Io scampato al terrorismo e l’arresto show di Battisti di Manlio Milani Corriere della Sera, 18 gennaio 2019 Anche chi ha perso un congiunto in una strage ha il dovere di rispettare il principio della dignità umana e della rieducazione che è sancito dalla Costituzione. Quando la giustizia compie il suo corso nel rispetto del suo mandato, è sempre un fatto positivo, anche se, come nel caso di Cesare Battisti, ci sono voluti decenni per vedere applicata la sentenza di condanna che lo ha riconosciuto responsabile di gravi fatti di terrorismo. Ai familiari delle vittime la mia solidarietà. Ma vorrei ricordare che ci sono voluti 43 anni per avere il nome, e la condanna definitiva, di due dei responsabili della strage di piazza Loggia, Brescia, avvenuta il 28 maggio 1974. Otto le persone uccise - tra cui mia moglie e dei carissimi amici - e oltre cento quelle ferite. Chi scrive era lì ed è sopravvissuto per un caso. Per tale strage la Cassazione, il 20 giugno 2017, in via definitiva ha condannato all’ergastolo Carlo Maria Maggi, capo del gruppo eversivo di destra Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, militante dello stesso gruppo e infornatore dei Servizi. Il rispetto della dignità individuale - Nel condannare Maggi la Corte escluse la sua immediata carcerazione stante la sua precaria salute. Il 26 dicembre 2018 Maggi è morto - nel rispetto della sua dignità - a casa sua, assistito da medici e famiglia. Condivisi pienamente la scelta della Corte: a qualsiasi condannato vanno assicurati dignità e rispetto. Tramonte, alcuni giorni prima della sentenza, si rifugiò in Portogallo dove poi venne arrestato e estradato il 19 dicembre 2017. Giustamente, nessuno era all’aeroporto a riceverlo, salvo i funzionari addetti ai loro compiti istituzionali. Trovai sobrio e corretto quello “stile”. Il principio della rieducazione - Che diversità rispetto ad oggi, a fronte della strumentale spettacolarizzazione impressa all’arresto di Battisti! Ma il dato più grave è stata la frase del ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Battisti marcirà in carcere”: frase che mi ha “ricordato” le persone che hanno sofferto il carcere, perso o rischiato la vita per combattere il fascismo. Sofferenze e umiliazioni che hanno indotto i Padri Costituenti a inserire nella Carta il principio secondo cui la pena non deve “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e “deve tendere alla rieducazione del condannato”. La frase del ministro contraddice tutto ciò e rinuncia a una pratica educativa attorno ai valori costituzionali che il Ministro ha giurato di osservare all’atto del suo insediamento, finendo per suggerire, con un linguaggio pieno di odio, che giustizia e pena sono solo vendetta. Il valore della Costituzione - Una sinistra contraddizione con quanto, in questa legislatura, il governo ha sancito nel decreto che ha dato parziale attuazione alla legge sulle carceri dove si legge che “il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona” essendo “improntato ad assoluta imparzialità” e “si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione”. Una norma che rispecchia il principio costituzionale e che anche nella cattura di Battisti si sarebbe dovuta considerare a tutto vantaggio di una cultura della giustizia illuminata dalla Costituzione. Il ministro Salvini forse ha dimenticato un antico detto contadino che dice: “Quando di notte usi l’aratro, per andare diritto guarda alle stelle”. Per me sono nella Costituzione. E lì continuo a guardare. “Caso Battisti, ignorati i poteri del Giudice di Sorveglianza” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 gennaio 2019 Intervista a Maria Cristina Ornano, Gip al Tribunale di Cagliari e Segretaria Nazionale di Area. “Mi è parso inadeguato vedere l’altro giorno il ministro della Giustizia indossare la divisa da agente della polizia penitenziaria. Chi ricopre una funzione istituzionale dovrebbe tenere un comportamento consono e rispettoso della carica”. È forte il disappunto di Maria Cristina Ornano, gip al Tribunale di Cagliari e segretaria nazionale di Area, il cartello delle toghe progressiste di cui fa parte anche Magistratura democratica, per le scelte compiute dal guardasigilli e in generale dal governo nella gestione “mediatica” della cattura di Cesare Battisti. Dottoressa Ornano, il ministro Bonafede ha postato sul proprio profilo Facebook un video in cui si possono vedere le varie fasi dell’ingresso di Battisti in carcere: dalla registrazione alla matricola fino alle operazioni di foto segnalamento. Cosa pensa del modo in cui il governo ha scelto di rappresentare la vicenda? Esistono delle leggi, penso all’articolo 42 bis dell’Ordinamento penitenziario, che stabiliscono come in tutte “le attività di accompagnamento coattivo di soggetti detenuti, internati, arrestati o in condizione di restrizione” si debba adottare ogni cautela per proteggere i soggetti dalla curiosità del pubblico e da ogni pubblicità. Ecco, nel caso di Battisti questo non è accaduto. Ma chi avrebbe dovuto compiere le scelte a riguardo, secondo la legge? Il direttore del carcere è il primo che deve vigilare su quanto accade nella struttura. Cosa potrebbe avvenire se il legale di Battisti proponesse reclamo? Potrebbe essere interessato del caso il giudice ordinario. Oltre al magistrato di sorveglianza cui compete verificare che la pena venga espiata nel rispetto della legge. La spettacolarizzazione degli arresti è ormai una costante. Ci sono precedenti noti come gli arresti in diretta di Massimo Carminati o di Massimo Bossetti, solo per fare esempi recenti. Un fenomeno inevitabile a cui dobbiamo abituarci? Non credo proprio ci si debba abituare. Il problema è che l’attuale politica, sollecitata da forti spinte “securitarie”, tende ad assecondare le aspettative diffuse in una parte dell’opinione pubblica, a raccogliere consenso. È un modo di fare che però finisce per lasciare sconcertati. A proposito di politiche securitarie, la stessa giustizia rischia di piegarsi alle leggi del consenso? Certo. È un meccanismo circolare, ben studiato, che si autoalimenta. Il politico tende a dire quello che la gente vuole sentirsi dire. Così facendo però si aumenta la percezione dei fenomeni criminali, che vengono ingigantiti. Si creano emergenze che, di fatto, non esistono. È questa la logica della cosiddetta politica della paura? Sì. Sta facendo molto discutere in queste ora la presenza, come ospiti, di alcuni magistrati alla cena conviviale organizzata dall’associazione “Fino a prova contraria” della giornalista Annalisa Chirico. Che ne pensa? Mi risulta che per partecipare a questa cena fosse necessario pagare 6.000 euro. Tralasciando il fatto che in questi tempi di crisi certe cifre suscitano sdegno, chi ha pagato? Se fosse stata invitata avrebbe declinato? Sicuramente. Il magistrato non deve manifestare collateralismo ai poteri politici ed economici, ma deve sempre salvaguardare la propria autonomia e indipendenza. Ci sono altre sedi e luoghi per il confronto democratico sui temi della giustizia. Non durante cene costosissime. “Con gli attacchi ai giudici rischiamo di abbattere i pilastri della democrazia” di Errico Novi Il Dubbio, 18 gennaio 2019 Intervista a Luigi Spina, Consigliere togato del Csm (Unicost). “Un pilastro della democrazia? No guardi, a rischio ce ne sono almeno tre o quattro: la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla difesa e l’esercizio indipendente della giurisdizione, che si fonda anche su quel patto sociale condiviso per cui due parti in contesa si affidano a un giudice”. Luigi Spina è un moderato nei modi, oltre che nell’adesione associativa. È componente del Csm eletto tra le file di Unicost ed è anzi il portavoce della “corrente centrista” a Palazzo dei Marescialli. Ma al di là delle sigle di appartenenza, la misura è una sua convinta scelta personale. Ecco, un magistrato così deve avere allora motivazioni davvero profonde per parlare di “rischio per la democrazia negli attacchi ai magistrati” di cui, dice, “Avellino è solo l’ultimo caso”. Con i togati di Area e di Autonomia & Indipendenza lei ha chiesto che il Csm apra una pratica a tutela dell’intera magistratura rispetto a minacce e insulti rivolti ai giudici nelle aule di giustizia, soprattutto a chi “osa” assolvere. Non è solo una risposta alla vicenda specifica di Avellino, dunque... Il processo per le vittime del bus è appunto solo l’ultimo in ordine di tempo. Se ne contano tanti, tantissimi, in questi anni. Innanzitutto la tragedia di Milano, costata la vita a un magistrato, a un avvocato e a un imputato. La tragedia sfiorata al Tribunale di Perugia. Le urla alla lettura dei dispositivi come è avvenuto per esempio alcuni anni fa a Velletri: in quel caso si trattava di condanne ritenute eccessive dai familiari degli imputati. Veri e propri atti di guerriglia, ci furono 20 arresti... Con la pratica che chiediamo di aprire nella prima commissione del Csm intendiamo svolgere una riflessione su un quesito, innanzitutto: la serenità di giudizio che deve avere chi stabilisce se un imputato è colpevole, quella condizione di serenità, è ancora un valore? Le reazioni suscitate dalla lettura di alcune sentenze possono essere anche comprese sul piano umano, ma sono evidentemente il segno di un clima molto pericoloso per l’esercizio della giurisdizione... L’Italia ha una straordinaria tradizione giuridica e un ordinamento tra i più progrediti sul piano delle garanzie, nel civile e nel penale: come si spiega la frattura tra opinione pubblica e giurisdizione? Non si tratta di un fenomeno apparso da un giorno all’altro: è la conseguenza di una sfiducia che si è diffusa nei confronti della magistratura, amplificata da determinate circostanze. E come si spiega questa sfiducia? Il giudice è chiamato a dettare la regola del caso concreto. Di fronte a un conflitto, interviene a risolverlo con una decisione. In una fase di grandi difficoltà sul piano sociale, tali tensioni, che nascono proprio dai conflitti, finiscono per scaricarsi anche sul giudice. In una forma particolarmente pesante, e percepibile a mio parere nel settore civile prima ancora che nel penale. Il punto è che qui ci troviamo di fronte all’essenza stessa della democrazia: il principio per cui se c’è un conflitto interviene un giudice terzo a definirlo. Ma se sui giudici si scarica una così grande tensione, è chiaro che la loro stessa funzione viene delegittimata. Un pilastro della democrazia è a rischio: quanta sottovalutazione c’è di tale pericolo? Aspetti: innanzitutto non è un solo pilastro. Vogliamo elencarli? Il principio di non colpevolezza, innanzitutto. Articolo 27 della Costituzione... Il diritto di difesa, articolo 24. E poi il patto sociale basato sul pilastro della giustizia condivisa. Va benissimo che le sentenze siano criticate ed esaminate, ma credo che tutti dovremmo farci carico di essere molto attenti soprattutto quando si tratta di processi attorno ai quali c’è grande attenzione sociale. La caccia al giudice è la nemesi per gli eccessi di qualche “pm-Savonarola” da Tangentopoli in poi? No guardi, non credo proprio che quella stagione storica c’entri qualcosa. A parte il fatto che la magistratura nel suo complesso penso abbia dato in questi anni prova di grande continenza, ma lei davvero pensa che la strage nel Tribunale di Milano, la tentata strage in quello di Perugia o le minacce di Avellino possano spiegarsi come un precipitato di Tangentopoli? Di invettive e insulti ai giudici nelle aule di giustizia ce ne sono tanti, di molti non arriva alcuna particolare eco sui media, come nel caso dei vetri rotti e a quel “vi diamo fuoco” rivolto ai giudici di Velletri. Ripeto, sono convinto che l’origine sia piuttosto nel clima di tensione e nel fatto che chi è chiamato a giudicare e sanzionare è adesso ancora più esposto. Dalla “pratica a tutela” del Csm cosa può venire? Un documento ufficiale del plenum o anche una richiesta di convocare degli “stati generali” della giustizia? Beh, della prima commissione del Csm sono un componente e credo sia giusto che prima confronti le mie idee con quelle degli altri consiglieri. Confido molto in una riflessione aperta e condivisa anche con la componente laica, che annovera esponenti di spicco dell’avvocatura. In particolare i penalisti sono convinto che abbiano una forte sensibilità per il rispetto della presunzione di non colpevolezza. Sarà interessante la riflessione sviluppata con i laici indicati dalle forze politiche di maggioranza... Allude all’ipotesi che possa non esserci un’assoluta condivisione sulla gravità del problema? Se è così, credo sia impossibile non trovarsi d’accordo. La sintonia tra magistrati e avvocati sui rischi per la giurisdizione può diventare una forza? Non sono mai riuscito a considerare l’avvocatura come un antagonista istituzionale della magistratura. Ogni magistrato coltiva un profondo rispetto per il difensore. E su determinati principi non c’è mai stata dissonanza. Pensiamo oltretutto all’avvocato che ad Avellino si è trovato a difendere un imputato già dato per colpevole dall’opinione pubblica: il rischio è lo stesso. Non è in discussione il rapporto con l’avvocatura ma la tenuta delle istituzioni e i princìpi democratici. Scontro fra toghe in Calabria. Indagati 15 magistrati di Francesco Grignetti La Stampa, 18 gennaio 2019 Ennesima faida tra magistrati calabresi. L’ha raccontata ieri “Il Fatto quotidiano”, parlando di almeno 15 magistrati indagati dalla procura di Salerno, competente sugli uffici giudiziari di Cosenza e Crotone. Tutto sarebbe nato da una inchiesta di Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, che ha raccolto circostanze imbarazzanti e penalmente rilevanti sul conto di diversi colleghi e l’ha girata a Salerno. Un coinvolto eccellente sarebbe il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo, che avrebbe favorito un vecchio arnese della politica locale quale l’ex consigliere regionale Pino Tursi Prato, esponente del Psi e poi del Psdi che fu, condannato venti anni fa per concorso mafioso, poi protagonista eclatante con le sue rivelazioni ai tempi di De Magistris (inchiesta che sembra antesignana di questa), in cambio di un trattamento di favore per suo fratello Ippolito Spagnuolo. Quest’ultimo è medico all’Asl locale; Tursi Prato era commissario straordinario della medesima. Si prefigura così una bruttissima storia di malagiustizia, politica che incrocia la massoneria, e ‘ndrangheta sullo sfondo. Il procuratore Spagnuolo sarebbe indagato per corruzione in atti giudiziari. Rapporti personali difficili Qualcosa di simile riguarderebbe il vicino di stanza di Gratteri, il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto. Luberto avrebbe spifferato alcuni segreti di un’inchiesta in corso a Nicola Adamo, uomo politico del Pd, presente Tursi Prato, che sembra essere il fulcro di questa inchiesta. Per Luberto, l’accusa sarebbe rivelazione di segreto d’ufficio. Un fascicolo minore riguarderebbe invece il procuratore capo di Castrovillari, Eugenio Facciolla, accusato di abuso d’ufficio. Spetterà ora ai pm di Salerno approfondire l’indagine. Quel che si capisce è che questa esplosiva inchiesta ha già fatto litigare Gratteri e il procuratore generale Otello Lupacchini, famoso giudice istruttore e poi gip a Roma. I due hanno polemizzato a distanza nel corso di audizioni secretate al Csm. Lupacchini ha accusato Gratteri di avere tardato a girare le carte a Salerno e ne parla male: “Tutti sono farabutti all’infuori di lui. È solo lui il verbo, non solo nel distretto di Catanzaro, ma probabilmente in tutt’Italia, nell’universo, e forse anche in altri siti”. Gratteri lo tratta come un trombone: “Non ho tempo per parlare del sesso degli angeli. Mi annoio a parlare di indagini di 40 anni fa. Ogni volta con il pg Lupacchini parliamo della Banda della Magliana. Sono uno concreto, voglio sentire del domani, al massimo del presente”. Gratteri scatenato: accuse tremende su 15 toghe. (Anche mafia). Ora è guerra di Simona Musco Il Dubbio, 18 gennaio 2019 Oltre alle indagini c’è anche lo scontro con il Procuratore generale Otello Lupacchini. Gli atti sono in mano alla Procura di Salerno (competente per il distretto di Catanzaro) dalla scorsa estate. Cioè da quando il procuratore capo della Dda, Nicola Gratteri, ha inviato ai pm documenti che evidenzierebbero gravi comportamenti da parte di alcuni colleghi. Ma la guerra non finisce qui, perché oltre alle indagini c’è anche lo scontro - durissimo - tra Gratteri e il procuratore generale del capoluogo, Otello Lupacchini. Uno scontro sul quale ora tocca al Csm pronunciarsi. Il clima era teso già da un po’, ma fino a ieri le Procure erano riuscite a trincerarsi dietro il doveroso silenzio che fa parte della deontologia di ogni magistrato. Salvo, di tanto in tanto, far emergere qualcosa, con dosi di non detto disseminate qua e là in articoli di stampa. Fughe di notizie finora sottovalutate dall’opinione pubblica, ma che ieri sono deflagrate come una bomba. Le bocche, da Cosenza a Catanzaro, rimangono cucite. Se si escludono le dichiarazioni del difensore di Facciolla, Antonio Zecca, che prova ad abbassare i toni attorno al suo assistito. “La Procura di Salerno spiega al Dubbio - ha sentito l’opportunità di fare approfondimenti su temi soprattutto di carattere organizzativo e amministrativo della Procura di Castrovillari. Il procuratore Facciolla ha fornito, a mio avviso, ampi chiarimenti. Non posso svelare il contenuto dell’atto di approfondimento, perché è coperto da assoluta riservatezza - ha evidenziato -, ma posso dire con assoluta serenità di difendere un gentiluomo, una persona perbene, estremamente rispettosa non solo del codice, ma pure dei rapporti che devono sussistere tra magistrati e soprattutto tra uffici. Sono assolutamente sereno e fiducioso, stessa fiducia che nutre anche Facciolla. Credo che, con buona tempestività, riusciremo a fare chiarezza”. Non c’è nessun rapporto, nemmeno di carattere processuale, ha poi affermato, con le indagini per “accuse corruzione o collusione con la ‘ ndrangheta. Sono vicende completamente diverse”. E, ha aggiunto l’avvocato, “è sgradevole che si sia fatto un salto nel passato di 30 anni, quando le informazioni di garanzia e i contenuti dei procedimenti venivano notificati a mezzo stampa”. Il Fatto parla di un’ipotesi di abuso d’ufficio orbitante attorno all’indagine che ha coinvolto il maresciallo Carmine Greco, comandante della Forestale di Cava di Melis (Cs), arrestato il 7 luglio scorso dalla Procura di Catanzaro, con l’accusa di aver favorito alcuni “appartenenti alla cosca cirotana”. Dalle intercettazioni sarebbe emerso come lo stesso “praticava la mercificazione della funzione pubblica”, pur essendo consapevole di essere indagato dalla Dda. Secondo quanto riportato dal Fatto, Greco avrebbe riferito “che con il presunto avallo del procuratore Facciolla avrebbe manipolato degli atti di un’indagine”. C’è poi l’aggiunto di Gratteri, Luberto, che stando al Fatto è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio. Al centro di tutto la rivelazione, da parte del magistrato, di alcune notizie su un’operazione di polizia all’ex vicepresidente della Calabria, Nicola Adamo (Pd), che si trovava in compagnia di Giuseppe Tursi Prato, ex consigliere regionale socialdemocratico. L’ipotesi di abuso d’ufficio è invece connessa a un arrestato per mafia nel marzo del 2016. Tra gli indagati - magistrati requirenti e giudicanti, anche con ruoli apicali, degli uffici di Catanzaro, Cosenza e Crotone - anche Spagnuolo, per corruzione e corruzione in atti giudiziari. E viene tirato in ballo il presunto favoreggiamento “dell’indagato Giuseppe Tursi Prato in cambio del suo silenzio sul fratello: Tursi Prato, ex presidente dell’Asl di Cosenza, avrebbe favorito in precedenza Ippolito Spagnuolo per il suo trasferimento dal reparto di psichiatria dell’Asl di Cosenza al servizio territoriale”. Un’indagine che, però, risulta datata nel tempo e risalente al 2006. Sulla Procura di Cosenza, a luglio scorso, il M5s aveva interrogato il ministro della Giustizia, chiedendo un’ispezione ministeriale. In attesa degli sviluppi di quella richiesta, il Csm avrebbe già fissato l’audizione di un magistrato in servizio nella città bruzia, per discutere delle accuse mosse al procuratore che, nel 2005, finì nel dossier di Lupacchini, inviato in Calabria per un’ispezione sulla Dda di Catanzaro, che, all’epoca, vedeva Spagnuolo nei panni di procuratore aggiunto. Indagine dalla quale erano emersi vari episodi di incompatibilità ambientale, finita però nel dimenticatoio una volta decorsi i termini per gli accertamenti. Ma è proprio tra Lupacchini, il magistrato che indagò sulla Banda della Magliana, e Gratteri lo scontro più feroce, come emerge dagli atti in possesso della prima commissione del Csm. Uno scontro a colpi di note interne con le quali il primo contesta al secondo “di non rispettare regole di coordinamento con altri uffici giudiziari e di aver fatto il furbo non inviando, come prevede il codice, elementi di indagine alla Procura di Salerno su magistrati calabresi non appena sono emersi spunti ma, in sostanza, solo dopo una prima inchiesta”. Il procuratore della Dda, dal canto suo, si è rivolto al Csm, che ora dovrà pronunciarsi sull’eventualità di qualche trasferimento per incompatibilità ambientale. Nel corso delle audizioni in commissione non sono mancate le frecciatine. Il primo a parlare, il 25 luglio, è stato Lupacchini, che ha riferito di un “atteggiamento ostile” nei suoi confronti “dal momento della mia presa di possesso a Catanzaro. Solo lui era il verbo non solo nel distretto di Catanzaro, ma probabilmente in tutta Italia, nell’universo e forse anche in altri siti”. Secondo il pg, per Gratteri “tutti sono farabutti all’infuori di lui, nessuno capisce nulla, perché il verbo giuridico è lui a possederlo”. La replica di Gratteri è arrivata il giorno successivo, quando si è detto “preoccupato” per un passaggio di una nota di Lupacchini. “Mi si dice che io “furbescamente” non ho trasmesso gli atti a Salerno. Di me accetto tutte le critiche del mondo, che sono ignorante eccetera, ma sull’onestà no”. Gratteri definisce anche “strana” la partecipazione di Lupacchini a una conferenza stampa del procuratore Facciolla. “Noi abbiamo arrestato 169 persone, non è venuto nessuno”, ha lamentato, aggiungendo che in Calabria “i comportamenti hanno messaggi, i comportamenti sono pietre”. La replica a questa affermazione era arrivata, senza fare nomi, nel corso di un intervento di Lupacchini in una tv locale: “dove non vado - aveva sottolineato - è alle autocelebrazioni, né voglio togliere il palcoscenico a nessuno. Mi guardo bene dall’andare dove c’è il culto della personalità in atto”. Lo scontro, a breve, verrà definito dal Csm. Il presidente della prima commissione, il laico di Fi Alessio Lanzi, ha annunciato che segnalerà al Comitato di presidenza “l’indebita fuga di notizie su una pratica secretata, di cui sono stati pubblicati sulla stampa stralci di verbali”. La commissione si sarebbe espressa all’unanimità per la chiusura della pratica, in quanto “il caso è rimasto circoscritto e non ha avuto risonanza nell’ambiente giudiziario”. La guerra tra toghe, però, era un fatto noto in tutta la Calabria. Taciuto, certo, ma tutt’altro che circoscritto. Vita quotidiana sotto protezione di Andrea Gualtieri Il Venerdì di Repubblica, 18 gennaio 2019 Pentiti e testimoni di giustizia: ne valeva la pena? Dopo l’omicidio di Pesaro lo abbiamo chiesto a una di loro: “Viviamo nella paura. Ma a farci impazzire è la burocrazia”. Laura non si chiama davvero così ma non può rivelare il suo vero nome, né il luogo nel quale vivono i suoi genitori. Quando ha chiesto il rilascio della patente ha dovuto aspettare più di sei mesi. Una volta le è capitato di partire per l’Olanda e ha rischiato di restare bloccata al rientro, perché un banale controllo dei documenti in aeroporto aveva rilevato che la sua identità era anomala. Quel giorno Laura non poteva spiegare alla funzionaria dello scalo che lei non è una terrorista, ma la figlia di uno dei pochi cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare un boss mafioso e per questo devono vivere con la loro famiglia sotto protezione. L’omicidio di Marcello Bruzzese, avvenuto a Pesaro il giorno di Natale, ha fatto riaffiorare le esistenze fantasma di chi si è messo contro il potere delle organizzazioni criminali. Sono vite in prestito, dietro le quali nascondersi per almeno cinque anni che quasi sempre diventano molti di più, perché la malavita ha memoria lunga. Nuove città e nuove case, nelle quali si piomba con gli abiti della sera prima, ma senza poter svelare ai nuovi vicini di casa e ai compagni di scuola dei figli da dove si arriva e da cosa si fugge. Senza il solito lavoro, senza contatti con parenti e amici. Con una residenza fiscale in una caserma della Guardia di finanza e la posta che viene dirottata a un indirizzo di Roma, dove ha sede il servizio centrale di protezione. Sapendo che tutto può finire di nuovo nella centrifuga se la copertura viene messa a rischio. E che questo, in fondo, sarebbe il male minore se l’alternativa è finire come Bruzzese. “Nel caso di Pesaro qualcosa non ha funzionato” ha ammesso il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Le indagini potrebbero essere un’occasione per rivedere le prassi di un sistema che costa allo Stato 60 milioni all’anno ma presenta diverse criticità. A partire dalla scelta delle località protette. Qualche anno fa, un pentito di mafia fu costretto a chiedere il trasferimento perché nel parco della cittadina dove l’avevano sistemato ha visto passeggiare un ex affiliato alla cosca rivale: li avevano alloggiati a pochi isolati di distanza, con il rischio che un passo falso di uno dei due potesse far saltare la copertura di entrambi. “La mia famiglia” racconta Laura “è stata mandata in un appartamento nel quale prima abitava un pentito. E tutti nel palazzo sapevano che l’affitto era pagato dal ministero dell’Interno”. Secondo gli ultimi dati ufficiali, diffusi nel 2017, il sistema di protezione accoglie oltre seimila persone: 1.277 sono collaboratori - i pentiti, appunto - accompagnati da 4.915 familiari. La tutela dello Stato è spesso l’ultima occasione per uscire da un circuito mortale. Per i testimoni è diverso: sotto copertura ce ne sono solo 78 con 255 parenti. Sono cittadini che non hanno mai fatto parte delle organizzazioni mafiose ma hanno assistito alle malefatte o le hanno subite. E hanno deciso di ribellarsi. Come il padre di Laura, imprenditore calabrese tartassato dalla cosca. “Nei primi anni del Duemila” racconta la ragazza, “ha denunciato ed è stato mandato in una località segreta: ha affrontato la prima trafila, fatta di sistemazioni provvisorie e lunghi periodi in alberghi periferici, senza relazioni con l’esterno. Poi anche mia madre ha testimoniato contro il boss. A quel punto abbiamo raggiunto mio padre in quella che sarebbe diventata la nostra nuova città”. Laura aveva sette anni, suo fratello dieci: “I miei genitori sono stati bravi a farci capire cosa stesse succedendo, ci avevano educati fin da piccolissimi al fatto che in paese c’erano persone perbene e altre da evitare perché facevano cose cattive”. Come sarebbe stata la nuova vita, però, non potevano immaginarlo. “Per un magistrato è facile chiedere di denunciare la ‘ndrangheta” afferma Laura, “ma se qualcuno lo fa, perché non gli viene spiegato a cosa va davvero incontro?”. Lei l’ha sperimentato sulla sua pelle per quindici anni: quelli della sua adolescenza, della maggiore età. Tanti, invece, mollano subito. “Insieme ai miei genitori ci fu un altro che si offrì di testimoniare: ha vissuto sotto protezione per sei mesi, poi si è arreso”. Anche la famiglia di Laura ha attraversato le crisi: “Chi ha un’identità di copertura non può lavorare: ha un codice fiscale falso che serve solo ai fini sanitari. E mio padre dopo un po’ ha rischiato di crollare. Alla fine si è trasferito all’estero e lì ha potuto riprendere un’attività. Mia madre ha affrontato periodi di depressione, mio fratello ha maturato una reazione rabbiosa”. Le statistiche, dice un funzionario dello Stato che chiede di restare anonimo, rivelano che i primi periodi sono i più difficili: “In quella fase la pressione emotiva è più forte. A cedere sono soprattutto coloro che hanno figli piccoli, perché non sanno come rispondere al disagio dei bimbi. E per loro non c’è un supporto specializzato. Sa quanti sono gli psicologi che si prendono cura degli oltre seimila che vivono sotto protezione? Meno di dieci”. La paura, racconta Laura, diventa una compagna abituale e la prudenza si radica fino a trasformarsi in uno schema mentale, in un’attitudine: “Mi viene spontaneo chiedermi chi sia la persona che mi rivolge la parola, da quale famiglia provenga, se abbia secondi fini: faccio ricerche, mi informo. Tinto da sola, perché la vigilanza delle forze di polizia si limita a una pattuglia che ogni tanto fa un giro sulla strada di casa nostra. Per il resto, nella vita di ogni giorno dobbiamo cavarcela con le nostre forze”. Le giornate, nel racconto di Laura, scorrono tra burocrazia e complicazioni: “Non è obbligatorio prendere un nome di copertura, ma se lo fai puoi usarlo solo nella regione in cui ti trasferisci. Perciò ogni volta che ti allontani devi comunicarlo al servizio, andare in questura a ritirare i tuoi documenti autentici da usare nella tua destinazione. In pratica, quindi, spostarsi senza preavviso è impossibile”. Ogni richiesta deve seguire una trafila che passa per il Nop, il Nucleo operativo di protezione addetto al presidio territoriale, per arrivare al sistema centrale, al di sopra del quale c’è poi una commissione presieduta da un sottosegretario. “Spesso le richieste che si consegnano al Nop vengono protocollate negli uffici centrali ma si perdono nei meandri degli scaffali. Non c’è un referente univoco che tenga un rapporto con una famiglia: a volte ti risponde una persona, a volte un’altra. E le procedure che suggeriscono sono aleatorie”. Come è successo quando la madre di Laura chiese un certificato di nascita: “Le dissero di rivolgersi direttamente all’anagrafe: ci sembrò strano perché i dati delle persone sotto protezione sono oscurati negli archivi della pubblica amministrazione. E infatti allo sportello non riuscirono ad accedere. Lo riferimmo al servizio di protezione ma stavolta ci risposero che era un errore seguire l’iter che loro stessi ci avevano suggerito in precedenza”. Un paio d’anni fa per Laura si profilava la fine delle scuole superiori: “Decidemmo di chiedere alla commissione l’uscita della nostra famiglia dal sistema di protezione per iscrivermi all’università e affittare una stanza col mio vero cognome. Venne dato parere negativo. Ma un anno dopo ci arrivò la comunicazione che il programma per noi si sarebbe concluso. Mi trovai il problema di farmi riconoscere gli esami e di modificare il contratto di locazione. Chiesi un aiuto. Lo sa cosa mi risposero? Che non ero tenuta a spiegare ai professori, al padrone di casa e ai miei coinquilini perché il mio cognome fosse cambiato all’improvviso. Le sembra possibile?”. Alla fine Laura ha ideato da sola uno stratagemma: “Perlomeno, crescendo in questo contesto ho imparato a relazionarmi con le istituzioni e ad aggirare i burocrati. Certo, ne avrei fatto volentieri a meno. Però ai miei genitori dico che la loro scelta è stata giusta: se mi trovassi nella stessa situazione, denuncerei anch’io. Ma pretenderei dallo Stato maggiori garanzie”. Indagini difensive: stretta sulle ipotesi di nullità del verbale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 17 gennaio 2019 n. 2049. L’atto scritto dal legale, nell’ambito delle indagini difensive, ha gli stessi effetti e del verbale redatto dal Pubblico ministero. E può ritenersi nullo solo se c’è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell’avvocato o del sostituto che lo ha redatto, ma non se il dichiarante non lo ha firmato foglio per foglio. La Corte di cassazione, con la sentenza 2049, fa una stretta sulle ipotesi di nullità del verbale della difesa e lo fa dopo aver fatto chiarezza sulla portata della legge 397/2000 sulle indagini difensive, con la quale è stato potenziato il ruolo svolto dal difensore nel processo penale. Una norma - sottolinea la Cassazione - con la quale è stata introdotta una disciplina organica delle indagini, che ha tipizzato gli atti che possono essere svolti dalla difesa. Tra questi ci sono i colloqui delle persone ritenute a conoscenza dei fatti. Nel caso esaminato il giudice aveva bollato come inutilizzabili le dichiarazioni di tre persone, presenti al momento dei fatti contesati all’imputato, poi condannato per violenza sessuale. Il Gip non aveva considerato utile il verbale perché mancava la firma dei dichiaranti in ogni pagina. Per la Cassazione una scelta sbagliata che comprime il diritto di difesa. I giudici della terza sezione penale, ricordano che il difensore assume la veste di pubblico ufficiale quando redige il verbale e non può, neppure nell’interesse del suo assistito, manipolare le informazioni raccolte. Un limite alla libertà del difensore che si impone perché la prova dichiarativa assunta dal difensore sia affidabile al pari di quella della pubblica accusa. La Suprema corte è consapevole della giurisprudenza di legittimità che ritiene esistente, per la validità dell’atto l’obbligo di firma in ogni foglio del dichiarante, ma non la condivide. Per i giudici il difensore ha un obbligo di lealtà, pena il reato di falso ideologico in atto pubblico. Una garanzia di fedeltà che deve indurre a ridurre al minimo le ipotesi di nullità dei verbali. Un atto che può essere disatteso dunque solo se i dubbi sono relativi alle persone intervenute o se manca la firma del difensore o del suo sostituto Intercettazioni illegittime al bando. Corte Ue sulla sanzione penale per i reati fiscali di Roberto Rosati Italia Oggi, 18 gennaio 2019 L’obbligo di sanzionare penalmente i reati gravi in materia di Iva, al fine di tutelare adeguatamente gli interessi finanziari dell’Ue, non può ledere il principio di legalità e lo stato di diritto. Non è pertanto consentito utilizzare elementi probatori acquisiti in violazione della legge nazionale, ad esempio intercettazioni illegittime in quanto autorizzate da un giudice non competente, neppure nel caso in cui siano fondamentali per dimostrare la commissione del reato. Così la Corte di giustizia Ue nella sentenza nella causa C-310/16 di ieri. Il procedimento era stato promosso dai giudici bulgari per sapere se l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Ue e gli art. l e 2 della convenzione Pif dovessero interpretarsi nel senso che ostano, con riferimento al principio di effettività delle azioni penali in tema di reati Iva, all’applicazione della norma nazionale che impone di escludere dal procedimento penale elementi di prova, quali le intercettazioni telefoniche, che richiedono una preventiva autorizzazione giudiziaria, qualora l’autorizzazione sia stata rilasciata da un’autorità incompetente, anche nel caso in cui si tratti degli unici elementi di prova del reato. La Corte ricorda che, allo stato attuale, il diritto dell’Ue non stabilisce norme sulle modalità di acquisizione e di utilizzo delle prove nei procedimenti penali in materia di Iva, sicché tale materia è di competenza degli stati membri. Essi hanno però l’obbligo di contrastare le frodi e gli illeciti che ledono gli interessi finanziari Ue, tra cui le frodi Iva, mediante misure effettive e dissuasive. A tale scopo, gli stati membri sono liberi di scegliere le sanzioni applicabili, sebbene in ipotesi di frodi Iva gravi possano rendersi indispensabili sanzioni penali, come richiesto dalla convenzione Pif. Gli stati devono inoltre garantire che le norme nazionali di procedura penale consentano una repressione effettiva dei reati collegati a dette frodi, nel rispetto dei principi di proporzionalità, equivalenza ed effettività. Spetta quindi al legislatore nazionale adottare le misure necessarie, se necessario modificando la propria normativa per evitare che le regole di procedura applicabili nella repressione dei reati lesivi degli interessi finanziari possano comportare un rischio sistemico d’impunità. I giudici nazionali, dal canto loro, devono dare piena efficacia agli obblighi derivanti dal trattato e disapplicare pertanto le disposizioni interne che ostino all’applicazione di sanzioni effettive e dissuasive ai reati gravi in materia di Iva. L’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Ue, tuttavia, non esonera i giudici nazionali dal rispetto dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali Ue e dei principi generali del diritto Ue, non soltanto durante i procedimenti penali, ma anche durante la fase delle indagini preliminari, sino dal momento in cui l’interessato è accusato. I giudici nazionali, in particolare, non sono dispensati “dal necessario rispetto del principio di legalità e dello stato di diritto, che costituisce uno dei principali valori su cui si fonda l’Unione”. Da tali principi discende che il potere repressivo non può essere esercitato al di fuori dei limiti legali entro cui un’autorità è autorizzata ad agire secondo il diritto nazionale. Inoltre, le intercettazioni telefoniche costituiscono un’ingerenza nel diritto alla vita privata che è ammessa solo quando prevista dalla legge, se sia necessaria e risponda effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Ue. Nella fattispecie, risulta che le intercettazioni telefoniche erano state autorizzate da un’autorità giudiziaria non competente, quindi devono essere considerate come non previste dalla legge. In conclusione, il diritto dell’Unione non contrasta con l’applicazione di una norma nazionale che esclude l’utilizzo nel procedimento penale di intercettazioni telefoniche non debitamente autorizzate, persino quando siano gli unici elementi di prova del reato in materia di Iva. “Assenteisti nei tribunali”, no all’archiviazione del procedimento a carico di Brunetta di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2019 Corte di Cassazione - Sezione Vi - Sentenza 17 gennaio 2019 n. 2178. Accolto il ricorso di 115 dipendenti, del Tribunale di Salerno, cancellieri e impiegati, contro la scelta del Gip di archiviare il procedimento per diffamazione a carico di Renato Brunetta che, nella trasmissione l’Arena, aveva attribuito all’assenteismo la ragione della lunga durata dei processi. La Corte di cassazione con la sentenza n. 2178 di ieri ha definito illegittimo il decreto di archiviazione adottato dal Gip romano, il quale aveva configurato la condotta di Brunetta come un esercizio legittimo del diritto di critica politica e ritenuto di fatto insussistente il reato: la decisione del Gip, relativa alla denuncia dei dipendenti amministrativi del tribunale di Salerno, si fondava sull’opinione secondo cui l’onorevole non si riferisse ai cancellieri o dipendenti dei tribunali bensì alla categoria dei magistrati, quando confrontandosi con il sindaco di Portici, che è un giudice, aveva pronunciato le frasi incriminate. Il Gip - che a fronte di una richiesta per diffamazione ha disposto l’archiviazione per il reato di calunnia - ha considerato non ammissibile l’opposizione all’archiviazione ritenendo infondata la notizia di reato e non rilevante l’esame degli elementi di prova indicati dai dipendenti del comparto giustizia, che si ritenevano diffamati: no all’acquisizione della registrazione della trasmissione e no all’audizione delle parti offese, sul fatto che la dichiarazione di Brunetta fosse stata percepita dalla maggioranza delle persone come accusa di assenteismo quindi diffamatoria contro i dipendenti dei tribunali. L’onorevole Brunetta, a sua difesa aveva depositato una memoria con allegato un altro decreto di archiviazione sulla stessa vicenda, emanato dal Gip del Tribunale di Salerno, in ordine al presunto reato di diffamazione, di cui la Cassazione riporta in sentenza il ragionamento ‘assolutorio’ secondo cui si sarebbe trattato solo di una critica politica. I giudici di legittimità ritengono che in modo errato il Gip romano abbia anticipato de plano il proprio giudizio sulla non incidenza probatoria delle ulteriori attività investigative richieste dalle parti, che si ritenevano oggetto di diffamazione in base alla frase pronunciata da Brunetta, rivolgendosi al sindaco di Portici: “si veda anche l’assenteismo dai Tribunali, perché i tribunali sono luoghi di inefficienza totale, in qualsiasi tribunale se lei va dopo le ore 14,00 non c’è anima viva e per questa ragione i processi durano 7, 8, 10 anni”. Per il Gip la frase - nell’ambito della puntata tv dedicata all’assenteismo - colpiva però i magistrati, proprio perché appuntata sulla durata dei processi, e non i dipendenti amministrativi dotati di controllo elettronico per l’uscita dal lavoro. Proprio per chiarire l’intento di Brunetta le parti chiedevano l’acquisizione della registrazione della puntata televisiva e domandavano di essere ascoltate per riferire della “portata e della percezione dell’effetto diffamante” delle esternazioni in televisione fatte da Renato Brunetta. Campania: il Garante dei detenuti Ciambriello “basta morire di carcere e in carcere” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 18 gennaio 2019 Una regione, la Campania, che conta in totale 7.660 detenuti, su una capienza massima di 6142 posti, con 380 donne e 1008 immigrati. Il Garante dei detenuti Ciambriello: “Basta morire di carcere e in carcere. Campania da record per i suicidi. È inaccettabile. Le carceri servono a levare la libertà, non la vita”, così il garante campano dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello commenta l’ultima morte, avvenuta nel carcere di Fuorni, di un detenuto malato, tossicodipendente e su una sedia a rotelle”. E poi snocciola cifre allarmanti: “L’anno scorso nelle carceri campane ci sono stati nove suicidi, più tre di detenuti che erano agli arresti domiciliari, otto morti per malattie e cinque morti di cui bisogna accertare ancora le cause o le eventuali negligenze. Il carcere con più suicidi è stato quello di Poggioreale (5 morti), uno ciascuno a Carinola, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere e Salerno (una donna.). Non voglio limitarmi a snocciolare solo numeri, anche se su 67 suicidi totali in Italia la nostra Regione vanta un buon primato negativo”. Una regione che conta in totale 7.660 detenuti, su una capienza massima di 6.142 posti, con 380 donne e 1008 immigrati. “Tra le cause principali dell’alto tasso di suicidi, continua Ciambriello vi sono “il degrado e il sovraffollamento, ma anche la mancanza di comunicazione, di ascolto e di figure sociali”. “Va rafforzato - continua il garante - il sistema di prevenzione varato dal Ministero nel 2016 e bisogna agire con una maggiore formazione specifica per la polizia penitenziaria e l’area educativa per prevenire ed intuire il disagio che poi porta al suicidio; ed è anche necessario il supporto di figure come gli psicologi e gli assistenti sociali, anche se la cronaca ha dimostrato, con i 140 suicidi sventati dalla polizia penitenziaria o dai compagni di cella negli ultimi due anni, che nel carcere la solidarietà c’è ed il carcere sa essere meno Caino della società esterna”. Va migliorata, secondo il garante l’assistenza sanitaria che in alcuni casi è disastrata e va rafforzata la presenza degli educatori nei reparti e nelle sezioni. “Per questo chiedo a tutti, ognuno per la sua parte, di assumersi l’impegno di riflettere e intervenire. Per parte mia rafforzerò gli uffici del garante con esperienze di ascolto e sportelli informativi nelle carceri. Bisogna sconfiggere insieme l’indifferenza a questo stato di cose, coinvolgendo istituzioni e parti sociali”. Infine Ciambriello ricorda che “il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire in carcere ma richiama alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione e dell’amministrazione centrale e locale perché la perdita di giovani vite a un ritmo più che settimanale sia assunta nella sua drammaticità come tema di effettiva riflessione e di elaborazione di una diversa attenzione alle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce. I principi di certezza della pena e della sua funzione rieducativa possono considerarsi davvero effettivi solo se per le pene detentive nelle carceri (ma lo stesso vale per le misure cautelari) sono garantite condizioni di dignità e umanità, principi costituzionali imprescindibili”. Sassari: dove le celle del 41bis sono sotto il livello del terreno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 gennaio 2019 Rapporto del Garante nazionale dopo la visita nelle carceri della Sardegna. Reparti del 41bis situati appositamente sotto il livello del terreno, tanto da provocare una diminuzione progressiva dell’aria e della luce naturale che filtra che passa solo attraverso piccole finestre poste in alto sulla parete o lucernai, invasione di blatte nelle infermerie, difficoltà di accesso all’acqua potabile, sezioni di alta sorveglianza dedicate alle persone detenute cosiddette “radicalizzate” e quelle “a rischio di radicalizzazione”, come quella gergalmente chiamata “porcilaia”, privi delle condizioni minime di dignitosa vivibilità. Questo è tanto altro emerge dal rapporto dell’autorità garante nazionale delle persone private della libertà, in merito alla visita nelle carceri della regione Sardegna. Una regione - come si legge nel rapporto che si caratterizza per un numero elevato di Istituti di pena, superiore alle esigenze territoriali. Infatti, la presenza di dieci Istituti con una capienza totale, alla data del 30 aprile 2018, di 2713 posti (con 2248 persone detenute presenti) ben più alto rispetto alle 1102 persone detenute residenti in Sardegna, comporta come conseguenza il trasferimento sull’isola di un elevato numero di ristretti provenienti da altre regioni. “La scelta dell’Amministrazione penitenziaria - scrive il Garante nazionale - di utilizzare, date le complessive condizioni di sovraffollamento nel territorio nazionale, tutti i posti disponibili, ha comportato la sostanziale rinuncia al principio che vuole che la pena sia eseguita, salvo eccezioni riferibili a contesti criminali diffusi in un dato territorio, in modo tale da non recidere il rapporto con il proprio ambito affettivo e relazionale”. Tale situazione comporta pesanti ricadute negative sulla possibilità di mantenere le relazioni familiari con i propri cari, costretti a lunghi e costosi viaggi per fare i colloqui. “Tuttavia - si sottolinea nel rapporto nessun Istituto ha previsto finora l’attivazione di un sistema di video telefonate, così come previsto peraltro dalla circolare Dap n. 0366755 del 2 novembre 2015”. Si denuncia che è stato scelto di trasferire e concentrare nelle strutture detentive dell’isola un gran numero di persone detenute in regime di Alta sicurezza, nonché un numero consistente di coloro che sono detenute nel 41bis. Problemi di degrado al 41bis e all’Alta Sorveglianza - La prima criticità riguarda la tutela della loro salute. Il Garante denuncia che, nonostante la forte presenza di un elevato numero di persone detenute in regime di alta sicurezza o 41bis, nella Regione non è disponibile il Servizio di assistenza intensiva (Sai) che possa essere utilizzato a tutela della loro salute. Infatti, il Sai dell’Istituto di Sassari - strutturato originariamente per coloro per i quali era disposta una detenzione secondo tali regimi - è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari- Uta, è esclusivamente per coloro che sono detenuti in regime di normale sicurezza. A tutto ciò si aggiunge il degrado ambientale. Almeno due fra gli Istituti visitati sono in condizioni di degrado materiale, con scarsa manutenzione ordinaria o con lavori in corso che comportano pesanti disagi per le persone detenute e per il personale che vi lavora: in particolare, l’Istituto di Nuoro, con un reparto comunemente chiamato - non a caso - “la porcilaia” e la Casa circondariale di Cagliari con il cantiere per la costruzione di un reparto per persone detenute al 41bis, aperto nel 2014 e al momento della visita della delegazione del Garante nazionale in totale stato di abbandono, con materiale lasciato all’aperto, cucine attrezzate lasciate andare in malora e con un serio problema di sicurezza - oltre a un evidente spreco di denaro pubblico. In quest’ultimo caso, risulta che le condizioni materiali riducono drasticamente la disponibilità di spazio all’aperto e la possibilità di avviare attività “ trattamentali” o lavorative. Dal rapporto emerge anche il caso particolare delle sezioni del 41bis relative al carcere Bancali di Sassari: sono state realizzate sotto il livello del restante terreno ove sorgono le altre sezioni. “Una scelta non dovuta alla tipologia del terreno”, sottolinea il Garante nel rapporto. Nel carcere di Nuoro, invece, alcuni reparti sono stati trovati privi delle condizioni minime di dignitosa vivibilità, come la sezione che ospita le persone detenute “radicalizzate” e quelle “a rischio di radicalizzazione”, in regime di As2. Si denuncia che il reparto è gergalmente conosciuto come “porcilaia”, era noto sin dai tempi della detenzione di persone condannate per reati di terrorismo nazionale, era stato successivamente chiuso perché ben al di sotto di qualsiasi standard minimo in ambito europeo, è stato poi riaperto come piccola sezione di regime del 41bis. Chiuso dopo l’apertura dell’Istituto di Sassari, ora infine riaperto per questo ristretto numero di persone imputate per reati connessi al terrorismo internazionale, individuate come figure di supporto materiale o ideale a tali reati. Le stanze detentive risultano scarsamente areate e ben poco illuminate e l’atmosfera complessiva è claustrofobica. Alla delegazione è stato, inoltre, riportato che erano state rimosse nei giorni precedenti alla visita alcune schermature alle finestre. La delegazione del Garante ha riscontrato che i muri erano ammalorati, che nei bagni vi erano evidenti e ampie tracce di umidità ed estese macchie di muffa. Una stanza di pernottamento aveva il bagno a vista, separato unicamente da una tenda. La stanza “per la socialità”, che misura meno di sei metri quadri, consente la permanenza contemporanea solo di poche persone. È stata trovata completamente spoglia, con una coperta lasciata a terra per sedersi o per pregare, e le pareti appena ritinteggiate. Inoltre, il personale medico ha segnalato la temperatura molto alta della sezione nei mesi estivi nel lato esposto al sole e privo di ogni riparo. Il Garante nazionale sottolinea di come questo degrado sia incompatibile con il discorso della prevenzione alla cosiddetta “radicalizzazione” e di come queste sezioni rischiano di subire censure in ambito internazionale. Infermerie e spazi all’aperto non conformi - Sempre nel carcere di Sassari i locali sanitari appaiono al di sotto di qualsivoglia standard e c’è una ricorrente presenza di blatte. In quasi tutte le carceri sarde gli spazi all’aperto per l’esercizio fisico sono risultati essere spesso dei semplici cubi di cemento aperti in alto, privi di ogni attrezzatura, spesso con i bagni malfunzionanti. Ad esempio c’è il carcere di Massama dove le quattro aree per i passeggi della sezione misurano 4m x 2m e sono prive di tettoie per ripararsi dal sole o dalla pioggia. Segnalato anche il problema del mancato rilascio o il rinnovo dei documenti che scadono durante il periodo di detenzione. “La conseguenza - si legge nel rapporto - è che in tal modo, paradossalmente, il carcere si trasforma in un’istituzione che produce ‘ irregolari’ e ‘ irregolarità’: si entra con il permesso di soggiorno e si esce senza”. Nella sezione femminile della Casa circondariale di Sassari- Bancali, ad esempio, diverse donne hanno espresso preoccupazione alla delegazione per lo scadere a breve del permesso di soggiorno, senza che gli operatori - a quanto dichiarato - si fossero attivati, mentre nell’Istituto di Cagliari Uta le persone detenute hanno lamentato l’impossibilità di ottenere il Codice fiscale dall’Agenzia delle entrate. Lecce: il ministro Bonafede ascolti la protesta dei detenuti di Paolo Pagliaro* leccecronaca.it, 18 gennaio 2019 Intervenga immediatamente il ministro Alfonso Bonafede, verifichi le condizioni di vita nel carcere di Lecce, per rendersi conto di persona dei problemi strutturali e delle carenze che costringono i detenuti a vivere al freddo e al gelo, spesso in condizioni disumane con calcinacci che si staccano, e in tre persone in celle di 8 metri quadrati con bagni fatiscenti. La protesta dei 90 detenuti della sezione C, che oltretutto sono in attesa di giudizio, non può rimanere inascoltata, bisogna dare risposte chiare e precise senza dimenticare che la funzione rieducativa dell’esperienza carceraria non si deve trasformare in un inferno. Infine, ampliando il discorso, voglio porre all’evidenza del ministro anche le carenze del personale, problematica che dobbiamo affrontare e risolvere; colgo l’occasione per fare un plauso all’encomiabile lavoro di agenti di polizia penitenziaria e addetti ai lavori che nonostante la situazione difficile riescono a svolgere un lavoro importantissimo in maniera professionale. *Dirigente nazionale di Forza Italia e membro dell’associazione Nessuno Tocchi Caino Salerno: “nel carcere di Fuorni non esiste il diritto alla vita” di Erika Noschese Cronache del Salernitano, 18 gennaio 2019 Parla l’avvocato Fiorinda Mirabile che dopo l’ultima visita al carcere aveva acceso i riflettori sulle persone malate. A breve incontro con il direttore della struttura per fare il punto della situazione. La morte improvvisa di Giuseppe Montanera, il 54enne di Mercato San Severino, tossico e alcol dipendente, costretto sulla sedia a rotelle ha, ancora una volta, riacceso la polemica su quanto il carcere metta a dura prova i detenuti. Come giusto che sia, verrebbe da dire, eppure bisognerebbe rispettare un diritto sacrosanto: quello alla vita e alla salute. E Fuorni sembra essere l’esempio lampante di come, per i malati terminali, come nel caso del 54enne, non ci sia una struttura alternativa al carcere. Una situazione quella di Montanera su cui avevano tentato di accendere i riflettori anche i radicali, nel corso della loro ultima visita presso la casa circondariale di Salerno. In particolare, l’avvocato Fiorinda Mirabile - che da sempre si batte per i diritti dei detenuti - aveva chiesto per lui una soluzione alternativa anche in vista della fine della pena, prevista per il 2021. “Già l’ultima volta mi meravigliava la sua assenza ma mi avevano assicurato che era una persona che preferiva ritirarsi, senza incontrare nessuno”, ha dichiarato infatti l’avvocato che aveva chiesto spiegazioni anche al direttore del carcere che aveva rassicurato tutti sulle condizioni di salute dell’uomo, nonostante le raccomandazioni del medico che lo aveva in cura. E Giuseppe non è l’unica persona che avrebbe bisogno di uscire dalla cella: “C’era un detenuto che aveva subito un’operazione ed era stato ritenuto non idoneo al carcere, a causa dei problemi psichiatrici dell’uomo”, ha poi aggiunto la Mirabile, secondo cui il direttore del carcere avrebbe risposto che non era nelle sue competenze disporre un trasferimento, nonostante le condizioni di salute. “C’è una mancanza di dialogo tra i magistrati di sorveglianza e il carcere. Così succede che li trattengono lì anche contro la legge come nel caso di Giuseppe che non ce l’ha fatta perché era un malato terminale”, ha poi aggiunto Fiorinda Mirabile, secondo cui ad oggi le strutture carcerarie non rispettano il sacrosanto diritto alla vita: “C’è un evidenza casistica di morti in carcere. Maria aveva problemi di natura psichiatrica e si è suicidata perché nessuno ha intercettato il suo disagio. Sono persone abbandonate a loro stesse e non credono alle loro lamentele”. Il 2018 è stato un anno drammatico proprio dal punto di vista delle morti in carcere. A questo andrebbero sommate tutte le altre problematiche, già ampiamente ribadite che permettono poi il verificarsi di situazione al limite dell’assurdo come la protesta indetta dai detenuti, in seguito al trasferimento di un loro compagno. Un momento che si è poi trasformato in una vera e propria ricreazione, con tanto di spaghettata finale. “A loro ho più volte chiesto di comportarsi bene, altrimenti le nostre lotte esterne non hanno senso e passano da vittime a carnefici”, ha ribadito l’avvocato salernitano. Intanto, a breve dovrebbe esserci un nuovo incontro con il direttore per fare il punto della situazione dopo quanto accaduto al 54enne di Mercato San Severino e per trovare soluzioni concrete per chi, a causa dei gravi problemi di salute, non potrebbe stare in carcere ma avrebbe bisogno di una struttura alternativa che, ad oggi non esiste Cremona: nel carcere manca personale e crescono i detenuti con problemi psichiatrici cremonaoggi.it, 18 gennaio 2019 Sovraffollamento e infrastrutture inadeguate; carenza di personale e criticità sanitarie, soprattutto per la gestione di numerosi soggetti psichiatrici che sono in aumento. Un quadro tutt’altro che edificante per il carcere di Cremona, la cui responsabile è stata sentita mercoledì durante l’audizione tenuta dalla Commissione speciale Carceri, presieduta da Gian Antonio Girelli (Ps), con i responsabili delle case circondariali di Mantova, Cremona e Lodi. All’incontro erano presenti la Direttrice della casa circondariale di Mantova, Rossella Padula, la Direttrice di Cremona, Maria Gabriella Lusi, e il Comandante dell’istituto di Lodi, Simona Di Cesare. “È stato un incontro molto utile per individuare le criticità” ha dichiarato Girelli. “Sono anche emersi spunti nuovi e positivi da valorizzare, come l’introduzione del care-giver e la responsabilizzazione dei detenuti. Stiamo per terminare il giro d’incontri con i responsabili dei penitenziari lombardi, per poi sollecitare soluzioni. Abbiamo già chiesto alla Regione un maggiore impegno nel sostenere i progetti e gli interventi a favore dei detenuti”. Carenza di personale apicale di Polizia penitenziaria e di funzionari amministrativi (1 solo contabile, 5 Sovrintendenti al posto dei 30 previsti, 6 Ispettori anziché 26, 1 Commissario al posto di 3), problemi di gestione sanitaria dei numerosi detenuti con problemi psichiatrici sono le criticità illustrate da Maria Gabriella Lusi relativamente al carcere di Cremona. A fronte di una popolazione di 430 detenuti (di cui 167 italiani e 263 stranieri, per lo più nord africani, seguiti da romeni ed albanesi) oltre 300 sono in terapia psicofarmacologica: la responsabile lamenta difficoltà nel reperimento dei farmaci e nel garantire la continuità assistenziale, a causa dell’alta percentuale di persone trasferita da altri istituti penitenziari lombardi (per lo più dal carcere milanese di San Vittore). La direttrice ha chiesto che venga presto avviata una formazione integrata tra personale penitenziario e sanitari sul trattamento dei detenuti con disturbi o disabili. Padova: un calcio libero dietro alle sbarre di Alberto Facchinetti Avvenire, 18 gennaio 2019 “Pallalpiede”, l’unica formazione in Italia composta da detenuti (carcere di Padova) regolarmente iscritta a un campionato Figc. Beve il caffè dopo aver pranzato, poi appoggia la borsa con gli scarpini sul bagagliaio dell’auto e da Mestre prende l’autostrada in direzione Milano. Neanche mezz’ora di viaggio, uscita “Padova ovest”: di lato si lascia lo Stadio Euganeo, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo perché nel cuore gli è rimasto soltanto il vecchio Appiani (il mitico impianto del grande Padova che fu del Paròn Nereo Rocco) e perché ora il campo dove deve andare è poco più avanti. È quello all’interno del carcere Due Palazzi. Walter Ballarin, calciatore professionista in pensione, dà una mano a mister Fernando Badon ad allenare Pallalpiede, squadra di calcio nata nella casa di reclusione padovana, oggi l’unica iscritta ad un campionato Figc. Giocano in Terza Categoria, siamo ancora durante la sosta invernale e sabato la squadra non gioca comunque perché il torneo è composto da un numero dispari di formazioni e a turno una riposa. Il girone d’andata si è concluso al primo posto, Pallalpiede è campione d’inverno. Con tre punti di vantaggio sulla seconda rimarranno in ogni caso in testa anche dopo il prossimo weekend. L’Associazione nasce nel luglio del 2014 da un’idea di Lara Mottarlini e Paolo Mario Piva, che oggi sono rispettivamente presidente e presidente onorario. Dalla prima ora dentro alla Polisportiva c’è anche Andrea Zangirolami. L’obiettivo è quello di “dare, grazie al calcio, un momento di normalità ai detenuti, insegnare loro che c’è un’esistenza diversa oltre al carcere e alla vita delinquenziale”. Pallalpiede deve disputare tassativamente (e per legge) tutte le gare, sia quelle casalinghe che quelle in trasferta, “in casa” nel campo del carcere, leggermente più piccolo di quello regolamentale. Per questo la squadra non entra ufficialmente in classifica e se anche finisse al primo posto non verrebbe promossa in Seconda Categoria. Da quattro anni alza la Coppa Disciplina, per aver avuto in ogni stagione il minor numero di squalifiche. La formazione più corretta del dilettantismo padovano. Pochi mesi fa a premiare Pallalpiede sono stati il sindaco di Padova Sergio Giordani (ex Presidente del Calcio Padova) e l’assessore allo Sport Diego Bonavina (ex calciatore del Treviso). A ritirare la coppa in municipio si è presentata una delegazione della squadra composta da chi ha il permesso per uscire. Nel gruppo di albanesi, rumeni, nordafricani, nigeriani e italiani ci sono anche ergastolani, quindi non tutti sono quelli che in gergo vengono definiti “permessanti”. Mentre mister Badon, un passato in serie C e di giovanili nel Calcio Padova con Vittorio Scantamburlo, prepara il campo per l’allenamento, appoggiando i “cinesini” uno dietro l’altro, Ballarin segue il riscaldamento dei ragazzi. Poi sarà il primo allenatore a gestire il lavoro e Ballarin rimarrà attento che il singolo giocatore faccia correttamente il gesto tecnico e atletico. Se è il caso lo corregge, puntando molto sull’aspetto mentale per cercare di migliorargli la capacità di concentrazione. “Da calciatore - dice Ballarin - ho fatto tutte le categorie dei dilettanti e tutte quelle dei professionisti. Nel 1971 dal Mestrina mi aveva acquistato Giussy Farina, per dieci anni sono stato del Lanerossi Vicenza che mi mandava in prestito o in comproprietà in giro per l’Italia. Sono stato due volte capocannoniere di serie C, l’anno più bello quello di Siracusa. Il giocatore più forte con cui ho giocato? Sicuramente Ezio Vendrame, una fantasia e una tecnica incredibile, un personaggio fuori dal comune nel mondo del calcio. Al Padova sono arrivato nel novembre del 1975 e grazie ai suoi assist ho vinto la classifica marcatori. Ezio è anche un uomo dolce e intelligente. Dall’esperienza con i ragazzi del carcere sto ricevendo moltissimo. Raramente trovi giocatori che abbiano questa voglia di imparare e di stare ad ascoltarti. A me e a Fernando danno tutto: è il massimo che un allenatore può chiedere, in qualunque categoria si trovi”. Badon e Ballarin si sono conosciuti al Venezia, stagione 1983-1984 di serie C. Badon un giovane che si affacciava al professionismo, Ballarin un bomberone che aveva già passato i trenta e che come al solito segnava a raffica. Quando l’anno scorso Badon ha chiesto all’ex compagno di fargli da secondo, ha detto subito sì. “Io e Walter ci capiamo con uno sguardo - dice Badon - siamo amici e parliamo la stessa lingua calcistica. Questo i nostri ragazzi lo percepiscono”. Non chiedono molto spesso a Ballarin delle sue esperienza da calciatore di A (cinque presenze col Vicenza, “e anche là c’era Vendrame”) e lui, figlio di un pescatore dell’isola veneziana di San Pietro in Volta, non fa pesare il suo passato né sente il bisogno di fare troppo storytelling. “Cerco di portare la mia esperienza - continua Ballarin - tranne un paio con velocità di esecuzione e di pensiero da calciatori veri, gli altri non avevano mai visto prima un campo da calcio. Ma sono cresciuti tantissimo su diversi aspetti, per esempio sulla postura del corpo ma anche sulla preparazione e l’approccio emotivo alla gara. Sono attenti ai dettagli, tipo: si cucinano il pranzo in cella qualche ora prima di scendere per la partita”. Badon, che in queste settimane di pausa sta facendo un richiamo di resistenza e forza, dice: “Hanno capito l’importanza del lavoro e del sacrificio all’interno di un momento di gioia e divertimento qual è il calcio, ovviamente nei limiti permessi dalla loro condizione di detenuti”. Alle 16,30 l’allenamento finisce e non è ancora buio. “Quando prima - è Ballarin a parlare - mi sono seduto sulle panche dello spogliatoio, mentre Fernando si rivolgeva alla squadra, facendomi intervenire a tratti, ho avvertito una cosa: il calcio è uguale in qualsiasi categoria, dalla serie A come in Terza Categoria dentro ad un carcere”. Ora Badon e Ballarin devono passare i nove cancelli che li riportano fuori. Ributtano le borse sui bagagli delle rispettive auto e ritornano alle loro vite. Mentre si lanciano un’ultima occhiata orgogliosi perché anche oggi hanno lavorato bene, i loro calciatori stanno salendo le scale per rientrare nelle loro celle. “Siamo primi ma fuori classifica. Però da quattro anni vinciamo la Coppa Disciplina” Arezzo: musica e cagnolini in carcere per gli incontri tra detenuti e figli arezzonotizie.it, 18 gennaio 2019 L’idea per favorire i momenti insieme tra bambini e genitori reclusi. Ad Arezzo prende corpo un progetto per permettere ai figli con un genitore in carcere di vivere al meglio momenti assieme a lui. La sperimentazione arriva con “Girotondo Intorno al Sogno Aps”, un’associazione di promozione sociale per l’infanzia, adolescenza e famiglia che presenta “Come a casa: nuove forme di accoglienza per famiglie e detenuti”, un progetto che nasce nell’ambito delle iniziative che l’Amministrazione Penitenziaria porta avanti da tempo per sostenere il diritto alla genitorialità e ideato in collaborazione Carthusia Edizioni, associazione Cinofila “Le Impronte” e associazione “Progetto Kairòs”. L’intento - dicono i promotori - è quello di creare una consapevolezza ed una crescita dei soggetti coinvolti, anche attraverso momenti formativi e di confronto, per trovare nuove modalità d’incontro nel rispetto dei diritti dei figli a mantenere una relazione significativa con i propri genitori. Le premesse - Il Girotondo Intorno al Sogno Aps è fondata da un gruppo di professionisti (psicologi, psicoterapeuti, psicomotricisti, osteopati, fisioterapisti, logopedisti, pedagogisti, educatori e operatori in attività quali pet therapy e musicoterapia) che a titolo di volontariato portano avanti un’opera di sensibilizzazione e prevenzione sociale sulle problematiche più diffuse nell’infanzia e adolescenza e scende in campo accanto alle istituzione locali, alle famiglie e agli insegnanti, e ad altri professionisti quali pediatri, dentisti e altro, per promuovere un’efficace rete di collaborazione sul territorio. Tra le numerose iniziative portate avanti dall’associazione è prevista, a partire da gennaio 2018, anche la realizzazione del progetto: “ Come a casa”. Come a casa - Come a casa è dedicato ai ragazzi e ai bambini che hanno un genitore in carcere, agli adulti di riferimento (genitori e accompagnatori) e ai professionisti che condividono con loro i momenti inerenti la visita al genitore recluso (personale del penitenziario che accoglie i bambini e adolescenti). L’idea è quella di sostenere il diritto del figlio a vivere il rapporto col genitore recluso nel modo più autentico possibile. “Il bambino o l’adolescente che ha un genitore in carcere ne resta orfano nella realtà quotidiana. Studi scientifici dimostrano come i figli di detenuti abbiano più probabilità di avere problemi con la legge. Questo anche perché il rapporto e l’incontro con la legge e la giustizia viene alterato da questo terribile vissuto” dicono i promotori. Come possiamo aiutare il minore ad elaborare e significare l’assenza di un padre o di una madre che non è morto ma comunque assente? Una malattia, un lavoro lontano sono socialmente accettate come motivazioni, ma condividere con gli amici che il genitore non è presente perché “in prigione” è estremamente complicato. Come può un genitore restare tale per un figlio al di là del reato presunto o commesso? Quando un genitore si trova nella realtà del carcere abdica sulla funzione educativa e inizia ad interrogarsi sull’amore del figlio. Sarò ancora degno ai suoi occhi di essere amato? L’inevitabile crisi d’identità travolge il senso della genitorialità e l’incontro col figlio è un momento che fornisce la linfa vitale necessaria a sopravvivere. Ma cosa succede al bambino? Ritrova davvero il genitore che ha sempre conosciuto? Più che un momento di autentico incontro ciò che accade è la messa in scena di ciò che dovrebbe essere; ognuno fa la propria parte, ciò che conta è che tutto vada bene perché tutto resta sospeso fino alla prossima volta. Così accade anche a casa: la telefonata che arriva come un’imposizione e non quando il bambino avrebbe voglia e bisogno della voce del genitore. Troppi fattori concorrono a minare la relazione. I figli da un lato tendono ad idealizzare il genitore assente, allo stesso tempo lo rifiutano e il senso di rabbia può arrivare a coprire il desiderio di vederlo. C’è la pressione di non deludere le aspettative del genitore recluso e/o di quello presente, sia quando il genitore assente viene sostenuto sia quando è denigrato. Spesso il senso di vergogna genera chiusura o al contrario prepotenza. Spesso il senso di vergogna genera chiusura o al contrario prepotenza. È possibile conciliare le esigenze istituzionali di un penitenziario con la libertà di creare un rapporto autentico genitore - figlio che ponga al centro l’essere umano al di là del reato imputato o commesso? Nel tentativo di rispondere a questi interrogativi un gruppo di professionisti del Girotondo Intorno al Sogno coordinati da prof. Simone Zacchini (delegato per la didattica in carcere dall’università di Siena per il Polo Universitario Penitenziario per la Toscana) ha ipotizzato un lavoro di ricerca e intervento, all’interno di case circondariali e di reclusione, con genitori, bambini e adolescenti e polizia penitenziaria. Come funziona - Le attività saranno gratuite per le famiglie e il personale del carcere. Una parte del lavoro con i bambini e adolescenti prevede l’incontro di professionisti del Girotondo con un gruppo di bambini o ragazzi al momento dell’ingresso in carcere per la visita al genitore. Il momento dell’attesa, a volte lungo e vissuto in condizioni non adatte ai più giovani, è estremamente delicato. Il tipo d’intervento da realizzare sarà progettato in base alla fascia d’età del gruppo a cui ci rivolgiamo e alle esigenze della struttura penitenziaria che ci ospita. Attraverso il supporto dell’attività complementare di Pet Therapy e laboratori correlati un terapeuta del Girotondo proporrà nel corso degli incontri la lettura e l’elaborazione di una storia per bambini scritta e pubblicata da Carthusia Edizioni (creata proprio a supporto di questo stesso progetto in modo che ne costituisca un fondamentale strumento di lavoro per i più piccoli) che favorirà e medierà l’incontro col genitore. Le schede delle pagine di attività contenute nel libro della collana “Storie al Quadrato” di Carthusia Edizioni costituiranno un materiale utile al bambino e ai genitori per l’elaborazione delle delicate tematiche trattate durante l’incontro. Il libro sarà regalato alle famiglie che parteciperanno al progetto. Gli amici cani e i professionisti del Girotondo saranno presenti prima del colloquio e resteranno in attesa dei bambini in modo da accoglierli all’uscita, alla fine del colloquio, per salutarli, facendosi partner-mediatori di un momento delicato e difficile qual è la separazione. Per i più grandi verranno organizzati atelier consoni all’età, attraverso i quali definire ed elaborare le difficoltà legate alla condizione che stanno vivendo. Sia per i bambini che per gli adolescenti e per le loro famiglie saranno proposte attività correlate da realizzare in piccoli gruppi. Una proposta è quella di uno spazio dedicato alla musicoterapia. Attraverso la musica può essere più semplice esprimere i propri sentimenti e vissuti e alleggerire il peso delle aspettative degli uni verso gli altri in modo da favorire un discorso non verbale in cui è più facile incontrarsi. Si prevede inoltre, per tutti adeguatamente all’età di ciascuno, la somministrazione di un test, all’inizio del progetto e alla fine (durante il primo incontro e l’ultimo). Questo avrà la funzione di verificare se l’intervento ha prodotto cambiamenti (e di che tipo) nella relazione tra genitori-figlio e nel vissuto del bambino e adolescente rispetto all’assenza del genitore. Il lavoro con i genitori consiste da un lato nel sensibilizzare il genitore non recluso all’importanza che riveste la sua parola e il suo atteggiamento nella lettura che il bambino dà di ciò che accade e dunque sul vissuto del figlio. Dall’altro attraverso il lavoro di musicoterapia permettere al genitore recluso di riappropriarsi del suo ruolo genitoriale nella relazione col figlio da un punto di vista emotivo, psicologico, affettivo e educativo. Il lavoro col personale penitenziario consiste in incontri finalizzati alla condivisione di informazioni utili ad accogliere i bambini nel modo meno traumatico possibile, nel rispetto delle regole e delle esigenze di controllo che la struttura richiede al momento dell’ingresso e dell’uscita degli ospiti. Progetto Pilota - Al fine di dare continuità al lavoro è stato concordato durante la riunione tra i referenti di “Come a Casa - Massa” che gli agenti di polizia penitenziaria che prenderanno attivamente parte al progetti saranno sempre gli stessi. Hanno aderito al progetto 19 padri (detenuti) che hanno figli di età compresa tra i 6 e gli 11 anni. Sono stati concordate 6 date nelle quali articolare i lavori con agenti, padri e bambini (con i relativi accompagnatori - di solito madri). Il lavoro durante i sei incontri (dal 18 gennaio al 13 marzo) si articoleranno in vari momenti di gruppi di parola, Pet Therapy, Musicoterapia e laboratori. Tutto il lavoro ruoterà attorno alla storia della cagnolino Cora. Ad ogni famiglia verrà donata una copia della fiaba “Il Sogno di Cora”. Roma: la realtà dei penitenziari raccontata in una due giorni al WeGil di Roberta Pumpo romasette.it, 18 gennaio 2019 Fotografie, spettacoli, film, video e letture nella rassegna “Sarà presente l’Autore”. Al centro, i laboratori culturali realizzati negli istituti del Lazio. Il Garante: “Mondo diverso dagli stereotipi”. Far conoscere il patrimonio di esperienze e attività realizzate tra le mura del carcere. Un’esposizione che abbraccia ogni genere di espressività culturale con fotografie, rappresentazioni teatrali, film, video e letture per raccontare i laboratori realizzati con gli uomini e le donne detenuti nei 14 penitenziari della regione, 15 con quello minorile. I reclusi sono complessivamente 6.500, alcune centinaia quelli che partecipano attivamente ai laboratori. La rassegna “Sarà presente l’Autore”, inaugurata ieri pomeriggio, mercoledì 16 gennaio, nello spazio WeGil, mira a raccontare in due giorni la realtà dei penitenziari, che è “ben diversa dagli stereotipi”, ha più volte rimarcato Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà del Lazio, nel corso della tavola rotonda inaugurale. L’iniziativa, realizzata dal Garante, si concluderà questa sera alle 17 con il docu-film “Rebibbia 24” ed è frutto del lavoro svolto da decine di associazioni di volontariato che quotidianamente operano all’interno delle carceri. A dare il via alla rassegna lo spettacolo “Il coraggio della legalità” dedicato al giudice Paolo Borsellino e portato in scena dalla Compagnia stabile Assai di Rebibbia. Formata da detenuti e da detenuti in semilibertà, da operatori carcerari e musicisti, è il più antico gruppo teatrale all’interno di un penitenziario italiano, il cui debutto risale al 1982. Nello spazio di largo Ascianghi è possibile ammirare la mostra fotografica con scatti di scena e di vita quotidiana nei penitenziari e per tutta la giornata di oggi si susseguiranno estratti di spettacoli teatrali, film e documentari. Gli studenti dell’accademia delle Belle Arti leggeranno testi di detenuti e detenute che hanno partecipato ai laboratori di scrittura mentre nella Sala Lettura saranno trasmessi gli audio di coloro che hanno partecipato ai laboratori musicali e di racconto. Alle 10.30 è in programma la proiezione del docu-film “La mia è…” e alle 13.30 del film “Ombre della sera”. In cartellone anche gli spettacoli teatrali “L’orda oliva” (ore 15.30) e “Le maschere: mille maschere di uno stesso personaggio” (ore 16.30). “I laboratori attivi nei penitenziari permettono ai detenuti di costruirsi una professionalità che potranno sfruttare quando lasceranno il carcere”, ha spiegato il Garante, secondo il quale la cultura è uno strumento fondamentale per conoscere il mondo esterno. Per questo è importante impegnarsi affinché, scontata la pena, i reclusi non vengano lasciati soli in una società che non riconoscono. “È molto più saggio - ha concluso - rifiutare l’idea che una persona marcisca in galera e accompagnarla anche all’esterno”. Lo scrittore Edoardo Albinati, premio Strega nel 2016, insegna a Rebibbia dal 1994. In tutti questi anni ha notato che “il primo motivo per il quale i reclusi decidono di frequentare la scuola è quello di uscire dalla cella e avere un contatto con il mondo esterno”. Per lo scrittore le attività culturali, scientifiche e artistiche hanno “il merito di tenere in vita il corpo e la mente di queste persone”. L’auspicio di Albino Ruberti, capo di gabinetto del presidente della Regione Lazio, è quello “di ripetere e ampliare esperienze simili che vanno sempre sostenute”. A tal proposito Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, ha aggiunto che eventi simili sono importanti “per far conoscere alla società le pene alternative che aiutano i detenuti a costruirsi un futuro. Oggi la società non avverte sicurezza ed è preda facile di fobie e paure che portano a non accogliere”. Trieste: docu-film “1938 Vita Amara”, incontro in carcere con Sabrina Benussi di Elisabetta Burla * Ristretti Orizzonti, 18 gennaio 2019 Il 19 gennaio 2019 presso la Casa Circondariale di Trieste verrà proiettato il film - documentario “1938 Vita Amara” realizzato dalla professoressa Sabrina Benussi assieme all’associazione culturale Fuoritesto e al Liceo Linguistico F. Petrarca di Trieste (ove insegna); si tratta di uno dei progetti di Alternanza Scuola Lavoro che il Liceo Petrarca ha svolto in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste e con il Museo della Comunità ebraica di Trieste “Carlo e Vera Wagner” in occasione degli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali annunciate da Mussolini, a Trieste, il 18 settembre 1938. Il filmato raccoglie i dati rinvenuti - dagli studenti - negli archivi pubblici e privati con l’aiuto di alcuni storici nonché le testimonianze, i documenti le fotografie di famiglia messe a disposizione dalle persone (o loro familiari) che hanno vissuto l’esperienza drammatica di quegli anni e che, in alcuni casi, ebbero inizio proprio con l’espulsione dal liceo Ginnasio frequentato fino al 1938. Il film, della durata di 35 minuti, offre uno spaccato della vita di quelle persone resa amara dal veleno razzista. Una riflessione su di un tema che appare ancora tristemente attuale e che vuole inserirsi in un percorso culturale della Memoria - per non dimenticare. Il filmato verrà anticipato da una breve lezione storica tenuta dalla professoressa Benussi *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Quei ragazzi salvati dalla ‘ndrangheta e liberi di scegliere un’altra vita di Emilia Costantini Corriere della Sera, 18 gennaio 2019 Alessandro Preziosi è protagonista della fiction “Liberi di scegliere”, in onda su Rai1 il 22 gennaio, regia di Giacomo Campiotti. La vera storia di un giudice per i minorenni. Una storia di ‘ndrangheta dove però, una volta tanto, gli eroi da emulare non sono i delinquenti. Una bella storia vera, quella di un giudice per i minorenni, che si adopera per dare ai figli di mafiosi la possibilità di un futuro migliore, la via d’uscita dalla criminalità. Liberi di scegliere è il tv movie in onda su Rai1 il 22 gennaio in prima serata, prodotto da Rai Fiction e Angelo Barbagallo, con Alessandro Preziosi protagonista, nel ruolo del giudice Lo Bianco, per la regia di Giacomo Campiotti. Il vero giudice antieroe Roberto Di Bella - “Negli ultimi vent’anni, il tribunale per minori di Reggio Calabria - sottolinea il vero magistrato Roberto Di Bella - ha processato per reati di associazione mafiosa, omicidio e molto altro, più di cento ragazzi, figli di famiglie legate a cosche malavitose. Molti di loro, poi, sono stati uccisi nel corso di faide oppure, diventati maggiorenni, sono finiti in carcere. È l’amara conferma che la cultura di ‘ndrangheta si eredita”. L’impegno del giudice, dal 2012, è quello di sottrarre i minori a certe famiglie, e a un destino ineluttabile, adottando provvedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale, per dare la possibilità ai giovani a rischio di intraprendere strade diverse, accogliendoli in associazioni come Libera. Preziosi: “I figli dei mafiosi salvati dallo Stato” - Questa è la vicenda che si racconta in tv attraverso Domenico (Carmine Buschini) che, col padre latitante e il fratello in galera, viene allontanato da casa e, suo malgrado, inserito in un contesto di legalità: un percorso complesso e non facile da accettare, il suo, dove tuttavia imparerà a capire che esiste anche uno Stato fatto di persone che non vengono per arrestarti, ma per tenderti una mano. Tra gli altri protagonisti, Nicole Grimaudo (la madre di Domenico), Federica Sabatini (la sorella Teresa), Francesco Colella (il padre Antonio). “Il grande esempio del giudice Di Bella - spiega Preziosi - è di agire all’interno di quell’adolescenza sfortunata e difficile, dove far attecchire un’idea di legittimità sociale legale. Una scelta rischiosa, coraggiosa, la sua, estranea alla retorica e vincente: la Legge infatti è tale, e cioè verità oggettiva, solo quando l’individuo la mette in pratica”. Interviene Campiotti: “Il legame tra parenti, nelle famiglie criminali, è ancora più forte nella ‘ndrangheta che nella mafia siciliana: una catena infernale e ancestrale. Ma in questa storia emerge la speranza: questi figli vengono aiutati da antieroi, spesso invisibili”. La figura della madre del ragazzo è un caso a parte: “È una donna intrappolata in una prigione senza strumenti per decidere - riflette Grimaudo - Avendo un marito latitante e un figlio dietro le sbarre, per lei non è facile sottrarsi alla realtà, e all’inizio è contro l’allontanamento di Domenico. Quando capisce che lo Stato può essere una seconda famiglia, offrendo la speranza di un avvenire diverso, accetta il cambiamento”. E mentre il direttore Rai Fiction Eleonora Andreatta sottolinea come “la fiction Rai, in questo caso, si affianchi all’informazione attraverso l’emotività di un racconto doveroso”, Buschini conclude: “Il mio personaggio ha avuto la sfortuna di nascere in una famiglia potente senza la possibilità di immaginare una vita diversa. Egli ha scarsa consapevolezza della differenza tra il bene e il male, ma arriva a un punto dove non si riconosce più, ed è il punto da dove può ripartire per un nuovo tragitto”. Dalla lotta di classe all’estremismo digitale di Mauro Magatti Corriere della Sera, 18 gennaio 2019 Stare al gioco produce i suoi vantaggi, così chi per primo ha capito e adottato la nuova logica ha vinto le elezioni. Il rischio è che la situazione si esasperi. C’era una volta la lotta di classe, gli scioperi sindacali, la propaganda di partito. Era l’epoca in cui la classe operaia, concentrata nelle grandi fabbriche, votava comunista e lottava unita per il riconoscimento dei propri diritti economici e sociali. Poi è arrivata la società dei consumi che ha disinnescato il conflitto sociale, di fatto sparito nei Paesi occidentali nonostante il continuo aumento delle disuguaglianze registrato a partire dagli anni 80. Un lento scivolamento che, soprattutto dopo il 2008, ha spinto quote crescenti di ceto medio verso un progressivo immiserimento. Con forti tratti selettivi. Adulti a bassa qualificazione espulsi dal mercato del lavoro; giovani bloccati in una condizione di marginalità; aree geografiche tagliate fuori dai circuiti della crescita. Il tutto nella frammentazione dei luoghi e dei contratti di lavoro. Oggi, per molti l’idea di essere beneficiari della crescita economica appare del tutto irrealistica. Se hai 50 anni e hai perso il lavoro; se sei un giovane che da anni colleziona solo lavoretti precari; se vivi in un borgo lontano dai grandi centri, o se sei imprigionato nel degrado delle periferie, il futuro non può che apparire plumbeo e privo di vie d’uscita. È la società del risentimento. Con caduta del muro di Berlino, la sinistra ha abbandonato ogni immaginario di un modello sociale diverso, trasformandosi nel cantore di un progressismo che affida proprio alla crescita la soluzione dei problemi. Ma così essa ha perso contatto con le condizioni reali di quei ceti che pure pensava di rappresentare, con le loro paure e le loro sofferenze. I diritti individuali, nuovo terreno elettivo della sua azione politica, sono per lo più associati alle esigenze espressive dei ceti professionali. È in questo quadro che i social si sono inseriti, offrendo a ciascuno, a costo zero, la possibilità di mettere in vetrina, senza filtri o inibizioni, esperienze, desideri, paure, affetti. Un nuovo ambiente, che ha dilatato i confini e le forme della comunicazione e in cui sono nate vere e proprie sottoculture, terreno di coltura dell’estremismo digitale. Ridurre al silenzio l’altro, gridare il proprio odio, prendersela con il nemico sono modi di fare sdoganati prima sulla rete e poi nella realtà. Dietro la superficie affiora però il cambiamento della nostra società. Col venir meno del sogno consumeristico, quella che una volta era stata la lotta di classe si è trasformata in rabbia social: malessere ridotto a urlo contro il mondo, esternazione sistematica e spesso verbalmente violenta di uno stato d’animo negativo che, non riuscendo ad articolarsi in discorso, finisce in insulto. Non c’è più spazio per la critica, intesa come capacità di analisi della realtà e messa in forma di pratiche alternative. È dunque la rabbia social che definisce la questione sociale oggi: milioni di individui disillusi, sganciati da reti e apparenze sociali stabili e significative, protagonisti e vittime di una comunicazione malevola e violenta. I nuovi soggetti politici affermatisi negli ultimi anni sono quelli che hanno saputo sfruttare a proprio vantaggio questo nuovo ambiente comunicativo. Da Trump a Bolsonaro fino a Salvini. La loro capacità è stata quella di aver intuito il cambiamento di fase storica e di aver imparato a giocare con le nuove regole: l’egemonia non si ottiene più cercando di convincere della bontà di una rappresentazione più o meno coerente. La comunicazione diventa un filo diretto tra il leader e il suo popolo e il consenso è ottenuto attorno alla paura che fa da collante a un malcontento informe. Oggi si parla di “sharp power techniques” che non cercano tanto di “conquistare i cuori e sedurre le menti dell’avversario”, quanto di manipolare e controllare un pubblico in un contesto ostile, attraverso la distorsione volontaria delle informazioni. Siamo così entrati nell’epoca della post-propaganda: più che attraverso lunghi proclami, l’aggregazione avviene attorno a narrazioni contro-fattuali, “verità alternative” e storytelling malevoli. A contare non è l’autorevolezza del mezzo o delle fonti, ma la capacità di orientare lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Anche a prescindere dai dati di realtà. Un piccolo blog, una testata online, la creazione di fake news possono avere effetti assai significativi. Per questo la questione dei migranti diventa così importante: trasformando l’incertezza che pervade molte vite nella questione dell’insicurezza prodotta dagli stranieri, una paura senza nome riesce a essere canalizzata, identificando un nemico con cui prendersela. La logica del capro espiatorio è centrale nell’era della post-propaganda. Stare al gioco produce i suoi vantaggi. Così chi ha per primo capito e adottato questa nuova logica sociale ha vinto le ultime elezioni. Ma la grande incertezza riguarda le soluzioni che si propongono. La loro plausibilità e sostenibilità. Il rischio è che, di fronte all’aggravarsi delle questioni, la rabbia social si esasperi e spinga le vele delle politiche che si stanno cominciando a impiantare ben al di là delle intenzioni iniziali. È questa la montagna che va scalata: piccoli aggiustamenti non basteranno. Occorrono idee, simboli, speranza e persone nuove. Migranti. Papa Francesco: “le migrazioni arricchiscono le società” di Gianni Cardinale Avvenire, 18 gennaio 2019 La questione dei migranti e della tratta degli esseri umani è al centro delle preoccupazioni pastorali e degli orientamenti magisteriali di papa Francesco. Ne sono ulteriore prova due nuovi documenti della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, un ufficio posto alle dirette dipendenze del Pontefice e diretto da due sotto-segretari: il gesuita slovacco-canadese Michael Czerny e lo scalabriniano italiano Fabio Baggio. I due testi diffusi oggi sono gli “Orientamenti pastorali sulla Tratta di persone” e “Luci sulle Strade della Speranza - Insegnamenti di Papa Francesco su migranti, rifugiati e tratta”. Il primo, frutto di un processo di consultazione con le Conferenze Episcopali, le organizzazioni cattoliche e le congregazioni religiose, presenta una serie di orientamenti pastorali allo scopo di comprendere, riconoscere, prevenire e debellare la piaga della tratta di persone, proteggere le vittime e promuovere la riabilitazione dei sopravvissuti. Il documento, di 38 pagine, illustra “realtà e risposte” sulla piaga della tratta, indicandone le cause, sollecitandone il riconoscimento, illustrandone le dinamiche e le possibili modalità per sconfiggere il fenomeno (rafforzare la cooperazione, sostegno ai sopravvissuti, promuovere la reintegrazione). Il documento è disponibile in formato digitale su: https://migrants-refugees.va/it/tratta-di-esseri-umani-e-schiavitu/ in varie lingue e formati. Il secondo volume, prefato dallo stesso Pontefice, è una corposa raccolta (489 pagine) degli insegnamenti magistrali di Papa Francesco su migranti, rifugiati e tratta dall’inizio del Suo Pontificato alla fine del 2017. Ad esso è abbinata una versione elettronica con programma di ricerca, disponibile sul sito della Sezione, che viene aggiornata regolarmente a cadenza semestrale incorporando i nuovi insegnamenti pontifici. “Spostarsi e stabilirsi altrove con la speranza di trovare una vita migliore per se stessi e le loro famiglie: è questo il desiderio profondo che ha mosso milioni di migranti nel corso dei secoli”, osserva il Pontefice nella sua prefazione. Spiegando come “gli esodi drammatici dei rifugiati” siano “un’esperienza che Gesù Cristo stesso provò, assieme ai suoi genitori, all’inizio della propria vita terrena, quando dovettero fuggire in Egitto per salvarsi dalla furia omicida di Erode”. “Il viaggio dei migranti non è sempre un’esperienza felice” rimarca Papa Francesco. Basti pensare “ai terribili viaggi delle vittime della tratta”. Anche in questo caso, però, “non mancano le possibilità di riscatto, come accadde per il piccolo Giuseppe, figlio di Giacobbe, venduto come schiavo dai fratelli gelosi, il quale in Egitto divenne un fiduciario del faraone”. “Nella Sua infinita misericordia, Dio elargisce liberamente la Sua grazia in ogni circostanza”, scrive Papa Francesco. “Ce lo confermano - aggiunge - gli esempi ispiratori dei nostri antenati nella fede i quali hanno dovuto fuggire dalle persecuzioni o, seguendo la voce del Signore, hanno viaggiato in terre lontane come missionari”. “Anche oggi - osserva il Pontefice - i movimenti umani, pur generando sfide e sofferenze, stanno arricchendo le nostre comunità, le Chiese locali e le società di ogni continente”. “Come la storia umana, - prosegue - la storia della salvezza è stata segnata da itineranze di diverso genere - migrazioni, esili, fughe, esodi - tutte comunque motivate dalla speranza di un futuro migliore altrove. E anche quando l’itineranza è stata introdotta con intenzioni criminali, come nel caso della tratta, non bisogna lasciarsi rubare la speranza di librazione e riscatto”. “Mi auguro - conclude la prefazione - che questa raccolta di insegnamenti e riflessioni possa illuminare i nostri passi sulle strade della speranza, fornendo spunti d’ispirazione per la preghiera, la predicazione e l’azione pastorale”. I padri Czerny e Baggio da parte loro, nella prefazione al volume sugli “Orientamenti pastorali sulla tratta delle persone”, sottolineano come Papa Francesco “non ha mai nascosto la sua grande preoccupazione” verso tale fenomeno, “che miete milioni di vittime - uomini, donne e bambini -, le quali possono essere annoverate tra le persone più deumanizzate e scartate ovunque nel mondo di oggi”. I due religiosi ricordano che il Pontefice chiamano la tratta “un ‘flagello atroce’, una ‘piaga aberrante’ e una ferita ‘nel corpo dell’umanità contemporanea”. E scopo degli Orientamenti è proprio quello “di fornire una chiave di lettura della tratta e una comprensione che diano ragione e sostegno a una lotta necessaria e duratura” per sradicarla. Migranti. A Latina il mondo di sopra del caporalato di Marco Omizzolo Il Manifesto, 18 gennaio 2019 Una gerarchia chiara e consolidata, dall’ultimo anello della catena - i braccianti migranti sfruttati - fino ai colletti bianchi dell’Ispettorato del lavoro e del sindacato. Pezzi deviati dello Stato, che agiscono per i loro interessi a discapito dei diritti e la dignità di centinaia di braccianti. A Latina e dintorni, come ha confermato l’operazione dello Sco della Polizia condotta dalla Questura di Latina e della Procura della Repubblica, la macchina era ben oliata e funzionava perfettamente: almeno 500 persone reclutate e portate a lavorare nei campi con l’ausilio di autisti e capisquadra romeni. Una finta cooperativa agricola, Agriamici, faceva da agenzia di somministrazione di lavoro, ovviamente senza essere iscritta nell’apposito albo, e riforniva le aziende agricole locali di braccia per la raccolta. A fornire i mezzi di trasporto era un’altra società, la Ellebi. Insomma, ad essere stato scoperto, finalmente, è il mondo di sopra del caporalato, ossia quell’insieme di professionisti e funzionari pubblici che da decenni consentono a padroni, padroni, caporali e sfruttatori vari della provincia di Latina di agire nella piena illegalità, fino a ridurre in schiavitù i lavoratori e tra questi, soprattutto migranti rumeni e richiedenti asilo subsahariani. Un dipendente dell’Ispettorato nazionale del lavoro e il segretario della Fai Cisl della provincia di Latina fornivano le coperture necessarie e inoltre fornivano le necessarie informazioni agli sfruttatori per evitare controlli di ogni genere. Per la precisione, recita l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Latina, Gaetano Negro, su richiesta del Procuratore Carlo Lasperanza e del sostituto Luigia Spinelli, “consentivano la sopravvivenza della organizzazione ai controlli ispettivi e alle denunce-querele nel tempo inoltrate, tramite vantaggi patrimoniali quali l’adesione forzata della manodopera al sindacato e/o il lucro derivante dalla organizzazione di corsi sulla sicurezza sul lavoro per opera della pseudo-cooperativa indicata”. Insomma, colletti bianchi del caporalato che agivano per interesse proprio e dei padroni. I nomi e i cognomi dei sei arrestati di ieri e dei 50 indagati - imprenditori agricoli, commercialisti, altri sindacalisti a piede libero raccontano di un pezzo di territorio dedito allo sfruttamento, alla produzione di buste paga finte, alla riduzione al minimo di ogni costo per massimizzare i profitti. A conferma delle denunce che per anni hanno fatto realtà come In Migrazione, Flai Cgil e la stessa comunità degli indiani del Lazio e soprattutto i sikh, che proprio a Latina organizzarono uno dei maggiori scioperi degli ultimi decenni, con oltre quattromila braccianti indiani che il 18 aprile del 2016 manifestarono nel capoluogo pontino reclamando diritti, giustizia e il rispetto del loro contratto di lavoro. Alcuni dei braccianti erano richiedenti asilo che uscivano ogni mattina dai centri di accoglienza e soprattutto da alcuni Cas locali, nei quali attendevano il riconoscimento della protezione internazionale. Anche in questo caso la peggior prima accoglienza che si associa criminalmente al caporalato e allo sfruttamento lavorativo. Stipati in venti in un pullmino, pagati un terzo rispetto alle ore di lavoro effettive, almeno 12 al giorno, sottoposti a una vera e propria estorsione con l’obbligo di iscriversi al sindacato Cisl per garantire a questo i ritorni economici necessari in termini di domande di disoccupazione che lo Stato avrebbe garantito. Migranti. L’adolescente morto in mare con la pagella cucita in tasca di Elena Tebano Corriere della Sera, 18 gennaio 2019 L’ha trovata l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, che partecipa a un progetto pilota per identificare profughi e migranti morti nel Mediterraneo. Era nascosta dove si tengono le cose più care, ripiegata con cura e cucita nella giacca: una pagella, con i voti delle materie scritte in arabo e francese. Quella scheda, conservata con amore e orgoglio, forse anche nella speranza che dimostrasse le sue buone intenzioni, è tutto ciò che sappiamo del suo proprietario, un ragazzo di quattordici anni morto nel Mediterraneo senza che nessuno lo potesse piangere. L’ha trovata Cristina Cattaneo, medico legale del Labanof (il “Laboratorio di antropologia e odontologia forense”) di Milano, come ha raccontato in “Naufraghi senza volto”, il suo ultimo libro uscito da poco per Cortina Editore. Grazie al suo lavoro e grazie al disegno delicato e poetico che gli ha dedicato il vignettista Makkox sul Foglio, adesso quel ragazzo senza nome è diventato una presenza reale e dolorosa per coloro che a migliaia nei giorni scorsi l’hanno condiviso sui social. La pagella - L’anatomopatologa ha sentito la pagella tastando i suoi vestiti, come ha imparato a fare quando a fine 2013 ha iniziato a esaminare le vittime dei naufragi nel Mediterraneo, profughi e migranti morti in mare nel tentativo di trovare in Europa una vita migliore di quella che avevano dovuto lasciare a casa. Per evitare di perderle, che qualcuno le rubi o che i trafficanti se ne impossessino, queste persone in fuga si cuciono le cose più preziose negli abiti. Negli anni Cattaneo ci ha trovato denaro, documenti personali, sacchetti con la loro terra natale, tessere della biblioteca e dei donatori di sangue. E infine quella pagella, il sogno fatto oggetto di poter andare a scuola, che dal Mali ha viaggiato per quattromila chilometri fino alla Libia, è salita su un barcone troppo affollato e ha riposato per quasi un anno in fondo al mare, insieme al corpo del ragazzo sconosciuto che tanto si era impegnato per avere dei bei voti. Era sul barcone naufragato il 18 aprile 2015, dove sono morte circa (si stima, perché molte sono disperse) mille persone: 528 sono state individuate proprio grazie al lavoro della professoressa Cattaneo e dei suoi collaboratori. L’analisi - Il sacco in cui si trovavano i resti del ragazzo, due anni fa, aveva attirato subito la loro attenzione: “Si sentiva che pesava meno degli altri” spiega Cattaneo nel libro. “Era vestito con una giacca simile a un piumino, un gilè, una camicia e dei jeans”. Dall’analisi delle ossa, il polso non ancora “fuso”, la cresta iliaca non ancora del tutto formata, era chiaro che fosse la vittima più giovane: “Capii subito che stavamo guardando il corpo di un adolescente - racconta l’anatomopatologa -. Le ossa si formano dall’unione di diverse parti più piccole che durante la crescita si fondono. Le loro dimensioni e il loro livello di fusione scandiscono le diverse età”. In quel caso, spiega, “scendevamo a quattordici anni”. Un piccolo plico di carta - Quando i medici hanno iniziato a svestirlo, hanno trovato “qualcosa di duro e quadrato - scrive Cattaneo -. Tagliammo dall’interno per recuperare, senza danneggiarla, qualunque cosa fosse. Mi ritrovai in mano un piccolo plico di carta composto da diversi strati. Cercai di dispiegarli senza romperli e poi lessi: Bulletin scolaire e, in colonna, le parole un po’ sbiadite mathématiques, sciences physiques… Era una pagella. “Una pagella”, qualcuno di noi ripeté a voce alta”. Quello che ne restava. Dal Mali - “Pensammo tutti la stessa cosa - ricorda, ne sono sicura: con quali aspettative questo giovane adolescente del Mali aveva con tanta cura nascosto un documento così prezioso per il suo futuro, che mostrava i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, e che pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea, ormai ridotto a poche pagine scolorite intrise di acqua marcia?”. Forse è la cosa più amara: è un mondo senza pietà quello in cui un quattordicenne sa di dover dimostrare che è “bravo” per poter essere accolto e aiutato. Neppure questo è bastato per il ragazzo del Mali. Diritti umani violati: il mondo secondo Human Rights Watch di Felicia Buonomo osservatoriodiritti.it, 18 gennaio 2019 Il Brasile di Bolsonaro e il Venezuela di Maduro. I rohingya in Birmania e il conflitto israelo-palestinese. Passando per la guerra in Siria, l’Ungheria di Orban e la tragedia dello Yemen. Fino ad arrivare in Italia. Ecco il report annuale sui diritti umani violati nel mondo di Human Rights Watch. Che dà anche una speranza, che viene da chi ancora resiste. Oltre 100 paesi passati al setaccio, per capire dove e come sono stati violati i diritti umani nel mondo. È dettagliato il 29esimo World Report di Human Rights Watch, che - sono le parole del direttore esecutivo Kenneth Roth - quest’anno presenta una novità di sostanza: “La novità non è la continuazione di tendenze autoritarie, ma la crescente opposizione alle stesse. Questo respingimento potrebbe essere visto negli sforzi per resistere agli attacchi alla democrazia in Europa, prevenire un bagno di sangue in Siria, assicurare alla giustizia gli autori della pulizia etnica contro i musulmani rohingya in Birmania, fermare i bombardamenti guidati dai sauditi contro i civili yemeniti, difendere il divieto di armi chimiche”. Resta tuttavia intatta una pesante mappatura di violazioni, che riguarda numerosi paesi e altrettanti diritti umani. Ecco alcuni degli esempi più significativi scelti da Osservatorio Diritti, che ha potuto vedere il report in anteprima. Brasile: record di omicidi e diritti umani in pericolo - Circa 64 mila uccisioni: è questo il triste record delle violenze raggiunte nel 2017 nel Brasile oggi guidato da Jair Bolsonaro, eletto presidente alle elezioni di ottobre 2018 nonostante abbia appoggiato la tortura e altre pratiche violente e fatto dichiarazioni razziste, omofobiche, misogine e contro i popoli indigeni. Il report di Human Rights Watch dedica un ampio capitolo al paese sudamericano. La ricerca mostra, per esempio, che alcuni omicidi compiuti dalla polizia sono esecuzioni extragiudiziali. Una legge del 2017 ha spostato i processi contro membri delle forze armate accusati di uccisioni illegali di civili dai tribunali civili a quelli militari. Non brilla nemmeno il capitolo dedicato alle condizioni carcerarie: secondo i dati del ministero della Giustizia, a giugno 2016 oltre 726.000 adulti erano dietro le sbarre in strutture costruite per contenerne la metà. Meno del 15% dei detenuti ha accesso a opportunità educative o lavorative e i servizi sanitari sono spesso carenti. Senza dimenticare i diritti dei bambini. Le strutture di detenzione minorile del Brasile ospitavano 24.345 bambini e giovani adulti a gennaio 2018. In uno studio del 2018 su bambini e giovani adulti detenuti nello stato di San Paolo, Brasile, da un istituto no-profit, il 25% ha dichiarato che il personale di detenzione minorile li aveva picchiati. Preoccupa anche la libertà di espressione, se si considera che più di 140 giornalisti che hanno partecipato alle elezioni sono stati molestati, minacciati e in alcuni casi attaccati fisicamente. Volgendo lo sguardo ai diritti delle donne, invece, il report rivela che alla fine del 2017 erano in sospeso oltre 1,2 milioni di casi di violenza domestica sulle donne sui tavoli dei tribunali. I dati ufficiali mostrano che 23 rifugi che ospitavano donne e bambini in disperato bisogno hanno chiuso nel 2017 a causa ai tagli del budget. Restano solo 74 rifugi, in un paese di oltre 200 milioni persone. Il report si occupa anche di migranti. Migliaia di venezuelani hanno attraversato il confine con il Brasile in fuga dalla fame, mancanza di assistenza sanitaria di base e persecuzione. I dati dell’Unhcr mostrano che, da gennaio 2014 ad aprile 2018, 25.311 venezuelani hanno richiesto un permesso di residenza in Brasile. Da gennaio 2014 a luglio 2018, 57.575 hanno richiesto asilo. A ottobre, il governo federale e l’Unhcr avevano aperto 13 rifugi che ospitavano più di 5.500 venezuelani. La maggior parte dei bambini nei rifugiati non va a scuola e a molti venezuelani mancano ancora documenti legali. A marzo una folla ha espulso i venezuelani da un rifugio improvvisato in Roraima, uno Stato brasiliano che confina con il Venezuela, e bruciato i loro beni. Siria: diritti umani violati e i ruoli di Russia, Iran, Turchia - “Nel 2018 il governo siriano, sostenuto da Russia e Iran, ha riconquistato le aree nella Ghouta orientale nella campagna di Damasco e nel governatorato di Daraa. Le forze di governo hanno usato una combinazione di tattiche illegali, incluse le armi proibite, restrizioni agli aiuti umanitari, per forzare l’anti-governo ad arrendersi”, scrive Human Rights Watch. Durante la campagna per riprendere il Ghouta orientale, tra febbraio e marzo sono stati uccisi circa 1.600 civili. L’alleanza militare russa ha colpito almeno 25 strutture mediche, 11 scuole e innumerevoli residenze civili. Allo stesso modo, a giugno, l’alleanza ha portato un’offensiva nei governatorati di Daraa e Quneitra, a sud-ovest della Siria, provocando massicci spostamenti verso la Giordania e le alture del Golan occupate da Israele. Le parti in conflitto hanno continuato a usare armi illegali. Tra il 2013 e il 2018, Human Rights Watch e altre organizzazioni indipendenti hanno confermato almeno 85 sostanze chimiche usate per gli attacchi. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, un gruppo di monitoraggio con sede nel Regno Unito, ha stimato che il bilancio delle vittime dall’inizio della guerra è pari a 511.000 persone, a marzo 2018. La Russia e la Siria hanno chiesto il ritorno dei rifugiati e la Siria ha approvato leggi per facilitare la ricostruzione. Nonostante questo, le forze di governo hanno continuato a violare i diritti umani e il diritto umanitario internazionale. Tra febbraio e aprile, sono stati uccisi e mutilati centinaia di civili in attacchi indiscriminati a Damasco. Anni di combattimenti incessanti hanno costretto 6,6 milioni di persone alla condizione di sfollati interni e 5,6 milioni in tutto il mondo, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Da gennaio ad aprile 2018, più di 920.000 persone sono state sfollate all’interno della Siria, secondo l’Onu. Paesi limitrofi - inclusi Turchia, Giordania e Libano - hanno impedito ai siriani di chiedere asilo ai loro confini. Entro settembre 2018, 5,6 milioni di siriani si sono rifugiati fuori dal paese, la maggioranza nei paesi confinanti. Più di un milione di rifugiati siriani sono registrati presso l’Unhcr in Libano. Birmania: la minoranza musulmana rohingya - Le forze di sicurezza della Birmania hanno continuato a commettere gravi abusi contro la minoranza musulmana dei rohingya nel 2018, aggravando la catastrofe umanitaria e dei diritti umani nello stato di Rakhine. Ad agosto, una missione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha rilevato che gli abusi militari commessi negli stati di Kachin, Rakhine e Shan dal 2011 “sono indubbiamente gravi crimini di diritto internazionale” e ha chiesto agli alti ufficiali militari di avviare indagini e azioni giudiziarie per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Più di 14.500 rohingya sono fuggiti in Bangladesh tra gennaio e novembre 2018 per sfuggire alla persecuzione e alla violenza in corso in Birmania. Le condizioni restano disastrose per i circa 500.000-600.000 rohingya nello Stato di Rakhine. I rifugiati arrivati in Bangladesh hanno anche riferito di violenza sessuale e rapimenti di donne e ragazze. Più di 128.000 musulmani - circa 125.000 rohingya e 3.000 Kaman - rimangono nei campi di detenzione nello stato centrale di Rakhine, dove sono stati confinati dal 2012, arbitrariamente privati della loro libertà. Nel 2018 si sono intensificati i conflitti armati tra i militari armati della Birmania e i gruppi armati etnici negli stati di Kachin, Shan e Karen, alimentati da controversie sulle risorse naturali. Dai rapporti è emerso che i militari hanno usato i civili come scudi umani. Si stima che 106.000 civili rimangano nei campi di sfollamento a lungo termine di Kachin e Shan. Onu: in Yemen la più grande crisi umanitaria al mondo - L’Onu considera lo Yemen, a causa del suo conflitto armato, la più grande crisi umanitaria del mondo, con 14 milioni di persone a rischio di fame e ripetuti focolai di malattie mortali come il colera. A novembre del 2018, 6.872 civili erano stati uccisi e 10.768 feriti, la maggioranza da attacchi aerei della coalizione guidati dall’Arabia Saudita, secondo l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Nel settembre 2014, le forze fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh presero il controllo della capitale dello Yemen, Sanaa, e di gran parte del paese. Nel 2015, la coalizione guidata dai sauditi ha attaccato le forze di Houthi-Saleh a sostegno del presidente yemenita Abdu Rabbu Mansour Hadi, con il sostegno degli Stati Uniti. In tutto il paese, i civili soffrono di una mancanza di servizi di base, una pesante crisi economica, salute, educazione e sistemi giudiziari carenti. Le forze di Houthi hanno preso ostaggi. Le forze di Aden hanno picchiato, stuprato e torturato detenuti migranti. Dal 2015, Human Rights Watch ha documentato circa 90 attacchi aerei della coalizione, che hanno colpito case, mercati, ospedali, scuole e moschee. Human Rights Watch ha identificato i resti di munizioni di origine statunitense sul sito di più di due dozzine di attacchi. Le mine antiuomo hanno ucciso e mutilato i civili. La coalizione guidata dai sauditi ha utilizzato almeno sei tipi di munizioni a grappolo vietate prodotte in Brasile, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Le parti in conflitto hanno esacerbato ciò che l’Onu ha definito la più grande catastrofe umanitaria nel mondo, anche impedendo illegalmente la consegna di aiuti umanitari. E nel conflitto non sono stati esclusi i bambini. Forze Houthi, governo e forze filo governative e altri gruppi armati hanno usato bambini soldato. La repressione governativa in Venezuela - A maggio, il presidente Nicolás Maduro ha vinto le elezioni presidenziali contro un’opposizione gravemente indebolita da anni di repressione governativa. Ad oggi, dunque, nessuna istituzione governativa indipendente rimane in Venezuela per controllare l’esecutivo. “Il governo ha represso il dissenso attraverso violente azioni repressive contro le proteste di piazza, gli oppositori sono stati incarcerati e i civili perseguiti davanti ai tribunali militari. Grave penuria di medicinali, forniture mediche e cibo lasciano molti venezuelani incapaci di nutrire adeguatamente le loro famiglie o di accedere all’assistenza sanitaria essenziale. L’esodo massivo di venezuelani in fuga dalla repressione rappresenta la più grande crisi migratoria di questo tipo nella recente storia latinoamericana”. L’Alto commissario Onu per i rifugiati ha riferito che, a novembre, più di 3 milioni di circa 32 milioni di venezuelani erano fuggiti dal paese dal 2014. Poi ci sono gli oppositori politici. Il governo venezuelano ha incarcerato gli avversari politici. Si parla di più di 230 prigionieri politici, secondo il Forum Penale, una rete venezuelana di avvocati della difesa criminale pro-bono. Più di 12.500 persone sono state arrestate dal 2014 in seguito alle proteste, secondo il Forum Penale. Questi includono non solo i dimostranti, ma spettatori e persone tolte dalle loro case senza mandato. Nel 2017, i tribunali militari hanno perseguito oltre 750 civili, in violazione della legge internazionale sui diritti umani. “Le forze di sicurezza hanno commesso gravi abusi contro i detenuti definite come torture, comprese gravi percosse, scosse elettriche, asfissia e abusi sessuali”. I venezuelani stanno affrontando gravi violazioni dei diritti sociali, carenze di medicine, forniture mediche e cibo. Nel 2017, il ministro della Sanità venezuelano ha rilasciato dati ufficiali per il 2016, indicando che, durante quell’anno, la mortalità materna era aumentata del 65%, la mortalità infantile del 30 e i casi di malaria del 76 per cento. Da allora il governo non ha più pubblicato bollettini epidemiologici. L’Europa si ribella all’Ungheria di Orban - Un punto culminante per l’Ue è arrivato a settembre, quando il Parlamento europeo ha risposto al dominio sempre più autoritario di Viktor Mihàly Orbán, primo ministro dell’Ungheria, votando l’avvio di un processo che potrebbe concludersi con sanzioni politiche ai sensi dell’articolo 7 del trattato Ue. “Con le discussioni su come legare il prossimo bilancio quinquennale dell’Ue, previsto entro la fine del 2020, al rispetto degli standard democratici, la mossa del Parlamento indica che l’Ungheria, uno dei maggiori destinatari di fondi Ue, non può più dipendere dalla generosità dell’Europa se continua a minare le fondamentali libertà democratiche dell’Ue”. Human Rights Watch spiega come, in vista delle elezioni di aprile, il governo abbia lanciato una campagna diffamatoria in tv, radio, e cartelloni pubblicitari su scala nazionale indirizzati alle organizzazioni della società civile che lavorano in materia di asilo e migrazione. Il parlamento ha approvato anche emendamenti alla costituzione proposti dal governo, con la criminalizzazione dei servizi, consulenza e sostegno ai migranti e richiedenti asilo, punibili con la reclusione fino a un anno. Il paese ha visto un significativo calo delle domande di asilo nel 2018, in gran parte perché è diventato quasi impossibile per i richiedenti asilo entrare nel paese e cercare protezione. La questione israelo-palestinese - Su Israele e Palestina, il report sottolinea come il governo israeliano abbia continuato ad applicare restrizioni severe e discriminatorie sui diritti umani dei palestinesi, limitare il movimento di persone e merci dentro e fuori dalla Striscia di Gaza, facilitare il trasferimento illegale di cittadini israeliani agli insediamenti nella Cisgiordania occupata. Il report rileva come tra il 30 marzo e il 19 novembre le forze di sicurezza abbiano ucciso 189 manifestanti palestinesi, tra cui 31 bambini. L’esercito israeliano ha anche lanciato attacchi intermittenti nella Striscia di Gaza, uccidendo 37 palestinesi, tra cui almeno cinque civili. Gruppi armati palestinesi hanno sparato indiscriminatamente 1.138 razzi e mortai verso Israele da Gaza fino al 13 novembre. La Commissione indipendente per i diritti umani in Palestina ha ricevuto 180 denunce di arresto arbitrario da parte di Israele, 173 denunce di tortura e maltrattamenti e 209 reclami di detenzione amministrativa su ordine di un governatore regionale dalle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese al 31 ottobre. “Israele - prosegue il report - ha continuato a mantenere la sua chiusura decennale di Gaza, esacerbato dalle restrizioni egiziane sul proprio confine con Gaza, limitando l’accesso all’acqua e all’elettricità”. Imponenti le conseguenze socio-economiche: il tasso di disoccupazione di Gaza era pari al 55% durante il terzo trimestre del 2018 e l’80% degli abitanti di Gaza dipende dall’aiuto umanitario. Diritti umani violati in Italia - “A marzo, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani deplorava il razzismo e la xenofobia che hanno caratterizzato la campagna elettorale”. Esordisce così il capitolo dedicato all’Italia, parlando del governo di coalizione tra la Lega e il Movimento 5 stelle, per passare poi in rassegna alcuni dei punti ostici riguardo il rispetto dei diritti umani in Italia. La maggior attenzione cade sul tema degli stranieri in Italia, dei migranti. “A metà novembre - si legge nel report - solo 22.435 migranti e richiedenti asilo avevano raggiunto l’Italia via mare secondo l’Unhcr, in gran parte a causa delle misure di prevenzione degli arrivi già messe in atto dal governo uscente. Al contrario, durante tutto il 2017, arrivarono 119.369 persone. Quasi subito dopo aver preso il potere, il nuovo governo ha intensificato questo approccio e ha iniziato a bloccare lo sbarco delle persone salvate nei porti italiani”. Nel report si ricorda come a giugno, l’Italia abbia iniziato sistematicamente a consegnare il coordinamento dei salvataggi nel Mediterraneo alla guardia costiera libica, nonostante le preoccupazioni sulla loro capacità e il destino degli individui che sarebbero tornati in Libia. Il report non dimentica di citare le accuse verso il sindaco di Riace “in quello che è stato ampiamente considerato invece - si legge nel report - un progetto di integrazione modello per richiedenti asilo e rifugiati”. Stati Uniti. La chiusura del governo colpisce anche le carceri di Kimberly Kindy* Internazionale, 18 gennaio 2019 Lo shutdown, il blocco delle attività del governo statunitense, sta costringendo le guardie carcerarie a lavorare senza paga e a fare turni più lunghi. Facendo aumentare i rischi nelle prigioni. Il 4 gennaio la guardia carceraria Brian Shoemaker stava facendo un giro di controllo nei corridoi del carcere di Lee, in Virginia, quando un detenuto ha cercato di superarlo ed entrare in un’area vietata. Shoemaker gli ha ordinato di tornare indietro, ma l’uomo gli si è scagliato addosso. La guardia non ha riportato ferite gravi, ma si è resa conto che a causa dello shutdown, il blocco parziale dell’attività del governo federale, sta facendo uno dei lavori più pericolosi degli Stati Uniti senza essere pagata. Shoemaker è una delle 36mila guardie carcerarie considerate “dipendenti essenziali” dal governo degli Stati Uniti. Questo significa che deve presentarsi al lavoro durante il blocco anche se non sarà pagato fino a quando non finirà. In teoria dipendenti come lui sono tenuti a lavorare, ma nelle 20 Internazionale 1290 I 18 gennaio 2019 dieci prigioni contattate dal Washington Post il numero di guardie che non si presenta al lavoro è raddoppiato dall’inizio dello shutdown. Di conseguenza, quelli che decidono di lavorare sono costretti a fare turni molto più lunghi. Inoltre capita che a segretari, custodi e insegnanti venga richiesto di sostituire le guardie assenti. Ci sono diversi motivi per cui gli agenti di custodia sono una categoria unica tra i dipendenti federali: sono nella posizione insolita di rischiare infortuni e perfino la vita ogni volta che si presentano al lavoro, ma sono anche tra i meno pagati tra gli agenti di polizia federali. Molti lavorano in aree isolate dove non ci sono strade di grande percorrenza e per raggiungerle sono costretti a passare ore in auto ogni giorno. Per capire quanto la situazione sia difficile basta guardare a quello che succede nel penitenziario di Hazelton, in West Virginia. I rappresentanti sindacali riferiscono che nelle ultime settimane è aumentato in modo preoccupante il numero delle aggressioni contro gli agenti, mentre il numero di guardie e altri dipendenti che si mettono in malattia è quadruplicato. Una o due volte alla settimana gli agenti sono costretti fare turni di sedici ore. Inoltre quasi ogni settimana viene chiesto a dipendenti che non sono agenti di polizia di sostituire le guardie assenti (in tempi normali succede una volta al mese). Un aspetto particolarmente umiliante per le guardie carcerarie è che i detenuti sono consapevoli che gli agenti non ricevono lo stipendio. Percependo le loro difficoltà, li provocano e a volte cercano di corromperli, come riferiscono alcuni leader sindacali e i dipendenti delle carceri. È successo a Ryan Enos, agente di un penitenziario di Lompoc, in California. Enos lavora in un luogo soprannominato “il buco”, in cui i detenuti restano rinchiusi nelle loro celle per 23 ore al giorno. La prima provocazione, racconta, è arrivata mentre stava riaccompagnando un detenuto nella cella dopo l’ora d’aria. “Mi ha detto: ‘Ancora non ti pagano? Dovresti lavorare per i cartelli. Loro non chiudono mai’“. Nel frattempo nei penitenziari aumenta la rabbia contro il presidente Donald Trump e i parlamentari, che a differenza delle guardie continuano a percepire lo stipendio durante lo shutdown. “Che senso ha bloccare il governo in nome della sicurezza dei confini, compromettendo nel frattempo la sicurezza interna?”, chiede Eric Young, presidente del sindacato degli agenti di custodia. “Siamo i volti che stanno dietro il blocco. Se accadrà qualcosa a uno dei nostri agenti a causa di questo scontro le mani dei politici saranno sporche di sangue. Basta giocare con le nostre vite”. *The Washington Post Libano. Pioggia e neve sulle baracche dei rifugiati dimenticati di Sonia Grieco Il Manifesto, 18 gennaio 2019 Dopo otto anni, sono ancora un milione i siriani in Libano. Ma il paese che ha accolto più di tutti, ora non li vuole più. Devastate le tende sorte vicino a campi e fabbriche: è qui che si sfrutta la disperazione. Nell’arco di due settimane, le tempeste Norma e Miriam hanno spazzato il Libano lasciandosi alle spalle cinque morti e oltre dieci feriti. Piogge torrenziali, raffiche di vento e forti nevicate si sono abbattuti sui campi dove vivono i rifugiati siriani, aggravandone le già precarie condizioni di vita. Molti insediamenti sono stati inondati dall’acqua, le tende divelte dal vento, decine di famiglie sfollate, di nuovo, in centri di accoglienza provvisori. Sono quasi tutte siriane le vittime del maltempo: mercoledì la Protezione Civile ha recuperato i corpi di due fratelli, una bambina di otto anni e un ragazzo di 21, annegati nel canale Akbiye, a sud. Stessa sorte per una bambina di otto anni, caduta in un corso d’acqua a Minyeh, a nord. Un bambino di dieci anni è morto martedì, a Naameh: un masso è caduto sulla casa dove abitava con la famiglia. Un’abitazione con il tetto in metallo, vicina alla fabbrica dove lavora parte della famiglia, così come gli insediamenti di tende sono situati tra i terreni agricoli dove i siriani lavorano come braccianti, spesso per pagare l’affitto del terreno dove hanno sistemato le proprie tende. Sono campi informali: Beirut, che non ha mai firmato la Convenzione internazionale sui Rifugiati e ritiene i profughi siriani degli sfollati, non ha voluto campi rifugiati formali nel paese, nel timore che una presenza considerata temporanea si trasformi in permanente. Questa situazione di vulnerabilità ha reso i siriani manodopera a basso costo nell’agricoltura come in altri settori - fabbriche, edilizia, pulizie - mettendoli in competizione con i libanesi più poveri. Lo sfruttamento sul lavoro coinvolge anche tanti minorenni siriani (70-80%), costretti a lasciare gli studi per aiutare le famiglie impoveritesi dopo anni di permanenza in Libano. È la cosiddetta Lost generation (oltre la metà dei 630mila siriani in età scolare non riceve un’istruzione) che include anche tante ragazze (una su tre) che si sposano quasi bambine per sollevare da un peso famiglie numerose e povere. L’ultima tempesta, Miriam, ha preso forza mercoledì mettendo a dura prova i rifugiati che vivono nei campi o in strutture non residenziali: circa il 34% dei siriani presenti in Libano sono qui dall’inizio della guerra in Siria, otto anni fa. Sono 951.629 quelli registrati dall’Unhcr, ma si stima che siano oltre un milione (con una popolazione di 4 milioni, il Libano è il paese che accoglie di più in assoluto), anche se c’è stata una significativa diminuzione negli ultimi tre anni. Secondo Reuters, sono circa 50mila i rifugiati tornati in Siria dal Libano, ma resta aperta la questione di quanto questi rientri, sollecitati lo scorso luglio da Damasco e ben visti da una parte della politica libanese, siano volontari e sicuri. Secondo l’Unhcr, il maltempo ha colpito 70mila rifugiati, di cui quasi 40mila minorenni, in circa 850 campi. La macchina dei soccorsi si è messa in moto, ma per Ahmad, 40 anni, di Hasake, città al confine con l’Iraq, non è cambiato nulla da quando è arrivato in Libano, cinque anni fa. “Anche l’anno scorso abbiamo avuto problemi con il maltempo”, racconta mentre mostra i danni alla sua tenda nel campo 006 vicino a Joub Jannine, città nella zona occidentale della Valle della Bekaa, che ospita circa 540 persone, di cui 300 bambini. Martedì il maltempo ha dato una tregua e c’era trambusto nei campi di Joub Jannine. Nel campo 020, a ridosso del fiume Litani, vivono 300 siriani, tra cui oltre 150 bambini. Quando il sole è spuntato dopo giorni di pioggia, gli uomini si sono messi al lavoro per rinforzare le tende, mentre le donne lavavano tappeti, coperte, vestiti, stoviglie e tutto ciò che era rimasto a mollo nell’acqua e nel fango nei giorni della tempesta. Hiba è arrivata in Libano da Aleppo sei anni fa e vive con una ventina di familiari, tra cui diversi bambini, in un’ampia tenda nel centro del campo. “Stavamo dormendo quando l’acqua ha invaso la tenda, cadeva giù dal soffitto e si infiltrava da sotto - racconta - Siamo stati due giorni in un rifugio provvisorio. Adesso ci servono nuovi materassi e coperte, e ghiaia per coprire le strade. I bambini sono sporchi di fango e si sono ammalati”. Najah, di Raqqa, ha trascorso la notte seduta su una sedia. Vive nel campo 006 da quasi cinque anni con il marito, la figlia e la sorella che ha quattro bambini. “L’acqua ha sfondato il tetto della tenda e non abbiamo avuto altra scelta che sistemare le sedie nel punto meno bagnato e trascorrere la notte seduti”, dice stringendo tra le mani la tessera Unhcr, con cui può ricevere qualche aiuto. Aiuti che rischiano di diminuire costantemente: lo scorso maggio l’Onu ha registrato un “gap critico” nelle donazioni per i rifugiati siriani nel 2018: è stato raccolto solo il 18-22% dei fondi necessari. Libia. Scontri a Tripoli. E Haftar attacca a Sud di Vincenzo Nigro La Repubblica, 18 gennaio 2019 È allarme rosso nella sede Onu di Tripoli per gli scontri militari e politici che stanno tormentando la Libia negli ultimi giorni. Tanto che oggi il responsabile di Unsmil, Ghassan Salamè, interverrà in video-conferenza al Consiglio di Sicurezza. Ci sono tre fronti di crisi in questi giorni in Libia: due militari e uno politico. Il primo è esploso a Tripoli dove da mercoledì la Settima Brigata di Tarhuna ha attaccato nuovamente alcune postazioni della coalizione di milizie che difendono la capitale. Ci sarebbero già 10 morti. Quelle di Tripoli non sono milizie del governo, ma piuttosto gruppi armati a cui si appoggia il presidente Fajez Serraj, a sua volta contestato da altri membri del Consiglio presidenziale. E questa crisi politica tripolina, con Serraj contestato dai suoi 3 vice, è la vera novità dell’anno: per due anni il presidente del Consiglio Presidenziale era riuscito a lavorare mantenendo basso il livello del dissenso all’intero del Consiglio. Adesso è stato sfiduciato. Il terzo fronte in evoluzione è quello militare del Sud: nella regione di Sebha le forze del generale Khalifa Haftar combattono per allargare il loro controllo sull’area. Secondo una fonte dell’AdnKronos, gli uomini di Haftar avrebbero avuto anche il sostegno dell’aviazione francese con alcuni voli (presumibilmente di ricognizione) di aerei Rafale. La notizia segnerebbe una escalation notevole da parte della Francia, e non è del tutto inverosimile, visto che nella regione la Francia mantiene alcuni assetti aeronautici. Per il momento non ci sono altre conferme all’azione dei Rafale: il portavoce dell’Esercito nazionale libico di Haftar sostiene solo che l’offensiva avviata dalla sua milizia ha lo scopo “di proteggere i residenti dai terroristi e dai gruppi criminali, di combattere il contrabbando, i crimini, il traffico di essere umani e l’immigrazione illegale, oltre a quello di proteggere le installazioni petrolifere e le società locali e straniere”. Haftar si propone quindi di fatto di assumere il conto della sicurezza a Sud, con ricadute (per l’Italia) importanti anche sul controllo dei traffici di migranti. Se riuscisse a controllare il Sud, Haftar potrebbe poi negoziare nuove alleanze in Tripolitania, per avere poi per la prima volta un ruolo diretto nella capitale libica. Sri Lanka. 1.299 prigionieri nel braccio della morte nessunotocchicaino.it, 18 gennaio 2019 Un totale di 1.299 condannati a morte, compresi quelli che hanno presentato appello contro la loro condanna, si trovano nel braccio della morte dello Sri Lanka al 31 dicembre 2018, ha reso noto il Ministero della Giustizia e delle Riforme delle carceri il 9 gennaio 2019. Ha precisato che 1.215 detenuti di sesso maschile e 84 detenute sono tra loro. “Tra i 1.299 condannati, 789 uomini e 34 donne hanno presentato appello contro le loro condanne”, ha detto il Ministero. Sempre il Ministero ha comunicato che sono state confermate le condanne a morte di circa 426 uomini e 50 donne. Costa d’Avorio. Un detenuto eccellente pesa sul destino del Paese di Angelo Ferrari agi.it, 18 gennaio 2019 L’ex presidente Gbagbo a sorpresa non viene rimesso il libertà, ed ora gli scenari potrebbero complicarsi. Laurent Gbagbo resta in carcere. La corte penale internazionale (Cpi) ha sospeso la scarcerazione dell’ex presidente della Costa d’Avorio, imputato con l’ex leader dei Giovani Patrioti Charles Blé Goude per crimini contro l’umanità. Solo martedì scorso la corte aveva assolto Gbagbo per insufficienza di prove. Gbagbo è stato il primo capo di Stato a finire alla sbarra alla Cpi. Primo grado - Gbagbo è stato arrestato e poi estradato all’Aja nel 2011, con la pesante accusa di crimini contro l’umanità messi in atto durante la crisi post-elettorale, che aveva portato alla morte di oltre 3.000 persone e causato l’esodo di oltre 500mila persone. Nel 2010, quando era stato sconfitto dall’attuale presidente Alassane Ouattara, Gbagbo non aveva accettato il risultato e questo aveva scatenato un’ondata di violenze che aveva gettato nel caos politico ed economico il Paese. In prima istanza la procura non è riuscita a dimostrare, e da qui la scarcerazione, che i discorsi pubblici di Gbagbo, durante la crisi, siano stati “un ordine o un’istigazione” a commettere crimini. La Corte, infatti, aveva dato ragione all’avvocato difensore di Gbagbo, Jennifer Naouri, secondo il quale “il pubblico ministero semplicemente non ha indagato dall’inizio in modo indipendente e professionale”, sostenendo che per questo le prove a carico dell’ex presidente della Costa d’Avorio sono “non autenticabili, verificabili, tracciabili, affidabili e non possono essere incrociate”. Ora è tutto da rifare. Vent’anni - Con il ricorso in appello della procura si ribalta tutto. I giudici della Corte dovranno decidere se accogliere o rigettare il ricorso. In caso lo respingano dovranno aprire colloqui con i paesi disposti ad accogliere l’ex presidente ivoriano. Il rientro in Costa d’Avorio, infatti, non sarà immediato soprattutto perché su di lui pende una condanna a 20 anni di reclusione, comminata dalla giustizia ivoriana. Insieme a lui sono stati condannati anche il suo ultimo primo ministro e due altri suoi ex ministri. L’accusa è aver sottratto denaro, tra il 2010 e il 2011 dalla Banca Centrale degli Stati dell’Africa occidentale. La Corte, inoltre, dovrà valutare la pericolosità dell’ex presidente se dovesse tornare in patria, come già ha fatto per ben 14 volte rigettando le richieste di libertà provvisoria. La figlia, Marie Laurence Gbagbo, ha, invece, fatto sapere che suo padre “non vivrà in nessun altro Paese oltre alla Costa d’Avorio. Vuole tornarci e ci aspettiamo che torni”, senza specificare se il padre nutra ancora ambizioni politiche. Un futuro incerto - La sentenza di scarcerazione e ora la decisione di prolungare lo stato di fermo, arrivano a un anno dalle elezioni presidenziali che si terranno nel 2020. Un’incognita che potrebbe pesare sull’esito elettorale. La possibilità che Gbagbo possa candidarsi per le presidenziali, per ora, appare remota, così come il suo rientro nel Paese. Qualsiasi sia la decisione della Corte internazionale, questa potrebbe causare non poche tensioni in Costa d’Avorio, come già si è visto nei giorni scorsi. Ad Abidjan, capitale economica del paese, sono scesi in piazza i sostenitori di Gbagbo, ma anche le vittime della crisi del 2010. Nel quartiere di Yaupougon si è festeggiato per la notizia della scarcerazione. Il quartiere di Abobo, a nord di Abidjan, è stato teatro, invece, delle proteste. Questo fa capire come Gbagbo goda ancora di un certo seguito e come la popolazione sia divisa. Ed evidenzia, inoltre, che il processo di riconciliazione sia ancora lontano dall’essere realizzato. Misure di riconciliazione - Proprio alla riconciliazione si è appello il portavoce del governo ivoriano, Sidi Touré, invitando “tutte le persone alla calma, al perdono e alla riconciliazione”. Touré ha anche detto che il presidente Alassane Ouattara e il suo governo hanno rivolto un pensiero alle vittime degli scontri dopo le elezioni del 2010 e che saranno approvate “misure aggiuntive” a loro favore. La più grande incognita per la Costa d’Avorio rimane, ancora, l’ingombrante presenza del settantatreenne Gbagbo. Ghana. Ucciso il giornalista investigativo che denunciò episodi di corruzione La Stampa, 18 gennaio 2019 Il 34enne Ahmed Husein assassinato a colpi d’arma da fuoco mentre rientrava a casa. Un giornalista d’inchiesta che aveva partecipato a una vasta indagine sulla corruzione nel calcio africano è stato assassinato mercoledì sera in Ghana a colpi d’arma da fuoco mentre rientrava a casa sua nella capital Accra. Il 34enne Ahmed Husein, questo il nome dell’uomo, faceva parte della squadra di reporter infiltrati diretta dal celebre giornalista Anas Aremeyaw Anas, che l’anno scorso fece scattare un vasto scandalo di corruzione e partite truccate portando a pesanti sanzioni in sedi internazionali. A seguito dello scandalo, oltre 50 arbitri africani sono stati sospesi dalla Confederazione del calcio africana (Caf). Il presidente della Federcalcio ghanese, Kwesi Nyantakyi, era stato squalificato a vita dalla Fifa a ottobre scorso, imponendogli anche una multa di 500mila dollari, dopo che era stato filmato mentre accettava tangenti. Fu accusato di avere chiesto 11 milioni di dollari per dei contratti con il governo.