casa di Casa di reclusione di Roma Rebibbia. Il prelato ha preso parte all’incontro, tenutosi stamane all’istituto penitenziario, per la presentazione del volumetto “Paura della Libertà”. Il libro in questione contiene molteplici testimonianze raccolte nello stesso istituto penitenziario. Per la quarta volta, i detenuti si raccontano e cercano, attraverso la scrittura autobiografica, di porgere al lettore “una lezione di vita, distillata in anni di sofferenza espiatrice”. Lo scrive il cardinale Petrocchi nella prefazione al libro, da lui firmata. E prosegue assicurando che il testo è uno strumento importante per “esplorare il mistero del cuore umano, in cui si riflette sempre qualche raggio della bellezza di Dio”. Nella stessa prefazione, poi, Petrocchi ringrazia il “team” che ha permesso di raccogliere queste pagine dense sul tema della “libertà”. I collaboratori e redattori erano tutti presenti alla cerimonia di presentazione del libro, e tra questi mons. Dario Edoardo Viganò, che può essere annoverato tra gli “amici” di questa e altre case di reclusione. L’Assessore al Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede è tra i sostenitori più vivaci di parecchie iniziative nell’ambito della pastorale carceraria. Una tra queste “Il Vangelo dentro”, una trasmissione di Radio Vaticana, in onda nei tempi forti del tempo liturgico, l’anno scorso. Nel programma radiofonico, condotto da Davide Dionisi, i detenuti di Paliano (Frosinone) e Rebibbia (Roma) potevano commentare il Vangelo del giorno, aggiungendo note autobiografiche, e raccontando la loro vita. Anche in quest’occasione, don Dario Viganò ha potuto prendere la parola. Parlando a braccio, sul tema della “libertà”, ha esortato prendere le distanze da “rabbia” e “rancore”. Anche nella sua prefazione al volume ha esortato di detenuti al “perdono”. Riprendendo le parole di Papa Francesco, ha aggiunto “il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore”. L’evento di stamattina, è stato occasione utile per ringraziare l’ex direttore dell’istituto di Rebibbia, il dott. Stefano Ricca per l’impegno profuso negli anni di servizio. Commosso, ha salutato i colleghi e gli ospiti della casa in cui ha trascorso tanti anni con spirito di dedizione. “Può apparire incredibile”, ha detto, che persone che vivono in uno stato di detenzione hanno paura di riappropriarsi della “libertà”. Eppure, ciò che accadrà una volta scontata la pena rappresenta veramente un “timore” in molti. La “paura” di ritornare ad un mondo ormai dimenticato, in effetti, è il sentimento che accomuna gli autori di “Paura della Libertà”. Suor Emma Zordan, volontaria nella casa di reclusione di Rebibbia, è l’ideatrice di questa “antologia”. “Cosa farete una volta scontata la pena?” è l’interrogativo che la religiosa spesso rivolge agli “amici” di Rebibbia. La risposta, ora, può essere letta tra le pagine di questo opuscolo. E tra le righe possiamo anche trovare la “fede” di chi cerca di aggrapparsi a Dio per trovare in Lui la forza di cambiare vita e percorrere una strada più luminosa. Nuoro: sport oltre le sbarre, al torneo di calcio giocano anche i detenuti La Nuova Sardegna, 19 gennaio 2019 La manifestazione organizzata nel campo della parrocchia della Beata Maria Gabriella nel quartiere di Badu e Carros. Anche tre squadre di detenuti saranno coinvolte nel torneo di calcio a otto organizzato nel campo sportivo della parrocchia della Beata Maria Gabriella, nel quartiere di Badu ‘e Carros, proprio non lontano dal carcere. I reclusi del penitenziario già in passato erano stati coinvolti nel torneo, con l’obiettivo dichiarato di “portare dentro la realtà carceraria i valori e la potenzialità socializzante della pratica sportiva, con un impegno e una presenza che nel tempo sono diventati sempre più significativi”, come sottolinea don Pietro Borrotzu, parroco e tra gli organizzatori dell’iniziativa assieme a Acli provinciali di Nuoro, Us Acli di Nuoro Asd Biemmegsport, Asd Atuttabirra. Per qualche anno il torneo è continuato all’esterno, ma senza la presenza dei detenuti, per via dei lavori in corso nel carcere per la realizzazione di una nuova ala dell’Istituto. Ora che i lavori sono terminati e in seguito a diversi colloqui con l’area educativa di Badu e Carros, si vuole riprendere l’iniziativa anche con il coinvolgimento di tre squadre di detenuti, che debutteranno domani, con le prime tre partite: all’esterno infatti il torneo è iniziato già da qualche giorno. Domani nel carcere ci sarà un incontro di presentazione dell’iniziativa, al quale parteciperanno la direzione e l’area educativa dell’istituto, i rappresentanti di tutte le squadre partecipanti e gli organizzatori. “La sedia vuota”. Storie di vittime innocenti della criminalità di Raffaele Sardo La Repubblica, 19 gennaio 2019 “Per quattro anni e mezzo, ogni volta che ci sedevamo a tavola, era un tormento. Nessuno si sedeva al posto che abitualmente occupava papà. La sedia rimaneva vuota e quella sedia ci interrogava, poneva domande, parlava col suo silenzio. Quella sedia dove non si sedeva nessuno, diceva più di ogni altra cosa in quella cucina che ormai era diventata fredda”. Sono le parole di Daniela, la figlia di Antonio Nugnes, vice sindaco di Mondragone, scomparso l’11 luglio del 1990. Questo libro narra tredici storie di vittime innocenti della criminalità, attraverso le testimonianze dei familiari delle vittime. Daniela Nugnes, in una delle storie, racconta l’angoscia della famiglia che da quella sera di luglio del 1990 è rimasta senza il suo pilastro. Quattro donne (tre figlie e la moglie) non hanno saputo, per tredici lunghi anni, che fine avesse fatto Antonio Nugnes. Era stata ritrovata la sua auto, ma non lui. Il suo corpo fu ritrovato la mattina del 3 settembre 2003, in fondo al pozzo di una vecchia masseria nella zona dei Mazzoni. A indicare il luogo dov’era stata gettato dopo essere stato ucciso, fu Augusto La torre, il capo dell’omonimo clan di camorra di Mondragone. Le sue ossa non riposano ancora in un cimitero. Daniela, le sorelle e la mamma, aspettano dopo 29 anni, di poter portare un fiore sulla tomba del padre. “Ricostruire le storie delle vittime innocenti - scrivo nell’introduzione del libro - è come cercare di completare un quadro mai finito. È un pezzo della nostra cronaca recente che in tanti hanno vissuto, ma nei libri di storia difficilmente la si troverà descritta con l’approfondimento dovuto. Spesso proprio in quei libri la presenza della camorra è ignorata, quando invece la criminalità è radicata in modo asfissiante nei nostri territori, ha pervaso la vita delle persone, condizionandola anche nelle scelte più piccole”. Le storie raccontate sono vicende accadute in un arco di tempo che va dal 1969 al 1991. Sono quelle di: Antonio Annarumma, l’agente di polizia ucciso a Milano il 19.11.1969; Il maresciallo dei carabinieri, Luigi Ciaburro, ucciso da un treno a Villa Literno, la notte del 9 settembre 1975 in circostanze mai chiarite; Raffaele Delcogliano e il suo autista Aldo Iermano, uccisi a Napoli da un commando delle Brigate Rosse il 27 aprile del 1982. l’imprenditore di Torre Annunziata, Luigi Staiano, ucciso dalla camorra il 4 luglio 1986; i carabinieri Carmelo Ganci e Luciano Pignatelli, uccisi da rapinatori il 4 dicembre 1987; Tammaro Romano, agente di Polizia ucciso da un rapinatore il 4 aprile del 1988 a Grumo Nevano mentre era fuori servizio; Il farmacista Giuseppe Mascolo, ucciso a Cellole da un commando di camorristi il 20 settembre del 1988; Pasquale Miele, un imprenditore di Grumo Nevano ucciso da un camorrista la sera del 6 novembre 1989; Antonio Nugnes, ucciso la sera dell’11 luglio 1990 nelle campagna di Falciano del Massico da camorristi del clan La Torre di Mondragone; Tobia Andreozzi, ucciso da killer di camorra a Trentola il 30 agosto 1990; Angelo Riccardo, ucciso il pomeriggio del 21 luglio 1991 a San Cipriano di Aversa nel corso di una sparatoria tra clan rivali; Il piccolo Fabio De Pandi, 11 anni, ucciso la sera del 21 luglio 1991 al rione Traiano a Napoli da killer nel corso di un agguato camorristico; Alberto Varone, piccolo imprenditore di Sessa Aurunca, ucciso nella notte del 24 luglio 1991 da un commando camorristico del clan dei “Muzzoni”. Diverse di queste storie sono anche pagine di resistenza civile. Raccontano di persone che hanno fatto fino in fondo il proprio dovere di poliziotti o carabinieri, di imprenditori che non si sono piegati alle minacce dei camorristi, rifiutando di pagare il pizzo, di sottomettersi alle loro regole. Con questi racconti, tutte le persone uccise finiscono di essere solo dei nomi e assumono contorni finalmente riconoscibili anche per chi non li ha mai conosciuti “La memoria - scrive nella prefazione Franco Roberti, l’ex Procuratore Nazionale Antimafia e antiterrorismo - rappresenta la base fondamentale per fare emergere le ragioni di coloro che hanno pagato con la vita l’efferatezza della camorra e delle altre forme di criminalità, a partire dal versante della tutela giuridica, che deve mirare a una reale equiparazione tra tutte le vittime dei reati intenzionali violenti”. “Ora - dice uno dei figli del maresciallo Luigi Ciaburro - mi aspetto che qualcuno apra di nuovo quel fascicolo impolverato che riguarda mio padre e indaghi sui motivi veri della sua morte”. Nuove indagini le chiedono anche altri familiari per i loro congiunti. Chiedono di conoscere gli assassini dei loro cari che nella maggioranza dei casi sono rimasti senza un volto e senza un nome. Reddito di cittadinanza: svolta sociale, ma chi paga? di Francesco Riccardi Avvenire, 19 gennaio 2019 Alla fine, i due provvedimenti simbolo del governo giallo-verde sono arrivati in porto ieri sera, con il loro carico di forti attese e di altrettanto grandi incognite. Il Reddito di cittadinanza e la (parziale) revisione della legge Fornero con “quota 100” per le pensioni, infatti, rappresentano certamente una svolta nella politica sociale del Paese, con una forte iniezione di risorse ed energie dedicate da un lato a chi non ha niente, neppure un lavoro, e dall’altro a coloro che, invece, il lavoro intendono lasciarlo a un’età - 62 anni - non troppo avanzata. Una sterzata che assomiglia molto a una manovra suggestiva e azzardata per la quantità di fondi impegnati, probabilmente sottostimati, e dall’efficacia tutta da verificare. Una “grande scommessa” buttata sul tavolo quasi a “occhi chiusi”, proprio nel momento in cui la congiuntura sta peggiorando in tutt’Europa e in Italia torna ad affacciarsi lo spettro di una recessione, con la previsione di crescita dell’1%, stimata dal governo, che appare sempre più lontana dalla realtà. Il provvedimento sulla pensione anticipata a 62 anni d’età e con almeno 38 anni di contributi - fortemente voluto dalla Lega - rischia di essere un “regalo” assai costoso a una platea di lavoratori non in difficoltà, anzi tra i più “forti” nel mercato del lavoro: uomini, in prevalenza del Nord, con carriere continuative. Le donne, infatti, non riescono quasi mai ad accedere alle pensioni anticipate perché non arrivano ad accumulare così tanti anni di contribuzione (oggi in media vanno in pensione con 26 anni di versamenti). Lo stesso dicasi per buona parte dei dipendenti del Mezzogiorno, le cui carriere lavorative sono assai discontinue. A differenza di altri provvedimenti assunti in passato, come l’Ape sociale, non si viene incontro tanto a categorie di lavoratori “usurati” o in difficoltà, ma più semplicemente si riapre un canale di pensionamento anticipato per far prendere ad alcuni un ultimo treno previdenziale relativamente “generoso”. Tanto che la misura sarà sperimentale per tre anni e molti esperti di previdenza, anche vicini alla Lega, ne temono gli effetti sui conti pubblici e sullo stesso mercato del lavoro. Sostenere infatti, come fanno alcuni esponenti del governo, che per ogni pensionato le aziende assumeranno tre giovani, è solo un’illusione. Tanto più in una fase di “stanca” della produzione e di forte automazione in fabbriche e uffici. Una certa flessibilità in più rispetto alla rigidità e all’inarrestabile incremento dell’età pensionabile previsto dalla Fornero era probabilmente necessario. La “quota 100”, che costa 4 miliardi nel 2019 e 22 a regime, però, rischia di avere un effetto esplosivo sui conti pubblici. Il Reddito di cittadinanza (Rdc) sconta analoghi criticità assieme a maggiori aspetti positivi. Una concreta misura di contrasto alla povertà, infatti, era certamente necessaria dopo anni di inazione e la portata insufficiente del (pur ben congegnato) Reddito di inserimento (Rei). Negli ultimi mesi, inoltre, il provvedimento del governo è stato affinato. Così il Rdc si è trasformato da velleitario reddito universale incondizionato a un più realistico sostegno alle situazioni di povertà e per il re-inserimento al lavoro, con una serie di stringenti condizionalità. È stata anche recepita la necessità di prevedere un percorso parallelo, con la firma del “Patto di inserimento”, per i nuclei in cui non è la semplice mancanza di lavoro la ragione prima della caduta in povertà. Ancora, utile la scelta di coinvolgere i soggetti privati nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e il sistema premiale sia per chi colloca sia per chi assume i disoccupati, visto che i Centri per l’impiego (Cpi) da soli non potranno fare tutto. Soprattutto, è notevole la base di partenza dell’assegno, pari a 500 euro più 280 di contributo per l’affitto (per chi è a reddito zero). Nella costruzione del provvedimento, però, sono rimasti anche alcuni difetti, a partire proprio dall’entità dell’assegno, uguale in tutta Italia nonostante le forti differenze nel costo della vita, e soprattutto il moltiplicatore troppo basso previsto per gli altri componenti la famiglia oltre il primo, che penalizza in particolare i minori e i nuclei più numerosi, proprio quelli maggiormente colpiti dalla povertà. Il tentativo di contenere i costi complessivi e l’esigenza politica di non scontentare la pancia del proprio elettorato, poi, hanno indotto i gialloverdi a prevedere un requisito di 10 anni di residenza continuativa in Italia che potrebbe risultare discriminatorio - e perciò anticostituzionale - per i tanti residenti stranieri in povertà. Critico, infine, anche il trattamento dei disabili ai quali era stato promesso l’aumento delle pensioni di invalidità (oggi a 282 euro al mese) e che solo in un quarto dei casi (260mila su 1,1 milioni) rientreranno fra i soggetti considerati talmente poveri da aver diritto al contributo di 500 + 280 euro al mese. Coloro che, invece, hanno familiari conviventi con altri redditi o posseggono un piccolissimo patrimonio, resteranno esclusi dagli aumenti. Anche per il Reddito di cittadinanza, l’efficienza del sistema e soprattutto la sua efficacia potranno essere misurati solo nel tempo, ma difficilmente si resterà nell’ambito della spesa prevista (6 miliardi più 1 per i Cpi), determinando o un doloroso taglio delle prestazioni o un ulteriore sforamento del deficit. Alla fine, l’approvazione del decreto segna certamente una svolta sociale per il Paese, ma restano non dissipate le incognite del ‘grande azzardo’: senza misure di sviluppo e con risultati incerti sul piano dell’occupazione, chi pagherà il conto? Ancora i giovani, gravati di un nuovo, più pesante, fardello di debito? Decreto sicurezza. “Ogni luogo in Italia può diventare un carcere per richiedenti asilo” di Gaetano De Monte riforma.it, 19 gennaio 2019 Intervista a Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti. Mauro Palma è il Garante nazionale dei detenuti o privati delle libertà, ““meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene, crudeli, inumani o degradanti” previsto dall’Onu. La legge n.10 del 21 febbraio 2014 che ne ha istituito la figura, gli ha attribuito il compito di vigilare “affinché la custodia delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani”. Si tratta di un organismo statale indipendente in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà: carceri, luoghi di polizia, centri per gli immigrati, le Residenze sanitarie per le misure di sicurezza (Rems) che hanno sostituto i vecchi Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), i trattamenti sanitari obbligatori, ecc. Nel corso di un colloquio con Palma abbiamo affrontato diverse questioni relative alla normativa che si riferisce al trattenimento degli stranieri e al decreto sicurezza. “Quando si parla di migranti dobbiamo innanzitutto superare la distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo - ha detto il Garante - e partire dal fatto che la vita va tutelata nella sua interezza, non soltanto la vita biologica”. La questione che si pone subito, alla luce del cosiddetto Decreto sicurezza, è quella del trattenimento degli stranieri all’interno dei centri, che può arrivare fino a 210 giorni, tra la permanenza negli hotspot e nei centri per il rimpatrio; una misura che coinvolge persone che non hanno commesso alcun reato. Sull’hotspot di Lampedusa, ad esempio, Palma dice: “È una struttura dai contorni indefiniti. A partire da due considerazioni strutturali, e cioè, l’assenza di spazi di socialità e la mancanza delle porte nei locali dove ci sono i servizi igienici”. Palma afferma anche che “Lampedusa è un hotspot a cielo aperto. Si trova in una situazione strutturale e giuridica indefinita che ancora ha bisogno di un chiarimento e nell’ambiguità terminologica che il decreto sicurezza introduce, potrebbe non averlo mai”. L’ambiguità principale risiede nel fatto che “quando nel decreto si parla di locali idonei al trattenimento, si rischia che ogni posto in Italia possa diventare un luogo detentivo per stranieri”. Il riferimento è alla nuova previsione governativa che prevede “la temporanea permanenza dello straniero in strutture diverse e idonee, nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza, fino a 48 ore”. Il Decreto sicurezza inoltre consente al giudice di “autorizzare la permanenza in locali idonei presso l’ufficio di frontiera, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida”. Mauro Palma spiega che “si sta introducendo un nuovo modello di trattenimento che rischia di violare le garanzie di tutela della libertà personale, perché non vi sono contenute in primo luogo garanzie sui contatti delle persone con gli enti di tutela, i famigliari, i legali”. Lo scorso ottobre il Garante Mauro Palma ha presentato un parere di 20 pagine sul Decreto sicurezza, nel corso delle audizioni previste alla Commissione Affari Costituzionali del Senato. Nel testo, consegnato al presidente della Commissione, il Garante aveva avvertito che in questa maniera “i termini di durata massima di trattenimento fissati da tale norma possono infatti arrivare fino a 210 giorni di detenzione, e soltanto ai fini puramente di verifica della cittadinanza di una persona”. Di più: è proprio la situazione di indeterminatezza in cui si trovano dette norme che potrebbe rendere difficile l’esercizio dei poteri di vigilanza del Garante nazionale detenuti, non essendoci al momento una mappa ufficiale e definita di tali luoghi. Come dire, appunto, che ogni luogo di frontiera potrebbe diventare un carcere per richiedenti asilo. Caporalato. L’imbarazzante silenzio sul nuovo schiavismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 19 gennaio 2019 Ci accapigliamo sull’arresto di un terrorista latitante, ma non c’è sindacato, associazione, partito che protesti contro lo sfruttamento disumano dei migranti. Ogni tanto ce ne accorgiamo tutti, e facciamo fatica a voltare la testa dall’altra parte, come impone la routine dell’indignazione selettiva. Grazie a una brillante operazione di polizia, si apprende che una cupola di sfruttatori del lavoro altrui (compresi un sindacalista e un ispettore del lavoro!) reclutava circa quattrocento migranti stipati in miserabili centri di accoglienza. Con paghe infami, in condizioni di lavoro altrettanto infami, senza tutele, senza dignità, trasportati da camioncini in cui erano schiacciati e umiliati. Ogni tanto ci accorgiamo che in Italia centinaia, migliaia di disperati vengono pagati quattro euro l’ora per dodici ore giornaliere. E ci accapigliamo con ardore sull’arresto di un terrorista latitante da decenni, ma non c’è un sindacato, un’associazione, un partito di destra o di sinistra, giallo, verde, rosso o nero, di governo o di opposizione che stia a fianco dei nuovi schiavi, che sappia protestare, mobilitarsi, mettersi alla testa di un’azione civile per dire che il nuovo schiavismo è la vergogna dell’Italia. E che nessuno vuole accorgersi che i migranti, nel bersaglio dell’attenzione pubblica quando sono in mare alla ricerca di un porto negato, vivono una volta sbarcati in condizioni disumane, con ritmi di lavoro (nero) disumano, in catapecchie disumane. Nessuno si occupa più di loro. Solo le figure bieche dei caporali lo fanno, ma soltanto perché gli conviene. Ogni tanto si scopre che i campi della Calabria assomigliano a quelli dell’Alabama prima della conquista dei diritti civili da parte dei neri. Muore un migrante preso a fucilate e allora i media scoprono che quei nuovi dannati della terra vivono in luridi tuguri e che vengono pagati per raccogliere i pomodori a cifre che “prima gli italiani” non accetterebbero mai. Si scopre che c’è una legge contro il caporalato, che prende il nome dell’ex ministro Martina oggi molto taciturno per l’evidente inefficacia di quelle sue norme (ma almeno ci ha provato), però i nuovi schiavi vengono reclutati così: all’alba, a chiamata, tu sì, tu no e se non accetti c’è un altro disperato che accetta al posto tuo e tu muori di fame. È un quadro esagerato o è la quotidianità di Alabama, Italia? Anche nel Foggiano, abbiamo scoperto nostro malgrado, i migranti sfruttati muoiono, i corpi ribaltati e soffocati dentro catorci che trasportano la merce umana violando sistematicamente, nel territorio italiano, le più elementari regole del rispetto dei diritti umani. Ora Latina, e chissà in quanti altri posti, e con quanta stanchezza per un’opinione pubblica che, variamente collocata nello spettro politico, resta prigioniera di una paralizzante ipocrisia. Tutti abbiamo perso un pezzo del nostro passato migliore. La sinistra socialista, comunista, “laburista” andava fiera per il suo impegno nelle lotte bracciantili, per aver aiutato i lavoratori dei campi, i contadini vessati nella rassegnazione atavica, a non piegare più la testa davanti ai caporali di allora. Anche la destra “sociale” (persino di derivazione corporativo-fascista) ha avuto una sua tradizione di attenzione al lavoro, i suoi sindacati, le sue associazioni di tutela dei più svantaggiati. E non parliamo del grande fiume del solidarismo cattolico, oggi appannaggio di virtuose minoranze, e non solo nella sua variante caritatevole che è una delle poche reti di protezione e di aiuto per i più deboli messi ai margini della società, ma in quella dell’organizzazione dei lavoratori, dei coltivatori, dei piccoli artigiani, delle casse rurali e così via. Di fronte all’apparire sconvolgente del nuovo schiavismo tutti questi mondi, indeboliti, sfibrati, invecchiati, tacciono. Da una parte, i chiassosi paladini dell’anti-immigrazione sono imbarazzati perché imprenditori italianissimi sfruttano una manodopera straniera senza diritti, penalizzando proprio le fasce più deboli della popolazione italiana, i penultimi che infatti sono infuriati con gli ultimi che levano il lavoro. E sono imbarazzati e muti anche i paladini dell’accoglienza, che non dicono quanto poco accogliente sia l’Italia che tiene i migranti in condizioni pietose, accatastati in bidonville e tuguri, sfruttati da un padronato cinico con la complicità delle organizzazioni che lucrano sulla disperazione degli sbandati e degli affamati. Da qui il silenzio, l’indifferenza, l’imbarazzo. Lo squilibrio tra l’attenzione alle grandi operazioni mediatiche nelle operazioni di polizia, e la minimizzazione quando quelle sacrosante operazioni di polizia smascherano il lavoro illegale, la piaga del caporalato, le tracce di un nuovo schiavismo che non dovremmo tollerare se avessimo la coscienza a posto. A Latina lo Stato si è fatto sentire, sono forze politiche, sindacali, associative che invece non si sono fatte sentire. La parte oscura dell’immigrazione non vogliamo vederla, da questa e dall’altra parte della barricata. Buoni, e cattivi. Il colore della miccia ungherese di Paola Peduzzi Il Foglio, 19 gennaio 2019 Nell’Ungheria di Orban c’è un dissenso che cresce e vuole prendersi la piazza. Dal basso verso l’alto, direbbero i populisti. Ma oggi si protesta proprio contro la democrazia illiberale: il brutto ossimoro che minaccia l’Europa. Se dici sciopero generale, ti rispondono: sono solo manifestazioni. Se dici manifestazioni, ti rispondono: no, è uno sciopero generale. Non si tratta di una semplice questione semantica, perché qui siamo a Budapest, e se parli di “sciopero” gli sguardi si fanno cupi: anche questo diritto, che era stato garantito nel 1989, è stato emendato, nel 2010, ed esercitarlo oggi è un po’ più difficile. Non che ci sia una grande tradizione di scioperi in Ungheria, ma con i diritti e la libertà va così: ti accorgi di quanto sono preziosi quando te li tolgono. Allora diciamo che per oggi, in tutto il paese, è prevista una grande mobilitazione, non soltanto a Budapest, dove batte il cuore dell’opposizione al governo di Viktor Orbi, ma anche in altre città: le aspettative non sono grandiose, ma ci saranno blocchi alla circolazione delle auto, palchi, cartelloni, per poter dire che la protesta non è solo una mania di Budapest, e che nessuno si vuole fermare, né farsi intimidire: questo è solo l’inizio. “Potrebbe esserci anche qualche sorpresa - dice Anna Donkh, vicepresidente di Momentum, il piccolo e recente partito “dei giovani”, resa celebre da una foto con una fiaccola colorata in mano - ma non posso anticipare nulla, e molto dipenderà dalle persone che ci saranno in piazza, dal loro umore”. Una differenza rispetto alle manifestazioni organizzate prima di Natale c’è ed è la regia dei sindacati, che hanno chiesto al governo di abolire la cosiddetta “legge schiavitù”, che è stata approvata il 12 dicembre e che permette ai datori di lavoro di imporre 400 ore all’anno di straordinario ai propri dipendenti. I sindacati vogliono anche salari aumentati, maggiori diritti per i lavoratori e un sistema pensionistico più flessibile, e poiché il governo “ci ha abbandonati”, ecco che la giornata di oggi è diventata quella in cui il paese si deve fermare, tutto insieme, tutto d’un colpo. La sindacalizzazione in Ungheria non è alta e anzi molti osservatori dicono che, pure se il pretesto è una legge che riguarda il lavoro, la mobilitazione non è animata dagli operai, bensì dai giovani, dalla borghesia, dagli intellettuali, che rappresentano soltanto loro stessi e il loro “narcisismo”, come dice la commentatrice pro governo Zsófia Horvkh, “che è una forza che promuove l’individualismo e ha un effetto distruttivo sui gruppi”. Sarà, ma proteste così non si vedevano da anni e quando le frasi cominciano quasi sempre con “è la prima volta che” capisci che l’energia è tutta qui: sta accadendo qualcosa di inedito, si gela ma mettetevi comodi. Sembra di avere sotto gli occhi un libretto illustrato -maestosamente illustrato, questa è Budapest - della storia attuale dell’Europa. C’è la spaccatura tra grandi città - che per l’Ungheria è fondamentalmente la sua capitale- e resto del paese; c’è il consenso popolare per un governo che garantisce un’economia solida, e pazienza se lo stato di diritto si ammacca un po’, sono questioni che interessano soltanto ai salotti ben riscaldati dell’Europa dell’ovest. C’è l’informazione di governo e quella dell’opposizione, che raccontano la stessa scena con toni, occhi e approcci tanto diversi che sembrano vivere in pianeti differenti; c’è un disamore, un dissenso, che cresce e che prova a trovare una propria compattezza in piazza, dal basso verso l’alto, perché l’opposizione è frammentata e ideologicamente spesso parecchio lontana; ci sono i giovani che stanno, loro sì, vivendo una primavera di consapevolezza, e anche se questo è mese di esami all’università e sono distratti dalle scadenze non rinunciano a mostrarsi convinti di questa protesta. Sono queste le linee guida per interpretare quel che sta accadendo in molte parti dell’Unione europea, che sia la democraticissima Inghilterra o questa Ungheria democraticamente illiberale. Qui ogni cosa pare amplificata, perché il premier Orbi è diventato il testimonial di un modello che cerca di imporsi altrove, o meglio che altri leader, fan di Orbi, cercano di esportare: il laboratorio ungherese che attizza il populismo internazionale diventa un punto di osservazione imprescindibile. Pure se tanta attenzione spesso appare insostenibile anche agli stessi orbaniani, che ci tengono a sventolarci in faccia il loro modello, ma nascondono lesti le crepe. “I più aggressivi e attivi nelle proteste - dice Zoihn KovUs, il ministro per le Relazioni e le comunicazioni internazionali che è conosciuto tra i giornalisti europei perché tiene i contatti all’estero, è molto vivace sui social e sa come prendersi la scena - sono a libro paga di George Soros. I network internazionali sono anch’essi molto attivi dietro le quinte, ne vediamo le tracce ovunque: i governi di destra sono attaccati da ogni parte. È evidente che il dibattito sulla legge del lavoro è soltanto una scusa”. Una scusa senza senso, prosegue Kovks, “chi protesta contro il cambiamento della legge sul lavoro protesta contro i lavoratori stessi, perché questa è una misura che serve i loro interessi, e porterà a un aumento dei salari. Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, i datori di lavoro dovranno pagare i salari aumentati ogni mese, come è ora, e nessuno è obbligato a fare straordinari, chi dice il contrario mente”. Il format lo conosciamo, lo vediamo ripetuto ogni giorno nell’America di Trump, nel Regno Unito della Brexit, nell’Italia gialloverde: l’ispirazione viene da Mosca, che da anni taccia di “russofobia” chiunque dica qualcosa di contrario al Cremlino, anche quando lo fa sulla scorta di prove e testimonianze documentate (i filmati di Salisbury, per dire). Kovacs non fa eccezione: “La copertura della riforma del lavoro è piena di pregiudizi. I media internazionali non parlano mai dell’enorme crescita economica, dell’aumento a doppia cifra dei salari reali, della disoccupazione molto bassa. Non riportano i fatti, prendono le proteste fuori dal loro contesto, senza mai citare la posizione del governo. Non c’è obiettività, secondo noi”. L’obiettività, che tenerezza. Ognuno vive nelle proprie bolle, parla al proprio pubblico, asseconda le esigenze della propria tribù e ancora rivendica la freddezza lucida dell’obiettività? Chi prepara la mobilitazione di oggi risponde: gli operai non vengono perché ci sono molte intimidazioni, se vai in piazza perdi il lavoro, e molta gente non sa nemmeno che ci sono questi raduni perché la stragrande maggioranza dei media è vicina al governo e non racconta quel che sta accadendo. I vasi non sono più comunicanti, c’è solo da capire come e se la frattura si approfondisce o se accade il contrario, l’edito, il già visto: l’opposizione si divide e si affievolisce e il governo reprime le proteste. Così la stagione di piazza rischia di chiudersi, ma nessuno qui, tra quanti sono indaffarati per i preparativi, pensa che possa accadere: noi siamo pacifici, anche se il governo continua a parlare di “elementi radicali”, non daremo pretesti alla repressione. “Pretesto” è una parola che ricorre spesso nelle conversazioni ungheresi, come se la miccia di questa mobilitazione non fosse chiaramente visibile. La riforma del lavoro è soltanto l’ultima misura adottata da un governo che ha progressivamente accentrato il potere con l’intenzione di mantenerlo a lungo. Un passo alla volta, ma senza mai perdere il fiato, smussando diritti e pluralismo, e trovando anche il tempo di giocare con l’indignazione di Bruxelles, assecondandola soltanto quando c’è da ricevere gli alimenti e irridendola per tutto il resto del tempo. In questo Orban è davvero il migliore: accusa l’Europa di avere un pregiudizio negativo nei confronti dell’Ungheria, dice che il problema dell’occidente oggi è il liberalismo e poi se ne sta bello comodo a ricevere fondi seduto nelle file del primo partito europeo, quello dei Popolari - e a sentirsi in imbarazzo sono sempre gli altri. Il problema è vostro, mica mio. Tanto c’è sempre qualcuno disposto a difendere il premier ungherese: è accaduto due giorni fa al Parlamento europeo, quando si è votato a favore di una mozione che prevede di togliere i finanziamenti ai paesi che violano lo stato di diritto e le norme sull’anticorruzione. Il provvedimento era pensato per Polonia e Ungheria, che già sono soggette a procedure disciplinari, e naturalmente Budapest ha risposto minacciosa: ci volete punire, ma noi non ve lo permetteremo. Nelle pieghe del voto, oltre al voto orbaniano della Lega e all’astensione dei 5S, spiccano le divisioni nel Ppe: a parte il gollista francese Brice Hortefeux, unico europeo dell’ovest a dare il proprio appoggio a Orban, gli altri voti di sostegno sono arrivati dai paesi dell’est. A dimostrare ancora una volta che la frattura ideologica è anche geografica, e quando l’Italia pensa a dove collocarsi nelle sue giravolte di alleanze dovrebbe ricordarsi che le due dimensioni sono legate. Ma queste sono puntualizzazioni da gente dell’ovest. A est, a Budapest, le proteste, i pregiudizi dei media internazionali, i voti europarlamentari sono soltanto una punizione per l’ostinazione di Orban sull’immigrazione. “Le forze pro migranti sponsorizzate da George Soros - dice ancora il ministro Kovacs - si preparano per le elezioni europee organizzando proteste ovunque, a Belgrado, Vienna, Varsavia, Roma, e continueranno a farlo, è la natura di questo particolarissimo sport”. La questione, nella piazza di Budapest, prende un’altra forma, più pratica e tangibile. In Ungheria c’è carenza di forza lavoro. La piena occupazione è un vanto del governo, ma il tasso di disoccupazione basso, al 3,7 per cento, è uno di quei dati che va letto con attenzione, contenendo l’impulso iniziale che inevitabilmente è quello dell’invidia. L’emigrazione è alta: riguarda gli under 30 maschi, in particolare, e le destinazioni privilegiate sono Germania, Austria e Regno Unito. “L’emigrazione è alimentata da ragioni economiche - dice Eva Balogh, direttrice dell’Hungarian Spectrum, un progetto editoriale nato nel 2007 quando ancora l’informazione in lingua inglese sull’Ungheria era scarsa, ed emigrata anche lei, per altre ragioni, in quell’anno che qui risuona soltanto in un modo, il 1956, quando era una ragazza - I salari sono molto bassi in Ungheria anche rispetto agli altri paesi dell’est. Leggevo l’altro giorno un documento in cui un giovane emigrato diceva che in Inghilterra guadagna quattro volte quello che guadagnerebbe in Ungheria. Poi c’è anche l’atmosfera a convincere più di 500 mila persone a emigrare: non si può certo dire che ci sia meritocrazia”. Si va via in cerca di miglior fortuna, gli immigrati non arrivano, come è noto, e non si fanno figli: il numero di abitanti è pari a quello degli anni Cinquanta, la media di figli è di 1,3 a coppia, di passeggini a prima vista ce ne sono davvero pochi e una ragazza sospira: “Mi piace leggere delle vostre storie a caccia dell’uomo perfetto, qui trovare marito è un’impresa, dicono che la malattia di Budapest sia la solitudine”. Più prosaicamente: chi pagherà le pensioni ai più anziani? E cosa accadrà quando i lavoratori dipendenti prenderanno consapevolezza di essere diventati tanto preziosi? “L’importante è non disperdere lo slancio - conferma Anna Donath, di Momentum - dobbiamo protestare fino alle europee e poi ancora, fino in autunno, quando ci sono le elezioni amministrative”. Momentum, che gode di sempre maggior spazio sui giornali internazionali perché ha il fascino imbattibile della gioventù, si sta organizzando per uscire da Budapest, dalla nicchia borghese, e andare nelle cittadine e nelle campagne. Intanto ci si vede oggi, per la mobilitazione: la fiaccola viola che ha reso famosa Anna è pronta. Chissà se sarà proprio questo il colore della miccia. Cina. “Censura, polizia e lager, la repressione a 30 anni da Tiananmen” di Gianni Vernetti La Stampa, 19 gennaio 2019 Wuer Kaixi fu uno dei leader della protesta repressa nel sangue nel 1989. “Allora i carri armati, oggi Pechino ha affinato le strategie per colpire”. “Eravamo giovani e pieni di speranze, vedevamo mutamenti in tutto il mondo comunista, e pensavamo che anche in Cina i cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Il regime invece mandò i carri armati per soffocare la nostra protesta pacifica”. Wuer Kaixi divenne uno dei leader della rivolta di Tiananmen del 1989 quando sfidò in un dibattito l’allora presidente Li Peng. Un testimone diretto che oggi, esule a Taiwan, osserva la Cina e non è fiducioso sulla possibilità che “questo regime attui riforme per arrivare a una società libera e aperta”. Sono passati 30 anni dalle proteste di Tiananmen. Come iniziò la rivolta? “Avevo 21 anni ed ero studente dell’Università Normale di Pechino. Alle fine degli Anni 80 in Cina c’era una grande speranza di cambiamento ed una grande voglia di libertà e democrazia. La rivolta studentesca nacque per una combinazione di fattori diversi: le prime aperture verso un’economia di mercato favorivano solo la classe dirigente controllata dal Partito comunista al potere, i casi di corruzione si moltiplicavano e la grande aspettativa di cambiamento non era soddisfatta. Nonostante ciò, la Cina stava cambiando giorno dopo giorno, e i giovani avevano grande fiducia che cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Questo era il contesto in cui nacque il grande movimento di Tiananmen: i giovani volevano più democrazia, libertà di parola, di stampa, stato di diritto”. Ci fu qualche leader o movimento a livello internazionale che ispirò la protesta? “Eravamo affascinati dall’esperienza di Solidarnosc in Polonia e in un certo senso tentammo di imitarla. C’era una grande speranza e sentivamo di poter cogliere un’opportunità storica per la nostra generazione e avevamo la sensazione di non essere soli. Era in atto un forte cambiamento dall’Europa dell’Est a Mosca e fino qui a Pechino”. Poi sulla piazza arrivò Gorbaciov… “Lo ricordo come se fosse ieri; era il 15 maggio quando il presidente Gorbaciov venne a Tiananmen a incontrare gli studenti. Era stato fissato in quei giorni il primo summit fra Urss e Cina. Gorbaciov aveva avviato una serie di riforme politiche inimmaginabili solo fino a poco tempo prima ed eravamo convinti che la “perestroika” avrebbe finito per contagiare positivamente il regime cinese. In più la sua visita rappresentava per noi la possibilità di aumentare il consenso politico e l’audience internazionale del nostro movimento”. E il consenso all’interno della Cina? “Il nostro era un movimento spontaneo, non organizzato e molto “romantico”, che ottenne un grandissimo sostegno popolare: giorno dopo giorno crescevano le delegazioni di impiegati, operai, insegnanti che venivano a portare solidarietà. Tutto ciò ci rendeva ottimisti ed eravamo convinti che il governo avrebbe aperto un dialogo con gli studenti e che si sarebbe incamminato sulla strada delle riforme e dell’apertura politica”. Non finì così però… “No, il governo della Repubblica popolare cinese ignorò le richieste degli studenti, si spaventò per il grande consenso popolare che stava crescendo in tutta la Cina e dopo cinquanta giorni di pacifica e nonviolenta occupazione di piazza Tiananmen, scelse l’opzione peggiore, quella militare. Ma non furono solo gli studenti ad essere colpiti. Non posso dimenticare Liu Xiaobo: insegnava nella mia facoltà ed era un uomo mite e estremamente intelligente, un vero mentore per me. La sua presenza al campo tutti i giorni e la sua vicinanza al movimento studentesco fu la ragione della durissima persecuzione che subì negli anni successivi. Prima fu radiato dal corpo insegnante, poi venne ripetutamente incarcerato, e non poté ritirare il Premio Nobel per la Pace nel 2010, per poi morire due anni fa in carcere”. Come si vive 30 anni in esilio? “Abbiamo combattuto per la libertà e il prezzo che abbiamo pagato è stato molto alto: molti hanno perso la vita, altri hanno subito il carcere o l’esilio. Ho iniziato il mio esilio in Francia, poi negli Usa e da anni vivo a Taiwan. Ho avuto la fortuna di vivere in tre Paesi nei quali libertà e democrazia sono la norma, non l’eccezione. Ho studiato, lavorato e viaggiato nel mondo libero e mi ritengo fortunato, ma l’esilio è una condizione terribile: da 30 anni non incontro i miei genitori. Non posso tornare in Cina e il governo ha sempre impedito loro di uscire dal Paese per vedermi. La loro unica colpa: essere i miei genitori. Questa è una concezione della giustizia barbarica e primitiva. L’esilio è una terribile forma di tortura mentale e spirituale”. Com’è la tua vita oggi a Taiwan? “Taiwan è la dimostrazione di come sia possibile costruire un Paese cinese libero e democratico. Questo Paese mi ha adottato ed è diventato il mio Paese. Qui è la mia casa, dove mi sono sposato, vivo e lavoro. La stampa è libera e sono editorialista e commentatore politico per tv e giornali. Da qui, non ho mai smesso di lavorare per costruire un futuro democratico per la Cina”. Dove sta andando la Cina? Qual è la tua previsione 30 anni dopo Tiananmen? “Negli Anni 80 la Cina si era incamminata in un positivo processo di riforme economiche e politiche che fu interrotto bruscamente dalla repressione militare del 1989. Le conseguenze immediate furono lo stop della crescita economica per i due anni successivi (1990 e 1991). Deng Xiaoping a quel punto fece una scelta strategica, proponendo un nuovo patto con i propri cittadini: più libertà economica in cambio di maggiore cooperazione politica. Da un punto di vista politico, una mostruosità. E l’Occidente, purtroppo, ha adottato in questi 30 anni una politica di “appeasement” nei confronti della Cina, aiutandola di fatto a consolidare il proprio regime”. Il modello cinese del “capitalismo senza democrazia” lega la stabilità alla crescita economica. Lo ritieni ancora un modello credibile? “Intanto va ricordato che nel caso cinese si tratta non soltanto di un modello non democratico, ma anche di un capitalismo molto particolare, senza regole del gioco trasparenti e condivise. In Cina c’è solo una parvenza di libero mercato e di competizione fra gruppi economici e l’unica regola che esiste e quella dettata dalla grandi corporazioni economiche ancora direttamente controllate dal governo. Questo non è capitalismo e non è un modello credibile nel medio termine”. Qual è lo stato della democrazia e dei diritti nella Cina del 2019? “Nel 1989 il regime cinese inviò l’esercito per schiacciare le manifestazioni studentesca compiendo il massacro di Tiananmen. Oggi la repressione del dissenso si è evoluta e raffinata, con ciò che il regime chiama con un eufemismo “Harmony keeping forces”, le “forze per il mantenimento dell’armonia”: un grande esercito di censori dei media, controllori dei social network e della rete, insieme alle forze di polizia più tradizionali che si occupano di reprimere ogni forma di dissenso religioso, sindacale, politico, culturale. Da Tiananmen a oggi, ogni giorno sono stati incarcerati dissidenti: tibetani, religiosi cristiani, praticanti della Falun Gong e adesso la campagna contro il popolo uiguro. Anch’io sono di origini uigure e ciò che sta accadendo nella mia regione (lo Xinjiang nell’Ovest della Cina, ndr) è qualcosa di brutale, terribile ed al di là di ogni immaginazione. La situazione della minoranza uigura è molto più tragica di quanto si pensi: si stima che vi siano fra i 500.000 e i 2 milioni di cittadini uiguri rinchiusi nelle prigioni e nei centri di lavoro forzato (quasi il 20% dell’intera popolazione). Il regime cinese li chiama “Campi di rieducazione”, ma non sono altro che immense prigioni e l’intero Xinjiang è sigillato e occupato militarmente. Le notizie che filtrano sono pochissime. Anche i campi di concentramento nella Germania nazista furono scoperti solo pochi mesi prima della fine della guerra”. È possibile prevedere in futuro una Cina democratica? “È una possibilità certo, ma non con questo regime, che non è in grado di auto-riformarsi e di promuovere vere riforme che portino ad una società libera e aperta”. La formula “un Paese, due sistemi” sembra essere in crisi, a cominciare da Hong Kong. Qual è la tua opinione? “Io non posso andare a Hong Kong. E quanto sta accadendo giorno dopo giorno, dimostra che la formula “un Paese, due sistemi” non può funzionare né a Hong Kong, né a Macao, né a Taiwan”. Cosa pensa del riarmo cinese e della vicenda del Mar Cinese Meridionale? “Premesso che non sono un esperto di questioni relative alla sicurezza ed alla difesa, credo che l’occupazione militare degli isolotti nel Mar Cinese Meridionale rappresenti una sfida della Cina nei contorni dei Paesi del Sud-Est asiatico ed un tentativo di ridurre l’influenza Usa nella regione. Il governo di Pechino è convinto che nel lungo periodo un confronto militare con l’Occidente sia inevitabile”. Come l’Occidente deve affrontare le nuove sfide lanciate dalla Cina? “Gli ultimi 30 anni sono stati caratterizzati da una politica di “appeasement” nei confronti della Cina e sempre più la Cina sta rivelando oggi la sua vera identità. Per anni, si è proposta come una tranquilla e pacifica potenza orientale, la cui crescita economica avrebbe portato benefici all’intero pianeta. Ma non è così. La Cina propone un sistema di valori antitetico alle democrazie liberali ed oggi si sente in grado di promuoverlo ed esportarlo a scapito dell’Occidente. Spesso in Occidente ritenete che la Cina sia quasi giunta vicina alla vostra porta di casa, ma non così: è già entrata nel vostro soggiorno e vi chiede di cambiare il vostro stile di vita per adottare il suo”. Sudan. Bashir segna con il sangue i suoi trent’anni di dittatura di Matteo Fraschini Koffi Avvenire, 19 gennaio 2019 Nell’anno dell’anniversario del golpe in Sudan non sembra fermarsi la rivolta. Altri tre assassinati negli incidenti. Siamo davanti a un imminente cambio di potere in Sudan? Una domanda più che legittima a causa delle continue violenze nel Paese. E che circola, con sempre più insistenza, negli ambienti diplomatici. Ieri notte è morta un’altra persona, “colpevole” di protestare contro il governo di Omar Hassan el-Bashir, portando a tre il totale delle vittime delle cariche di polizia di giovedì. Le autorità locali parlano di 24 morti in cinque settimane. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, però, sono “decine le vittime”. Nell’anno del trentesimo anniversario del colpo di Stato di el-Bashir (giugno 1989), il Sudan sta vivendo un periodo di sangue e guerriglia per le strade di diverse città, non solo nella capitale, Khartum. Le dimostrazioni hanno infuocato le piazze e spinto le autorità a reagire in maniera sempre più brutale. Persino i funerali delle vittime sono diventati un’occasione per la popolazione di esprimere il proprio malcontento. “Circa 5mila partecipanti alla sepoltura di Moawia Othman sono stati attaccati dalla polizia durante la cerimonia - ha affermato ieri la stampa locale. La gente ha risposto gridando “martire! martire!”, lanciando pietre contro le forze di sicurezza”. La cerimonia è stata organizzata a Burri, un quartiere della capitale. Othman era un uomo di 60 anni, ucciso da un colpo di pistola mentre protestava contro l’attuale crisi economica derivata dai 30 anni al potere di el-Bashir. La politica di austerity imposta dal governo ha aumentato radicalmente i prezzi di pane, benzina e gas per cucinare. “Sono centinaia gli arrestati, tra cui medici, giornalisti, avvocati e leader dell’opposizione - ha riferito l’organizzazione Human Rights Watch. Il 7 gennaio il ministero dell’Interno aveva annunciato l’arresto di 816 persone in tutto il territorio”. Il Sudan sembra scivolare via dalle mani di el-Bashir, il quale ha anche accusato Israele di interferenza. Il suo governo è sempre stato segnato da alti livelli di corruzione e brutalità. Negli anni Novanta, il leader sudanese aveva ospitato Osama Benladen, un fatto che lo mise da subito in cattiva luce rispetto all’Occidente. I suoi famigerati servizi segreti hanno inoltre contribuito a numerosi arresti di oppositori o dissidenti. Tra i più noti, Hassan al-Tourabi, un tempo grande compagno di lotta di el-Bashir, fino a diventarne un suo acerrimo nemico. Nel 2003 è invece scoppiato il conflitto civile in Darfur, la regione occidentale completamente marginalizzata da Khartum. Le milizie locali appoggiate dal governo centrale hanno causato la morte di circa 400mila persone, mentre 2,5 milioni di civili sono diventati profughi. Dopo cinque anni di violenze, la Corte penale internazionale, con a capo Louis Moreno Ocampo, ha iniziato a studiare il caso contro el-Bashir, per il quale è stato emesso un mandato d’arresto internazionale il 4 marzo del 2009. Il leader sudanese è stato però responsabile di massacri anche nel sud del Paese, in quello che dal 2011 è diventato il Sud Sudan. Dopo 21 anni di guerra e due milioni di morti, il Sud Sudan, ricco di petrolio, è riuscito a guadagnarsi l’indipendenza dal Sudan. Le violenze però continuano al confine tra i due Stati. Nonostante gli alti livelli di instabilità di cui Khartoum è stata per decenni l’epicentro, el-Bashir ha promesso che non cederà mai il potere. Venezuela. In fuga dalla fame, la marcia infinita verso il Brasile di Michele Bertelli Corriere della Sera, 19 gennaio 2019 Pacaraima, Brasile. Appena spira un soffio di vento, sulla strada che porta dalla cittadina di Santa Elena de Uaréin fino al confine brasiliano iniziano a svolazzare le banconote abbandonate dai migranti venezuelani in fuga dal loro paese. Seduto su una piccola borsa frigo al lato della carreggiata, Juan Manuel Rendiz, 38 anni, affitta il suo cellulare a chi vuole chiamare a casa. “Lo sai quanto valgono queste?”, chiede, sventolando una mazzetta con vari tagli di “Bolivariani forti”. “Qua sono 5 reais (1,30 euro)”. In fuga da fame, inflazione e insicurezza. “C’è stato un tradimento” - A partire dal 2015, sono stati 154.000 i venezuelani che hanno abbandonato il loro paese a causa della scarsità degli alimenti e dell’insicurezza e attraversato la frontiera con il Brasile. Alle loro spalle si stima che ormai il 90% delle persone viva in povertà, con la crescita dei prezzi al consumo che nell’ultimo anno è cresciuta di 1,3 milioni di punti percentuali. L’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu stima che tra i 400 e i 500 venezuelani attraversino questo confine ogni giorno. Ma Pacaraima è poco più di un paese di frontiera, costellato da negozi che vendono beni per i viaggiatori di passaggio. Il lavoro scarseggia e il continuo afflusso di nuovi arrivati ha finito per esacerbare gli animi. Lo scorso agosto, in seguito alla rapina di un commerciante della zona, un gruppo di residenti brasiliani ha attaccato l’insediamento di alcuni migranti, cospargendo i loro averi di benzina e appiccando il fuoco. Per quasi tutti l’unica meta possibile è la città di Boa Vista, in Brasile. Ma qui le cose non vanno molto meglio. Un tempo tranquillo centro urbano di 320.000 abitanti, con strade larghe e una urbanistica ben pianificata, oggi si stima che la città ospiti 25,000 venezuelani, anche se di questi solo 7000 hanno trovato ospitalità in rifugi ufficiali. Gli altri si sono arrangiati alla meglio, condividendo stanze e adattandosi a edifici a volte fatiscenti. Chi non ha trovato una soluzione migliore si ritrova ogni sera di fronte alla stazione degli autobus e stende un materassino per dormire tra le carreggiate. “Per me c’è stato un tradimento,” racconta Brenda, 41 anni, che dal 25 marzo pianta qui la tenda con suo marito. “Quello che sta accadendo ora in Venezuela non era mai successo, né con il Presidente Chavez, né prima di lui.” Per arrivare in Brasile hanno venduto il televisore e gli strumenti di lavoro del marito. Con il ricavato hanno potuto acquistare poco più di due biglietti dell’autobus. Una vita tra strada e sfruttamento - L’ultimo rifugio è stato aperto a fine ottobre, andandosi ad aggiungere agli altri dodici esistenti. “Stiamo lavorando per garantire nuovi posti letto, ma il flusso non accenna a diminuire e quindi in molti rimangono ancora per strada,” racconta Tássia Sodré, cooperante dell’ong AVSI Brasil che gestisce quattro di queste strutture, assistendo più di 1500 persone. “Molti di loro arrivano senza nulla. E hanno bisogno delle cose essenziali: una casa, da mangiare, dei vestiti”. Al sorgere del sole, Brenda e tutti gli altri accampati devono raccogliere i loro pochi averi e sgombrare l’area. Per molti, la giornata proseguirà agli incroci stradali, stringendo un pezzo di cartone con scritto “Procuro trabalho”, cerco lavoro. “Ho fatto di tutto: tagliare siepi, costruire muri, pitturare macchine,” racconta Davis, 25 anni. Lavori saltuari, alla giornata, che almeno gli hanno garantito di poter mangiare. “Un brasiliano viene pagato attorno ai 100 reais (22 euro),” spiega, “ma a me non hanno mai pagato più di 70 (16 euro), e a volte anche attorno ai 20 (4 euro) per lavorare 12 ore al giorno.” Quello dello sfruttamento è un problema sempre più diffuso: secondo l’ufficio del difensore pubblico locale (DPU), i venezuelani nelle fattorie vicine non ricevono salari che superano 1000 reais (225 euro) per un mese di lavoro. Purtroppo di altre opportunità ce ne sono ben poche. Il Roraima è infatti lo stato con il Pil più basso di tutto il Brasile, e l’economia locale si basa esclusivamente sui servizi e sull’amministrazione pubblica, tanto che viene stata spesso additata ironicamente come un fabbrica di “buste paga”. Come se non bastasse, lo stato sta attraversando una grave crisi fiscale, tanto da essere sottoposto a commissariamento. Oggi Davis si reputa fortunato: insieme a sua moglie Moreida, 22 anni, e Rachel, la loro bambina nata nel 2016, sono riusciti a entrare in uno dei rifugi temporanei. Presto, Rachel avrà un fratellino con cui giocare. Quando si misero in viaggio, Moreida era infatti già incinta di quattro mesi. E non aveva nessuna intenzione di ripetere l’esperienza di partorire in un ospedale venezuelano: “Non c’erano medicine e sono stata lasciata da sola in una stanza piena di donne in travaglio.” racconta. Dopo il parto, trovare pannolini e acido folico per la neonata era praticamente impossibile. “Non volevo che un altro figlio dovesse passare per tutto questo, e francamente nemmeno io”. Juan Manuel, Brenda, David e Moreida: per tutti loro, il Brasile ha rappresentato l’ultima spiaggia dove cercare un approdo. I venezuelani più benestanti avevano infatti già lasciato il paese con mezzi privati, dirigendosi verso destinazioni come Miami. Chi è arrivato in Brasile appartiene invece spesso alla parte fragile della popolazione. E tra i più colpiti si trovano le comunità indigene del sud del paese, come i warao. Baudillo Centeno ricorda con nostalgia quando Chavez convocava i rappresentanti del suo popolo in riunione. Lui stesso partecipò a diverse celebrazioni con il “comandante”, danzando negli abiti tradizionali. Ma con lo scarseggiare di alimenti e lo svilupparsi del contrabbando, chi come lui lavorava come facchino è rimasto senza alternative. Nonostante chi si trova in un rifugio si consideri fortunato, Boa Vista rappresenta un vicolo cieco. La città dista infatti quasi 800 km da Manaus, il centro urbano più vicino, mentre per arrivare a São Paulo, capitale finanziaria del paese, bisogna viaggiare in macchina per quasi 60 ore. Dopo gli incidenti di agosto, l’allora presidente Michel Temer ha così dato impulso a un programma di redistribuzione volontaria verso altri centri urbani di grandi e medie dimensioni. I migranti che vogliono lasciare Boa Vista si iscrivono nelle liste di attesa, e, appena le città riceventi comunicano di avere disponibilità per accoglierli, vengono caricati su un volo di linea a spese del governo. La risposta è stata finora positiva: secondo l’Unhcr, il 70% dei venezuelani che si registra al confine desidera poi essere trasferito in una zona più prospera del paese. Una accoglienza che inizia a funzionare - Jarvis Enrique, 25 anni, ha dormito sui cartoni per le strade di Boa Vista per quasi tre mesi, prima di prendere parte al programma. Oggi vive con la sua compagna a São Paulo, dove ha trovato lavoro in un ipermercato per il bricolage. Se è vero che la redistribuzione può rappresentare un primo passo verso un modello efficace e rispettoso sia della necessità dei profughi che di quelle dei territori che li ricevono, molto resta ancora da fare. “Bisogna pensare anche a cosa accade dopo che uno arriva nel centro di accoglienza, non solo al viaggio,” spiega Padre Paolo Parise, missionario scalabriniano del centro per rifugiati di São Paulo Missão Paz, che ha accolto e organizzato colloqui di lavoro per quasi 300 venezuelani quest’anno. Creata nel 1939 per aiutare gli emigrati italiani in Brasile, oggi per Missão Paz passano circa 80 nazionalità diverse. A loro viene offerto non solo un tetto, ma anche consulenza legale, insegnamento della lingua locale e, soprattutto, un servizio di orientamento al mondo del lavoro. Secondo Parise, il Brasile ha certamente la capacità di assorbire questi persone, “ma bisogna preoccuparsi di come si inseriscono, come imparano la lingua, come trovano lavoro, mentre l’enfasi è stata data soprattutto allo spostarsi da un luogo all’altro”. Finora circa 4000 venezuelani sono stati redistribuiti in 13 diverse città. Ma per Antonio Denarium, candidato vincente del partito di Jair Bolsonaro e oggi Commissario federale straordinario per la regione, ci sono ancora troppi migranti per le strade della sua città. “Il Venezuela non entra nel nostro stato,” ha dichiarato additando l’immigrazione come principale causa della violenza e della criminalità nella regione. Frontiere chiuse con Bolsonaro? - Finanziere, imprenditore immobiliare e dell’agribusiness, Antonio Oliverio Garcia de Almeida (vero nome di Denarium), è al suo primo incarico pubblico come governatore dello Stato di Roraima ma sul tema ha idee molto chiare. “Il processo di interiorizzazione è troppo lento,” spiega, “e per questo gli dobbiamo dare più tempo, restringendo il flusso degli arrivi.” Secondo il suo programma, chi non è in possesso di un passaporto, di una fedina penale pulita e delle necessarie vaccinazioni non potrà entrare in Brasile. Ma spesso chi arriva dall’altro lato della frontiera racconta come sia diventato lungo e tedioso riuscire a ottenere dei documenti in regola. Per aiutare i migranti che rimarranno bloccati, Denarium propone di stipulare un accordo con il Venezuela stesso, inviando l’esercito brasiliano a organizzare strutture di accoglienza e sostegno umanitario oltre la frontiera. Per il governatore si tratterebbe di un modello che il Brasile aveva già sperimentato ad Haiti dopo il terremoto del 2010. Ma, a differenza del Venezuela, il governo haitiano non aveva negato l’esistenza della crisi migratoria, accusando la destra di promuovere una campagna ingannevole per sedurre i propri concittadini a lasciare il paese. Che una simile operazione possa essere portata avanti sembra quindi improbabile. Si tratterebbe oltretutto di competenze ben al di là dei poteri di Denarium, che investirebbero direttamente il governo federale. Ovvero Jair Bolsonaro. Durante la campagna elettorale, le idee dei due sembravano allineate: anche il “capitano”, aveva infatti parlato di creare campi profughi lungo la frontiera. Ma da novembre sembra che il filo diretto si sia spezzato: mentre Denarium ha chiesto pubblicamente l’attuazione di un “programma di ritorno,” Bolsonaro ha chiuso le porte a una simile ipotesi, sottolineando come i migranti non siano “merce di scambio”, dato che, secondo lui, fuggono da “una dittatura supportata da Lula [Da Silva] e da Dilma [Rouseff, precedenti presidenti del Partito dei lavoratori]”. Il 17 e 18 gennaio, quattro ministri del nuovo governo viaggeranno nella regione per verificare le condizioni dei venezuelani. In occasione della visita, Bolsonaro ha fatto sapere che l’intervento umanitario e il programma di redistribuzione saranno prorogati. Fernando Azevedo, ministro della difesa, ha inoltre dichiarato che per ora non è prevista alcuna chiusura delle frontiere. Chi nei rifugi aspetta pazientemente di vedere il proprio nome nella lista dei passeggeri del prossimo volo in partenza può tirare un sospiro di sollievo.