Dal carcere risposte umane, no alla linea della vendetta di Agnese Moro La Stampa, 17 gennaio 2019 Mi ricordo che tanti anni fa, mentre discutevamo della legge sul divorzio, allora sottoposta a referendum, mio padre Aldo - da buon giurista - ebbe modo di spiegarmi che una legge non contiene solo delle norme, ma definisce anche che cosa vogliamo essere come Paese, come società e come persone. Non l’ho mai dimenticato. E mi torna in mente in maniera particolarmente viva quando sento discutere del nostro sistema penale e dei principi che debbono reggerlo. Si fronteggiano sostanzialmente due visioni. Una prima sostiene che chi ha compiuto errori gravi o gravissimi - tra i quali, ovviamente, primeggia l’omicidio - devono essere puniti con una sofferenza eterna, in qualche modo proporzionale all’irrimediabilità dell’atto compiuto. Anche perché, secondo questo modo di vedere, se si è stati cattivi una volta lo si sarà per sempre, senza possibilità di cambiare, di ritornare in sé, di comprendere i propri errori e di non commetterli più. Un secondo punto di vista - che è quello scelto da coloro che pensarono e scrissero la Costituzione, e da mio padre tra essi - chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia. Questo secondo modo di vedere le cose scommette sul fatto che le persone possono e spesso vogliono cambiare, e che lo fanno molto di più di quello che noi pensiamo. Ho avuto molte occasioni per constatarlo personalmente, non solo attraverso il dialogo serrato con alcuni di coloro che allora furono protagonisti della lotta armata, ma anche con chi si è macchiato di altri tipi di delitti, incontrati in prigione o fuori. Nei loro racconti non è il carcere duro, la repressione, l’isolamento ad aiutare una profonda riflessione, ma piuttosto l’essere stati riconosciuti da qualcuno (un cappellano, un volontario, una vittima, un operatore) come esseri umani. E, quindi, in qualche modo, comunque simili e fratelli. Chi ci governa e chi fa le leggi deve dirci chiaramente che cosa ci sta proponendo e quali saranno le conseguenze. Se prevalesse la linea vendicativa non saremmo “solo” fuori dalla nostra Costituzione, ma moltiplicheremmo anche la forza di quella catena del male che parte da ogni gesto di violenza - privato o pubblico che sia - e che si allarga e si rinforza continuamente. Senza cambiare né le persone, né le situazioni, e senza placare in alcun modo l’amarezza e la rabbia delle vittime con le quali troppo spesso ci si fa scudo. Per quanto mi riguarda mi auguro che sceglieremo sempre lo sforzo, personale e collettivo, di non moltiplicare, ma piuttosto di spezzare la catena del male. Con una risposta seriamente umana, che aiuti davvero chi ha sbagliato a tornate tra noi. Sperando di non perderne nessuno. Marcire in carcere di Toni Castellano gruppoabele.org, 17 gennaio 2019 “Marcire in carcere” è un’espressione che ha recentemente toccato parte dell’opinione pubblica. Quell’opinione pubblica che ritiene ancora il carcere un’istituzione rieducativa, e non punitiva. Come invece intende il ministro dell’Interno che finisce per trovagliene una terza: quella pubblicitaria, a vantaggio della sua propaganda elettorale. Eppure in carcere si marcisce. Senza annunci ministeriali e senza individualismi. In grandi numeri. L’associazione Antigone ha pubblicato recentemente, come d’abitudine, i numeri e l’analisi dello stato delle carceri italiane per il 2018. Al 30 novembre 2018, dopo 5 anni, i detenuti sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Per una capienza complessiva delle strutture del sistema penitenziario di circa 50.500 posti. Un esubero di circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118.6%. Il sovraffollamento è tuttavia disomogeneo e la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 161%, seguita dalla Lombardia con il 137%. Risulta inoltre che il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia di droghe. Percentuale questa tanto elevata da dover mettere in evidenza la necessità di una riforma delle norme che regolano e gestiscono l’ambito giuridico. Nel 2018 sono inoltre aumentati i suicidi in carcere. Sono stati 63. Era dal 2011 che non se ne registravano così tanti. Ciò significa che ogni 900 detenuti uno ha deciso di togliersi la vita. Una percentuale venti volte più alta che nella vita libera. Per non offrire altri facili appigli propagandistici, va detto che tutti coloro che vivono in carcere - da condannati, in attesa di giudizio o da addetti alle strutture - non se la passano bene. Tant’è che, in un questionario sullo stress correlato al lavoro, compilato nei primi mesi del 2018 da 600 agenti che prestano servizio all’interno delle carceri italiane, risulta che il 35.45% degli agenti della Polizia penitenziaria si troverebbe in una condizione di elevato rischio “suicidio” per la presenza di un forte stato depressivo, ansia, alterazione della capacità sociale e forti sintomi somatici. Tra il 2013 e il 2017 sono stati 35 i suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria (Fonte: Funzione pubblica Cgil polizia penitenziaria). Le ragioni di questo disagio generale sono le condizioni di vita mortificanti. Spazi insufficienti e fatiscenti, servizi mancanti, poche proposte lavorative e formative, carenza di personale in rapporto al numero dei detenuti e formazione insufficiente a gestire casi di crisi anche violente. Questi i motivi per cui in carcere si marcisce. Tutti. Il carcere è un tempio laico Tempi, 17 gennaio 2019 Intervista a Enrico Sbriglia, Dirigente Generale - Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto. Provveditore, nel 2018 abbiamo contato 63 suicidi nelle carceri italiane, 20 volte quelli registrati nell’intera popolazione italiana (si uccide 1 persona detenuta su 1.000 a fronte di 1 persona libera su 20.000): quali sono i fattori scatenanti a suo parere e quelli invece di resilienza? Ogni suicidio di una persona detenuta è una storia tragica a sé, è una sconfitta con tanti perdenti, soprattutto quando una persona detenuta che giunga a tali conclusioni vi pervenga dopo avere riflettuto sulla propria storia criminale, sugli eventi che ne sono derivati sulle vite dei propri cari, così come su quelle di quanti, vittime della sua condotta, abbiano subito conseguenze gravi e irrimediabili. Liquidare il tutto come una mera conseguenza della carcerazione e del sistema penitenziario è ingiusto e semplicistico, ed è astutamente assolutorio e fuorviante, soprattutto per quanti, semmai, allorquando avrebbero potuto aiutare e/o sostenere in qualche modo il ristretto, sia per affetto familiare e/o mandato sociale e istituzionale, e quindi per obblighi giuridici, abbiano invece preferito voltare il capo altrove. Spesso dietro una storia di carcerazione vi sono famiglie che non sono più famiglie, scuole che non sono più scuole, amicizie che non sono più amicizie, ma le culture della violenza, della prevaricazione, della furbizia, dell’egoismo in tutte le sue maschere. L’evento tragico, l’ultima cosa che accade, non necessariamente è la prima all’interno di una catena di avvenimenti. Ciononostante gli operatori penitenziari, e tra questi proprio i poliziotti penitenziari, che anche come incidenza numerica e presenza costante nel corso di giornate che non si fermano mai alla ventiquattresima ora, sono proprio quelli che intuiscono, soccorrono, salvano il detenuto, e lo fanno spesso, forse fin troppo spesso, al punto che la società delle belle parole non ci fa più neanche caso e se lo fa è solo per peloso formalismo. Il carcere non è un luogo di divertimento bensì è un tempio laico ove si sacrifica ogni giorno la libertà, ma alternative vere non ve ne sono e chi dice il contrario imbroglia. Proprio perché è un tempio, non può essere banalizzato e nemmeno trasformato in un raccoglitore di ogni problematicità. È fatto per le cose serie, per i reati seri, non per la paccottiglia penale che si gonfia di una visione criminale per ogni criticità sociale. Oggi le carceri italiane, nonostante il continuo attacco strumentale che subiscono da anni da parte di quanti non vogliono la pena per se stessi e la invocano per gli altri, paradossalmente possono offrire scampoli di recupero sociale e di speranza, e se questo avviene è perché gli operatori penitenziari hanno imparato a diffidare delle mode e sanno guardare, semplicemente e con rigore morale, le persone ad essi affidate. Forse anche per questo da tempo pagano, sul piano dell’apprezzamento sociale, un duro prezzo perché è facile, ed anche canagliesco, attribuire ad essi le colpe semmai di una giustizia velata: essi, infatti, hanno la sola colpa di capire, vedere ed invecchiare. Libero ha recentemente pubblicato i dati forniti dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). I poliziotti penitenziari nel primo semestre del 2018 hanno sventato 585 tentativi di suicidio da parte dei ristretti e sono intervenuti per bloccare 5.157 atti di autolesionismo Nel 2017 le morti volontarie evitate furono 1.135, gli atti di autolesionismo 9.510; l’anno precedente le prime furono 1.011, i secondi 8.586. C’è una escalation di episodi critici? Ha degli episodi da raccontarci? Maggiore è la capacità di perseguire gli autori di reati, in specie quelli violenti e predatori, maggiore diventa il numero di quanti saranno accolti nelle nostre carceri: è inevitabile ! Maggiore è la confusione europea nella gestione dei flussi immigratori, maggiore sarà il numero dei detenuti, in specie stranieri; maggiore è il numero di quanti non siano presi in carico dai servizi di salute mentale e da quelli delle tossicodipendenze, maggiore sarà il numero di coloro che potranno occupare spazi già misurati nelle nostre carceri, carceri in sofferenza, carceri ove si sta facendo uno sforzo corale e straordinario da parte di tutti i responsabili a diverso livello per assicurare una misura adeguata tra superfici e numero di “abitanti per forza”. Non sempre si può sostenere una ragione di causa ed effetto, non sempre la carenza di spazi corrisponde ad un tradurre in termini di durezza e disumanità il vivere carcerario, ma sicuramente assicurare spazi e locali dignitosi fa bene e fa sentire meglio tutti, compreso quanti non per colpa o presunta colpa ne sono ospiti, ma semplicemente per lavoro e missione sociale, al fine di contribuire a fare e migliorare la sicurezza del Paese. Se nel 2018 si sono suicidati 65 detenuti, negli ultimi tre anni 55 poliziotti. E dal 2000 ad oggi sono stati oltre 110. L’ultimo episodio risale alla prima settimana di gennaio: un assistente capo di 41 anni, padre di due bambine, originario di Cagliari e da diversi anni in servizio presso il carcere di San Vittore a Milano, si è sparato. Esiste un “mal di vivere”, il tarlo autolesivo della perdita di libertà colpisce anche il personale? La sofferenza come il riso ed il sorriso sono espressioni del vivere umano, capaci di contagiare quanti ne siano a contatto, e questo credo che riguardi tutte le professioni più difficili ed estreme, talché non è quel che afferma qualcosa da sottovalutare, però neanche si può generalizzare e considerare come verità assoluta. Occorrerà anche questa volta entrare caso per caso, storia per storia, profilo per profilo. In ogni caso, però, pure al fine di fugare per un verso tali preoccupazioni o, al contrario, porre in essere delle puntuali strategie di contrasto e contenimento, sarebbe per davvero utile e necessario immaginare l’introduzione nel Corpo della Polizia Penitenziaria di figure specialistiche di psicologi, così come anche di medici. In un Corpo di Polizia, il potersi rivolgere, per un sostegno, a chi indossi la propria uniforme sarebbe cosa che agevolerebbe il chiedere aiuto o l’indirizzare ad un aiuto, oltre al fatto che con tali professionalità se ne potrebbe considerare anche un utilizzo tempestivo e competente pure nel profilare le personalità di detenuti ritenuti più pericolosi nell’ambito delle attività istituzionali di osservazione. Sono certo che su tali esigenze si stia già da tempo ragionando anche a livello di governo, pure per venire incontro ad aspettative oramai comuni ed esortate tra la generalità degli operatori penitenziari. Oggi, a causa della penuria di organico, accelerata dagli inevitabili pensionamenti, gli operatori penitenziari tutti, sia quelli della Polizia Penitenziaria che degli altri ruoli e comparti, vivono una situazione obiettivamente difficile e alla quale occorrerà porre con ogni urgenza rimedio. Modelli nuovi di metodologie di sorveglianza, con troppa disinvoltura mutuati da altri sistemi penitenziari, senza che però prima si adeguassero le strutture carcerarie le quali, proprio nella identità territoriale hanno le ragioni dei propri perché, ancorché occorra promuovere standard e modelli omogenei e quindi più comprensibili, hanno messo alle corde gli uomini e le donne della polizia penitenziaria, costretti ad operare in un contesto di rapporto numerico tra singolo poliziotto e detenuti che credo non abbia pari. Ciò certamente non contribuisce ad essere sereni e non occorre essere predittivi per le conseguenze che potrebbero derivarne sul piano della tenuta psicologica. Lo scorso anno, dopo i fatti di Rebibbia, il presidente dell’Associazione Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, ha fatto un appello affinché le madri detenute e i loro bambini possano essere accolti all’interno di case famiglia per consentire ai minori di vivere in una dimensione diversa da quella del carcere. Lei come vede questa possibilità? Le carceri, anzi gli Icam, strutture carcerarie a dimensione di bambini, ove ospitarli con le loro madri, non sono la produzione autarchica di una volontà degli operatori penitenziari, bensì la conseguenza di precise previsioni normative che ne impongono la costituzione. Che si cerchino o meno altre soluzioni è qualcosa che appartiene alla sfera del legislatore, però mi faccia dire che sul tema dei bambini in carcere e della doverosa tutela da rivolgere agli stessi i dibattiti, sia tra la gente comune che nei saloni dotti e di confronto sociologico serrato, sono diversi e non di rado contrapposti. Quello però che si dovrebbe evitare è di trasformare il bambino innocente in merce di scambio per eludere responsabilità personali di quante donne delinquono e di quante, detenute, se ne rammarichino e se ne ricordino solo appena dopo la commissione dei reati, semmai schermendosi con i delicati corpi degli innocenti. In ogni caso, credo che sarebbe giusto e ragionevole osservare caso per caso, storia per storia anche in queste circostanze, preferendo di default soluzioni alternative al carcere quando tanto non pregiudichi, concretamente e non virtualmente, la sicurezza della collettività e quando non si rischino inquinamenti processuali o il reiterarsi degli stessi reati. Il Diritto Penitenziario in Italia ha sempre una natura sperimentale, è una scommessa: andrebbe sempre inteso come il Diritto del possibile, prudente, rigoroso ma possibile, e non come quello del No a prescindere. A fronte di un esasperato sovraffollamento si registra anche carenza di personale e di offerta di formazione professionale che coinvolge una percentuale bassissima di detenuti (Antigone parla del 4,8 per cento). Come se ne esce? La soluzione è investire nella costruzione di nuovi istituti di pena o in misure alternative al carcere? Ogni tipo di pasta ha i suoi tempi di cottura; perdoni l’esempio modesto che mi permetto di fare per cercare di essere semplice e chiaro. Non esiste una risposta unica sanzionatoria nel nostro sistema, anzi, è forse proprio la ricchezza, il ventaglio, delle soluzioni, anzi dei diversi formati della pena, detentiva o alternativa, per richiamare l’esempio culinario, che consente al nostro ordinamento di poter essere per davvero efficace. Che occorrano nuove, moderne e dignitose carcere è sicuro, ma esse andrebbero bene distribuite sul territorio e dovrebbero tener conto delle possibilità di recupero dei condannati allorquando essi ne risultino meritevoli. Ma le possibilità devono essere concrete, non effimere, possibilità e non certezze, perché la libertà responsabile deve essere comunque accertata e non derivare da semplici automatismi e tecnicalità giuridiche di favore tout court. Insomma occorre esser seri da parte di tutti. Infine le carceri non devono essere città, ma borghi, community, luoghi dove sei visto e vedi, dove non sei un numero tra tanti. Il rischio dei grandi circuiti sono proprio i cortocircuiti. D’altronde è la stessa legge penitenziaria che induce a tanto, basti riflettere sull’art. 5, n. 1 della Legge Penitenziaria che recita: “Gli istituti devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati.” Circa poi il lavoro, non si possono fare generalizzazioni. Vi sono realtà territoriali che investono nel carcere del lavoro e della formazione. Penso ad esempio al Friuli Venezia Giulia, dove la Regione investe risorse importanti con i finanziamenti europei, assicurando la possibilità di formazione professionale per lavori spendibili non solo sul territorio ma anche altrove. Così come non posso esimermi dal citare il Veneto, esigente sui temi della sicurezza ma altrettanto concreto con il suo mondo imprenditoriale, il quale non si spaventa delle carceri e che nelle carceri, soprattutto attraverso le cooperative sociali, porta lavoro e redditi veri per i detenuti impiegati i quali, per usare un termine sportivo, devono per davvero pedalare ed impegnarsi se intendono continuare ad usufruire di opportunità di lavoro. Catering, manifatturiero anche di qualità, pasticceria e gelateria, servizi di call center, moda e accessori, orti, attività febbrili, sono solo alcune delle tante iniziative imprenditoriali presenti nelle carceri del Veneto. Se si vuole si può, e questo principio vale per tutti, nessuno escluso. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in visita a Solicciano, ha annunciato per il 2019 l’assunzione di circa 1.300 agenti di polizia penitenziaria e lo sblocco di risorse per il piano carceri pari ad almeno 70 milioni di euro. Quali sono le urgenze a cui rispondere immediatamente? Ci sono dei progetti a suo parere interessanti, che potrebbero rappresentare un modello da seguire e valorizzare? Quello dell’assunzione di nuovi poliziotti penitenziari e di altre figure professionali è il modo concreto attraverso il quale si mostrerà credibile cura ed attenzione verso il Corpo e verso tutti gli operatori penitenziari, ancor di più ove si andasse ad immaginare, in una salvifica ipotesi di reingegnerizzazione della polizia penitenziaria, l’assorbimento di qualifiche professionali oggi relegate nel contesto delle cosiddette funzioni centrali, alias, del pubblico impiego generalizzato, pur appartenendo ed essendo espressione esclusiva dell’amministrazione penitenziaria: esse sono in realtà fondamentali nel contribuire alla sicurezza pubblica ed alle strategie di recupero delle persone detenute, penso ai funzionari giuridico-pedagogici, alias educatori, ma anche agli altri importanti profili professionali di cui è ricca l’amministrazione penitenziaria, ad esempio le categorie professionali contabili e amministrative che operano all’interno delle carceri, ivi comprese quello dei nostri professionisti ingegneri, architetti, geometri, che hanno affinato competenze e capacità nel consentire ad un patrimonio immobiliare dedicato e spesso vetusto, per il quale certamente non si sono investite risorse adeguate per il suo perfetto mantenimento, di resistere e di assolvere alle proprie funzioni, anche ove si trattasse di antichi manieri, di conventi, di caserme, di complessi architettonici poi convertiti in istituti penitenziari. Genius loci dicono gli architetti, pietre che hanno le loro antiche storie, chissà che non sia vero e che per questo ci abbiano aiutato! D’altronde, solo parafrasando, se esiste un genio militare, perché non dovrebbe esservi un genio specialistico della polizia penitenziaria ? Sarebbe però intuibile come risulterebbero velocizzate le procedure anche per la realizzazione di nuove opere e/o nella riqualificazione sistematica di quelle esistenti che, occorre pure ricordarlo, sono divenute nel tempo presidi di sicurezza e della cultura della legalità, non nemiche ma amiche dei territori e delle comunità locali, prova ne sia le tante e belle iniziative che ogni giorno sono realizzate nelle carceri italiane, anche se la penna del cronista preferisce la notizia noir e sanguinolenta, ma tant’è. Da qualche tempo, in verità, mi confronto con gli operatori penitenziari di mezza Europa e non credo, sinceramente, che i giudizi negativi espressi nei riguardi del nostro sistema carcerario siano così meritati. Certo, forse manchiamo di estreme tecnologie, forse le nostre strutture, sempre sotto stress, affollate possono apparire meno patinate e splendenti di quelle dei Paesi del Nord Europa, dove vi sono capitali grandi quanto alcuni nostri popolosi quartieri, ancorché esse si sviluppino su superfici più estese confinanti con i ghiacciai perenni. Ho visto carceri dove le serpentine del filo spinato erano colorate come le sbarre, quasi da renderle graziose, innocue, ma il cemento, il ferro e l’assenza di contatti umani rendevano quelle scatole murarie prive di speranze o, perlomeno, questa era la mia forse errata sensazione. Genitorialità in carcere e diritti dei figli di detenuti di Fondazione Terzo Pilastro progressonline.it, 17 gennaio 2019 Il rapporto tra figli e genitori detenuti è un problema di cui si parla poco, anche se interessa un numero di persone certamente superiore alle detenute madri. I dati forniti dal Dap aggiornati al 30 giugno 2018 ci parlano di: un totale di 47 madri detenute con 52 bambini di cui, 31 madri e 34 bambini negli Icam, 16 madri e 18 bambini nelle sezioni nido delle carceri. Per quanto riguarda lo stato civile dei detenuti risulta, dai dati del DAP riferiti al 30 giugno 2018 che, 17.031 detenuti coniugati, 565 vedovi, 1.940 divorziati, 2.703 separati, 7.357 conviventi (queste ultime 4 categorie sono ancora più problematiche delle altre poiché oltre ai problemi legati alla condizione di detenzione hanno problemi di rapporti interpersonali il più delle volte deteriorati e difficilmente recuperabili, o come per i conviventi, problemi che riguardano il riconoscimento da parte delle istituzioni dello stato giuridico). Il totale dei figli che i detenuti hanno dichiarato di avere è di 58.913. Sono 8.056 i detenuti che hanno un solo figlio, 9.189 quelli che ne hanno due, 5.299 ne hanno tre, 2.185 quattro, 777 cinque, 320 sei, 291 oltre i sei figli. Di questo si parlerà al Convegno di studio “Genitorialità in carcere e diritti dei figli dei detenuti”, organizzato dalla Fondazione Terzo Pilastro - Internazionale e dalla Cooperativa Cecilia con il patrocinio del Ministero della Giustizia. È provato che un detenuto che ha conservato i legami familiari rischia meno la recidività. Per questo diventa importante studiare misure che consentano di non disperdere questi legami ed intervenire, con altre, rivolte ai figli, che prevengano gli effetti devastanti derivanti dalla particolare situazione. La genitorialità in una situazione come quella del carcere non ha possibilità di affermazione, vive problemi insormontabili. Esiste un’incompatibilità tra l’essere detenuto in un contesto chiuso e totalizzante come quello carcerario ed esercitare il ruolo genitoriale. Incompatibilità che deriva da limiti organizzativi, e normativi, lo stesso colloquio, che è l’unico momento di contatto con il proprio mondo relazionale, il più delle volte si trasforma in turbamento emotivo per le modalità e gli spazi in cui avviene, per i vincoli giuridici e di sicurezza che ne regolamentano lo svolgimento. Ma influiscono anche le inumane condizioni di vita causate dal sovraffollamento, dalla inadeguatezza delle strutture, dai tagli ai fondi destinati al trattamento intramurario, oltre che da implicazioni psicologiche emotive e relazionali. Come è possibile promuovere il diritto alla genitorialità in carcere consentendo ai detenuti ed ai loro familiari di incontrarsi per soli sei colloqui al mese di un’ora, e solo se non residenti il tempo concesso può essere anche di due ore. Incontri che per gli internati e i sottoposti al 41 bis sono addirittura ridotti a quattro. Come si può promuovere la genitorialità se non si applica il principio della territorialità della pena che, oltre a non sradicare il detenuto dal proprio contesto sociale, culturale e familiare, consentirebbe ai suoi parenti anche indigenti di potergli fare visita, di non sottoporre i bambini a viaggi estenuanti. Per il bambino l’arresto di un genitore e la conseguente detenzione rappresentano una frattura nel contesto familiare un elemento di disadattamento. I bambini, vivendo l’assenza del genitore come abbandono, instaurano da subito un rapporto altamente conflittuale e il più delle volte manifestano la loro reazione con il rifiuto di incontrarlo. La separazione forzata tra genitore e figlio influisce in modo determinante nel tempo e nella biografia di ciascuno. Oggi - pur se la convenzione internazionale sui diritti del fanciullo stabilisce che l’interesse dello stesso debba essere preminente su ogni decisione sia essa istituzionale che privata - dobbiamo chiederci quanto la nostra legislazione, i regolamenti e soprattutto la prassi penitenziaria rispettano questi diritti. Perché c’è una evidente contraddizione tra il rispetto dei diritti del fanciullo e la sua separazione forzata da un genitore perché detenuto; c’è un’evidente contraddizione quando si costringe il bambino ad entrare in carcere per far visita al genitore detenuto e sottostare a tutte le regole, volte esclusivamente alla sicurezza stabilite dall’art. 37 del Dpr 230/2000. Per un bambino o una bambina far visita al genitore detenuto significa attese interminabili, trattamenti umilianti e imbarazzanti; significa traumatizzanti perquisizioni, paure, incontri in ambienti disumani e sotto continuo controllo. “Basta insulti a chi osa assolvere”. Ora i magistrati schierano il Csm di Errico Novi Il Dubbio, 17 gennaio 2019 Chiesta ieri in plenum una pratica a tutela dei giudici contestati come ad Avellino. L’iniziativa nasce da un caso, quello delle minacce al giudice della strage sul bus, che è la goccia capace di far traboccare il vaso. Ma la richiesta di aprire una “pratica a tutela” dell’intera magistratura presentata ieri al Csm da 11 togati ha il senso di una mobilitazione generale. Nel documento sottoscritto dai gruppi di Area, Unicost e Autonomia & Indipendenza, si denuncia la “lunga serie di episodi che compromettono l’indipendente esercizio della funzione giurisdizionale, che la magistratura deve esercitare nel solo rispetto della legge”. Si tratta dei tanti casi di insulti rivolti ai giudici che negli ultimi anni hanno pronunciato sentenze di assoluzione o inflitto misure cautelari meno dure del previsto. Sono a rischio, avvertono i togati, “valori fondanti dello Stato di diritto, quali il principio di non colpevolezza degli imputati e il diritto di difesa nel processo penale”. Sembra il punto di non ritorno. Il caso delle minacce a Luigi Buono, il giudice della sentenza sulla strage del bus, non è il primo del genere, ma per la magistratura rappresenta il segno di un allarme non più tollerabile: così con un’iniziativa che non ha precedenti per ampiezza di significato ieri 11 togati del Csm (tutti i gruppi tranne Mi) hanno chiesto al comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli l’apertura di una pratica a tutela dell’intera magistratura. Nel documento letto ieri in plenum viene citato naturalmente il caso del giudice monocratico di Avellino, oggetto, venerdì scorso, di “insulti e minacce” subito dopo la lettura del dispositivo sulla strage del viadotto. Si richiamano altre vicende come quelle del processo per Rigopiano e delle assoluzioni pronunciate dal Tribunale di Lucca nei confronti dei contestatori di Salvini. E ancora, si ricorda un altro “attacco alla giurisdizione” quale quello rivolto ai giudici di Monza sul caso dell’imprenditore Sergio Bramini. Ma si tratta di esempi, non delle sole specifiche circostanze sulle quali i consiglieri intendono richiamare l’attenzione. Si tratta solo dei più recenti di “una lunga serie di episodi che compromettono l’indipendente esercizio della funzione giurisdizionale, che la magistratura deve esercitare nel solo rispetto della legge”. Il senso è dunque alzare un argine non valicabile rispetto alle aggressioni verbali (per ora) che incombono su ogni giudice orientato ad assolvere, o anche a emettere un’ordinanza cautelare meno restrittiva di quanto l’opinione pubblica si aspetti. A proposito della seconda variabile, basti pensare al gip di Reggio Emilia Giovanni Ghini, contro il quale nell’agosto 2017 fu organizzato addirittura una corteo solo perché aveva osato prevedere una misura attenuata rispetto all’arresto chiesto dai pm per uno straniero accusato, e reo confesso, di abusi sessuali. Viene al pettine il vero nodo della giustizia ridotta a giustizialismo. Il pericolo che la scure dell’intransigenza manettara, spietata fino a qualche anno fa solo con indagati e imputati, finisca per condizionare gli stessi magistrati. Tanto da metterli nella condizione di vivere l’esercizio delle funzioni come un atto temerario. Ed è importante che nel segnalare il livello di gravità raggiunto dalla situazione, i togati facciano riferimento a due cardini dell’ordinamento: come spiega in plenum la consigliera di Area Alessandra Dal Moro, alla quale i colleghi affidano la lettura della richiesta, ad essere messi in discussione sono “valori fondanti dello Stato di diritto, quali il principio di non colpevolezza degli imputati e il diritto di difesa nel processo penale”. Richiamo non casuale, quello al pericolo di compromettere il diritto alla difesa in giudizio. Sia perché conferma l’ormai consolidata sintonia, sul tema, fra magistratura e avvocatura, sia perché le aggressioni sui social e i proiettili recapitati negli ultimi anni ai legali di diversi imputati costituiscono l’altra faccia dell’emergenza denunciata ieri al Csm. Dal Moro espone considerazioni condivise, come detto, dagli altri 3 togati di Area, dai 5 consiglieri di Unicost, a cominciare dal capogruppo Luigi Spina, e dai due rappresentanti di Autonomia & Indipendenza Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Non c’è Magistratura indipendente. Scelta legata alla linea che il gruppo associativo si è data rispetto alla dialettica tra toghe e forze politiche: nel documento sottoscritto da tutti gli altri consiglieri magistrati c’è anche un richiamo al fatto che “gli insulti e le minacce” rivolte al giudice monocratico di Avellino erano state “amplificate mediaticamente dalle reazioni successive”, riferimento alle dichiarazioni di diversi esponenti politici diffuse subito dopo le contestazioni al giudice, in particolare da Luigi Di Maio. Il vicepremier aveva detto di capire “il grido di dolore delle famiglie delle vittime dopo l’assoluzione dell’ad di Autostrade Castellucci”. Vero è che nel seguito del suo post di venerdì scorso Di Maio aveva aggiunto che il suo non era “un attacco ai giudici”. Ed è anche vero che, nella richiesta di pratica a tutela presentata ieri, l’attenzione è per gli umori della piazza prima ancora che per le reazioni dei politici. Il pericolo viene da “comportamenti”, generalmente intesi, “lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione” tali da “determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. La pratica, che verrebbe assegnata alla prima commissione presieduta dal laico Alessio Lanzi, potrebbe tradursi in una delibera del Csm a tutela di tutti i magistrati. Ma al di là delle conseguenze formali, l’iniziativa sollecitata ieri in plenum annuncia una presa di posizione netta delle toghe, che può trasformarsi in una mobilitazione permanente con possibili richieste di interventi del legislatore. Una svolta, se si considera la funzione che per anni, in modo distorto, il fronte giustizialista ha attribuito a giudici e pm. Quell’aspettativa patologica si rivela ora un pericolo per la tenuta dell’intero ordinamento giudiziario e dello Stato di diritto, come tante voci annunciavano da tempo pur senza sommarsi in una presa di posizione istituzionale ampia come quella di ieri. Responsabilità civile del magistrato: decisiva la decisione della Cassazione di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 17 gennaio 2019 Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione sono state chiamate, nell’udienza del 15 gennaio 2019, a risolvere la questione della possibilità o no di affermare la responsabilità civile (con evidenti riflessi su quella disciplinare) del magistrato il quale violi una consolidata interpretazione della legge. La questione sorge perché la legge 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, nel testo vigente espressamente afferma che “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”. La questione è stata posta dalla 3° sezione civile della stessa Corte di Cassazione, la quale era stata chiamata a giudicare del caso di una decisione, la quale aveva contraddetto un cinquantennale orientamento giurisprudenziale in materia di risarcimento del danno, senza giustificare in alcun modo la pronuncia adottata in difformità da princìpi ormai consolidati. La questione coinvolge il tema, assai delicato, del punto di equilibrio che deve esistere tra la regola costituzionale, per cui il giudice è soggetto soltanto alla legge (e perciò, tra l’altro, non alle decisioni di altri magistrati) e l’esigenza, sempre più avvertita in una società liquida, quale è l’attuale, che le regole siano caratterizzate da un adeguato grado di certezza, in modo da consentire a ciascuno di avere un sicuro riferimento in ordine alle scelte del proprio agire. La questione, dal punto di vista strettamente tecnico, è fortemente condizionata dalla evoluzione normativa che ha avuto la disciplina della responsabilità di magistrati, anche alla stregua delle novità che sono state introdotte per effetto della disciplina nell’Unione Europea. La dimensione politica della questione appare, tuttavia, nettamente prevalente e tale da non poter non condizionare quella che sarà la scelta delle Sezioni Unite. È evidente, difatti, che attribuire ad un consolidato orientamento giurisprudenziale l’efficacia di una regola, cui ciascun magistrato deve prestare obbedienza nell’esercizio delle sue funzioni, significherebbe paralizzare una delle componenti più significative della evoluzione dell’ordinamento giuridico nel suo costante adattamento alla realtà. Del resto, è proprio il carattere “liquido” dell’attuale società che rende la norma scritta poco adeguata a fronteggiare i costanti mutamenti economici e sociali. Il che è confermato dalla circostanza che il legislatore, in modo sempre più frequente, legifera utilizzando clausole generali e così scaricando sulla magistratura l’adattamento delle stesse alle complessità che man mano emergono nella realtà. Ove si tenga conto del fatto che un obbligo di osservare la giurisprudenza precedente si tradurrebbe in una sclerotizzazione dell’ordinamento ed in una sua progressiva distanza dalla realtà da regolare, si comprende che un obbligo siffatto sarebbe del tutto inaccettabile. Del resto, l’esperienza giuridica italiana è testimonianza della utilità di una interpretazione al passo con i tempi. L’adeguamento dell’ordinamento giuridico, nato nel periodo fascista, ai nuovi principi costituzionali è stato in larghissima misura realizzato dall’attività ermeneutica di una giurisprudenza, capace di inverare nella quotidiana attività processuale i nuovi princìpi dello Stato democratico. È ovvio, tuttavia, che questione completamente diversa è quella che si pone quando i princìpi consolidati della giurisprudenza siano disattesi per una mera grave disattenzione o ignoranza e non già per la consapevole volontà di proporre una interpretazione diversa e più adeguata. In un caso del genere sembra auspicabile che si possa individuare una ipotesi di responsabilità. Si tratterebbe di un limite, alla libertà di interpretazione, imposto sia dalla esigenza di dare una ragionevole certezza all’ordinamento e sia dalla necessità che la decisione giudiziaria non si risolva in un mero atto di arbitrio. La decisione delle Sezioni Unite sarà, perciò, di decisiva importanza per il futuro dell’ordinamento italiano. Daspo a vita contro la corruzione. Tempi ridotti per la riabilitazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2019 Legge 9 gennaio 2019, n. 3. Alla fine, dopo la firma del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale un vasto consesso di penalisti aveva chiesto un attento esame di sostenibilità costituzionale, approda in “Gazzetta” la legge (la n. 3 del 2019) con le misure anticorruzione, la riforma della prescrizione e le modifiche alla disciplina del finanziamento ai partiti. Tutte le misure entreranno in vigore tra 15 giorni, con l’eccezione di quella che blocca il decorso della prescrizione all’altezza della pronuncia di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione. Partirà infatti dall’anno prossimo (ma gli effetti si dispiegheranno solo negli anni successivi), per effetto dell’accordo politico tra Lega e 5 Stelle, che vincola la riforma all’introduzione di un pacchetto di misure che dia tempi certi al processo penale. Quanto al pacchetto dedicato ai reati contro la pubblica amministrazione, architrave dell’intervento è l’ormai, a suo modo proverbiale, Daspo a vita, dove tecnicamente si intende soprattutto l’integrazione del catalogo dei reati alla cui condanna consegue l’incapacità di contrattare con il settore pubblico. Ai reati già previsti dal Codice penale sono aggiunti: il peculato, escluso quello d’uso; la corruzione in atti giudiziari; il traffico di influenze illecite. In parallelo va però letta la disciplina, sul punto, della riabilitazione sulle pene accessorie. Rispetto alla versione iniziale del testo, approvata dal Consiglio dei ministri, i lavori parlamentari hanno abbassato da 12 a sette anni il termine trascorso il quale, in caso di buona condotta, si produce l’effetto di cancellazione delle pene perpetue: il condannato a pena perpetua potrà chiedere la riabilitazione, come oggi, decorsi almeno tre anni dalla data in cui la pena principale è stata eseguita, ma dovrà attenderne altri sette per l’estinzione della pena accessoria perpetua, senza poter contare sulla scorciatoia oggi rappresentata dal buon esito dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Inasprite poi anche le sanzioni per la corruzione impropria che passa dalla forchetta uno-sei anni a quella tre-otto; come pure sale il massimo della reclusione per l’appropriazione indebita, da tre a cinque anni. Sempre sul piano del diritto penale sostanziale, si rafforza il reato di traffico di influenze indebite, cancellando la fattispecie concorrente, e di non facilissimo coordinamento neppure dalla giurisprudenza, del millantato credito. L’attività d’indagine, oltre che dall’agente sotto copertura, sarà poin facilitata dall’utilizzo dei trojan horses per i reati con pena non inferiore nel massimo a cinque anni. Una spinta ai “pentiti” è, nelle intenzioni, quella che dovrebbe arrivare dall’introduzione di una causa speciale di non punibilità per chi si autodenuncia e collabora con l’autorità giudiziaria. Per l’applicazione della causa di non punibilità occorre però anche che l’interessato sveli la commissione del fatto prima di avere notizia che nei suoi confronti sono state svolte indagini e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto stesso. Anche in questo caso, è significativa una lettura parallela con le modifiche che sono state introdotte nell’ordinamento penitenziario che prevedono il divieto accesso ai benefici penitenziari, comprese le misure alternative alla detenzione, per gli autori dei più gravi reati contro la pubblica amministrazione. Modificata anche la disciplina della responsabilità amministrativa delle imprese: nel decreto 231, a rimpolpare il catalogo dei reati presupposto arriva il traffico di influenze illecite. Si inasprisce la disciplina delle sanzioni interdittive in caso di condanna per concussione e alcune ipotesi di corruzione, aumentandone la durata in una misura (fino a sette anni, se l’illecito è commesso da soggetti in posizione apicale). Anche in questo caso, però, in sintonia con quanto previsto per le persone fisiche, anche le imprese potranno ottenere un sconto sulla durata delle sanzioni in caso di collaborazione con le autorità investigative. Arresto Battisti, il video spot a 5 Stelle diventa un boomerang di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 gennaio 2019 I penalisti di Roma denunciano il ministro Bonafede per la clip che mette a rischio gli agenti. I sindacati: “Uno spettacolo per nascondere i veri problemi della polizia”. Il video choc, che nessuno dimenticherà facilmente, sull’arresto dell’ex terrorista rosso Cesare Battisti pubblicato dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede sul proprio profilo Facebook ha scosso un’Italia che sembrava rimasta attonita e afona di fronte all’enfasi populista-giustizialista del governo giallo-bruno. Ieri, mentre il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, sollecitava il Guardasigilli a rimuovere subito la clip propagandistica che viola più di una norma di legge a tutela della dignità dei detenuti, la Camera penale di Roma ha messo a punto un esposto da presentare in procura per denunciare le illegalità commesse con la pubblicazione dello spot dal ministro pentastellato. E al Senato la vicepresidente dem Anna Rossomando ha depositato un’interrogazione al governo, sottoscritta da 29 senatori, per chiedere se Bonafede fosse consapevole del fatto che il video ha messo a repentaglio la privacy - e dunque l’incolumità - dei poliziotti penitenziari e degli agenti di polizia entrati incautamente in quello che la vice presidente della Camera Mara Carfagna ha definito un “b-movie”. Rossomanno chiede al ministro anche cosa intenda fare a questo punto per tutelare questi poliziotti “dopo la rivelazione e diffusione ad un larghissimo pubblico della loro identità”. Nel video in effetti vengono immortalati i volti di molti agenti. Alcuni poliziotti, a dire il vero, sembrano perfino mettersi in posa, alternandosi ai lati del “catturato” Cesare Battisti che li guarda incredulo. Un altro agente in borghese, invece, tenta di coprirsi il viso per non essere ripreso dalla telecamera. “Ho atteso che calasse il clamore attorno all’operazione che ha riportato Battisti alla doverosa realtà dell’esecuzione di quella pena che la giustizia gli ha inflitto per quanto commesso”, ha premesso il Garante Mauro Palma ricordando però che sono previste sanzioni disciplinari per chi non rispetta l’articolo 42-bis comma 4 dell’ordinamento penitenziario che impone che nelle traduzioni siano “adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità”. “Certamente - fa notare Palma - il legislatore non poteva supporre che fossero i vertici delle Istituzioni a non rispettarla”. Il sindacato degli avvocati penalisti romani invece cita nell’esposto preparato anche l’articolo 114 del codice di procedura penale che vieta di pubblicare immagini di persone arrestate in manette. Il video non è piaciuto né al vicepresidente del Csm, David Ermini (“io non l’avrei fatto”, dice “a titolo personale”), e neppure perfino al leghista Roberto Maroni (“io avrei evitato”). Ma è la gestione mediatica di tutta l’operazione di rimpatrio di Battisti ad essere bersaglio di numerose critiche, non solo sui social, da parte di cittadini comuni. “Una giornata da dimenticare il più presto possibile”, ha commentato l’ex ministro della giustizia ed ex giudice della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick. Anche Claudio Martelli, altro ex Guardasigilli, rabbrividisce: “Una cosa sgradevolissima, davvero inimmaginabile… nel video manca soltanto la danza dei pellerossa attorno al totem”. Un’operazione che dimostra, secondo i consiglieri togati di Area del Csm, “un’idea primitiva di “giustizia”: “Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa, questi ha diritto che lo Stato ne rispetti quella dignità che l’art.3 della Costituzione garantisce ad ogni persona”. Anche il Vaticano interviene nella polemica, con il cardinale Angelo Becciu che ricorda la “cultura giuridica di primo grado” dell’Italia e invita a non “incutere o risvegliare nella gente certi istinti forcaioli”. Ma è dai sindacati di polizia che arriva la critica più amara: “Una Repubblica forte applica le leggi e rispetta le regole e le procedure anche davanti al più orribile criminale - afferma il segretario del Silp-Cgil Daniele Tissone - E non ha bisogno di spettacolarizzazione”. Tanto più se la messa in scena mediatica, aggiunge l’Fp-Cgil, “intendeva distogliere l’attenzione da problemi ben più grandi” che vive ogni giorno la polizia penitenziaria e cela “un vuoto pneumatico”. Mauro Palma: “Il ministro ha violato norme precise. E forse non solo nazionali” di Andrea Colombo Il Manifesto, 17 gennaio 2019 Intervista al Garante nazionale dei detenuti: “Potrebbe esserci anche un piano attinente alle norme sovranazionali, e quindi alla Corte di Strasburgo. Non escludo che si profili una violazione dei diritti della persona”. Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, ha auspicato ieri che venga rimosso il video del ministro Bonafede che trasforma l’arrivo di Cesare Battisti a Ciampino in uno spot. Palma, al di là del video, ritiene che in questa vicenda siano stati in qualche modo violati i diritti del detenuto Battisti? Sono state effettivamente violate alcune norme precise che esistono dal 1992, in particolare l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta qualunque spettacolarizzazione e afferma che l’eventuale spettacolarizzazione dovrebbe avere rilevanza disciplinare per chi se ne rende responsabile. Allora si pensava che lo potessero fare giornalisti e quindi potesse intervenire l’Ordine. Non si immaginava certo che lo facesse il ministro della Giustizia. Secondo me potrebbe esserci però anche un secondo piano, che credo sia attinente non alle norme nazionali ma alla giurisprudenza sovranazionale e dunque alla Corte di Strasburgo. Potrebbe essere invocato il mancato rispetto del diritto alla riservatezza. Se si entra in un carcere con la telecamera viene chiesto di riprendere i piedi o le gambe ma non la faccia proprio per evitare attacchi alla dignità del detenuto, un aspetto a cui l’Europa è molto sensibile. Non si capisce perché questa volta la cosa sia passata in secondo piano e quindi non escludo che si profili una violazione dei diritti della persona. Con la richiesta di lasciare Battisti in carcere per tutta la vita non c’è stata un’invasione del campo proprio della magistratura di sorveglianza? Non ci sono state dichiarazioni improprie da parte del ministro della Giustizia ma da parte del ministro degli Interni sì. La possibilità dell’ergastolo ostativo deve essere approfondita. È vero che la condanna c’è stata prima che esistesse la legge ma bisogna vedere bene come sono andate le cose in casi simili. Detto questo è chiaro che negando la possibilità di ogni misura alternativa alla detenzione Salvini ha compiuto una doppia invasione di campo. Perché la vicenda non riguarda il Viminale e perché a decidere sarà, come in tutti i casi del genere, la magistratura. Ma dopo queste invasioni di campo non c’è il rischio che Battisti venga trattato in maniera diversa e peggiore rispetto a tutti gli altri condannati per fatti di terrorismo? Onestamente non credo. Negli istituti penitenziari e locali c’è maggiore consapevolezza che a livello centrale. Passati i primissimi giorni, a livello della magistratura locale ci sarà più saggezza. Il sistema è più sano di quanto non appaia da questa rappresentazione spettacolare. Alcune cose che possono sembrare vessatorie come l’isolamento valgono per tutti gli ergastolani, non solo per Battisti. È una norma sancita dall’art. 72 del Codice penale sulla quale sono stati già avanzati molti dubbi da parte dell’Europa: in questo modo il giudice determina la sanzione in modo di esecuzione. Così viene violato il principio per cui il giudice decide il quantum della pena ma poi l’amministrazione gestisce la fase esecutiva. Ma questo ripeto vale per tutti e credo che ci sia più clamore a livello istituzionale rispetto a quando il magistrato dovrà effettivamente decidere. Ma anche per questo io ho detto che i toni dovrebbero essere abbassati. Vede il rischio che questa tendenza alla spettacolarizzazione travolga a livello di cultura giuridica e mentalità diffusa il rispetto delle garanzie? È un rischio, non ancora una fase in atto. Quello che temo di più non è l’esistenza di un pensiero che va esplicitamente in questa direzione. Però questo approccio molto comunicativo e diretto, quindi molto poco articolato, spinge a evitare ogni forma di complessità mentre il garantismo pone proprio un’esigenza di complessità. Frena il desiderio di vendetta ed evidenzia quello che nel complesso è meglio per la società. Dunque chiede alla società stessa sia di assumere la complessità, sia di essere matura. Queste forme di semplificazione, al contrario, rischiano di imporre una logica semplificatoria e binaria. La logica del noi/loro, amico/nemico che è la negazione dello Stato di diritto. Il video di Bonafede, un cattivo esempio pubblico di legalità di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 17 gennaio 2019 Era la vigilia di Natale del 1992, e non era ancora stato arrestato Totò Riina, quando fu introdotta nell’ordinamento penitenziario la seguente norma: “Nelle traduzioni sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonché per evitare ad essi inutili disagi”. “L’inosservanza della presente disposizione costituisce comportamento valutabile ai fini disciplinari”. Qualche mese prima era stato ammazzato Paolo Borsellino. Il parlamento però sentì la necessità di spiegare agli agenti di Polizia Penitenziaria, il cui Corpo era stato smilitarizzato da un paio di anni, e ai direttori di carcere che il corpo e il volto del reo non potevano in nessuna circostanza essere oggetto di curiosità pubblica. Molti di noi avevano ancora bene in mente le immagini di Enzo Tortora, condotto in carcere in manette da due Carabinieri. Immagini che lesero la sua e la nostra dignità. La discrezione e la sobrietà nelle operazioni di polizia e di giustizia sono a garanzia di tutti: della persona arrestata o condannata, colpevole o innocente che sia; degli operatori di Polizia e della loro sicurezza messa a rischio dalla divulgazione dei loro volti; della stessa idea pubblica di giustizia, ontologicamente incompatibile con ogni forma di spettacolarizzazione. La pena, il carcere, la privazione della libertà, i detenuti, gli arrestati non possono mai tradursi in un video show a disposizione dei fruitori seriali di social. Fra i più assidui frequentatori di video in rete vi sono, ad esempio, i ragazzi. Il video postato dal ministro della Giustizia Bonafede su facebook è anti-pedagogico in quanto viene diffuso non tenendo conto dei divieti di legge. È altresì anti-pedagogico perché contribuisce a trasformare il detenuto in una bestia da zoo e ad alimentare propositi di vendetta. Il diritto penale nella sua complessità, così come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, serve a ridurre la violenza dei delitti e delle pene e non a soffiare sul vento della legge del taglione. Le immagini trasmesse in rete sono state precedute dalle parole truci del ministro degli Interni che auspicava “Battisti marcisse in galera”, non considerando quale debba essere la funzione costituzionale della pena che mai può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Se uno Stato abdica a rispettare le proprie norme, e addirittura maltratta quelle costituzionali, vuol dire che non è uno Stato che crede nel proprio diritto, così fornendo un cattivo esempio pubblico di legalità. Per questo la reazione indignata e di richiamo alla nostra civiltà giuridica da parte del Garante dei detenuti e dei componenti di Area del Csm è di grande rilievo istituzionale. *Antigone Una gogna che ferisce le vittime di Brunella Giovara La Repubblica, 17 gennaio 2019 La giustizia sì, il circo no, la gogna no e poi no, “il condannato mostrato come un trofeo, la brutalità di certe parole utilizzate per definirlo”. Alessandra Galli è consigliere di Corte d’appello a Milano. Figlia di magistrato, Guido Galli, il 19 marzo del 1980 venne ammazzato in Statale, uno lo chiama per nome, poi gli spara tre colpi. In una foto famosa si vede il corpo coperto dal lenzuolo, la segatura che asciuga il sangue, il cardinale Martini impietrito, sta per dargli la benedizione. Questo per dire la brutalità del fatto, e di tutti gli altri omicidi del terrorismo italiano, quante lenzuola, e sangue, eppure Galli censura la brutalità di oggi, la “spettacolarizzazione fuori luogo dell’arresto, la volgarità delle immagini”, spiega che tutto questo comporta un rischio: “Indurre reazioni di comprensione a suo favore, vederlo alla berlina può far dire a qualcuno “ma guarda quel poveraccio”. Le vittime del terrorismo italiane, i figli e i fratelli, le vedove, non hanno preso bene l’evento “cattura del fuggiasco”, e persino Maurizio Campagna, fratello del poliziotto Andrea ammazzato dai Pac di Battisti, dice che “si poteva evitare”, la sceneggiata, “per me potevano portarlo in Italia anche in mongolfiera, ma qui, a scontare la sua pena”. Campagna ricorda “quando anche Berlusconi fece un macello mediatico sulla estradizione. Questa è la politica, e il politico cerca consenso nell’elettorato”. Seduta in un caffè dalle parti della Statale, Francesca Marangoni racconta che “noi parenti delle vittime siamo una specie di famiglia allargata. Mia madre ha 80 anni, quando ha saputo di Battisti è corsa dai miei figli e ha cominciato a raccontare”, anche se “Battisti non c’entra con l’uccisione di mio padre, ma lei è felice per Maurizio Campagna, io ho solo pensato che è stato il compimento naturale della giustizia. Uno viene condannato, poi va in carcere. La pena non svanisce, questo ho sempre spiegato ai ragazzi”, che hanno l’età di Francesca e di suo fratello il 17 febbraio 1981, il padre Luigi stava andando al Policlinico, era direttore sanitario, lo ammazzarono con un fucile caricato a pallettoni, era il commando della colonna Walter Alasia delle Br. “Ho visto in tv un dibattito con il figlio di Torregiani, c’era un tizio che diceva “ma forse non è stato Battisti”. Ho pensato: meno male che non sono lì, io non andrei mai a una trasmissione del genere. Non sono offesa dallo spettacolo, ma certo è diverso che andare sulla frana in Veneto con il giubbotto della Forestale”, qui c’è un carico di dolore che fa paura, solo ad avvicinarsi, anche dopo anni, e uno come Lorenzo Biagi, 29 anni, ne aveva tredici quando seppe del padre Marco, l’altro giorno in piazza Verdi a Bologna ha visto uno striscione, “Battisti libero, onore ai compagni e alle compagne combattenti”, “ho pensato che non c’è memoria, c’è ignoranza, e sono disgustato dal fatto che i comunisti italiani abbiano chiesto l’amnistia, dicono che la lotta armata è finita 40 anni fa. E mio padre? Era il 2002. E D’Antona? Era il 1999”. Dietro all’arresto “c’è stato il fondamentale lavoro dei servizi investigativi italiani”. E dei magistrati, e “la cattura è stata la conferma della correttezza delle nostre procedure di allora, dei processi e delle sentenze”, dice Alessandra Galli, ma l’operazione mediatica “potrebbe svilire questi aspetti positivi, e il momento poteva essere un’occasione di riflessione per la nazione, ma il focus si è spostato su una rappresentazione grottesca”, il circo, appunto. “C’è sempre la corsa ad appuntarsi la medaglia sul petto”, e anche Marco Alessandrini è figlio di magistrato. Emilio, sostituto procuratore, il 29 gennaio fanno 40 anni dall’uccisione. “Come abbiamo vinto il terrorismo? Con la legge. Penso a Galli, morto con il codice in mano”, perciò “uno Stato è forte perché legifera, esercita il potere, compreso quello sanzionatorio, non certo perché si mette in mimetica”, quindi la passerella dei ministri appare “come una nota stonata”. E indigna quella frase del ministro Salvini (“Battisti marcirà in carcere”), Manlio Milani lo ha detto a nome dei familiari delle vittime di piazza della Loggia, “così si indica ai cittadini, con un linguaggio violento e pieno di odio, che la giustizia, e quindi la pena, è semplicemente vendetta”. “La notizia a effetto prevale sulla riflessione, Salvini ha usato Battisti come simulacro per fare propaganda, eliminando tutta la complessità dei fatti e prendendosi meriti non suoi”, dice Luca Tarantelli, figlio di Ezio, economista ucciso dalle Br nel 1985. E ricorda che “le forze dell’ordine funzionano a prescindere da chi è ministro dell’Interno”, e poi “c’è tutto il lavoro nostro, che da anni cerchiamo di sensibilizzare, di portare avanti una narrazione nuova di quegli anni”. Massimo Coco, figlio del procuratore generale di Genova, ucciso nel 1976 dalle Br, dice “tutti noi abbiamo sempre chiesto giustizia, non l’esibizione dello scalpo, non i toni trionfalistici da festa nazionale, non il coro da stadio”. Dice anche che “la giustizia non è un regalo, e che non è tollerabile che un ministro insulti il prigioniero”. Tra l’altro, Coco aspetta ancora “una verità giudiziaria sull’assassinio di mio padre. C’è ancora un conto aperto, non solo il mio”, e proprio in fine aggiunge che “mio padre è morto per difendere la legge, ma non la legge del taglione”, proprio no. Quel filmino ci fa sentire meno protetti di Michele Serra La Repubblica, 17 gennaio 2019 Catturarlo era il mio lavoro e l’ho fatto, ma non brinderò mai alla tristezza altrui”. Speriamo di non mettere in cattiva luce presso i suoi superiori la dottoressa Cristina Villa - la poliziotta che ha fatto arrestare Cesare Battisti - dicendo che le sue parole sono semplicemente perfette, dal punto di vista professionale come da quello umano. In particolare “non brinderò mai alla tristezza altrui” è una di quelle frasi che meriterebbero di restare. Meriterebbe di restare nei ministeri, nelle redazioni dei giornali e dei telegiornali, ovunque si confezioni la materia umana per lo spettacolo permanente nel quale siamo immersi non sempre lucidamente. Ha perfino, quella frase, dignità letteraria, pare uscita dalla penna di un giallista di vaglia, nessun bravo investigatore (non Maigret, non Montalbano, non Padre Brown) si sognerebbe mai di fare la ola, o il gesto dell’ombrello, o tweet congeneri, davanti a un criminale assicurato alla giustizia Sono parole, quelle della detective Villa (non per caso una donna in mezzo al gran ballo mediatico di soli uomini) di gran lunga migliori, più precise, più meditate, di quelle spese da due ministri di prima importanza, da un alto magistrato come Davigo, da eserciti di commentatori sovreccitati che si sono esibiti in televisione con toni e volumi da “Processo del lunedì”. Bastava dunque una frase di normale misura per mettere la parola fine alle polemiche di questi giorni e per mettere d’accordo la legge e il rispetto delle persone coinvolte: non esiste conflitto tra l’una e l’altro, se non in una comunità (la nostra) che minaccia di perdere cognizione sia dell’una sia dell’altro. Tradotto in parole semplici: se si deve parteggiare per la legge, si deve anche sapere che la legge non prevede l’ostensione del reo come la preda di una battuta di caccia. Uno Stato che si manifesta con la divisa e le parole della dottoressa Villa è uno Stato che rassicura. Perché sa fare il proprio mestiere; e poiché lo sa fare, regola le proprie azioni e le proprie urgenze in funzione delle indagini in corso e non in funzione dei tigì di prima serata. Uno Stato che parla con la voce di Salvini e Bonafede invece non rassicura affatto, e anzi ci fa sentire meno protetti e meno garantiti. In specie, il filmino del ministro di Grazia e Giustizia (di Grazia e Giustizia!) è uno sgarbo puerile, un errore imperdonabile in un uomo di Stato, ammesso che “uomo di Stato” sia un espressione che dice qualcosa a uno che usa la tragedia del terrorismo come un piccolo plot social a consumo dei suoi followers. A proposito dei due ministri vale aggiungere che l’accoppiata leghista cattivo/grillino sciocco meriterebbe, almeno ogni tanto, una variante: grillino cattivo/leghista sciocco. Almeno per animare un copione ormai risaputo. No ai trofei, rispetto dei diritti di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 17 gennaio 2019 Prima di fare ingresso nella struttura di massima sicurezza che lo custodirà probabilmente per il resto della sua vita abbiamo visto Cesare Battisti sfilare tra ali di folla esultante e primi ministri in divisa gongolanti per il nuovo trofeo, frutto della fortunata operazione politico/mediatica destinata alla raccolta di ulteriori consensi. Prima ancora abbiamo visto Battisti in Bolivia, in manette, nei momenti immediatamente successivi al suo arresto, sull’aereo di Stato che lo riportava in Italia, scendere le scalette, sottoporsi alle procedure di identificazione ed infine in quel video diffuso sui media in cui, in posa rassegnata, stretto fra gli Agenti della Polizia penitenziaria, mostrava il volto della resa incondizionata e senza speranza. Immagini che non avremmo voluto vedere se è vero che la privazione della libertà deve sempre eseguirsi in condizioni che assicurino il rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, senza che si possa aggiungere umiliazione alla pena che l’individuo, in condizione di vulnerabilità per il fatto stesso di essere privato della libertà, andrà a scontare. L’esigenza di sicurezza e la necessità di garantire il rispetto della legge e delle sentenze, infatti non può, mai, in nessun caso, fare perdere di vista il rispetto dei diritti fondamentali. Si intravede, viceversa, nelle immagini successive alla cattura di Battisti una inutile esibizione di forza ed una evidente strumentalizzazione dell’individuo per fini meramente propagandistici e di generale politica criminale tesa quest’ultima ad appagare veri o presunti - o, peggio alimentati- bisogni collettivi di stabilità e sicurezza. Non potendosi, dopo oltre quarant’anni dalla commissione del reato, ragionevolmente invocare la funzione rieducativa della pena, è alla pura afflizione che tende questa operazione. Nelle espressioni del Ministro che assicura: “l’assassino marcirà in galera” ritroviamo, in tutta la sua triste verità, un concetto di carcere come luogo di espiazione della pena senza speranza, l’aspirazione alla esclusione del condannato dal consorzio umano. Il carcere come discarica sociale, come risposta mediatica ai bisogni di protezione, come luogo in cui canalizzare le ansie collettive. Tra qualche giorno, cessato il clamore mediatico, calerà il silenzio sul suo arresto e Cesare Battisti tornerà ad essere uno dei tanti detenuti in espiazione di una pena senza fine, senza benefici, in isolamento, in una struttura carceraria di alta sicurezza e tutti potremo nuovamente sentirci sollevati. in attesa di vivere un altro “giorno felice”. *Presidente della Camera Penale di Oristano Elogio di una poliziotta di Pietro Spataro strisciarossa.it, 17 gennaio 2019 Quello che è accaduto in questi giorni attorno all’arresto del terrorista Cesare Battisti è stato un pessimo segno del declino civile e democratico del nostro Paese. Lo spettacolo offerto da due ministri della Repubblica - e due ministri di peso, come quelli dell’Interno e della Giustizia - che sono accorsi all’aeroporto di Ciampino per accaparrarsi la “preda” è quanto di più indecente si potesse immaginare e quanto di più inappropriato potesse fare un rappresentante dello Stato. È stata scritta una bruttissima pagina. Per fortuna, accanto a un ministro che urla contro un “assassino comunista” al quale augura di “marcire in galera” e un altro che mostra tutta la sua indifferenza verso i diritti del detenuto al punto da postare sul web un ignobile video che riprende attimo per attimo l’arrivo di Battisti in galera meritandosi l’esposto dei penalisti, c’è una donna che ci fa ritrovare l’orgoglio di essere italiani. Si chiama Cristina Villa, ha 45 anni, è vicedirigente della Digos di Milano e capo della sezione antiterrorismo. È stata lei, incrociando dati e flussi di traffico telefonico, collegamenti web e accessi alle reti wifi, a scoprire che Battisti era fuggito in Bolivia dal Brasile. È stata lei, insieme ai suoi colleghi, a individuare il luogo dove si trovava. Un lavoro lungo, tenace, faticoso. Un lavoro da non far dormire la notte, che alla fine ha permesso l’arresto. Ebbene, questa poliziotta ha raccontato in un’intervista a Repubblica il suo lavoro, le varie fasi dell’”inseguimento” e la cattura con parole equilibrate, mai sguaiate, mai feroci. Ha guardato quell’uomo negli occhi e ha visto “uno sconfitto”, uno che proprio “non aveva il ghigno strafottente” che qualche giornale ha voluto vedere. Ha raccontato la sua richiesta di poter tenere con sé la foto del bimbo, “una fototessera in bianco e nero che aveva nel portafogli”, alla quale ovviamente ha acconsentito. Ha spiegato che gli è dispiaciuto avergli dovuto sequestrare la carta di credito che gli serviva a “mantenere suo figlio”, ma la legge non lo ammette e lei era obbligata a farlo. Ma lo ha anche rassicurato: potrà fare istanza per riaverla. Ma il profondo senso della dignità del suo lavoro e del suo servizio allo Stato, Cristina Villa lo dimostra alla fine. Quando il giornalista le chiede se lei e i suoi colleghi hanno festeggiato la cattura di Battisti, lei risponde sicura: “Non ancora. Lo faremo, ma sia chiaro che festeggiamo il successo professionale, non la sua perdita della libertà. Catturarlo era il mio lavoro, e l’ho fatto. Ma io non brinderò mai alla tristezza altrui”. Ecco, rileggete attentamente queste parole, una ad una: non festeggio la perdita della libertà, non brinderò mai alla tristezza altrui. Sono belle parole. E sono la prova che in Italia per fortuna non ci sono solo ministri inadeguati e volgari, ma esistono persone così. Esposte nel loro lavoro, drammaticamente coinvolte, travolte dalla tensione e dallo stress che certi incarichi comportano e che però, nonostante tutto, riescono a mantenere l’equilibrio che il loro ruolo richiede. Persone che sanno che cos’è un arresto, che cosa il diritto di un detenuto, quale differenza c’è tra il ghigno compiaciuto e la soddisfazione professionale. E quale differenza c’è tra uno Stato di diritto e uno Stato vendicatore. Uomini come Matteo Salvini e Alfonso Bonafede, che in questa vicenda hanno mostrato tutta la loro miseria umana e politica, dovrebbero imparare da questa donna che lavora seriamente per lo Stato di cui loro dovrebbero essere i rappresentanti. Perché è lei che lo rappresenta al meglio, questo Stato. È lei che ci rappresenta e che ci fa sperare che certe iniezioni di odio e di cattiveria possano ancora essere neutralizzate con il vaccino della civiltà. Caso Mered. Anche la voce non è quella del trafficante di esseri umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 gennaio 2019 Su 9 tracce della perizia fonica 6 sono incompatibili con l’imputato e 3 inconclusive. Non solo ci sono prove come i test del Dna e decine di testimonianze che lo scagionerebbero, ma ora c’è anche la perizia fonica della Corte d’Assise di Palermo presieduta dal giudice Alfredo Montalto che dimostra come la voce dell’imputato non corrisponde a quella del vero ricercato che si sente parlare nelle intercettazioni. Parliamo di un eritreo che da tre anni è in carcere con l’accusa di essere lo spietato trafficante di esseri umani Medhanie Yehdego Mered e c’è un processo in corso. Di questa storia si era parlato soprattutto sui giornali internazionali. A luglio del 2017 il New Yorker aveva pubblicato un articolo molto approfondito che metteva in fila le moltissime prove che sostengono la versione dell’imputato sbagliato, così come Il Guardian a firma di Lorenzo Tondo, un giornalista siciliano esperto di cose di mafia che collabora con diversi giornali internazionali. Il 24 maggio del 2016 in Sudan era stato arrestato un uomo che era stato estradato in Italia il 7 giugno e rinviato a giudizio a settembre del 2017. L’uomo sarebbe però Medhanie Tesfamariam Berhe, eritreo di 30 anni, e non Medhanie Yehdego Mered, uomo di 36 anni originario dell’Eritrea accusato di essere uno dei capi di una grande organizzazione con base in Libia che gestisce il traffico di migranti verso l’Europa, e coinvolto nei viaggi di almeno 13 mila persone. Nel giugno del 2016 il ministero dell’Interno italiano e la National Crime Agency del Regno Unito avevano annunciato con una certa enfasi l’arresto in Sudan e l’estradizione in Italia di Medhanie Yehdego Mered. I magistrati della Procura di Palermo avevano intercettato per mesi il cellulare di Mered raccogliendo informazioni sul suo conto e sulle sue attività. Dopo l’arresto i media britannici avevano cominciato ad avere dei dubbi, scrivendo che la persona arrestata e ora sotto processo fosse in realtà un altro: che non era mai stato in Libia, che non aveva niente a che fare con la presunta rete per il traffico di migranti e che si era dichiarato innocente. Con il trafficante condivideva semplicemente un nome molto comune. Tante sono le prove portate dal suo avvocato difensore Michele Calantropo, non da ultimo il test del dna che ha dimostrato con assoluta certezza che il figlio del trafficante non è dell’uomo in carcere. Un test, l’ennesimo, che però non è servito a cambiare le sorti del processo. Ma ieri è giunta la perizia fonica della Corte e si aggiunge, più che un tassello, un dato che potrebbe essere definitivo e abbastanza forte per dimostrare che in carcere c’è la persona sbagliata. È l’avvocato Calantropo, raggiunto da Il Dubbio, a dire che “Dopo tre test del Dna e dopo aver ascoltato decine di testimoni oculari, il risultato della perizia confermano l’innocenza del mio assistito che è sempre dichiarato estraneo ai fatti imputatigli”. Dalla perizia, infatti, si evince che, su nove tracce analizzate, 6 sono incompatibili con l’imputato e 3 sono inconclusive. Si è valutato il grado di compatibilità tra le caratteristiche vocali di due soggetti mediante la comparazione delle diverse tracce lasciate. In particolare le informazioni estratte forniscono un supporto, che ha consentito di stabilire in che grado la voce di riferimento e quella anonima siano della stessa persona o se siano di due persone diverse. È stata utilizzata la parola Hello e la parola Heray: sulla prima comparazione dell’uso della prima parola, nel saggio fonico viene pronunciata sempre con la “e” mentre in tutte le voci anonime viene invece pronunciata con la “a” risultando “halo”. Differenze sono state rilevate anche nella pronuncia della parola “heray”: nelle voci anonime risulta sempre molto più aspirata e con una “a” più aperta mentre nel saggio fonico, la parola viene pronunciata in maniera molto più corta e meno aspirata. La perizia segnala che le considerazioni si fanno senza sapere se la voce anonima conosca più dialetti; ciò in evidente coerenza con il fatto che l’uso della lingua e delle vocali con trasformazione di “a” in “e” cambia a seconda del dialetto che si parli. La perizia, basandosi sulle informazioni disponibili, ritiene che “le comparazioni acustiche producano un supporto moderato verso l’incompatibilità” nelle sei tracce. Diversamente, ritiene che “i risultati sulle altre coppie di parlatori siano da considerarsi inconclusivi”. La tenuità del fatto non va esclusa a priori per chi coltiva marijuana Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2019 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 16 gennaio 2019 n. 1766. La Cassazione ritiene che non si possa escludere a priori il beneficio della tenuità del fatto per chi coltiva marijuana, quando la pianta arriva alla fase del germoglio. Con la sentenza n. 1766di ieri la Cassazione penale coglie l’occasione per precisare quando si debba ritenere compiuto (‘consumato’) il reato previsto dall’articolo 73 del testo unico degli stupefacenti e, soprattutto quando sia ravvisabile l’abitualità della condotta penalmente sanzionata. E lo fa raddrizzando la barra della sentenza impugnata, ma senza annullarla. Infatti i giudici di merito se pur correttamente, nel caso concreto, hanno affermato l’abitualità del comportamento hanno però sbagliato nel ritenere come abituale - a prescindere - l’attività della coltivazione della pianta di marijuana, per la necessaria ripetizione delle cure dovute all’essenza vegetale fino alla maturazione e/o alla raccolta dei frutti. La cassazione chiarisce che il proprio precedente - su cui si è fondata la sentenza impugnata ora confermata - individuava appunto nella germinazione del seme di marijuana la consumazione del reato. Ma il sopraggiungere del germoglio, se realizza il reato non può però determinare - di per sé - la caratteristica dell’abitualità della condotta. Ciò che rileva è la ripetitività delle azioni di cura fino alla piena maturazione o - come nel caso concreto - alla raccolta dei frutti della pianta vietata. Come dice la Cassazione non è ontologicamente incompatibile la coltivazione della canapa stupefacente con la causa di non punibilità dell’articolo 131 bis del codice penale. Bancarotta fraudolenta: niente sequestro di beni non attinenti al reato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 gennaio 2019 n. 1971. Due i principi espressi dalla Cassazione con la sentenza della quinta sezione penale n. 1971/19. In primo luogo in materia di bancarotta fraudolenta e in particolare di sequestro preventivo alla confisca del profitto, il Tribunale del riesame può esclusivamente valutare la misura cautelare sotto i profili del fumus boni iuris e del fumus commisi delicti. La Cassazione, quindi, con la sentenza ha precisato che il Tribunale non può entrate nel merito delle questioni che hanno portato alla sequestrabilità (articolo 321, comma 2 del del cpp). Secondo principio - In secondo luogo i Supremi giudici hanno precisato che per quanto riguarda la confiscabilità del denaro senza prova della pertinenzialità rispetto al reato, questa è consentita solo nei confronti del soggetto che abbia visto le proprie disponibilità monetarie implementarsi di quelle somme provenienti dal reato e non già di altri, che non abbiano partecipato dell’arricchimento. Compensi non sequestrabili - E alla luce di questi principi, quindi, laddove l’amministratore di una società abbia percepito legittimamente dei compensi in funzione della carica rivestita, tale somma non potrà essere ritenuta profitto del reato, salvo che non si provi che vi sia un’osmosi tra persona giuridica e persona fisica che la rappresenta come nel capo di società che agisca quale schermo a copertura della persona fisica. Ostacolo vigilanza, legittima la confisca all’ad della banca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 1991/2019. Non è sproporzionata la confisca dei beni utilizzati dall’amministratore delegato della banca per ostacolare le funzioni di vigilanza di Consob e Bankitalia. Mentre non può essere aggredito il patrimonio dell’istituto bancario rimasto estraneo a condotte dalle quali non è stato avvantaggiato ma danneggiato. La Cassazione (sentenza 1991) ha respinto il ricorso dell’ex Ad di Veneto banca Vincenzo Consoli, contro il maxi sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente di beni mobili e immobili, disposto dal Tribunale di Treviso, che ha “allargato” la misura cautelare anche al conto corrente intestato alla moglie dell’ex amministratore, per un totale di oltre 45 milioni di euro. Somma che, per i giudici, era pari a quella utilizzata dal manager indagato per ostacolare l’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, Consob e Bankitalia. La condotta, di rilievo penale, prevista dall’articolo 2638 del Codice civile, sta nell’ aver comunicato “un patrimonio di vigilanza non corrispondente al vero perché non decurtato dal valore di una pluralità di operazioni che l’indagato aveva posto in essere con enti e persone fisiche con l’impegno, da parte della banca, di riacquisto degli strumenti finanziari ceduti, per un valore complessivo ingente”. Valore quantificato in 45,425 milioni. L’indagato aveva compiuto una serie di operazioni per simulare un apprezzamento del mercato di strumenti finanziari, il cui riacquisto veniva invece da lui garantito in nome della banca. La Cassazione respinge le tesi della difesa, a iniziare dai dubbi di costituzionalità della misura adottata in base all’articolo 2641 del Codice civile, anche alla luce delle modifiche apportate all’articolo 187 sexies del dlgs 58/998 dall’articolo 4 del dlgs 107/2018. Un intervento con il quale è stata esclusa la possibilità di precedere alla confisca, sia diretta sia per equivalente, dei beni utilizzati per commettere l’illecito amministrativo limitando la misura “al prodotto o al profitto dell’illecito”. Una nuova risposta sanzionatoria che, spiega la Cassazione, riguarda i soli illeciti amministrativi, senza alcun effetto sulle condotte di rilevo penale, come dimostrato dal fatto che, ancora oggi, l’articolo 187 del Tuf consente la confisca dei beni strumentali alla consumazione dei delitti di insider trading e aggiotaggio. Per la Cassazione “Non si è creato pertanto - quell’unicum, rappresentato dalla sola disciplina prevista dall’articolo 2641 del Codice civile, in tema di confisca per equivalente dei beni utilizzati per compiere il reato, che il ricorrente denuncia per argomentare ulteriormente l’illegittimità costituzionale di tale norma”. Né la Suprema corte può accogliere la richiesta di vincolare i beni della banca che dall’ostacolo posto alla vigilanza aveva avuto solo danni, in quanto aveva contribuito a ritardare i rilievi della autorità e, in definitiva, ad accentuare lo squilibrio finanziario dell’istituto. Addio a Ottoboni, il fondatore delle carceri senza guardie di Marco Tassinari avveniredicalabria.it, 17 gennaio 2019 Fondò in Brasile le Apac, sperimentazione anche in Italia. “A Mario Ottoboni va il nostro grazie, per il suo impegno nelle carceri brasiliane e per l’ideazione di un metodo - quello delle carceri Apac - che è riconosciuto dall’Onu come migliore strumento rieducativo dei detenuti a livello mondiale. Siamo certi che dal cielo continuerà a lavorare a favore del popolo dei quasi 10 milioni di detenuti di tutto il mondo, perché possano vivere in luoghi di recupero sociale ed umano, piuttosto che di punizione o di vendetta”. È questo il commento di Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, alla notizia della morte di Mario Ottoboni, fondatore nel 1972 delle Associazioni di Protezione e Assistenza dei Condannati (Apac). La loro sperimentazione in Brasile ha portato al riconoscimento istituzionale di quei luoghi di detenzione in cui le chiavi delle celle sono in mano agli stessi detenuti; le persone che vivono negli Apac, anche 150 - 200 in strutture prive di guardie carcerarie, sono impegnati in un cammino di rielaborazione dei reati commessi, in vista del reinserimento in società. “Negli Apac la recidiva (il numero di persone che tornano a commettere reati dopo il carcere) scende dall’80% delle carceri tradizionali al 10%. Nell’equivalente delle Cec (Comunità educanti con i carcerati), 7 in Italia e 2 in Camerun, affiliate alle Apac dal 2016, la nostra sperimentazione ha portato la recidiva al 15%. Vuol dire che all’uscita delle carceri tradizionali 8 persone su 10 tornano a delinquere, con pericolose conseguenze di sicurezza, ma che questo problema può essere risolto”, spiega Ramonda. “Ottoboni è stato un maestro di redenzione; dopo un importante cammino di conversione ha chiesto ed ottenuto di andare a vivere nelle carceri brasiliane, condividendo la cella con gli altri detenuti. La sua forza è stata quella di aver saputo raccogliere attorno a sé un gruppo di volontari, giuristi e magistrati, che ha portato alla creazione delle Apac, modello che oggi è sperimentato in 23 paesi del mondo”. Udine: “Il piacere della legalità”, ex detenuto si racconta agli studenti di Lara Clocchiatti e Sara Sgrazzutti* Messaggero Veneto, 17 gennaio 2019 Iniziativa a scuola con Icaro e l’Ufficio per l’esecuzione penale Il messaggio ai giovani: “Ascoltate sempre la vostra coscienza”. Un confronto senza barriere: un colloquio in cui due umanità si incontrano e dialogano apertamente è quello che si concretizza nel progetto “Il piacere della legalità? Mondi a confronto”, nato 12 anni fa, e che vede studenti e detenuti mettersi in discussione. I racconti del passato, le storie di come si è arrivati alla rottura del patto con la legge, riferiti senza alcun muro che ostacoli l’approfondimento di temi, quali la consapevolezza del reato e gli effetti di quest’ultimo. Il progetto che coinvolge otto istituti scolastici, il carcere e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna Uepe), ha promosso, insieme all’associazione Volontariato Giustizia Icaro, l’iniziativa “A scuola di libertà”. All’incontro tra scuola e carcere tenutosi al liceo Percoto, hanno partecipato 150 studenti dei licei Percoto e Sello. In apertura, la presidente di Icaro, Roberta Casco ha spiegato che l’associazione, nata nel 1994 al termine di un corso per assistenti volontari penitenziari, ha lo scopo di sostenere le persone detenute, collaborare con i servizi sociali per il loro reinserimento nella società e mantenere viva l’attenzione sui temi della legalità. Successivamente gli studenti, guidati da Andrea Monculli, educatore professionale del Servizio per le dipendenze patologiche (Sert), hanno dialogato con gli operatori penitenziari: Lionella Manazzone, magistrato di sorveglianza; Irene Iannucci, direttrice della Casa circondariale; Stefania Gremese, direttrice Uepe, Natascia Marzinotto, garante dei diritti dei detenuti. Molti i temi trattati: la responsabilità individuale, il rispetto delle regole, l’ordinamento penitenziario, la privazione della libertà, le pene alternative al carcere, le problematiche connesse alle devianze. Toccante e significativa è stata la testimonianza di un ex detenuto, Lorenzo, che ha vissuto l’esperienza del carcere dal 2009 al 2012. Ha riposto alle domande degli studenti, interessati a conoscere la sua storia. “Da ragazzo - ha raccontato - ero considerato un bullo. Non immaginate quanto sia facile passare da azioni che possono sembrare stupide, alla detenzione. Ho sempre saputo che stavo facendo qualcosa di sbagliato, pertanto vi invito ad ascoltare sempre la voce della coscienza. La prigione è un luogo di estrema sofferenza - ha continuato - anche per il fatto di convivere in cella con altre sei-sette persone, con le quali spesso i rapporti sono difficili, perché ognuno si porta dietro esperienze di vita dura. Inoltre, per assurdo, se hai una famiglia alle spalle che si prende cura di te, ti vuole bene e ti aspetta fuori dal carcere, soffri di più. Una sofferenza a volte maggiore di quella provata da chi non ha nessuno che lo aspetta. In carcere, per parlare con i propri cari c’è soltanto un’ora la settimana. Io mi porto ancora dietro il dolore immenso per aver perso mia madre mentre ero in carcere. Non aver potuto esserle vicino, per me è stata una doppia tragedia, a cui non c’è consolazione”. Oggi Lorenzo conduce una vita normale. Lavora come coordinatore in una cooperativa sociale che si occupa di dare lavoro alle persone in difficoltà. Questa attività gli procura molta soddisfazione. *Liceo Percoto Udine Salerno: tragedia nel carcere di Fuorni, uomo trovato cadavere nella sua cella agropolinews.it, 17 gennaio 2019 L’uomo deceduto è un detenuto del carcere di Fuorni: si chiamava Giuseppe Montanera, 54enne di Mercato San Severino. Il cadavere di Montanera è stato trovato nella sua cella dagli agenti della polizia penitenziaria. L’uomo, che sarebbe deceduto per cause naturali, era tossicodipendente, viveva sulla sedia a rotelle ed era affetto da diverse patologie invalidanti. La sua pena sarebbe terminata nel 2021. “Oramai neanche più la solita tardiva solidarietà pelosa delle istituzioni, da anni il Tribunale di Sorveglianza e la Procura della Repubblica, l’Asl e il Comune di Salerno (il Sindaco è la massima autorità sanitaria in Città) sono latitanti e abbandonano al suo tragico destino l’intera Comunità Penitenziaria di Fuorni, che resiste soltanto grazie alla forza della nonviolenza e ai pochissimi volontari cattolici del mio amico Don Rosario Petrone - dice Donato Salzano, del Partito Radicale - Del resto poi come al solito si assiste indifferenti ancora all’ennesima strage di diritto ad opera di una famelica e insaziabile “Peste italiana” divenuta da tempo europea. Lì dove c’è strage di diritto la c’è strage di popolo, ammoniva sempre Marco Pannella, proprio lì alla sezione dedicata ai tossicodipendenti sono stato in visita recentemente con Rita Bernardini, insieme agli ultimi tra gli ultimi, per essere ancora speranza contro questa dilagante epidemia pestifera generata dalla sempre apparentemente innocua sottovalutata banalità del male”. Campobasso: niente permessi premio, sciopero della fame ad oltranza per 86 detenuti isnews.it, 17 gennaio 2019 Detenuti in sciopero della fame, per dare maggiore evidenza ad una problematica sulla quale, in 86, hanno presentato una richiesta di verifica. Si tratta della concessione dei permessi premio previsti dall’ordinamento penitenziario. Nei giorni scorsi, il Garante regionale dei diritti della persona e dei detenuti, Leontina Lanciano, e il vice presidente del Consiglio regionale, Gianluca Cefaratti, sono stati in visita alla Casa di reclusione di Campobasso e hanno incontro alcuni detenuti che, appunto, hanno reso pubblico il documento nel quale hanno comunicato di aver cominciato da alcuni giorni lo sciopero della fame e le motivazioni alla base della protesta. I due rappresentanti istituzionali hanno incontrato i detenuti ascoltando le loro ragioni e si sono informati della questione che è stata sollevata dalla gran parte dei sottoposti alla misura della reclusione. Lo sciopero della fame alternato, una settimana a testa per gruppi di 5/7 detenuti, andrà avanti a oltranza. Benevento: carcere, meno suicidi con gruppo help e “peer supporter” di Luella De Ciampìs Il Mattino, 17 gennaio 2019 L’Asl di Benevento sottoscrive il piano locale con la casa circondariale di Capodimonte per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere e istituisce il gruppo Help. Si tratta di un team multidisciplinare, composto da medici, psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori e polizia penitenziaria, deputato a valutare le situazioni di disagio che possono verificarsi sia al momento dell’ingresso nella struttura, che nel corso della detenzione, e a programmare interventi individualizzati e confronti tra gli operatori, per la verifica in itinere dell’intervento pianificato, anche con l’eventuale coinvolgimento della comunità e delle associazioni di volontariato. In particolare, il personale di polizia penitenziaria potrà svolgere un ruolo essenziale nell’intercettazione di situazioni a rischio e di allarme. Il progetto, tende a responsabilizzare anche gli stessi detenuti, sia nelle fasi di supporto, che in quelle di accoglienza, affidando ai compagni di detenzione ruoli di “peer supporter”. In definitiva, l’obiettivo del gruppo help è realizzare una rete di comunicazione tra le diverse figure professionali; chiunque rilevi un rischio saprà a chi e come comunicarlo, Sarà poi attivato un indirizzo di posta elettronica da utilizzare in caso di necessità e sarà creato un “diario di bordo” telematico, sul quale ogni operatore riporterà i vari interventi effettuati, che, attraverso la consultazione immediata da parte delle diverse figure coinvolte nel programma, consentirà di procedere con tempestività alla diffusione delle informazioni e alla messa in atto degli interventi, nel rispetto della privacy. In caso di rilevamento di disagio, il medico di turno si accerterà nel più breve tempo possibile del grading del rischio autolesivo. Dopo un periodo di sperimentazione di sei mesi il gruppo help verificherà l’efficacia del piano rispetto agli obiettivi indicati, e potrà proporre eventuali modifiche alla direzione del carcere e all’Asl, da effettuare previa approvazione dell’Osservatorio regionale. Torino: cento detenuti diventano giardinieri per curare parchi e aree verdi della città di Fabrizio Assandri La Stampa, 17 gennaio 2019 Si allarga il progetto sperimentale “Mi riscatto per Torino”. Cento detenuti-giardinieri usciranno dal carcere per curare i parchi cittadini. Si estende per numero di carcerati e per competenze il progetto che, insieme al Comune di Torino e all’Amiat, era già stato avviato. Ha riguardato in questi ultimi due anni trenta detenuti l’anno, che hanno affiancato gli operatori Amiat nella pulizia e nella cura di piccoli giardini per un lavoro per tre quarti retribuito e per un quarto di volontariato. “I casi in cui ci sono stati dei problemi e abbiamo dovuto revocare il permesso per il lavoro sono stati il 7-8 per cento, un numero di fallimenti del tutto fisiologico”, dice il direttore del carcere Lorusso-Cutugno Domenico Minervini. I detenuti escono, prendono il pullman, si affiancano ai lavoratori “normali” ed è stata finora “un’esperienza di successo”. Ieri la sindaca Chiara Appendino ha siglato un nuovo protocollo d’intenti, “Mi riscatto per Torino”, promosso dal ministero della Giustizia, che fa seguito ad analoghi accordi sottoscritti a Roma, Milano, Palermo e Napoli. Prevede di ampliare le opportunità lavorative e la formazione, rendendo più strutturato il progetto sperimentale. Dalla cura delle piccole aree verdi si passerà alla formazione, tra l’altro anche con l’Università, per avere competenze più ampie nel giardinaggio e “per costruirsi una professionalità da spendere una volta finita la pena”, ha detto la sindaca. Perciò verrà rilasciato anche un titolo, un’abilitazione. Si parte nella prima fase con cinquanta detenuti, selezionati tra coloro che sono giudicati a bassa pericolosità, poi dopo 4-6 mesi verranno avviati altri 50. Come ha spiegato l’assessore Alberto Unia non si tratta solo di lavori di pubblica utilità, ma si punterà su formazione e integrazione su più ambiti. Dentro e fuori il carcere. Ad esempio, dentro sarà allestito un ambulatorio veterinario, per la cura della colonia felina, e i carcerati daranno una mano affiancando i veterinari. Alla firma del protocollo c’erano anche il responsabile del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero Francesco Basentini, la garante dei detenuti del Comune Monica Gallo e la presidente del tribunale di sorveglianza Anna Bello. “Oggi c’è molta voglia di vendetta e il carcere risponde a questo desiderio - ha detto l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle Ammende che si occupa tra l’altro dei progetti di reinserimento dei detenuti e che finanzierà parte dei progetti torinesi. Ma non c’è solo vendetta, esiste nei cittadini un’apertura di fondo. Quando i progetti con i detenuti che lavorano all’esterno del carcere saranno più visibili, ci si renderà conto che non sono poi così distanti da noi”. Milano: a San Vittore la pena diventa un’opportunità grazie all’arte e alla musica agi.it, 17 gennaio 2019 “Avrò un altro figlio che nascerà a maggio: speriamo che sia femmina”. Sono parole di speranza quelle di Tony, detenuto dal 2008 con fine pena nel 2030 per un omicidio. Parole di un uomo che ha sbagliato, sta pagando e ora è una persona diversa: “Per mio figlio non ci sono mai stato, però ce l’ho messa tutta e lui ora è bravissimo, andrà all’università. Ha interrotto una tradizione familiare, perché io sono stato in carcere fin da quello minorile, e anche i miei genitori li ho visti entrare ed uscire”. Una storia di rinascita possibile grazie al percorso rieducativo che Tony ha seguito nella Nave, il reparto speciale del carcere di San Vittore, dove la pena diventa un’occasione e un’opportunità attraverso l’arte, la poesia, la scrittura: in una parola alla bellezza. Le attività sono organizzate dal reparto La Nave della Asst Santi Paolo e Carlo, reparto creato nel 2002 da Luigi Pagano e Gazzella Bertelli che oggi lo dirige. Il coro, che tutte le settimane prova nella rotonda di San Vittore, proprio sotto l’insegna del “IV Raggio” ha cantato “Ma Mi’“ insieme a un’ospite d’eccezione: Ornella Vanoni. Il concerto si è svolto davanti al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per intonare un canto in milanese che racconta la storia di un uomo che ha passato “quaranta dì, quaranta nott a San Vittur a ciapaa i bott” - quaranta giorni e quaranta notti a San Vittore - reso celebre da Enzo Jannacci. Canto “libero”, lo hanno ribattezzato gli organizzatori dell’evento, perché l’esibizione è stata trasmessa - grazie al supporto tecnico della Rai di Milano - in diretta alla Triennale, dove Daria Bignardi, nella sala gremita di spettatori, ha inframezzato le canzoni con interviste ai detenuti. L’iniziativa rientra nel programma di attività dell’associazione Amici della Nave - presieduta dall’avvocato Eliana Onofrio - che propone ai detenuti la prosecuzione dei trattamenti che vengono fatti all’interno del carcere anche una volta usciti e di cui fa parte anche la mostra di fotografia sull’istituto penitenziario di via Filangieri, “In Transito. Un Porto a San Vittore” del fotogiornalista Nanni Fontana (allestimento di Cesare Ventura realizzato da Carlo Battaini, installazioni audio di Pietro Leddi, testi di Fabrizio Ravelli, progetto grafico di Eva Scaini, coordinamento di Cuca Manzella): un viaggio per immagini tra i detenuti e le tante attività del reparto La Nave; a fare da guida durante la mostra anche alcuni ex pazienti del reparto (i detenuti ospitati qui, infatti, hanno avuto problemi di dipendenza da alcol e droghe, sono seguiti da specialisti dell’Asst S. Paolo e S. Carlo). “Soddisfatto” dell’iniziativa il direttore della casa circondariale Giacinto Siciliano: “Milano che è una città di eccellenza: non può non avere un carcere altrettanto di eccellenza, un luogo dignitoso dove il tempo sia tempo impegnato”. Una linea, quella della riabilitazione “attraverso il lavoro” condivisa anche dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Ogni giorno si deve pensare che in carcere ci sia un proprio familiare stretto: dobbiamo agire per il benessere carcerario, con la stessa ossessione di fare qualcosa per un nostro familiare, sia esso un detenuto o un agente di polizia penitenziaria”. Modena: “Sognalib(e)ro”, la scrittrice Helena Janeczek incontra i detenuti modena2000.it, 17 gennaio 2019 Nel percorso d’avvicinamento alla serata conclusiva del premio letterario per le carceri “Sognalib(e)ro”, in programma a Modena venerdì 8 febbraio, si inserisce una iniziativa organizzata da Bper Banca in collaborazione con Comune di Modena e Casa circondariale Sant’Anna. Dentro l’istituto penitenziario modenese, venerdì 18 gennaio, si svolge infatti un incontro con Helena Janeczek, la scrittrice vincitrice del Premio Strega 2018 con “La ragazza con la Leica” (Guanda), che presenterà il suo libro. “Le mie poche esperienze di incontri nelle carceri mi hanno fatto capire - ha detto la scrittrice - che tutte le letture sono ‘d’evasionè. Sono uno strumento per andare oltre il luogo in cui ti trovi e oltre la tua vita, regolata da norme o situazioni imposte. Le letture - ha aggiunto - consentono di prendersi spazi al di là della propria vita, e questo naturalmente vale per tutti, anche chi è libero”. Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre 30 anni. È autrice dei romanzi “Le rondini di Montecassino” (Guanda, 2010), finalista al premio Comisso e vincitore del premio Napoli, del premio Onofri e del premio Pisa, “Lezioni di tenebra” (Guanda, 2011) e “La ragazza con la Leica” (Guanda, 2017), che nel 2018 ha vinto il premio Strega e il premio Bagutta. Il suo sito internet è: helenajaneczek.com. Il premio “Sognalib(e)ro” per detenuti di carceri italiane è promosso dal Comune di Modena con Direzione generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e con il sostegno di Bper Banca. La giuria presieduta da Giordano Bruno Ventavoli, responsabile dell’inserto Tuttolibri del quotidiano La Stampa è composta da scrittori di primissimo piano. Ne fanno parte Elena Ferrante, autrice di “L’Amica geniale” (Edizioni e/o), Walter Siti, premio Strega 2013 con “Resistere non serve a niente” (Rizzoli) e Antonio Manzini, sceneggiatore e scrittore, autore delle storie del vicequestore Rocco Schiavone (Sellerio), con Antonio Franchini, scrittore e direttore editoriale della Casa editrice Giunti. Il Premio “Sognalib(e)ro”, di cui si è chiusa la parte di raccolta dei voti e degli inediti provenienti dalle otto carceri italiane aderenti, si articola in due sezioni. Nella prima, una giuria composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri attribuisce un premio al migliore in una rosa di tre romanzi recenti di autori italiani, scelti da una giuria di scrittori. Il premio consiste nell’invio alle carceri partecipanti, dei “libri della vita” scelti dall’autore decretato vincitore. Nella sezione rientra il Premio BPER Banca, riconoscimento speciale allo scrittore vincitore atteso a Modena per la serata conclusiva l’8 febbraio. La seconda sezione del premio è quella degli inediti. La giuria di esperti attribuisce il premio a un’opera scritta da un detenuto/a. Il premio consiste nell’eventuale pubblicazione e nella donazione da parte della casa editrice Giunti di una dotazione di libri alla biblioteca del carcere del vincitore, che sarà decretato l’8 febbraio. Roma: carcere, gli affetti perduti in scena al teatro India di Teresa Valiani Redattore Sociale, 17 gennaio 2019 Da domani al 20 gennaio torna “Famiglia”, lo spettacolo della drammaturga Valentina Esposito che vede impegnati anche ex detenuti. Sul palcoscenico pure Marcello Fonte, il Dogman di Matteo Garrone. Il matrimonio dell’ultima e unica figlia femmina di una numerosa famiglia tutta al maschile diventa il pretesto per riunire tre generazioni di persone legate da antichi dolori e incomprensioni irrisolte, per rimettere sullo stesso tavolo i padri dei padri e i figli dei figli, e consumare una vicenda d’amore e d’odio, sospesa tra passato e presente, sogno e realtà. Torna in scena, da domani al 20 gennaio al teatro India di Roma, “Famiglia”, della drammaturga e regista Valentina Esposito, fondatrice della factory Fort Apache Cinema Teatro, un progetto teatrale rivolto a detenuti ed ex detenuti per il loro inserimento nel sistema spettacolo. “La pièce - spiega la regista - prova a scandagliare l’anima di uomini che nei lunghi anni di reclusione hanno sofferto per gli affetti lontani, per i figli distanti, per gli amori perduti, e si trovano ora a tentare una ricostruzione emotiva di un rapporto difficile fatto di rivendicazioni e ribellioni”. “Famiglia” è una produzione Fort Apache Cinema Teatro, gode del Patrocinio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale ed è realizzata in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma - Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte e Spettacolo Saras. Numerosi gli obiettivi raggiunti fino ad oggi e le collaborazioni tra gli attori di Fact e importanti registi contemporanei come Francesca Comencini, Claudio Caligari, Stefano Sollima, Sidney Sibilia, Daniele Luchetti, Valerio Mastandrea, Marco Ponti e Matteo Garrone che trova nel volto di Marcello Fonte quello del suo Dogman, che sbanca il Festival di Cannes 2018 aggiudicandosi la Palma D’Oro e vince come Miglior Attore agli oscar europei, gli European Film Awards. Insieme a Fonte sono tanti gli attori (ex detenuti e non) che danno vita all’esperienza di Fact: Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi e Cristina Vagnoli, tutti interpreti sul palcoscenico del Teatro India. “Questo spettacolo - racconta Valentina Esposito - è dedicato a chi non c’è. Ai figli lontani e ai padri che sono morti mentre i figli erano lontano. Sulla scena ci sono tutti, le persone, i personaggi e i fantasmi. Non importa se non c’è più il muro di un carcere a separarli. Ancora una volta questi attori usano il teatro per quello che serve, per colmare una distanza, per aggredire il senso di colpa, per sostenere il peso del giudizio. Per parlare a chi forse è in platea o a chi forse non c’è più. Ed è in questo sforzo ed in questa necessità che ci raccontano della famiglia, della ferocia degli affetti, dell’amore e della violenza, della solitudine. Del tempo che passa. In un semplice, tragico, commovente passaggio dalla realtà alla finzione”. L’immigrazione nella comunicazione politica di Andrea Federica De Cesco Corriere della Sera, 17 gennaio 2019 Un tema che catalizza l’attenzione (anche quando è marginale). L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in collaborazione con Fondazione Ismu ha analizzato l’incidenza dell’argomento nelle campagne elettorali per il rinnovo della presidenza in Lombardia e in Lazio nel 2018. L’immigrazione, ormai, domina il discorso politico quasi quotidianamente. Eppure nelle ultime campagne elettorali - e, in particolare, durante quelle per il rinnovo della presidenza in Lombardia e in Lazio nel 2018 - ha rivestito un’importanza minore di quella che ci sarebbe potuti aspettare. Lo dimostrano i dati di un’indagine dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in collaborazione con Fondazione Ismu, che analizza l’incidenza della tematica migratoria nella comunicazione politica italiana e la sua copertura da parte dei media tradizionali e non. I risultati della ricerca sono stati raccolti nel volume “Migrazioni e comunicazione politica. Le elezioni Regionali del 2018 tra vecchi e nuovi media” (edito da Franco Angeli); il libro, a cura di Marina Villa, verrà presentato giovedì 17 gennaio nella prima delle due giornate del convegno “Migrations/Mediations. Media e arti performative nelle politiche di inclusione” all’Università Cattolica del Sacro Cuore, con il mobile editor del Corriere della Sera Marco Castelnuovo in veste di moderatore. La comunicazione su Facebook e Twitter - Per quanto riguarda la comunicazione politica sui social, i ricercatori hanno rilevato che solo una percentuale ridotta dei post Facebook di candidati e partiti fa riferimento all’immigrazione: l’11,2% in Lombardia e l’8,2% in Lazio. In termini di impatto percentuale sul totale dei post prodotti, la pagina che presenta l’incidenza più alta è quella di Fratelli d’Italia con il 46,7%, seguita dalla Lega Nord (39,8%) e da Sinistra per la Lombardia (16,9%). Nel Lazio, l’account più attivo sul tema dell’immigrazione è il profilo personale di Jean-Léonard Touadi, candidato presidente per la lista centrista Civica Popolare originario della Repubblica del Congo e oggetto di commenti razzisti. Su Twitter si registrano numeri simili: i soggetti politici lombardi parlano di immigrazione nell’11,9% dei tweet, quelli del Lazio nel 5,5%. Le notizie sulla stampa locale e nei tg - In relazione alla stampa locale, l’indagine sottolinea come in Lombardia la copertura del tema migratorio sui giornali locali prevale rispetto ai dorsi dei quotidiani nazionali, mentre nel Lazio c’è una sostanziale equità. In Lombardia, la provincia più sensibile al tema dell’immigrazione risulta quella di Brescia; in Lazio, dove il tema dell’immigrazione appare meno rilevante e centrale rispetto alla Lombardia, l’area più sensibile al tema è invece la Ciociaria-Basso Lazio. I ricercatori hanno poi esaminato i principali telegiornali italiani nel mese precedente le due elezioni regionali del 4 marzo 2018: è emerso che l’immigrazione rappresenta il 10% delle notizie andate in onda in prima serata e che le edizioni di Studio Aperto e del Tg4 sono caratterizzate da un impiego massiccio dell’immigrazione come tematica connessa a notizie di criminalità. “Un catalizzatore di attenzione” - Si può concludere che nelle due campagne regionali il tema dell’immigrazione è stato marginale, sia sulle piattaforme social sia sulla stampa e in televisione. “Tuttavia si tratta di un tema di forte rilevanza, perché è un catalizzatore di attenzione che sollecita reazioni e può presentarsi connesso a un gran numero di tematiche “sensibili”: la sicurezza, l’accoglienza, il lavoro, il territorio, il turismo, l’appartenenza culturale, quella religiosa, l’identità di razza, quella ideologica e così via”, si legge nell’indagine. “In generale, chi è contro gli immigrati, in modo sia urlato sia con argomentazioni più articolate, aggrega consenso. Componenti significative della società (a tutti i livelli della stratificazione sociale) in termini elettorali sono infatti sempre più propense a dare il proprio consenso ai partiti cosiddetti xenofobi o molto scettici nei confronti della presenza degli immigrati nel nostro Paese”. Gli italiani e l’immigrazione - Del resto secondo sondaggi recenti oltre il 32% degli italiani vede l’immigrazione come uno dei principali problemi per il Paese. Il 63% considera i migranti un peso per il sistema di welfare e il 75% pensa che alimentino la criminalità. Inoltre, il 58% degli italiani ritiene che i migranti portino loro via il lavoro. C’è però una distinzione tra il fenomeno migratorio reale e la sua percezione da parte degli elettori. In particolare, il 47% degli italiani ritiene che ci siano più migranti irregolari che regolari, mentre il 25% pensa che le due categorie si equivalgano numericamente. Invece, le stime realizzate sulla base dei dati ufficiali indicano un rapporto chiaramente sbilanciato in favore dei regolari (circa 5.467.000 regolari al primo gennaio 2017, a fronte di 491.000 irregolari). Allo stesso modo, in media gli italiani stimano che la popolazione straniera rappresenti il 24,6% del totale della popolazione residente, mentre secondo le fonti ufficiali non supera il 7% (fonte: Eurobarometer).