La giustizia serve a evitare la vendetta. Sennò si torna al Medioevo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2019 “Le pene devono tendere alla putrefazione del condannato”. È questo il nuovo articolo 27 della Carta Costituzionale, per come lo vorrebbero coloro che si augurano che un detenuto marcisca in galera. Un’affermazione che ci riporta a un’idea medievale di giustizia. Non voglio parlare del fatto evidente che nel qualificare più e più volte Cesare Battisti come un “assassino comunista” venga ostentata la connotazione politica del desiderio di vendetta, che nulla dovrebbe avere a che fare con il corretto corso della giustizia e con le pene per i reati gravissimi per cui Battisti è condannato. La pena in uno Stato democratico di diritto è la soluzione legale per sottrarsi ai rischi di vendetta. Per decenni ciò era considerato assodato nella vita politica e culturale italiana. Oggi si intende riaffermare un’idea di pena spettacolarizzata, come ai tempi della ghigliottina sulla pubblica piazza. Non voglio ricordare che non si può certo parlare di impunità in relazione alla stagione politica degli anni Settanta del secolo scorso, ma dell’esatto contrario. E che 6mila persone - delle oltre il triplo che vennero inquisite, alcune delle quali avevano commesso crimini gravissimi - hanno trascorso o stanno trascorrendo lunghi e lunghissimi anni in galera, con sentenze rese sproporzionate da leggi emergenziali e da automatismi sanzionatori che hanno cancellato ogni valutazione delle singole azioni criminose. Non voglio neanche parlare della pena dell’ergastolo, che molti pensatori democratici - non ultimo Aldo Moro - hanno qualificato come disumana e contraria a parametri avanzati di civiltà giuridica e che vorrebbe quantomeno che si smettesse di sorridere ai fotografi mentre la si augura a qualcuno. Non voglio, infine, commentare la decisione di indossare la giacca della Polizia da parte di un ministro che dimentica la complessità del proprio ruolo, il quale affianca un Dipartimento per le libertà civili a quello di pubblica sicurezza. No, non voglio parlare di tutto questo. Vorrei solo contribuire nel mio piccolo a tenere alto il senso di umanità, i diritti umani, i valori dei nostri Padri costituenti che nelle prigioni c’erano stati davvero. Chi conosce la realtà dei nostri penitenziari, chi si occupa di carcere da tanto tempo e lo ha fatto sempre nel faro della Costituzione italiana, prova sconcerto nel sentire un ministro della Repubblica affermare soddisfatto che qualcuno “marcirà in galera”. È un modo per augurare la morte. Una morte piena di sofferenza. Non è questo il senso dello Stato e delle istituzioni della giustizia che ci appartiene. *Coordinatrice associazione Antigone Il carcere che uccide di Adriano Todaro girodivite.it, 16 gennaio 2019 I numeri delle morti, il personale, le vittime, il sovraffollamento. Un problema che alla politica non interessa. Tanto, i detenuti non votano. Il 5 dicembre scorso chi si trovava a passare davanti al Tribunale di Milano, sulla scalinata, avrebbe visto due donne, ferme, immobili, nel freddo pungente del dicembre milanese. Erano in presidio. Un presidio, come hanno poi dichiarato “per testimoniare la rabbia nei confronti di uno Stato nelle cui prigioni si muore quotidianamente”. Le due donne erano le madri di Alessandro Gallelli, morto a 21 anni, a San Vittore nel 2012 e di Francesco Smeriglio, deceduto a 22 anni nel carcere di Monza. Cambiamo per un momento visione e spostiamoci nel carcere “Due Palazzi” di Padova. Lì ci sta un detenuto, nato ad Aci Sant’Antonio, provincia di Catania, che ha avuto l’ergastolo ostativo, in pratica quello che si chiama “fine pena mai”. Entrato a 36 anni in carcere per tutta una serie di azioni criminose avvenute per lo più in Versilia, oggi Carmelo Musumeci ha 64 anni. Entrato in carcere con la quinta elementare, oggi ha tre lauree, collabora al giornale Ristretti Orizzonti del carcere di Padova ed è in regìme di semilibertà. In pratica di notte sta in carcere e di giorno, come volontario, si reca nella struttura della comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. Finirà comunque di scontare la pena il 31 dicembre 9999! Fra il primo episodio e quello di Musumeci non c’è nessun nesso. Ma c’è una frase in uno dei numerosi libri che Musumeci ha scritto che si sposa benissimo con il primo episodio ed è quando afferma che “Il carcere è addestrato per uccidere i sogni”. I sogni di due giovanissimi ragazzi, di 21 e 22 anni, si sono infranti con la dura realtà del carcere. Non sappiamo ancora perché sono morti Alessandro Gallelli e Francesco Smeriglio ma certamente sappiamo che quando sei sotto la tutela dello Stato, questo deve vigilare affinché tu possa scontare la pena secondo i dettami dell’art. 27 della Costituzione italiana. Vale per loro e per tutti coloro che nelle carceri muoiono più o meno volontariamente. Giustamente la vicenda di Stefano Cucchi ha fatto riflettere e prendere coscienza ma è necessario sottolineare come nelle carceri italiane il diritto a vivere non sempre è rispettato. Non c’è, nella nostra Costituzione, solo quell’articolo. C’è anche il 13 che così recita “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. I morti nelle carceri - Nel 2018 su 148 morti nelle carceri italiane, 67 sono da ascriversi a suicidio. Venti volte di più dei suicidi che avvengono nella vita libera. Nel 2018, il primo a suicidarsi, il 14 gennaio, è stato un algerino di 42 anni nel carcere di Sassari. Di lui non si conosce neppure il nome come spesso avviene. In venti anni si sono verificati mille e 53 suicidi su un totale di morti nelle carceri di 2.884 persone. Sono numeri freddi e aridi come sempre lo sono i numeri. Ma dietro a questi numeri, a questi suicidi, ci sono persone. Persone in carne e ossa, con le loro storie, i loro sentimenti, le loro aspettative e, perché no, i loro sogni. E sono numeri in difetto. Perché l’Amministrazione penitenziaria tende a classificare come eventi involontari fatti volontari. Se un detenuto tenta di suicidarsi ma non muore subito, magari mentre è sull’autoambulanza per l’ospedale, non sempre quella morte è considerata sotto la voce suicidio. Per suicidarsi si utilizzano tre modalità: impiccagione, inalando gas o tagliandosi con le lame da barba. I rischi aumentano quando in carcere ci sono detenuti ritenuti “fragili” che vivono la perdita degli affetti come dramma, che vivono con disagio la condizione di detenzione. Tanto è vero che a Bollate, considerato carcere “umano”, simili episodio sono molto rari. In carcere ci sono una percentuale molto alta di persone con disturbi mentali e gli stranieri che, non avendo spesso legami o affetti sul territorio, vivono la loro reclusione come una condizione doppiamente alienante. Ci si ammazza soprattutto nel primo anno di detenzione. Ci si ammazza perché in carcere è difficile curarsi. Ci si ammazza perché non c’è speranza, hai paura di perdere tua moglie, i tuoi figli, di non avere le risorse necessarie per arrivare a fine pena. Dentro c’è la solitudine, l’isolamento. Il carcere fa odiare, aumenta il rancore, non si vedono prospettive. Si ammazzano di più quelli che non hanno alle spalle una famiglia, coloro che sono in carceri fatiscenti, coloro che restano “in branda” 22 ore su 24, che non lavorano, che non studiano, non fanno sport. Prevenzione significa maggior contatti con l’esterno e con le persone care, relazioni affettive e sociali. Nelle nostre carceri, invece, siamo ancora ad una telefonata della durata di 10 minuti la settimana. E si ammazzano anche i poliziotti penitenziari. Nel 2017 si sono tolti la vita 6 agenti. Altrettanti hanno compiuto lo stesso drammatico ed estremo gesto l’anno precedente e 5 nel 2015. Autolesionismo - Abbiamo parlato di suicidi ma un altro dato molto preoccupante sono i casi di autolesionismo che sono aumentati, anno dopo anno. Nel 70% dei casi, a compierli, sono gli stranieri. Ci si taglia, ci si procura fratture, ci si ustiona. Secondo gli studiosi “I gesti autolesivi rappresentano l’esternazione di un disagio utilizzato come strumento di comunicazione di quei soggetti fragile che utilizzano il corpo come mezzo e messaggio”. Sovraffollamento - E poi c’è il sovraffollamento. Al 30 novembre 2018 i detenuti sono risaliti a 60 mila con un aumento di 2.500 unità rispetto alla fine del 2017 a fronte di una capienza complessiva di circa 50.500 posti, quindi un affollamento del 118,6%. La regione più “affollata” è la Puglia con un tasso del 161% seguita dalla Lombardia (137%). In alcuni istituti come quelli di Taranto, Brescia e Como è stata superata o raggiunta la soglia del 200%. Percentuale molto vicina a quella del 2013 quando l’Italia fu condannata dalla Corte di Strasburgo per le condizioni disumane dei detenuti a causa del sovraffollamento. Secondo i dati dell’associazione Antigone, nei 70 istituti da loro visitati, il 20% dei casi ci sono celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3 mq. ciascuno. Nel 36% degli istituti, le celle sono senza acqua calda e nel 56% senza doccia. Nel 20% non ci sono spazi per realizzare lavorazioni di tipo industriale e nel 29% dei casi non esiste un’area verde in cui incontrare i familiari d’estate. Tutte cose previste dalla legge che però, come visto, in tante carceri non esistono. Personale - Mancano gli educatori (1 ogni 206 detenuti) e carenti sono i poliziotti penitenziari (1 ogni 3,8 detenuti). Nuove carceri - Sempre secondo Antigone un carcere da 250 posti costerebbe circa 25 milioni di euro. Oggi ne servirebbero almeno 40 con una spesa complessiva, quindi, di 1 miliardo di euro. Sembra sia la linea del governo Lega-5Stelle. E poi servirebbe più personale, più risorse nonché utilizzare pienamente le misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo i detenuti che potrebbero beneficiarne e finire la loro pena in una comunità rendendosi così utili alla società. Ricordiamoci sempre che la recidiva diminuisce se durante la detenzione il detenuto ha usufruito di un carcere “più umano”, se ha studiato, se ha lavorato, se ha fatto volontariato. Attualmente, più del 70% delle persone che finiscono di scontare la pena, torna in carcere. Se la società non investe sui detenuti, se non offre loro la “speranza” di una vita futura migliore, usciranno incattiviti, sfiduciati e accecati dalla rabbia. Poi ci lamentiamo se delinquono ancora. Inoltre non bisogna dimenticare che il 34% dei detenuti è in carcere per motivi di droga. Le difficoltà degli operatori - Rossella Favero rappresentante della Coop AltraCittà, spiega molto bene cosa significhi lavorare in carcere - “Noi abbiamo [a Padova-Ndr] 28 lavoratori in questo momento, più quattro operatori nostri.. di questi ragazzi, a cui siamo molto affezionati, sette sono italiani, di cui tre siciliani, un pugliese e tre veneti, tre sono albanesi, quattro arabi, due rom di Iugoslavia, un sinto, un liberiano, un nigeriano, poi Davide che è sordomuto e di cui conosciamo poco la lingua, e poi un macedone, tre rumeni e un domenicano. Insomma, lingue, tradizioni, codici d’onore, che noi non conosciamo a volte, storie personali diverse, tutte le tipologie di reati, speso molta violenza nelle storie, spesso problematiche di tipo psichiatrico, molto dolore, il dolore esistenziale, il dolore della detenzione”. Lavoro e informazione - Grave scandalo sui giornali quando si è venuto a sapere che ai detenuti sarebbero stati concessi ben mille euro al mese. L’informazione è ancora legata al sensazionalismo, alla spettacolarizzazione. Non c’è approfondimento, conoscenza del problema. Per qualche copia in più si può sparare anche un titolo in prima pagina altisonante: “Mille euro al mese ai detenuti. Più dei poliziotti”. Ho sempre pensato che fosse necessario far frequentare il carcere ai giornalisti soprattutto a coloro che si occupano di cronaca nera. Solo in questo modo si potrebbero eliminare certi strafalcioni che si leggono sui giornali quando si parla di fatti di “nera”. Sarebbe più importante, questa frequentazione del carcere, che le norme deontologiche che i giornalisti dovrebbero rispettare ma spesso, per ignavia e incompetenza, non rispettano. Vediamo intanto di capire cosa dice la legge al riguardo del lavoro in carcere: “Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro” (Art. 22 Ordinamento Penitenziario). A parte il termine desueto e burocratico di “mercede”, bisogna dire che lo Stato era stanco di perdere contenziosi con detenuti che chiedevano di essere pagati per il loro lavoro in modo equo. Intanto è bene sapere che i detenuti che lavorano stabilmente per l’Amministrazione penitenziaria sono una minoranza, tra il 15 e il 20% dell’intera popolazione detenuta. Ancora meno quelli che lavorano 6 ore al giorno. La maggior parte, 2 /3 ore. Questi “privilegiati” si troveranno nel libretto, quando usciranno (in carcere, come risaputo, i detenuti non possono maneggiare soldi), compensi inferiori ai 200 euro. A questa cifra, però, è necessario sottrarre il “mantenimento carcere” (vitto e alloggio si pagano), diciamo 110 euro. Nel libretto te ne restano 100 euro che troverai quando uscirai dal carcere. Per i tre pasti, l’amministrazione spende, per ogni detenuto 4 euro. Quindi acquistare cibo nel sopravvitto non è uno sfizio ma una necessità per poter continuare a vivere. Ci sono poi detenuti che hanno ancora moglie e figli a carico e riuscire a lavorare è indispensabile per il sostentamento dei familiari all’esterno. Ci sono due tipi di lavoro in carcere, uno è quello fisso, cioè, una volta assunto il detenuto lavorerà fino alla scarcerazione, (salvo imprevisti come sanzioni o trasferimenti). Questi fortunati raggiungono i 400/500 euro al mese. L’altro lavoro che offre l’Amministrazione penitenziaria è quello a rotazione. In pratica il detenuto lavora due mesi ma poi si ferma per 6. In questi due mesi il detenuto fa lo scopino o porta-vitto per un mese. Il secondo mese lavora come jolly, la domenica o quando manca il lavorante effettivo. L’unica fonte di reddito per il detenuto che non lavora sono le famiglie. Sempre se hanno la possibilità economica. Attualmente i lavoranti sono pagati 3,5 euro l’ora e lavorano da due ore ad un massimo di 5/6 ore al giorno. Scuola - La scuola è quasi sempre presente in tutti i 231 istituti penitenziari italiani. La grande assente è la formazione professionale che, sempre secondo Antigone, raggiunge una media di 4,8% dei detenuti e in 28 carceri è stata registra la totale assenza di offerta di formazione professionale. Buttare la chiave - In carcere può finirci chiunque. Spesso si sente dire: “A me non succederà” ma proprio il caso di Alessandro Gallelli dovrebbe fare riflettere. Perché era in carcere? Certo, era, come si dice un balordo, ma l’atto che l’ha portato in carcere è stato quello di palpare il culo ad una ragazza alla fermata del tram. Troppo spesso i giornali scrivono cose che non hanno approfondito, che non conoscono. Come ha detto l’ex magistrato Gherardo Colombo. “Quando vado in giro a parlare e spiego come sono le carceri, per esempio, in Norvegia, sono tante le persone che saltano su e dicono: ma quello non è un carcere, è un albergo a 5 stelle! Un’affermazione che mostra la convinzione intima e profonda che chi ha fatto il male deve essere retribuito con il male. Senza accorgersi che così il male si raddoppia anziché essere eliso”. Trasferimenti - Spiega bene un detenuto cosa significhi essere trasferito in un altro carcere (in questo caso in Sardegna) interrompendo così il suo progetto futuro di vita: “Le persone qui sono per lo più arrabbiate, svuotate dell’umanità, come lo ero io un tempo. Non riesco a condannarli, non riesco proprio a fargli una colpa! Qui c’è assenza forte di legalità, qui t’insegnano l’omertà!... ho ripreso a non parlare più, proprio come facevo un tempo… Non vedo mia figlia da quasi un anno perché mantenere gli affetti in carcere è un’impresa ardua. Non incontro mia mamma da ottobre, non ha tutta questa salute per venire fin qui ed anche economicamente non ha questa possibilità… Mi mancano gli amici del vecchio carcere, con loro non si parlava di processi e reati, ma di vita, ci si ascoltava, ci si confrontava e si ci si aiutava nella difficolta. Mi manca il lavoro, mi manca la redazione di Ristretti Orizzonti… Il mio fine pena è 31 dicembre 9999. Non voglio che questo luogo mi uccida”. Vittime - In questa spirale non si possono dimenticare le vittime e, soprattutto, i familiari delle vittime. Dal 2008 lo fa molto bene Ristretti Orizzonti di Padova con i suoi convegni su questi temi, i temi che riguardano la sofferenza e il perdono. Come ha scritto Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti: da quell’anno abbiamo fatto parlare, in carcere, “solo le vittime e tutti gli altri, persone detenute e ospiti, hanno ascoltato in un silenzio assoluto. E da quel momento è iniziato un dialogo, continuo, profondo e quell’ascolto, che nelle aule del tribunale non hanno spazio, ma che diventano incredibilmente possibili in un luogo come il carcere”. Non interessa a nessuno - Si continua a morire nelle carceri italiane. Ma non interessa a nessuno o a pochi. Di certo non interessa ai nostri governanti tutti presi nel formulare i cosiddetti “Decreti Sicurezza” non riuscendo a capire che la vera sicurezza la si ottiene dando ai detenuti la possibilità di non ritornare in carcere quindi, di non commettere azioni criminose. Le parole come riabilitazione o recupero non sono popolari e non portano voti. Si preferisce rinchiuderli in strutture fatiscenti, non farli lavorare, studiare, in strutture dove non ci sono regole, dove impera la disumanità, dove si preparano nuovi delinquenti. Proprio l’opposto della sicurezza. Oggi c’è stato un altro morto? Beh, tanto era un delinquente. Uno in meno. Se continua questa vulgata popolare, se i nostri governanti non riusciranno a capire che è necessario dare la speranza, allora non ci può essere futuro. Non solo per i detenuti ma anche per noi. E così il carcere continuerà a uccidere i loro sogni e con essi la nostra sicurezza. Il carcere non va invocato: va abolito di Stefano Piri esquire.com, 16 gennaio 2019 Tassi di recidiva altissimi e suicidi: il carcere non funziona, ma i politici italiani sembrano non saperlo. Tra i numerosi rivoli polemici (più o meno potabili) che discendono in queste ore dalla questione Battisti, ce n’è uno che meriterebbe un trattamento meno superficiale: quello dell’abolizione delle carceri. Una “provocazione”, secondo la sensibilità diffusa, o almeno così si direbbe a giudicare dalla reazioni al post di Facebook (addirittura un “post choc” secondo il Messaggero) dello scrittore e assessore del III Municipio di Roma Christian Raimo, che per aver solo menzionato il tema è stato investito da autorevoli reprimende, richieste di dimissioni e altri suggerimenti ancor meno gentili. Eppure è evidente a chiunque voglia vederlo che il carcere non funziona, per lo meno secondo i due parametri essenziali per valutare l’efficacia di qualunque istituzione, quello funzionale e quello etico. Il tasso di recidiva dei carcerati in Italia è pari al 68%, una percentuale enorme che suggerisce una dinamica carceraria addirittura criminogena, soprattutto quando scopriamo che tra i condannati sottoposti a misure alternative la percentuale crolla al di sotto del 20%. Dal punto di vista morale, poi, è difficile ritenere accettabile secondo gli standard contemporanei la pratica di rinchiudere in una gabbia alcune decine di migliaia di nostri simili, riducendone quasi a zero non soltanto la mobilità fisica e la privacy ma anche l’accesso alla cultura, alla socializzazione, alla vita affettiva e in generale alle risorse materiali e simboliche su cui si costruisce l’identità di un individuo. Il detenuto viene allo stesso tempo invecchiato, sottraendo un certo numero di anni al totale del suo accumulo di esperienze, e infantilizzato, negandogli la possibilità di sviluppare attraverso quelle esperienze una personalità più articolata e quindi più capace di negoziare con il resto della società. Non a caso la maggior parte della popolazione carceraria italiana è costituita da due gruppi che hanno limitata capacità di interagire e costruire reti di relazioni: tossicodipendenti e immigrati; mentre i suicidi in carcere sono in crescita da anni: nel 2018 ben 67, uno ogni 5 giorni. In Italia se ne sente a malapena l’eco, ma il dibattito sulla necessità di un profondo ripensamento del sistema carcerario è in corso praticamente da quando esiste il carcere, e il movimento abolizionista può contare su sostenitori prestigiosi, ma soprattutto argomentazioni solide. Per una sintesi di queste ragioni, e delle soluzioni alternative che potrebbero essere adottate immediatamente, c’è il bel libro del 2015 dell’allora senatore PD (poi non ricandidato a favore di qualche giovanotto toscano senz’altro più meritevole) Luigi Manconi, Abolire il carcere. Ma prima di tutto vale la pena soffermarsi sulle ragioni che rendono la proposta di abolizione una sorta di tabù nel discorso pubblico, anche prima e dopo il picco di populismo penale che stiamo attraversando in questo momento, o degli animi surriscaldati dall’affaire Battisti. Come scrive Angela Davis in Aboliamo le prigioni?, “il carcere è considerato talmente ‘naturalè che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno”. L’idea della reclusione è profondamente radicata nella nostra idea di giustizia, ed è addirittura intesa come una sanzione progressista e favorevole al reo, per lo meno in rapporto a quelle che la hanno preceduta storicamente, ovvero le punizioni corporali e la pena di morte. La nostra guida in questo percorso altri non può essere che il Foucault di Sorvegliare e punire, che ci spiega che il carcere come pena universale per tutti i reati si afferma tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo non tanto sulla base di un afflato umanitario, quanto invece nel contesto della razionalizzazione dello Stato e delle sue strutture: le punizioni corporali, spesso pubbliche, appaiono alla sensibilità illuminista troppo disomogenee, casuali e dipendenti dall’arbitrio o dal capriccio del sovrano. Il carcere si afferma quindi in un contesto di burocratizzazione della giustizia, e sempre secondo Foucault finisce per diventare il modello di una nuova società borghese della sorveglianza - raffigurata dal panopticon di Jeremy Bentham - dove l’individuo, sapendo di poter essere osservato in qualunque momento dall’autorità, finisce per interiorizzare la disciplina e il rispetto delle regole stabilite. Ma soprattutto, con l’affermazione del carcere cambia il destinatario principale della reazione dello stato alla violenza: se con le punizioni fisiche - che spesso mettevano in scena la ritorsione rispecchiando la natura del reato: vedi il taglio della mano del ladro - il sovrano si rivolgeva prima di tutto al reo per punirlo, il carcere ha primariamente la funzione di rassicurare la parte “sana” della società. Segregando il colpevole, togliendolo anche fisicamente dal campo visivo e dallo spazio fisico della società, si rafforza l’idea che il razionale delle regole coincida con il reale della nostra esperienza, perché la devianza è concentrata in un altrove. Ai cittadini rispettosi delle regole, un tempo invitati ad assistere e partecipare all’esecuzione della pena, non si richiede più un ruolo attivo: gli si propone invece di restare indifferenti alla violenza compiuta dal criminale, e alla violenza proporzionata che lo stato esercita sul criminale come ritorsione, privandolo del diritto fondamentale della libertà. Il carcere rappresenta quindi un meccanismo di rimozione della colpa e delle sue conseguenze che lascia in realtà aperta (e politicamente contendibile) la tensione tra la funzione punitiva e quella rieducativa. Ciascuno è lasciato libero di immaginare e rappresentare il carcere come riabilitazione o come punizione, o anche di non pensarci affatto. Un’ambiguità che regge finché a unire le opposte visioni c’è il principio di utilità: non siamo d’accordo sulla funzione principale del carcere, ma sappiamo che in un modo o nell’altro svolge un compito che è nel nostro fondamentale interesse: ridurre e prevenire i reati rendendo la società più sicura. Negli ultimi anni però in Italia due tendenze diametralmente opposte hanno paradossalmente concorso a mettere in crisi la fede della società nell’efficacia del carcere: da una parte il calo statisticamente indiscutibile del numero di reati, che in combinazione con l’altissimo tasso di recidiva suggerisce che il carcere sia addirittura il principale dispositivo criminogeno oggi in azione. Dall’altra l’opposta percezione di un’incessante emergenza sicurezza va spesso di pari passo con l’idea che la reclusione non sia (più?) uno strumento di dissuasione sufficiente. Ma è proprio nel momento in cui tutti sospettano che il carcere non serva a niente che il suo significato viene ri-politicizzato, e al posto del dibattito sulla sua utilità se ne afferma uno puramente ideologico e moralista. In altre parole, è proprio l’inutilità conclamata del carcere ad aprire lo spazio alle uscite medievali di Salvini su Cesare Battisti, o ancora prima ad un contratto di governo che promette in contrasto ad ogni evidenza statistica il ridimensionamento delle misure alternative (che funzionano) a vantaggio dell’incarcerazione (che genera criminali). In mancanza di una struttura efficace per la segregazione e la correzione della devianza, ecco che gli aspiranti sovrani tornano a offrire, in mancanza di meglio, la vendetta sul colpevole che “marcirà in carcere” e la sua pubblica umiliazione. Rivedere il funzionamento del sistema penitenziario in Italia, e ridurre l’impiego di strutture sovraffollate e spesso controproducenti come i carceri, non è quindi solo fondamentale per ridurre il crimine e rispettare i diritti dei condannati. Un carcere che non funziona è il peggior nemico del principio rieducativo indicato dall’articolo 27 della costituzione, e lo sponsor numero uno di chi vorrebbe tornare a un’idea dispotica e vendicativa della giustizia, e quindi dello Stato. Il lavoro difficile dei 37mila agenti di Valentina Stella Il Dubbio, 16 gennaio 2019 Le specializzazioni: dal servizio traduzioni e piantonamenti al gruppo sportivo. Nel suo messaggio di fine anno, il capo del Dap Francesco Basentini si era rivolto al Corpo di Polizia Penitenziaria: “In Italia ci sono quasi 37mila uomini e donne che ogni giorno lavorano (anche) alla nostra sicurezza. Ma pochi lo sanno. Perché la gran parte del loro lavoro si svolge dietro pesanti cancellate di ferro e al di là di enormi mura, talvolta vere e proprie fortezze, che non lasciano molto spazio all’immaginazione né alla fantasia. E poi perché quello che avviene dietro quelle sbarre e quelle mura interessa a pochi, salvo quando capita qualcosa di grave”. Dopo aver parlato degli specialisti biologici e informatici che lavorano per il Laboratorio centrale Banca Dati Dna ecco una carrellata delle altre specializzazioni. Servizio cinofili - Viene istituito nel 2002 per contrastare i tentativi di introduzione di sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari. L’unità cinofila è costituita dal conduttore col suo cane: sono 54 i conduttori e 46 cani. Nel 2018, in più di 1.400 interventi, hanno permesso di sequestrare più di due chilogrammi di droga soltanto in carcere. Gruppo Operativo Mobile - Il Gom, con 592 unità, si occupa della traduzione e dei piantonamenti dei detenuti ed internati ad altissimo indice di pericolosità che, proprio per motivi di sicurezza e riservatezza, possono essere effettuati anche con modalità operative diverse dalla norma. In più, provvede alla custodia dei detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, nonché dei detenuti che collaborano con la giustizia ritenuti a rischio. Nucleo Investigativo Centrale - Il Nic conta 41 unità, distribuite in 6 nuclei regionali e in 5 interregionali, che svolgono le funzioni di Polizia Giudiziaria per reati commessi in ambito penitenziario relativi a criminalità organizzata, terrorismo interno o internazionale, anche di matrice confessionale. Servizio traduzioni e piantonamenti - Il servizio delle traduzioni riguarda tutte quelle attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti e internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale. Il servizio dei piantonamenti, invece, assicura la custodia dei detenuti e degli internati ricoverati in luoghi esterni di cura. Nei primi 9 mesi del 2018 sono state 117mila le traduzioni stradali, navali, aeree o pedonali svolte: hanno riguardato 213mila detenuti e impiegato complessivamente oltre 465mila unità di personale. Un numero davvero impressionante di personale coinvolto, che ha suggerito al Capo del Dap di potenziare a questi fini il servizio di videoconferenze e di estenderlo anche ai reati meno gravi. Relativamente a queste ultime, sempre sotto il controllo di personale di Polizia Penitenziaria, nel 2018 sono stati effettuati quasi 23mila collegamenti, di cui circa 500 circa con l’estero: 8.661 le udienze effettuate, che hanno riguardato 3.258 detenuti e 1.750 liberi. Uspev - Dal 2015 l’Ufficio per la Sicurezza Personale e per la Vigilanza è diviso in due reparti, che si occupano rispettivamente della sicurezza del Ministero e della sicurezza degli organi centrali. Servizio di Polizia Stradale - Istituito nel 2008 e attivo dal 2011, è al momento operativo in 11 sezioni istituite presso i provveditorati del Lazio/ Abruzzo/ Molise, Campania, Toscana/ Umbria, Puglia/ Basilicata, Piemonte/ Valle D’Aosta/ Liguria, Emilia Romagna/ Marche, Lombardia e Calabria. Saranno presto aperte le sezioni di Torino, Padova, Cagliari e Palermo che concluderanno la fase sperimentale avviata nel 2011. Nel 2018 sono stati emessi 1.378 verbali e rilevate 1.835 infrazioni, che, nei primi nove mesi dell’anno, hanno portato a un incasso di oltre 106mila euro. Task force lavori di pubblica utilità - Sotto la formula “Mi riscatto per…” nel 2018 sono stati promossi dal ministero della Giustizia- Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria 4 protocolli d’intesa finalizzati a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti ammessi a svolgere all’esterno lavori di pubblica utilità. Al momento gli accordi sono stati sottoscritti con i sindaci delle città metropolitane di Roma, Milano, Palermo e Napoli. A questi seguiranno nei primi mesi del 2019 quelli con le municipalità di Torino, Firenze e Venezia. A Roma - dove la macchina organizzativa è ormai perfettamente avviata - i detenuti coinvolti sono circa 200, di cui 50 operanti nei giardini e nelle aree verdi e 30 asfaltatori. Fiamme Azzurre - Il Gruppo Sportivo della Polizia Penitenziaria viene costituito nel 1983 su iniziativa del magistrato Raffaele Condemi e del campione olimpico dei 200 metri Pietro Mennea. Attivo dalla stagione agonistica 1985, si è imposto negli anni ai massimi livelli in campo nazionale ed internazionale. Attualmente è costituito in 19 sezioni: atletica leggera, canoa, ciclismo, judo, lotta, nuoto, sollevamento pesi, pattinaggio a rotelle, pentathlon moderno, pugilato, scherma, sport equestri, sport del ghiaccio, sport invernali, tennis tavolo, tiro a volo, tiro con l’arco, triathlon e vela. Bonafede: il ddl penale entro giugno. Salvini: non colpiremo nessuno di Errico Novi Il Dubbio, 16 gennaio 2019 Nessun accenno a patti trasversali o a maggioranze variabili col Pd: Salvini si tiene molto sulle generali, prima di accomodarsi all’evento- cena della lanterna di Fuksas. Si sbilancia in dettagli solo su un aspetto: la riforma della giustizia penale: “Ci lavoriamo e ne parliamo con tutti: avvocati, giudici, magistrati. Vogliamo farla con loro, a favore degli italiani, contro nessuno”. È abbastanza per chiarire un punto: il dossier sul processo penale sta per entrare nel vivo. Non tanto dal punto di vista tecnico, visto che Via Arenula ha iniziato a preparare lo schema ma non ha ancora fissato i nuovi incontri con avvocati e giudici. Casomai è in piena evoluzione il quadro degli equilibri tra il progetto del guardasigilli Alfonso Bonafede e i piani della Lega, e di Salvini in particolare. Uno spunto ancora piuttosto generico viene offerto, poche ore prima dell’incontro romano, dall’organizzatrice Annalisa Chirico, presidente di “Fino a prova contraria”: “Ci vediamo per discutere di una riforma per un processo funzionante e più veloce”. In effetti il cuore della strategia salviniana è evitare che lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado renda infinito il calvario degli imputati. Effetto temuto da tutto il mondo giuridico. Innanzitutto dall’Unione Camere penali e dai 150 professori di Diritto che sul punto avevano chiesto a Mattarella, con uno storico appello, di rinviare la legge alle Camere. Nei giorni scorsi un pilastro di Salvini sulla giustizia come Giulia Bongiorno ha detto che “la riforma del processo penale dovrà per forza essere definita prima che entri in vigore la nuova prescrizione”. Anche a costo di far slittare l’introduzione della modifica votata con la legge anticorruzione. Il ministro della Giustizia la pensa diversamente: “La prescrizione entrerà in vigore il 1° gennaio 2020”, ha ribadito. E nell’intervista dell’altro ieri sera a “Presa diretta” ha quindi aggiunto di aver “messo a lavorare una task force sul processo penale e un’altra sul civile: l’obiettivo è depositare entro febbraio un disegno di legge delega in Consiglio dei ministri che poi vada in Parlamento, per essere approvata già a giugno. Così”, sostiene il guardasigilli, “avremo un risparmio di tempo importante”. Nessun particolare dettaglio, se non il fatto che “sbaglia chi liquida il processo d’appello come se fosse un optional”. Verrebbe da dire che manca solo l’abolizione del secondo grado di giudizio. Ma la fugace battuta del guardasigilli è in realtà un riferimento all’impraticabilità di un’ipotesi cara all’Anm, l’abolizione del divieto di reformatio in peius. Il ministro ha più volte detto di non avere intenzione di introdurre quella sorta di penalità dissuasiva per gli imputati che “osano” impugnare le condanne in primo grado. Continuerà a essere impossibile, dunque, che si rischi una pena più pesante per il solo fatto di aver fatto appello. L’altro tema sul quale Bonafede ha insistito nell’intervista su Rai 3 è il rafforzamento dell’organico dei magistrati: “Non solo arriveremo a colmare tutti i vuoti, ma amplieremo la pianta organica con 600 posti in più”. Buona notizia che prevede dunque i reclutamento di 680 toghe “da concorsi già svolti o pendenti e il successivo bando per selezionarne altrettante. Al piano per il personale anche amministrativo, sul quale il guardasigilli pensa di poter procedere con 1.000 assunzioni “anche prima dello sblocco del turnover di novembre”, si aggiungeranno gli investimenti sull’edilizia penitenziaria: “I soldi ci sono: 80,5 milioni già previsti a cui si aggiungono altri 28,5 milioni. “La situazione infrastrutturale della che ho trovato è molto grave”, ha detto Bonafede, “con tante situazioni a rischio: spesso il problema nasce nelle procedure. Dopo Bari, ora è in corso una valutazione per individuare tutte le situazioni su cui intervenire”. Sulla partita del processo Bonafede, in quanto ministro, è naturalmente in ampio vantaggio sull’alleato di governo. E forse è proprio per questo che da ieri sera Salvini ha iniziato a lavorare per tentare di mettersi in pari. Gratteri e i tempi della giustizia: la chiave è l’informatica di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 16 gennaio 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non c’è, ma poche ore prima ha telefonato a Paola Severino, per sapere cosa avrebbe detto. Ed è proprio l’ex ministra della Giustizia del governo Monti ad aprire la serata organizzata alla lussuosa Lanterna di Fuksas dall’associazione “Fino a prova contraria”, di Annalisa Chirico. Un parterre importante che riunisce alcuni ministri - il vicepremier Matteo Salvini, Lorenzo Fontana, Giulia Bongiorno - alcuni magistrati, ma anche imprenditori come il presidente di Rcs Urbano Cairo, Luca Cordero di Montezemolo e il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Un sondaggio della Swg è il punto di partenza per ragionare intorno al sistema giustizia e su come viene percepito dal mondo delle imprese. Perché, come spiega Severino, “gli imprenditori chiedono tempi certi e ragionevoli, certezza della pena e decisioni prevedibili”. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri spiega: “È sbagliato pensare che per migliorare i tempi del processo basti una riforma della prescrizione. Serve applicare massicciamente l’informatica al sistema”. Gratteri, a margine, si lascia andare: “La cattura di Cesare Battisti è stata uno show. Sapesse quanti ne ho catturati dal Sud America senza queste scene. È che i politici sono lo specchio dell’ignoranza della gente”. Sul palco arriva il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi (qualcuno dice aspirante a Roma), che spiega: “Anche noi magistrati dobbiamo fare autocritica, alcuni distretti funzionano meglio di altri. Anche i cittadini dovrebbero valutare il nostro lavoro”. Il procuratore di Bologna Giuseppe Amato aggiunge: “Spesso ci nascondiamo dietro l’espressione atto dovuto per giustificare certe improvvide iniziative giudiziarie”. Conclude la prima tranche Gratteri, a cui dà ragione sulla necessità di informatizzare la giustizia Cairo, che aggiunge: “Ci sono troppi giovani disoccupati”. E, a domanda di David Parenzo, risponde: “Non mi candido”. Tra un risotto Carnaroli e un trancio di branzino, si ragiona ancora di giustizia. Ci sono Flavio Briatore, Edward Luttwak, Carlo Rossella. Salvini stringe la mano al renziano Bonifazi ma smentisce qualunque ipotesi di dialogo con il Pd: “Inciucio de che? Ma quanta fantasia che avete. Io parlo con tutti”. Da lontano lo attacca Alessandro Di Battista: “Ma Salvini che ci va a fare a una cena da ancien régime?”. Passa l’ex ministro Maria Elena Boschi e lui la saluta con due baci sulla guancia. “Parlo con tutti”, sorride il leghista. E lei: “Salvini è bravo a cogliere gli umori della gente, ma non basta”. Il Movimento alla serata non è stato invitato. Le distanze ci sono anche sulla giustizia, come conferma il leghista Molinari: “Sì, la pensiamo diversamente da loro”. E come si fa? “Ci vuole tanta pazienza”. Il populismo della catturandi di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 gennaio 2019 I latitanti all’estero: la nuova emergenza che non c’è per distrarre gli italiani. Questo non è un punto di arrivo ma di partenza. Sono sicuro che le nostre forze dell’ordine con la collaborazione dei servizi stranieri potranno ri-assicurare alle galere italiane altre decine di delinquenti e assassini che sono ancora a godersi la vita in giro per il mondo”. Sostenuto dall’onda d’urto popolare e mediatica (con poche eccezioni, telegiornali pubblici e quotidiani hanno sventolato toni quasi più enfatici e truculenti di quelli del governo, fa vergogna doverlo notare), dopo l’estradizione di Cesare Battisti Matteo Salvini ha dichiarato ufficialmente aperta la stagione della caccia al latitante internazionale. Che non è ovviamente un bracconaggio illegale, ci mancherebbe: il buon funzionamento della macchina giudiziaria di uno stato dovrebbe anzi evitare di tenere irrisolti, o addirittura in sonno, questo genere di pratiche e di incombenze. I latitanti condannati in via definitiva dai tribunali italiani e attualmente all’estero sono circa una settantina, di cui più o meno cinquanta sono quelli appartenenti agli ex ranghi del terrorismo degli anni 70. Ed è ovviamente su questi che si punta l’attenzione del ministro dell’Interno e della stampa: ieri le pagine dei quotidiani erano piene di foto segnaletiche come l’ufficio delle sceriffo nei film western. Ovviamente non che sia, d’un tratto, scoppiata un’emergenza di sicurezza nazionale tale da giustificare l’attivismo degli apparati e la concentrazione mentale di Matteo Salvini, ma siamo certi che di questa campagna si parlerà per un pezzo: costa poco, rende molto in termini di consensi, e tiene distratti dai problemi gravi del paese, perciò è un altro buon elemento propagandistico, inutile da un punto di vista pratico, da sventolare come un drappo rosso nelle dirette Facebook. Dopo i porti chiusi, le pacchie finite, le gite a Strasburgo, le opere d’arte da riprendersi, è giunta l’ora di un nuovo settore del populismo spiegato al popolo: il populismo della catturandi. Una buona notizia di Mattia Feltri La Stampa, 16 gennaio 2019 Il titolare della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha prodotto e pubblicato un video con musica di sottofondo dal titolo “Una giornata che difficilmente dimenticheremo!”. Si vedono lui e Cesare Battisti a cui prendono le impronte digitali, le foto segnaletiche eccetera: una clip di propaganda che non squalifica il ministro ma l’intero Stato italiano. La notizia però non è questa. Riporto i commenti in ordine cronologico dalla pagina Facebook di Bonafede: “Già che ci siete perché non lo esponete in una gabbia al Campidoglio? - Ho sperato non fosse vero, non è possibile che lei abbia pronunciato il giuramento da avvocato - Ormai siete emuli ridicoli di Salvini - Un teatrino ridicolo - La rammenta, avvocato, la disposizione che vieta la diffusione di immagini di una persona privata della libertà? - Non vedo sostanziali differenze con una tribù che balla e grugnisce al ritorno dalla caccia - Nei regimi totalitari facevano questi teatrini - Si vergogni, lei è un ministro, recuperi il senso delle istituzioni - Collega Bonafede, ma lei è un avvocato o un uomo di spettacolo? - Io non ho parole, davvero, io in questo Paese, in mano a voi, i miei figli non li faccio crescere - Ci sarà un giorno in cui tutto il Paese si vergognerà di te - Anche i detenuti hanno diritto al rispetto umano che si deve a chiunque - Lei dovrebbe vergognarsi ministro, rispetti la legge, rispetti la Costituzione - Avete bisogno di farvi belli su una vicenda drammatica? - Un atto dovuto di Giustizia trasformato in una squallida esibizione”. La notizia, ottima, è che lo Stato c’è ancora ed è in questi commenti. La politica in favore di telecamera, oltre ogni limite di decenza camerepenali.it, 16 gennaio 2019 La dichiarazione della Giunta Ucpi sulla sceneggiata organizzata dal Governo in occasione dell’arrivo a Ciampino del detenuto Battisti. “Quanto accaduto ieri in occasione dell’arrivo a Ciampino del detenuto Battisti è una pagina tra le più vergognose e grottesche della nostra storia repubblicana. È semplicemente inconcepibile che due Ministri del Governo di un Paese civile abbiano ritenuto di poter fare dell’arrivo in aeroporto di un detenuto, pur latitante da 37 anni e finalmente assicurato alla giustizia del suo Paese, una occasione, cinica e sguaiata, di autopromozione propagandistica. I ministri Bonafede e Salvini hanno ritenuto di doversi presentare in aeroporto, dove erano stati zelantemente predisposti palchetti, per esibirsi in favore di telecamera, evidentemente al fine di acquisire nell’immaginario collettivo il merito di un evento frutto, come è ben noto, del lavoro ultratrentennale dei vari governi che si sono succeduti nel tempo, al pari delle forze di polizia e dei servizi di sicurezza e di intelligence. Addirittura sconcertante è che il Ministro della Giustizia abbia diffuso un video, con sinistro commento musicale, titolando di “una giornata indimenticabile”; e non ci sono state risparmiate foto ricordo del detenuto, con due agenti della polizia penitenziaria al fianco, in spregio di espliciti divieti normativi. L’Unione delle Camere Penali Italiane esprime tutto il proprio sdegno e la propria riprovazione per questa imbarazzante manifestazione di cinismo politico in una occasione in cui lo Stato aveva già dimostrato la sua superiorità senza gratuiti clamori. Altro è esprimere legittima soddisfazione per la conclusione di una lunga latitanza di un cittadino raggiunto da plurime sentenze definitive di condanna per gravissimi fatti di sangue, altro è esporre il detenuto, chiunque egli sia, qualunque sia la sua colpa, come un trofeo di caccia, con foto ricordo al seguito. Una pagina umiliante e buia di malgoverno, che rappresenta nel modo più plastico e drammatico un’idea arcaica di giustizia ed un concetto primitivo della dignità umana, estranei alla cultura del nostro Paese”. La Giunta dell’Ucpi Bonafede: “Chi sbaglia paga”. Ma il suo video spot su Battisti imbarazza anche lo staff di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 16 gennaio 2019 In Rete definiscono il filmato “cinico e all’amatriciana”. Polemiche anche per la foto del ministro della Giustizia in divisa. Con il senno di poi, forse il ministro Alfonso Bonafede non lancerebbe dalla sua pagina Facebook il video in cui il terrorista pluriomicida Cesare Battisti viene esibito come un trofeo, senza un briciolo di umana pietas e in barba alle norme dello Stato di diritto. Sorpreso dallo sdegno suscitato dal filmato, dal titolo “Il racconto di una giornata che difficilmente dimenticheremo!”, il Guardasigilli pentastellato ha fatto filtrare informalmente una giustificazione di questo tenore: “L’intento non era certo quello di ledere i diritti del condannato, ma dare risalto e lustro agli agenti di Polizia penitenziaria”. Parole sussurrate ai collaboratori dopo essere stato bersagliato di messaggi anche privati e che certo non bastano a spazzar via lo sdegno che l’iniziativa autocelebrativa del ministro della Giustizia - già sommerso da critiche e sfottò per aver indossato il giubbotto della Polizia penitenziaria, con l’evidente intento di inseguire Matteo Salvini - ha sollevato. Nelle prime 24 ore il filmino è stato visto 350 mila volte, suscitando lodi e riprovazione. I fan applaudono, ma tanti cittadini che disdegnano un ministero di Giustizia senza Grazia richiamano i comandamenti del Codice di procedura penale e dell’Ordinamento penitenziario. Sui social è una gara a bocciare lo spot come spietato, indecente, trash, pornografico, arcaico, pulp, e via citando. Rocco Casalino, regista della comunicazione del governo, è spiazzato: “Non ne sapevo niente”. Uno smarrimento condiviso da altri spin stellati, tra i quali il prodotto è stato giudicato “improvvisato, cinico e malfatto”. Finché a sera in via Arenula ammettono l’”errore”. Non tanto la scelta di confezionare il video, quanto una certa sottovalutazione e imperizia comunicativa: “Sarebbe bastato metterci il logo della Polizia penitenziaria, visto che lo hanno montato loro”. Per il resto, Bonafede tiene il punto: “Nessuna vendetta, ma chi sbaglia paga”. Per tre interminabili minuti e 52 secondi il detenuto viene “spiato” dall’occhio della telecamera. Eccolo, mentre scende dall’aereo scortato dagli agenti e poi durante le impronte digitali e la foto opportunity, in quella stanza gialla che sa già di carcere a vita. Il primo fotogramma, rubato dai ricordi personali, ritrae Battisti che sorride alla vita quando era un uomo libero. Gli ultimi lo inchiodano al sedile dell’aereo che lo ha portato nel carcere di Massama, fine pena mai. La suspence è suggerita da un motivetto alienante e ossessivo, degno di un horror all’amatriciana: “Comment te dire”, di Bertysolo. I penalisti esprimono sconcerto per l’esposizione del detenuto “come un trofeo di caccia”. Il dem Walter Verini parla di “repubblica delle banane”. Forza Italia denuncia “la giustizia trasformata in un b-movie”. Ma intanto la cronistoria della cattura del latitante esalta Bonafede e il ministro dell’Interno, intenti a mostrare i muscoli in favore di telecamera. “Io non sopporto la spettacolarizzazione - si legge su Panorama del 4 febbraio 2015 - Non bisogna mai esibire un catturato. Se devi portare via uno, lo porti via di nascosto, la notte”. Parola di Matteo Salvini. Cesare Battisti, il video choc del ministro Bonafede che difficilmente dimenticheremo di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 gennaio 2019 Il guardasigilli pubblica su Facebook un filmato che mostra come un trofeo l’ex terrorista in manette. E commette un reato. Si configurerebbe perfino un reato penale nella pubblicazione di un imbarazzante video che celebra l’arresto dell’ex terrorista Cesare Battisti - con tanto di musichetta emozionale, foto ricordo dei poliziotti che a viso scoperto si alternano ai lati del “trofeo”, e finale romantico sull’aereo che parte da Pratica di mare alla volta di Oristano, destinazione carcere - postato sul proprio profilo Facebook dal ministro di Giustizia - il Guardasigilli italiano - Alfonso Bonafede. “L’art. 114 del codice di procedura penale - ricorda l’Associazione Antigone - vieta “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica”. E l’art. 42 bis dell’Ordinamento penitenziario impone l’adozione di “opportune cautele per proteggere gli arrestati dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità”. Norme che l’avvocato Bonafede deve aver dimenticato e che più di qualcuno sui social gli ha ricordato. Ma è soprattutto il mood autopromozionale (il ministro Salvini relegato a comparsa) in salsa giustizialista che a memoria non ha precedenti in Italia e pochi vergognosi paragoni nel mondo, ad aver suscitato molte critiche (ma anche qualche apprezzamento) tra gli oltre 500 mila utenti che fino a ieri sera avevano visualizzato il video di quasi quattro minuti che il ministro grillino ha pubblicato sotto il titolo: “Il racconto di una giornata che difficilmente dimenticheremo!”. Un video che l’Unione delle camere penali ha definito “sconcertante”, una “imbarazzante manifestazione di cinismo politico”, la ciliegina sulla torta di “una pagina tra le più vergognose e grottesche della nostra storia repubblicana”, con due ministri della Repubblica che a Ciampino hanno trasformato un semplice atto di giustizia in “una occasione cinica e sguaiata, di autopromozione propagandistica”. Dal canto suo, ai cronisti che gli chiedono se frasi come “marcire in galera” non contrastino con il fine riabilitativo della pena, Bonafede risponde: “Non c’è nessun accanimento, nessun desiderio di vendetta ma c’è la giustizia. I cittadini italiani aspettavano da 40 anni che questa persona pagasse e così deve essere”. Forse un tantino esagerati nella propaganda? No, risponde il premier Giuseppe Conte: “Se il governo fosse stato timido, sobrio o si fosse nascosto, sarebbe stato inappropriato”. Soprattutto sobrio. Anastasìa: “L’arresto-show di Battisti un errore, la sua dignità è sacra” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2019 Intervista a Stefano Anastasìa portavoce dei garanti territoriali delle persone private della libertà. “Quanto abbiamo visto lunedì non ha nulla a che vedere con il diritto di cronaca. Non c’era bisogno di esibire ogni fase dell’internamento di Battisti. Sia il codice di procedura penale che l’ordinamento penitenziario stabiliscono che non bisogna esporre in pubblico il condannato”, dichiara di Stefano Anastasia, fondatore di Antigone. La cattura e l’incarcerazione di Cesare Battisti è diventato indubbiamente un palcoscenico dove, a partire dai ministri, tutti hanno voluto presenziare. Questa vicenda ha riportato al centro dell’attenzione il discorso della spettacolarizzazione da una parte, il senso della pena all’ergastolo dall’altra. Ne parliamo con Stefano Anastasia, portavoce dei garanti territoriali delle persone private della libertà e garante delle regioni Lazio e Umbria. La spettacolarizzazione dell’arresto di Battisti è contraria al nostro ordinamento? Chiaramente nel nostro ordinamento è prevista la tutela dell’indagato e del condannato dal pubblico ludibrio. Quanto abbiamo visto lunedì, non ha nulla a che vedere con il diritto di cronaca, che poteva limitarsi a dire che questa persona era stata trasferita in Italia. Non c’era bisogno di esibire ogni fase del suo internamento. E questa cosa è scritta espressamente nel codice di procedura penale e nell’ordinamento penitenziario: entrambi stabiliscono appunto che non bisogna esporre in pubblico il condannato che sia soggetto ad esecuzione penale o in corso di traduzione. Cosa ne pensa del video effettuato dalla polizia penitenziaria e messo sui mass media? È evidente che la responsabilità della pubblica amministrazione è quella di tutelare la persona, non solo di non fare il video, ma anche di non diffonderlo e di sottrarre ad immagini la persona che viene tradotta in carcere. Ovviamente la mia critica è alle amministrazioni pubbliche non all’Informazione, in quanto sono loro che hanno consegnato il video e sono loro quelle vincolate dalle norme di legge, che escludono che l’indagato, il processato e il condannato possano essere esposti alla pubblicità. L’ergastolo a Battisti, che ormai ha un età avanzata, ha davvero senso? L’ergastolo è costituzionalmente accettabile nella misura in cui non viene scontato per intero, come disse una sentenza della corte costituzionale. La stessa Corte ha dato una giustificazione dell’ostatività attraverso una contorsione: se il condannato collabora, lo stesso può non scontare per intero la pena. Per la Corte, con il marchingegno del 4 bis e 58 ter, l’ergastolo è costituzionalmente orientato perché superabile con la non completa esecuzione. Comunque per quanto riguarda Battisti, se ad esempio non gli fosse impedito di accedere ai benefici, egli ne potrebbe avere accesso a 80/ 85 anni. Si capisce che sui fatti che hanno a che fare con la vita, l’ordinamento abbia interesse all’esecuzione della pena, ma non bisogna dimenticare che si tratta di un’esecuzione di pena e dunque, come tale, il condannato debba avere diritto all’accesso ai benefici penitenziari ed alla liberazione condizionale. Penso che anche se gli fosse applicato il 4 bis, che è l’opinione prevalente, in prospettiva è ragionevole pensare che rispetto a fatti così lontani nel tempo, ormai chiusi dal punto di vista giudiziario e senza possibilità che il condannato possa ancor far parte di organizzazioni criminali, la possibilità di declassificazione sia concreta. L’ergastolo dovrebbe essere superato in Italia? La questione dell’ergastolo resta aperta. Resta la necessità di una riconsiderazione dell’ergastolo ostativo da parte della Corte Costituzionale, che si è inventata per legittimarlo, un’argomentazione che è di natura inquisitoria: il fatto che “resta aperta la possibilità per il condannato di collaborare” significa di dover corrispondere a un’opinione del pubblico ministero. Nel frattempo è anche pendente una questione rilevante sulla questione alla Cedu. E sull’esecuzione della pena a lunga distanza dai fatti che hanno condotto alla condanna, cosa ne pensa? Quello della questione di un’esecuzione di pena a così lunga distanza dei fatti, con soggetti così cambiati, è una questione antica ma sempre aperta. Capisco che per i reati di particolare gravità, che hanno comportato la morte di persone, in qualche modo questa modalità di prescrizione della pena possa essere contestata, ma non si intende come la finalità costituzionale della pena possa in effetti essere esercitata - quando e come - a tanta distanza dal fatto. Altro tema l’età: quello dei detenuti in carcere ultrasettantenni... La legge prevede in via ordinaria che oltre 70 anni non si possa stare in carcere. Sappiamo che ci sono tante eccezioni ma resta il fatto che trattenere in carcere in età avanzata le persone può essere un trattamento contrario al senso di umanità. Si è parlato anche dell’isolamento diurno a proposito della sentenza di Cesare Battisti, cosa ne pensa? È assegnato con sentenza dal Giudice, non si tratta decisione amministrativa. L’ergastolo prevede che al condannato sia applicato anche l’isolamento diurno, ma è certamente una inutile e ulteriore vessazione. Che ragione può avere far trascorrere le giornate da solo, al condannato all’ergastolo, per poi mandarlo a dormire nella socialità? Nessuna, se non una pena nella pena. Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti: “Sorpreso dal ministro, ha violato le leggi” di Davide Lessi La Stampa, 16 gennaio 2019 “Mettere un video su quelle fasi dell’accompagnamento coatto di Cesare Battisti è in contrasto con l’ordinamento penitenziario”. Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, non nasconde di essere “sorpreso” per quanto fatto dal ministro Alfonso Bonafade. Garante Palma, il ministro della Giustizia ha violato delle leggi pubblicando quel video sui social? “Ho visto che le immagini in questione sono state pubblicate nella pagina Facebook personale e non su quella del ministero. Ciò non toglie che è stata violata almeno una norma”. Quale? “L’articolo 42 bis comma 4 del codice dell’Ordinamento penitenziario che, cito a memoria, prevede di adottare tutte le opportune cautele per proteggere il detenuto dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, anche per evitargli inutili disagi”. Ci sono altre violazioni? “Sono perplesso nella scelta di esporre in quel modo gli operatori di Polizia che stanno facendo il loro dovere. Ci deve essere più attenzione”. Proprio lei aveva fatto un appello alla politica sui rischi legati alla spettacolarizzazione di un arresto come quello di Battisti... “E infatti sono rimasto ancora più sorpreso dal video. Anche perché il ministro Bonafede nei giorni scorsi era stato più attento e non si era lasciato andare a espressioni del tipo: “Ora marcisca in galera”. Cita Salvini... “Chi ha un ruolo istituzionale ha il compito di costruire un senso comune più alto. Non dovrebbe cedere alla spettacolarizzazione o a frasi di quel genere”. Pedopornografia, inoltro via Facebook meno grave di pubblicazione su sito aperto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 15 gennaio 2019 n. 1647. Inoltrare via Facebook foto e video pedopornografici ad un soggetto determinato integra un’ipotesi meno grave rispetto alla pubblicazione su di un sito accessibile a tutti. In questi casi, dunque, si applica il comma 4, e non 3, dell’articolo 600-ter del codice penale che punisce con la reclusione fino a tre anni (e non da 1 a 5 anni, come il comma precedente) chi commette il reato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza del 15 gennaio 2019 n. 1647. Il caso riguardava tre persone di origine slava - due fratelli e la moglie di uno dei due - condannati per sottrazione di minori e violenza sessuale. Gli imputati dopo aver portato via nottetempo una ragazzina di quindici anni da una comunità, in provincia di Salerno, in cui era stata collocata dal Tribunale, ne avevano abusato sessualmente. Proposto ricorso, la III Sezione ha confermato le condanne. Riguardo l’ulteriore reato commesso da uno dei due fratelli e cioè l’invio del materiale pornografico ad un amico, dopo essersi ritratto col proprio cellulare durante i rapporti, la Corte afferma che: “Sussiste il delitto di cui all’art. 600 ter comma 3 c.p. qualora il soggetto inserisca foto pornografiche minorili in un sito accessibile a tutti, ovvero quando le propaghi attraverso internet, inviandole a un gruppo o lista di discussione da cui chiunque le possa scaricare, mentre è configurabile l’ipotesi più lieve di cui al comma 4 dell’art. 600 ter, quando il soggetto invii dette foto a una persona determinata allegandole a un messaggio di posta elettronica o, come avvenuto nel caso di specie, tramite il profilo Facebook del destinatario del messaggio, sicché solo questi abbia la possibilità di prelevarle”. Non può invece applicarsi il diverso articolo 600 quater cod. pen. - Detenzione di materiale pornografico - in quanto, come ribadito di recente dalle Sezioni Unite (sentenza n. 51815/2018), tale reato “sanzionando le condotte del “procurarsi” e del “detenere” materiale pedopornografico, ha natura residuale e di norma di chiusura, rappresentando cioè l’ultimo anello di una catena di condotte illecite di lesività decrescente, che iniziano con la produzione e proseguono con la commercializzazione e con le attività di diffusione e di cessione de materiale pedopornografico, condotte queste autonomamente sanzionate dai primi 4 commi dell’art. 600 ter c.p.”. Dunque, dal momento che il comportamento dell’imputato non è consistito “nella mera detenzione o nel solo procacciamento del materiale pedopornografico, ma nella diversa e più grave condotta di cessione a un soggetto determinato del video e delle foto ritraenti la minore nel compimento di atti sessuali, non vi è spazio per l’applicazione della norma residuale, a nulla rilevando né la gratuità della cessione, né la circostanza che, dopo l’invio delle immagini, le stesse siano state cancellate (dall’autore, ndr) non elidendo tale condotta il disvalore penale insito nella precedente trasmissione dei contenuti visivi pornografici”. Maggiorenne senza permesso di soggiorno espulso malgrado la convivenza con i genitori di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2019 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 15 gennaio 2019 n. 781. Al figlio maggiorenne che entra o resta illegalmente in Italia non basta, per evitare l’espulsione, né la convivenza con i genitori né la scuola professionale frequentata con profitto. Elementi che non provano l’effettività del legame familiare, che può essere desunto da una serie di parametri, dalla dipendenza economica alle difficoltà che si possono incontrare in caso di espulsione. La Corte di cassazione, con la sentenza 781, accoglie il ricorso del ministero dell’Interno contro il decreto con il quale il giudice di pace aveva affermato che l’espulsione del ragazzo di 22 anni avrebbe compromesso la sua regolarizzazione. Il giudice di prima istanza aveva valorizzato l’inserimento sociale e familiare del giovane che viveva con i suoi genitori e frequentava con buoni risultati un istituto professionale. Per la Cassazione non basta, alla luce delle norme vigenti che non escludono l’espulsione - pur calibrandola sulle singole situazioni personali - neppure quando sono in gioco altri diritti fondamentali della persona di pari, se non superiore, rango. Per essere in linea con la nozione di “legami familiari” - che devono essere particolarmente stretti - il giudice deve valutare la loro effettiva consistenza desumendola da vari elementi oggettivi. E la Cassazione li elenca: l’esistenza di un rapporto di coniugio, la durata di un matrimonio, la nascita di figli e la loro età, la convivenza, altri fattori che testimoniano l’effettività di una vita familiare, la dipendenza economica dei figli maggiorenni e dei genitori e le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di affrontare in caso di espulsione. Il fine della verifica è quello di interpretare la clausola della coesione familiare, in funzione ostativa all’espulsione, in modo coerente con le norme vigenti. I giudici ricordano che la stessa Consulta ha affermato di non poter interferire nelle scelte di politica nazionale in tema di immigrazione, riconoscendo al legislatore un’ampia discrezionalità. La Suprema corte sottolinea inoltre che gli altri criteri indicati dalla legge sull’immigrazione - dalla durata del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, all’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese d’origine - sono integrativi ma non servono in assenza dei presupposti per affermare la coesione familiare. Il decreto impugnato è dunque annullato con rinvio al giudice di pace, che aveva accolto l’istanza del ragazzo, oggetto di un provvedimento di espulsione per essere rimasto in Italia malgrado la scadenza del permesso per ragioni turistiche con il quale era arrivato dall’Albania. Il nuovo giudizio dovrà essere emesso usando un metro più restrittivo. Salerno: detenuto disabile muore in cella, aperta un’indagine salernotoday.it, 16 gennaio 2019 A rinvenire il cadavere è stato un agente della Polizia penitenziaria che ha subito allertato i soccorsi. Ma i sanitari non hanno potuto fare altro che confermarne il decesso. Dramma, nel carcere di Salerno, dove un detenuto di 54 anni è stato trovato morto all’interno della sua cella. A rinvenire il cadavere è stato un agente della Polizia penitenziaria che ha subito allertato i soccorsi. Ma i sanitari non hanno potuto fare altro che confermarne il decesso. L’uomo, affetto da diverse patologie e che viveva su una sedia a rotelle, sarebbe morto per cause naturali (forse un infarto) e avrebbe finito di scontare la pena nel 2021. Trento: suicidi in carcere, istituito un Tavolo permanente di lavoro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2019 La proposta partita dal Prefetto Sandro Lombardi. Dopo le proteste dei detenuti avvenute nel carcere di Trento lo scorso 22 dicembre per l’ennesimo suicidio, nasce, su proposta del prefetto Sandro Lombardi un tavolo tecnico permanente che si riunirà ogni quattro mesi per valutare la situazione e lo stato dei lavori sulla casa circondariale di Trento. In questo incontro la direzione aziendale ha constatato la coesione di un gruppo di persone molto compatto e stabile anche nella condivisione di valori importanti e ha manifestato la propria gratitudine per l’opera che continuano a prestare. Dal colloquio è emersa anche la difficoltà degli operatori a garantire, in alcune occasioni, l’assistenza sanitaria ad un numero di detenuti molto elevato rispetto agli standard previsti. Davvero tanti i rappresentanti delle istituzioni, degli enti e degli attori sociali invitati che ora lavoreranno in maniera permanente per poi fare periodicamente il punto assieme. Al primo incontro del tavolo allargato che si è tenuto lunedì mattina nella sede del Commissariato del Governo in corso Tre Novembre, hanno preso parte, oltre ai vertici delle locali forze dell’ordine (tra cui il questore di Trento Giuseppe Garramone, il comandante provinciale dei carabinieri colonnello Luca Volpi e il comandante provinciale della guardia di finanza colonnello Roberto Ribaudo), il presidente della Provincia Maurizio Fugatti, l’assessora alle Attività sociali Mariachiara Franzoia in rappresentanza del sindaco Andreatta, il sostituto del procuratore generale Giuseppe De Benedetto e il procuratore Sandro Raimondi, la presidente del tribunale di sorveglianza Lorenza Omarchi e i magistrati di sorveglianza Arnaldo Rubichi e Antonino Mazzi. Erano presenti anche i rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, il direttore dell’Ufficio sicurezza e traduzioni del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, il direttore dell’Ufficio locale di esecuzione penale esterna (Uepe), il comandante del corpo di polizia penitenziaria Spini, la garante dei diritti dei detenuti Antonia Menghini, la direttrice della casa circondariale Francesca Gioieni, il presidente dell’Ordine degli avvocati Andrea de Bertolini, il presidente della Camera Penale Filippo Fedrizzi e il cappellano del carcere don Mauro Angeli. A conclusione della riunione il prefetto Lombardi ha proposto l’attivazione di un tavolo di lavoro che si riunirà ogni quattro mesi per fare il punto sulle attività ed i percorsi avviati. La proposta è stata accolta con favore e da subito i responsabili delle istituzioni presenti instaureranno buone pratiche di comunicazione per l’approfondimento delle varie problematiche. Il prefetto ha concluso la riunione affidando i suoi auspici di successo per questa collaborazione a una citazione: “Quando un uomo sogna da solo, il suo rimane solo un sogno, ma quando un uomo sogna assieme ad altri uomini il suo sogno già sta diventando realtà”. Vasto (Ch): sartoria del carcere, occasione di riscatto per i detenuti di Maria Napolitano sansalvo.net, 16 gennaio 2019 A settembre 2018 è stata inaugurata la sartoria della Casa lavoro con annessa Sezione Circondariale di Vasto. Dopo solo tre mesi già si pone come un’esperienza molto positiva ascrivibile alle buone pratiche carcerarie volte al fine principale della rieducazione del condannato. Questo è quanto è venuto fuori in occasione della visita alla sartoria dell’arcivescovo Bruno Forte e altre autorità presenti, subito dopo la celebrazione della messa di Natale nella cappella della struttura carceraria. “Il lavoro da dignità all’uomo e questa sartoria in questo particolare luogo ne è la dimostrazione lampante” ha esordito il prelato. La direttrice del carcere Giuseppina Ruggero ha elogiato gli internati impegnati nella sartoria che hanno dato prova di una grande responsabilità, serietà e attaccamento al lavoro rinunciando anche all’ora di passeggio per portare a termine il lavoro iniziato. Per raggiungere questo risultato è stato determinante il ruolo carismatico della loro insegnante Rosanna Priori che ha saputo coinvolgerli a appassionarli a questo lavoro nonostante avessero delle macchine da cucire altamente professionali non facili da utilizzare. La docente, originaria di Torino Di Sangro ma dal 1992 residente a Vasto, dove è molto conosciuta prima come titolare di un atelier di abiti da sposa ideati e realizzati dalla stessa e oggi come titolare di una scuola di alta moda e modellismo, è stata assunta grazie a un bando nazionale indetto dal Ministero di Grazia e Giustizia. “Ho spesso pensato di fare del volontariato in carcere ma non si era mai creata l’occasione. Tempo fa è passato nella mia scuola un dipendente della Casa Lavoro di Vasto e mi parla di questo bando. Proprio qualche giorno prima avevo letto della sartoria in carcere e a vedere l’immagine di quelle macchine da cucire mi si erano illuminati gli occhi. E ho pensato “perché no?”. E così ho fatto domanda e partecipato al concorso: sono arrivata prima in graduatoria. Prima di iniziare nutrivo molte perplessità: “Ma come saranno? Sarò in grado di relazionarmi con loro?” Invece mi sono subito ambientata e soprattutto ho avuto modo di constatare una grande voglia di apprendere e di fare da parte di questi internati” - ha raccontato Priori. Il Procuratore della Repubblica di Vasto, Giampiero Di Florio, riprendendo le parole del vescovo Forte pronunciate durante l’omelia della celebrazione eucaristica, ha dichiarato “questa sartoria è un luogo dove le parole “misericordia e Speranza” divengono concretezza perché sintetizzano la funzione rieducativa della pena carceraria. Siamo venuti qui per l’inaugurazione e ora tutto ciò che stiamo ascoltando è ragione di grande soddisfazione. La presidente del Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila Maria Rosaria Parruti ha aggiunto “Solo la Misericordia e l’accoglienza può aiutare chi ha sbagliato a ripartire a cominciare una vita diversa”. La Ruggero ha tenuto a sottolineare che per raggiungere questi buoni risultati hanno contribuito la collaborazione di tutto il personale della Casa lavoro con annessa Sezione Circondariale di Vasto. Si è parlato anche della possibilità per la sartoria di incrementare il lavoro accettando commissioni di lavoro esterno. Dai presenti è venuta fuori anche l’idea di commissionare la realizzazione di tuniche per prima comunione e/o per i battesimi. Soddisfazione per questa bellissima realtà è stata espressa anche dal vicesindaco del comune di Vasto Giuseppe Forte e dal sacerdote ortodosso Petru Bogdan Voicu. Massa Carrara: “detenuti privati della libertà, ma hanno diritto ad avere voce” di Camilla Palagi voceapuana.com, 16 gennaio 2019 L’appello per l’istituzione del Garante dei diritti. È un punto di riferimento per le persone che avendo commesso dei reati sono state private della loro libertà. “Non un organo di controllo”, sottolinea il direttore della Casa di reclusione di Massa, Paolo Basco. Ma una persona vicina quanto basta a farle sentire meno sole in un momento della loro vita in cui sono chiamate a fare un mea culpa per ciò che hanno commesso. È il Garante per i diritti delle persone private della loro libertà, temporaneamente o per un lungo periodo. Dal 2015 questa figura è scomparsa dal territorio provinciale di Massa-Carrara e da tempo Umberto Moisè, attivista ed ex presidente Arci della Lunigiana, lo fa presente alle istituzioni. Questo ruolo, è bene precisarlo, lo ha sempre ricoperto a titolo gratuito. Ma con la riforma della province è completamente decaduto dal loro statuto. Nonostante gli sforzi fatti per farlo istituire. “A seguito di un percorso non facile - racconta Moisè - nel 2012 la provincia ha approvato l’istituzione di questa figura. È stato il primo caso in Italia di garante provinciale, essendo stato attivato fino a quel momento solo ed esclusivamente dai comuni. L’istituzionalizzazione del ruolo è stata sostenuta dall’ex direttrice della Casa di reclusione Maria Martone e dall’allora assessore Domenico Ceccotti. Rappresentava un modo per creare una rete attorno a questo mondo, quello del carcere, che qualcuno, un tempo, definiva un quartiere della città”. Nonostante le dichiarazioni d’intenti, l’amministrazione Volpi “non è passata dalle parole ai fatti”. E il dato negativo da registrare è che Massa Carrara rientra tra le 3 province toscane a non avere questa figura, come ricorda anche il Garante regionale Franco Corleone. Nello specifico è una figura che ha “il compito di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile dei detenuti e delle persone private della libertà personale residenti, domiciliate o dimoranti”, in questo caso, nel territorio provinciale. Sulla carta è inoltre chiamata a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei diritti umani anche attraverso il mondo dell’associazionismo, creando progetti finalizzati al reinserimento dei detenuti nella vita quotidiana. Nel rispetto, insomma, dell’articolo 27 della Costituzione che da indicazioni sul senso della reclusione: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una figura utile e importante da ripristinare anche per l’attuale direttore della Casa di reclusione di Massa, Paolo Basco: “Non è compito della direzione del carcere attivare questa figura - dice Basco - ma delle amministrazioni. È un ruolo che non ha potere di controllo ma facilita il collegamento dei detenuti con il territorio. Tutti gli istituti ne hanno bisogno e credo sia una figura utile e importante, che non deve essere vista come un controllore ma come una persona di vicinanza, di aiuto e impegno sociale per tutta la comunità”. L’appello, dunque, è rivolto alle amministrazioni comunali di Massa e di Carrara. Firenze: gli studenti in carcere per fare sport coi detenuti Redattore Sociale, 16 gennaio 2019 Le porte del carcere fiorentino di Sollicciano si sono aperte per le classi 5° dell’ITT Marco Polo. Gli studenti hanno disputato due amichevoli in carcere nell’ambito del progetto “Vengo a giocare da te”, promosso dalla Uisp. Le porte del carcere fiorentino di Sollicciano si sono aperte per le classi 5° dell’ITT Marco Polo. Gli studenti hanno disputato due amichevoli in carcere nell’ambito del progetto “Vengo a giocare da te”, promosso da Uisp Area Nuovi Stili di Vita. Si è trattato dell’appuntamento conclusivo per un’iniziativa che aveva lo scopo di far dialogare il mondo della scuola con la comunità carceraria di Sollicciano attraverso lo sport. Da qui l’idea di un incontro di calcio nella sezione maschile e di un match di pallavolo in quella femminile e trans per avvicinare due realtà che, pur nello stesso quartiere, hanno raramente occasione di confronto. “Sono venuto altre volte in carcere con i giornalisti Rai e la Fiorentina, con i dirigenti Uisp e i consiglieri comunali - racconta il presidente di Uisp Comitato di Firenze Marco Ceccantini - Questa è stata una volta diversa. È stato interessante vedere la reazioni dei ragazzi. All’inizio i loro volti erano tesi e preoccupati, erano consci di entrare in un mondo diverso. Dentro, come sappiamo, lo sport accomuna tutti e scioglie le tensioni soprattutto causate dalla non conoscenza delle problematiche altrui”. Le due gare, disputate all’insegna del fair play, hanno visto trionfare i detenuti in tutte e due le occasioni. La mattinata si è conclusa con un terzo tempo a base di patatine, bibite e panettone. Il risultato più prezioso della giornata sono però i commenti dei partecipanti. I docenti hanno sottolineato la valenza educativa del progetto. David Rastrelli, insegnante ITT Marco Polo, parla di “esperienza importante con una realtà che sembra lontana. Oggi ciò che colpisce è la gioia evidente che anche una semplice partita di pallavolo con persone venute dall’esterno, per chi è recluso rappresenta un vero e proprio regalo”. Il collega Maurizio Mazzei fa notare come “la maggioranza degli studenti si è avvicinata a questa possibilità con grande curiosità. Una volta in campo dopo i primi momenti di assestamento, è stato tutto naturale e il fair play ha caratterizzato l’intera partita. A 60 anni sono entrato per la prima volta in una realtà come questa e credo che a tutte le età valga la pena confrontarsi con realtà che non conosciamo”. Entusiasti i commenti dei ragazzi. “Ci aspettavo persone totalmente diverse, più cattive, arrabbiate e con aspetti duri e maniere brusche - raccontano due studentesse Vittoria e Chiara, ma non è stato così. Sono state accoglienti e con battute e risate hanno cercato di metterci a nostro agio. Veramente una bella esperienza”. Una lezione di vita utile anche dall’altra parte del muro. Per Valentina Palmucci, Responsabile Attività Sezione Femminile Sollicciano “lo scambio tra l’interno e l’esterno avvenuto attraverso questo progetto è un’esperienza preziosa per i detenuti e un motivo di grande riflessione per gli studenti che si sono confrontati sul campo da gioco, dove ognuno nello stesso instante assume il ruolo di giocatore, in uno spazio di assoluta parità”. “Per noi è una giornata felice - raccontano Giudi e Angela, recluse a Sollicciano-, una festa, ci vorrebbero più occasioni così, per poterci confrontare con un mondo esterno che non entra per giudicarci, ma per trascorrere del tempo con noi. Qualcuna di noi ha preferito stare in campo piuttosto che incontrare l’avvocato, perché quello può essere rimandato a domani, ma la partita è oggi, solo oggi”. Roma: “La pena oltre il carcere”, convegno finale minori.gov.it, 16 gennaio 2019 Il primo febbraio 2019, a Roma (Best Western Hotel Universo, via Principe Amedeo 5B), si terrà il convegno finale del progetto La pena oltre il carcere, realizzato dal Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) in partenariato con il Coordinamento italiano delle case alloggio delle persone con Hiv/Aids (Cica). Un’iniziativa che si è proposta di accrescere le conoscenze e sviluppare interventi innovativi nell’ambito delle pratiche di giustizia riparativa nelle organizzazioni associate ai due coordinamenti, con l’obiettivo di favorire il recupero sociale di detenuti, ex detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, sia adulti che minorenni. Al convegno Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa, organizzato dal Cnca, interverranno rappresentanti istituzionali ed esperti. “L’evento finale di Roma - spiegano gli organizzatori - vuole essere il momento in cui condividere l’elaborazione del Cnca con gli interlocutori pubblici e istituzionali a livello nazionale, con l’intento di evitare che l’attenzione pubblica e della politica su un tema così importante possa non portare ai risultati che sarebbero auspicabili”. La pena oltre il carcere ha previsto una serie di azioni mirate al raggiungimento di diversi obiettivi, fra i quali: migliorare le abilità dei detenuti e delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria con percorsi educativi e di accompagnamento territoriale; migliorare le conoscenze e le abilità degli operatori sociali del pubblico e del privato sociale impegnati nei percorsi di accompagnamento territoriale e tutoraggio dei detenuti e delle persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. “Le pratiche di giustizia riparativa - si legge nella presentazione del progetto - attivano un percorso di responsabilizzazione delle persone rispetto al reato commesso in un’ottica di comunità. L’adesione ad un percorso riparativo concorre a ricomporre quel “patto di cittadinanza” che è stato infranto con il reato. È l’idea di una pena di comunità, di una gestione della pena e delle conflittualità maggiormente democratica e condivisa, nell’ottica per cui il primo bene da tutelare sono le relazioni tra esseri umani. Il progetto si prefigge dunque di riempire di contenuti positivi una parte del tempo di pena, attraverso attività di mediazione, messa alla prova e l’inserimento in percorsi di impegno volontario, formazione e lavoro presso comunità, associazioni di promozione sociale, di volontariato, cooperative sociali aderenti al Cnca e al Cica che hanno alla base della propria progettualità i principi e i valori della solidarietà, del mutualismo, della cooperazione e collaborazione”. Roma: convegno sul tema “carceri, genitorialità e diritti dei figli” Askanews, 16 gennaio 2019 Il rapporto tra figli e genitori detenuti è un problema di cui si parla poco, anche se interessa un numero di persone certamente superiore alle detenute madri. I dati forniti dal Dap aggiornati al 30 giugno 2018 parlano di un totale di 47 madri detenute con 52 bambini di cui, 31 madri e 34 bambini negli Icam, 16 madri e 18 bambini nelle sezioni nido delle carceri. Per quanto riguarda lo stato civile dei detenuti risulta, dai dati del Dap riferiti al 30 giugno 2018 che, 17.031 detenuti coniugati, 565 vedovi, 1.940 divorziati, 2.703 separati, 7.357 conviventi (queste ultime 4 categorie sono ancora più problematiche delle altre poiché oltre ai problemi legati alla condizione di detenzione hanno problemi di rapporti interpersonali il più delle volte deteriorati e difficilmente recuperabili, o come per i conviventi, problemi che riguardano il riconoscimento da parte delle istituzioni dello stato giuridico). Il totale dei figli che i detenuti hanno dichiarato di avere è di 58.913. Sono 8.056 i detenuti che hanno un solo figlio, 9.189 quelli che ne hanno due, 5.299 ne hanno tre, 2.185 quattro, 777 cinque, 320 sei, 291 oltre i sei figli. Di questo si parlerà al Convegno di studio “Genitorialità in carcere e diritti dei figli dei detenuti”, organizzato dalla Fondazione Terzo Pilastro - Internazionale e dalla Cooperativa Cecilia con il patrocinio del Ministero della Giustizia. È provato che un detenuto che ha conservato i legami familiari rischia meno la recidività. Per questo diventa importante studiare misure che consentano di non disperdere questi legami ed intervenire, con altre, rivolte ai figli, che prevengano gli effetti devastanti derivanti dalla particolare situazione. La genitorialità in una situazione come quella del carcere non ha possibilità di affermazione, vive problemi insormontabili. Esiste un’incompatibilità tra l’essere detenuto in un contesto chiuso e totalizzante come quello carcerario ed esercitare il ruolo genitoriale. Incompatibilità che deriva da limiti organizzativi, e normativi, lo stesso colloquio, che è l’unico momento di contatto con il proprio mondo relazionale, il più delle volte si trasforma in turbamento emotivo per le modalità e gli spazi in cui avviene, per i vincoli giuridici e di sicurezza che ne regolamentano lo svolgimento. Ma influiscono anche le inumane condizioni di vita causate dal sovraffollamento, dalla inadeguatezza delle strutture, dai tagli ai fondi destinati al trattamento intramurario, oltre che da implicazioni psicologiche emotive e relazionali. Come è possibile promuovere il diritto alla genitorialità in carcere consentendo ai detenuti ed ai loro familiari di incontrarsi per soli sei colloqui al mese di un’ora, e solo se non residenti il tempo concesso può essere anche di due ore. Incontri che per gli internati e i sottoposti al 41 bis sono addirittura ridotti a quattro. Come si può promuovere la genitorialità se non si applica il principio della territorialità della pena che, oltre a non sradicare il detenuto dal proprio contesto sociale, culturale e familiare, consentirebbe ai suoi parenti anche indigenti di potergli fare visita, di non sottoporre i bambini a viaggi estenuanti. Per il bambino l’arresto di un genitore e la conseguente detenzione rappresentano una frattura nel contesto familiare un elemento di disadattamento. I bambini, vivendo l’assenza del genitore come abbandono, instaurano da subito un rapporto altamente conflittuale e il più delle volte manifestano la loro reazione con il rifiuto di incontrarlo. La separazione forzata tra genitore e figlio influisce in modo determinante nel tempo e nella biografia di ciascuno. Oggi - pur se la convenzione internazionale sui diritti del fanciullo stabilisce che l’interesse dello stesso debba essere preminente su ogni decisione sia essa istituzionale che privata - dobbiamo chiederci quanto la nostra legislazione, i regolamenti e soprattutto la prassi penitenziaria rispettano questi diritti. Perché c’è una evidente contraddizione tra il rispetto dei diritti del fanciullo e la sua separazione forzata da un genitore perché detenuto; c’è un’evidente contraddizione quando si costringe il bambino ad entrare in carcere per far visita al genitore detenuto e sottostare a tutte le regole, volte esclusivamente alla sicurezza stabilite dall’art. 37 del Dpr 230/2000. Per un bambino o una bambina far visita al genitore detenuto significa attese interminabili, trattamenti umilianti e imbarazzanti; significa traumatizzanti perquisizioni, paure, incontri in ambienti disumani e sotto continuo controllo. L’obiettivo dell’incontro è quello di individuare le azioni, anche in sede legislativa, necessarie a garantire tale diritto, anche attraverso l’analisi e la valorizzazione dell’esistente. Roma: “Sarà presente l’autore”, il racconto dei laboratori culturali nelle carceri del Lazio tusciatimes.eu, 16 gennaio 2019 Oggi 16 gennaio alle ore 15.00 l’inaugurazione con Stefano Anastasia Garante delle persone private della libertà, Maria Antonia Vertaldi Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Fabio Vanni Dirigente Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Lazio, Fiammetta Trisi Dirigente Dipartimento Giustizia minorile, Albino Ruberti Capo di Gabinetto del Presidente della Regione Lazio e lo scrittore Edoardo Albinati, per poi proseguire con le prime rappresentazioni e, a conclusione della giornata, una degustazione di prodotti d’economia carceraria. Il 17 gennaio dalle 10,30 alle 19,00 si susseguiranno estratti di spettacoli teatrali, film e letture. Durante tutta l’iniziativa, ad allestimento degli spazi, una mostra fotografica con foto di scena e foto realizzate dai detenuti, video prodotti con i detenuti e video che raccontano le associazioni che hanno curato i laboratori, il tutto alla presenza degli autori! “Sarà presente l’Autore”, presso lo spazio WeGil, in largo Ascianghi 5 a Roma, saranno due giorni tra esposizioni fotografiche, rappresentazioni teatrali, film, video e letture per raccontare le esperienze di laboratori culturali che si svolgono con gli uomini e le donne detenute nelle carceri del Lazio. Per raccontare che la cultura può essere strumento di conoscenza di sé e del mondo esterno, e chiave di lettura per la realtà della detenzione oltre stereotipi e luoghi comuni. La cultura come necessità e opportunità di cambiamento. “Sarà presente l’Autore” è un’iniziativa realizzata dal Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio in collaborazione con LazioCrea. “Nato colpevole”: un libro che racconta il mondo delle carceri di Simone Baroncia korazym.org, 16 gennaio 2019 L’ex boss “sanguinario” della Versilia, Carmelo Musumeci, in carcere da quasi 30 anni, è stato il protagonista della lotta tra clan che ha infiammato, tra gli anni 80 e 90 le province di Massa Carrara, Lucca, Livorno e La Spezia, ed è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Alessio Gozzani, l’ex calciatore poi imprenditore assassinato all’autogrill della Sarzana nell’aprile del 1991. In quel periodo, come riportano le cronache di allora, lunga è stata la scia di sangue tra il clan Tancredi e gli affiliati di Musumeci per il controllo del gioco d’azzardo, della prostituzione e della droga. Lui è nato a Catania nel 1955 ed ha passato lunghi anni in detenzione di 41bis prima all’Asinara e poi a Spoleto, fino alla semilibertà ottenuta nel 2017 dal tribunale di Sorveglianza di Venezia. Ora Musumeci, che nel frattempo ha conseguito tre lauree, il giorno lavora in una comunità per disabili di don Benzi a Bevagna e scrive libri, di cui l’ultimo si intitola ‘Nato colpevolè, che è una riflessione sulla sua vita in forma di racconto. Il libro racconta lo sguardo di Musumeci di oggi su quando era bambino e ragazzo, mettendo in fila le sofferenze e le azioni che hanno portato all’uomo che è oggi. L’autore scrive con garbo la propria vita da bambino ‘maltrattato’ a ragazzo che uccide un uomo. O, ancora, dell’adolescente che a 15 anni è stato legato a un letto di contenzione per una settimana: ‘Sono sì nato colpevole, poi io ci ho messo del mio a diventarlo’. Nel ricevere premi per i suoi libri ha spiegato la decisione di scriverli: “Una volta un mio compagno di cella, che mi vedeva scrivere tutti i giorni, mi aveva chiesto perché lo facessi e gli avevo risposto che innanzitutto scrivevo per fare sapere qualcosa di più di me ai miei figlie alle persone che mi volevano bene, poi per dare il mio contributo a far conoscere il carcere al mondo esterno e gli avevo citato una frase trovata scritta sul muro di un lager nazista: io sono stato qui e nessuno lo saprà mai. Ecco, questa per me era la cosa più brutta. Quando uno scrive non è mai sicuro di niente. E non è vero che uno scrive per se stesso, si scrive sempre per gli altri. Si scrive per sentirsi vivi. Io, in 27 anni di carcere, ho scritto anche per dimostrare a me stesso che, nonostante fossi chiuso in cella, coperto di cemento e di sbarre di ferro e cancelli blindati, non solo respiravo, ma ero anche vivo. Come sappiamo, la letteratura è l’anima di un Paese e io sono fortemente convinto che in Italia la giustizia e le prigioni siano quelle che sono anche perché, a differenza di altri Paesi, nel nostro manca una letteratura sociale carceraria. Dall’universo carcerario arrivano notizie ma non arriva una informazione ‘dal basso’, per questo penso che sia importante per i prigionieri far conoscere all’opinione pubblica l’inferno delle nostre ‘Patrie Galerè che i nostri governanti hanno creato e mal governano. Nel mondo esterno ormai le persone scrivono poco, o perché non hanno tempo o perché sono occupati a guardare i loro telefonini, per questo penso che una nuova letteratura contemporanea possa nascere solo fra le sbarre”. Rileggendo la propria vita non ha cercato ‘giustificazioni’: “Ho pensato soprattutto che sono diventato quello che non avrei voluto mai essere, ma purtroppo a volte si nasce colpevoli (sotto un certo punto di vista) e poi ci si diventa per cercare scorciatoie nella vita. Ho accettato le restrizioni del carcere e della libertà, ciò che non ho mai condiviso è che molte di queste restrizioni producono criminalità e certe situazioni posso solo che incattivire e inasprire. A me è accaduto a un certo periodo, poi grazie alle relazioni che mi sono costruito, sono riuscito a migliorarmi. La famiglia, nonostante il supporto che mi ha dato, da sola può non bastare. Soprattutto se la società decide che tu sarai un colpevole a vita. È vero, io sono un criminale, ma se quelli là fuori non hanno neanche il coraggio e l’umanità di ammazzarmi prima, ma di tenermi murato a vita in una cella… forse non sono solo io il cattivo”. Nella prefazione del libro la giornalista Francesca Barca ha scritto il proprio incontro con Carmelo Musumeci: “Per molto tempo non ho nemmeno approfondito la storia personale di Carmelo, ovvero le ragioni per le quali si trova in prigione: sapevo che Carmelo era un ergastolano ostativo, un ergastolano a cui sono rifiutati i benefici previsti per il regime dell’ergastolo (il regime di semilibertà, la libertà condizionale e alcuni tipi di permessi) perché la persona rifiuta di diventare ‘collaboratore di giustizia’; sapevo, perché ho letto le sue testimonianze, che Carmelo ha subito anche il 41bis. Non l’ho fatto, non mi sono informata sulla sua storia (la domanda classica ‘ma cosa ha combinato per finire lì?’) credo, perché quella voce meritava uno spazio a prescindere. Mi interessava leggerla, mi interessava che fosse ascoltata… In questo caso, nel caso della storia e degli scritti di Carmelo (e più in generale della sua presenza, della sua presa di parola pubblica) quello che rimane a me, da lettrice, è la responsabilità. La responsabilità, pregna e densa, di chi ha subito violenza, di chi ha fatto subire violenza, di chi ha pagato, di chi ha reagito e di chi ha preso parola, pubblicamente, ‘politicamente’ nel senso più ampio e bello che questo termine può contenere… La sua storia merita di essere letta e ascoltata: ci parla di colpa e di violenza, di repressione e perdono, e di responsabilità, pubblica e personale”. Terrorismo. Isis, dove sono i 40mila foreign fighters? di Milena Gabanelli e Marta Serafini Corriere della Sera, 16 gennaio 2019 Nel 2017 la moschea di Al Nuri, diventata simbolo dello Stato Islamico, è stata rasa al suolo e liberata Raqqa, la “capitale” del Califfato, diventata famigerata per gli orrori e le esecuzioni degli oppositori. A dicembre dello stesso anno l’Isis aveva perso il 60 per cento del territorio e l’80 per cento delle entrate, scese da 81 a 12 milioni di dollari al mese. E in Europa il Global Terrorist Index 2018 spiega come i colpi subiti in Siria e Iraq si siano tradotti in un calo del 75 per cento delle vittime, a seguito del fallimento del 20 per cento degli attentati pianificati dall’Isis. Gli stessi Stati Uniti - come Trump aveva promesso in campagna elettorale - hanno annunciato il ritiro dei propri uomini (circa 2.000 unità, per lo più corpi speciali) dalla regione considerando di fatto la guerra all’Isis conclusa. Ma lo Stato islamico è davvero sconfitto? Dove sono finiti i foreign fighters? Secondo gli analisti e le fonti di intelligence, questo gruppo terroristico rappresenta ancora una minaccia per la sicurezza globale. Dei suoi 40 mila foreign fighters provenienti da 110 Paesi, una parte è tornata a casa. Per il Soufan Center, think tank statunitense fondato da Ali Soufan, ex agente dell’FBI coinvolto nelle indagini precedenti gli attentati dell’11 settembre, il numero di attacchi ispirati o diretti dallo Stato islamico continua ad aumentare, come abbiamo visto anche nel caso di Strasburgo a Natale o di Manchester a Capodanno. “Ecco perché i rimpatriati, qualunque sia la ragione per cui tornano a casa, continueranno a rappresentare un rischio” spiega Soufan. Nel luglio 2017 la Radicalization Awareness Network (Ran) stimava che circa il 30 per cento dei 5000 miliziani provenienti dall’Unione Europea e partito per la Siria e l’Iraq avesse fatto ritorno. In alcuni Paesi, come Danimarca, Svezia e Regno Unito, il numero dei returnees (così vengono chiamati i jihadisti che rientrano) si avvicina al 50 per cento di quelli partiti. A febbraio 2018 il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che il 10 per cento dei 9.000 foreign fighters russi e delle ex repubbliche sovietiche fosse rientrato. A Bagdad processi “rapidi” - Qualche centinaio di sostenitori dell’Isis sono morti nei raid, altri sono stati catturati. Alcuni sono finiti nelle mani delle forze irachene. Da considerare quanto Isis abbia attecchito in Iraq, riuscendo perfino a mettere a libro paga e corrompere molti giudici. Lo scorso anno a Bagdad si sono tenuti qualche centinaio di processi, spesso durati pochi minuti, con 300 sentenze di condanne a morte e 185 ergastoli, anche in assenza di prove certe. Tra questi ultimi ci sono un centinaio donne, sia irachene che straniere, accusate - senza prove - di sostenere lo Stato Islamico. Poi c’è il dramma dei bambini, molti dei quali esposti al lavaggio del cervello e ai traumi della lotta armata. Alcuni di loro sono detenuti con le madri in Iraq e in Siria. Poche settimane fa solo Belgio e Germania hanno fatto qualche passo per i rimpatri. Moneta di scambio - 400 jihadisti sono invece rinchiusi nelle carceri curde delle SDF, le forze che hanno combattuto Isis nel nord della Siria e che hanno contribuito alla sua sconfitta sul campo. Non avendo però a disposizione un apparato statale e giuridico, i curdi, nel tentativo di usare i prigionieri come moneta di scambio, hanno più volte fatto pressione sui governi europei affinché si prendessero i loro cittadini per processarli in patria. È il caso degli inglesi Alexanda Kotey ed El Shafee Elshik, membri della cellula dell’Isis detta “Jihadi Beatles”, ritenuti colpevoli di aver detenuto e decapitato, tra gli altri, i due volontari britannici David Haines e Alan Henning, e di aver rapito il cooperante italo svizzero Federico Motka. Kotey ed Elshik si trovano ancora nel nord della Siria senza che Londra, né altri Paesi, abbiano chiesto l’estradizione. In un vertice a Roma a febbraio 2018, il capo del Pentagono James Mattis (fresco di dimissioni perché in contrasto con la decisione di Trump di ritirarsi dalla Siria) ha chiesto ai governi europei di processare i foreign fighters. Nulla si è mosso: nei tribunali europei occorre produrre prove imbastire processi, e vanno recuperate in scenari come quello iracheno e siriano. Troppo complesso e costoso. E ora - tanto più dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato il loro disimpegno - il rischio che i curdi liberino questi miliziani anche a fronte del pagamento di un riscatto è alto. Altrettanto elevata la possibilità che le intelligence europee ne perdano le tracce. Per quanto i 125 foreign fighters italiani, 40 sono considerati deceduti, altri sono stati catturati in Siria. Tra loro la 22enne padovana Meriem Rehaily, partita nel 2016 e ancora detenuta dai curdi. Molti anche i “dispersi”. Tra loro Maria Giulia Sergio, condannata in contumacia a nove anni, che al Corriere della Sera nel luglio 2015 dichiarava di voler decapitare gli infedeli in nome di Allah. Pericolo di fuga e propaganda - I problemi dunque sono due. Il primo è il rischio di fuga di soggetti pericolosi e di un loro possibile ritorno in Europa. Il secondo riguarda l’influenza della narrativa jihadista sui giovani. Dopo l’11 settembre, 650 sospettati jihadisti vennero rinchiusi nella prigione statunitense di Guantanámo. Le immagini degli abusi fecero il giro del mondo diventando una potente arma di reclutamento per le nuove leve del jihadismo, tanto da portare Obama a promettere nel 2009 la chiusura della prigione in tempi brevi. Poi è arrivato Trump e ne ha prolungato le attività di altri 25 anni. Lo stesso Al Baghdadi ha deciso di creare Isis proprio mentre si trovava in una prigione statunitense in Iraq, a Camp Buqqa, nel 2004. “Non a caso le prigioni statunitensi sono state definite “le Harvard del terrorismo”, perché è nelle celle che gli estremisti si radicalizzano e incontrano altri estremisti” sottolinea Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University. Tutte le Ong per i diritti umani del pianeta, a partire dalla più autorevole Human Rights Watch, avvertono: “assicurare ai jihadisti un giusto processo e uno stato di detenzione rispettoso dei diritti umani non è solo una questione giuridica. Ma anche di sicurezza e tenuta per le democrazie di tutto il mondo”. Migranti. Crolla l’inchiesta anti-ong: restituiti i beni all’Aquarius di Simona Musco Il Dubbio, 16 gennaio 2019 Un nuovo ostacolo sulla strada della procura di Catania nella battaglia contro le Ong. Il tribunale del Riesame ha infatti annullato il sequestro di 200mila euro di beni da due conti correnti intestati a Francesco Giannino, titolare della “Mediterranean shipping agency” di Augusta (Siracusa) e principale indagato dell’inchiesta che, a novembre scorso, ha coinvolto anche Medici senza frontiere, con l’accusa di smaltimento di rifiuti a rischio “infezioni” da navi di Ong che soccorrevano migranti. Rifiuti che, si leggeva nelle carte dell’inchiesta, sarebbero rappresentati dagli indumenti dei migranti soccorsi in mare. Sarebbe lui, secondo la procura guidata da Carmelo Zuccaro, a ad aver trattato come rifiuti normali i vestiti provenienti prevalentemente dalla nave Aquarius, per la quale il provvedimento di sequestro non era mai stato eseguito, in quanto la nave risultava inattiva e ferma per via del ritiro della bandiera. Il collegio del Riesame, presieduto da Sebastiano Mignemi, ha accolto però integralmente il ricorso dell’avvocato Dina D’Angelo, rigettando la richiesta della procura, che aveva chiesto invece la conferma del provvedimento. Alla base dell’accusa c’erano alcune conversazioni intercettate sul cellulare di Giannino che, secondo la procura, “rivelavano regolari contatti” tra l’agente marittimo e i responsabili delle Ong, con lo scopo di concordare “le modalità fraudolente di classificazione dei rifiuti derivati dall’attività di salvataggio in mare - in particolare degli indumenti contaminati indossati dagli extracomunitari, dagli scarti degli alimenti somministrati agli stessi nonché dei materiali sanitari utilizzati a bordo per l’assistenza medica”. Rifiuti “sistematicamente qualificati, conferiti e smaltiti come rifiuti solidi urbani o speciali non pericolosi, eludendo i rigidi trattamenti imposti dalla loro natura infettiva”. Un sistema che avrebbe consentito alle Ong di risparmiare sullo smaltimento e a Giannino di abbassare i costi e triplicare il giro d’affari, monopolizzando, di fatto, “la gestione dei servizi portuali legati alle attività sar delle Ong impegnate nel Mediterraneo centrale”. Accuse che, però, non hanno convinto i giudici che hanno valutato il ricorso, le cui motivazioni verranno rese note a breve. L’inchiesta rappresenterebbe “una criminalizzazione della solidarietà”, aveva spiegato al Dubbio Gabriele Eminente, direttore generale di Medici Senza Frontiere in Italia. “Abbiamo salvato circa 80mila persone, gestendo circa 200 sbarchi e ognuno ha visto la presenza a bordo delle autorità di pubblica sicurezza e sanitarie, che hanno sempre fatto verifiche prima di autorizzare uno sbarco aveva aggiunto - Dall’attracco alla discesa passano spesso anche tre, cinque ore, proprio per consentire queste attività. Quindi mi sembra strano che sia possibile mettere in piedi un traffico illegale in questa circostanza”. Nell’inchiesta erano rimasti coinvolti anche i capi missione di Msf, che, secondo le accuse, “avrebbero avuto la consapevolezza della pericolosità degli indumenti indossati dai migranti in quanto fonte di trasmissione di virus”. Accuse subito duramente contestate anche da Gianfranco De Maio, responsabile medico dell’Ong, “perché la tbc, la meningite, l’epatite non vengono trasmesse con i vestiti, che sono semmai pericolosi per i migranti, perché intrisi di combustibile che causa ustioni”. Non si tratta del primo provvedimento ai danni delle Ong cassato dai giudici siciliani: due anni dopo le prime accuse, nessuno dei procedimenti partiti dalla procura di Catania contro le Ong è ancora arrivato in tribunale. La decisione più eclatante è stata forse l’archiviazione, a giugno scorso, dell’inchiesta sulla Open Arms, sulla cui base si era ipotizzato un accordo tra ong e trafficanti libici. Il gip di Catania smentì l’esistenza di un’associazione a delinquere addebitabile alla Ong “Sea Watch” o un legame con quei trafficanti mai individuati. La scelta di far sbarcare i 220 migranti soccorsi a Lampedusa il 15 maggio 2017, episodio da cui l’inchiesta era partita, rappresentava anzi “una corretta gestione delle operazioni di salvataggio”. Le indagini avevano smentito “del tutto l’assunto investigativo” circa una qualche forma di condotta penalmente rilevante, avendo la Ong soccorso migranti in stato di difficoltà”. Droghe. La “war on drugs” precipita nel ridicolo di Bernardo Parrella Il Manifesto, 16 gennaio 2019 Nel bel mezzo di un’America politicamente sconquassata come non mai, la regolamentazione della cannabis continua a compiere passi avanti. Poco prima di Natale, il presidente Trump ha firmato l’Agriculture Improvement Act, che tra le altre cose legalizza la produzione commerciale di hemp (canapa non psicotropa o “cannabis light”). La quale è ricca di Cbd, Cannabidiolo, che rivela forti proprietà anti-infiammatorie e altre virtù mediche, come confermato da recenti studi e dall’approvazione ufficiale, la scorsa estate, dell’Epidiolex per la cura dell’epilessia. Sul fronte legislativo, i governatori di New Jersey, New York e New Mexico hanno confermato l’appoggio alle proposte di legge per la legalizzazione della canapa ricreativa preannunciate dai Democrat. Non a caso, nei giorni scorsi l’Albuquerque Journal ha dedicato approfondimenti quotidiani, ricchi di interviste, dati e riferimenti aggiornati, per chiarire i vari aspetti della normativa che verrà discussa nella imminente sessione legislativa del Parlamento del New Mexico. Anticipando così un “dibattito vivace ma sofisticato” fra i legislatori di Santa Fe, come nella società. Dibattito pubblico che invece il giorno dell’Epifania ha preso una piega ben diversa, con un brusco ritorno al passato. Il motivo è legato all’estesa eco mediatica (dal Wall Street Journal al New Yorker a Mother Jones) ottenuta da un libretto fresco di stampa, il cui titolo suggerisce letteralmente ai genitori di “Dire la verità ai figli su marijuana, malattie mentali e violenza”. L’autore è Alex Berenson, ex reporter del New York Times, dal 2010 dedito alla fiction, che ha spulciato alcuni vecchi studi europei su campioni di adolescenti, fumatori abituali di cannabis, da cui emergerebbe un aumento significativo di psicosi e schizofrenia. E segnala anche che negli Stati dove dal 2014-15 vige la regolamentazione (Oregon, Washington, Alaska, Colorado), si sarebbe verificato una crescita del 35% degli omicidi rispetto alla media nazionale attestata al più 20%. Pur proponendo simili statistiche ad hoc e altre generalizzazioni strumentali, l’autore è costretto ad ammettere tuttavia che, nonostante offra “suggestive prove di possibili correlazioni”, in realtà nessuno di questi studi “dimostra il legame diretto tra maggior uso di cannabis e aumento di psicosi o altre malattie mentali nella popolazione”. Questo Carneade dimentica di ricordare l’alto livello di criminalità veicolato dal proibizionismo e i nefasti effetti economico-sociali del narcotraffico, dove droghe leggere e pesanti viaggiano assieme per necessità del mercato nero. Non è casuale che neppure accenni alle decine di indagini scientifiche recenti sui positivi effetti terapeutici della pianta, studi fra l’altro intralciati non poco dalla proibizione perdurante. La salute pubblica va salvaguardata, particolarmente quella di fasce a rischio come i più giovani: le normative statali pro-legalizzazione prevedono apposite campagne educative e sono soggette a periodiche revisioni. Assurdo è però riproporre una propaganda allarmista come negli anni ‘30, con campagne stampa centrate sull’erba “assassina” e con film come Reefer Madness (1936), centrato sulla “mostruosa dipendenza dalla marijuana”. Lungi da offrire spunti importanti al dibattito in corso, l’uscita controcorrente di Berenson è un maldestro tentativo di cavalcare l’onda dell’iper-polarizzazione politica e della post-verità innescati dal trumpismo, complici tanti media nazionali ancora spaesati davanti a questi nuovi scenari e affamati di facile terrorismo. Un colpo di coda oscurantista che difficilmente inciderà sul processo voluto dalle Istituzioni e, ancora prima, dai cittadini nordamericani a favore regolamentazione. I sogni (e i martiri) che incarnano l’Europa di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 gennaio 2019 Pawel Adamowicz credeva nell’inclusione, nella società aperta, nella libera circolazione nella casa comune, come Jo Cox. E sono morti nello stesso modo. La campana ha suonato di nuovo per ciò che resta dell’Unione. Gli europeisti - ma sarebbe più decente dire gli europei tutti - hanno un secondo martire, ancora una volta all’approssimarsi di una scadenza elettorale assai importante. Era il giugno 2016 e fu la laburista Jo Cox, nell’immediata vigilia del referendum sulla Brexit. Domenica è toccata al liberale Pawel Bogdan Adamowicz, a quattro mesi da Elezioni europee che assumono sempre più l’aria di un’ordalia perché mai come nei giorni tra il 23 e il 26 maggio si confronteranno in campo aperto forze con idee di Europa così distanti da essere difficilmente ricomponibili persino dalla politica politicante che poi, certo, verrà. Appare almeno ipocrita non attribuire al clima feroce di questo scontro una buona parte di responsabilità in ciò che è accaduto domenica sera a Danzica, sul palco di un grande concerto di beneficienza, dove un forsennato si è avventato coltello in pugno contro Adamowicz, sindaco amatissimo (lunghe le file in ospedale per donargli il sangue, invano) e simbolo della tolleranza e dell’europeismo (soleva pensare alla propria città come a un porto sempre aperto a chi arriva). Ci diranno (anzi, lo ha già detto il viceministro degli Interni polacco) che Stefan W., l’assassino ventisettenne, fosse uno squilibrato solitario. Lo sono sempre certi assassini, si sa: anche se sarebbe curioso capire come faccia un matto isolato (e appena uscito dal carcere per rapina) ad avere un accredito stampa con cui salire tranquillo sul palco del concerto. Volendo credere a questa tesi del matto, dovremmo ragionare, dunque, sul peso della predicazione d’odio, sulle parole d’ordine violente e sulla presa che fanno nelle menti più deboli in Polonia, in Inghilterra e non solo: da noi, tra poco più di due settimane, sarà passato un anno dalla tentata strage di Macerata, finora forse il più plateale episodio di terrorismo suprematista nell’Europa che conosciamo; chi sale su un podio in piazza o va in uno studio tv dovrebbe ricordare sempre che lo ascoltano anche i Luca Traini di turno, gli esaltati e gli psicolabili ai quali certe iperboli o certe provocazioni possono apparire verità rivelate quando non addirittura ordini da eseguire alla lettera. Un’invocazione al senso di responsabilità nel discorso pubblico sarebbe dunque assai opportuna anche qui in Italia, se non apparisse naïf. E allora, bandendo le ingenuità, soprattutto converrà ragionare di Europa: di quanto si stia smarrendo un messaggio per il quale politici come Jo Cox e Pawel Adamowicz pensavano valesse ancora la pena di spendersi. Danzica l’altra sera è stata teatro di un grande corteo per il sindaco che avversava i sovranisti ora al governo in Polonia. Due anni e mezzo fa si sospese la campagna referendaria per onorare la giovane parlamentare del Labour, uccisa da un neonazista che strillava “Britain first”. E tuttavia tutto è finito, tutto finirà nel silenzio. La debolezza del fronte europeista sta proprio in questa afasia, in una burocratica difficoltà a levare alte le icone dei propri caduti; una specie di pudore nel ricorso a forti simboli emotivi che produce alla fine un pigolio timido a fronte dei potenti ruggiti sovranisti: come se l’importante fosse sempre dare soluzioni tecniche e di buonsenso senza mai riscaldare troppo i cuori. Stregate dal totem dell’economia che vinse la Guerra fredda senza combattere, le democrazie occidentali hanno dimenticato che non con i numeri ma con la visione del futuro collettivo si va avanti: lo sosteneva Giovanni Bazoli in una lectio magistralis alla Cattolica di Milano. Solo una simile dimenticanza spiega come mai Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista possano mettere in scena il loro show davanti al Parlamento di Strasburgo (“una marchetta alla Francia che adesso chiuderemo”) e nessuno si alzi a ricordare cosa significhi quel consesso deriso, pur con tutti i suoi gravi limiti, in termini di sogni di generazioni. Jo Cox e Pawel Adamowicz credevano con la stessa intensità in quei sogni: inclusione, società aperta, libera circolazione degli europei nella loro casa comune. E sono morti nello stesso modo (arma bianca, killer pazzoide che pensa di dover regolare conti, esecuzione pubblica, davanti al mondo). Se, dopo la prova di maggio, l’Europa esisterà ancora, avrà certo bisogno di più unione: bancaria e fiscale, per compensare squilibri che perfino Juncker oggi (troppo tardi) non può non vedere; e politica, per gestire insieme quelle migrazioni che rischiano di far saltare non solo la Ue come, pur giustamente, dice il nostro premier Conte, ma le democrazie nazionali. E però per arrivare a maggio quest’Europa ha bisogno di eroi (da terra sventurata, per dirla con Brecht). Non di Pil o pareggi di bilancio, per dare alle giovani generazioni il senso della sfida. Di un pantheon, certo, da Mazzini a Churchill. Ma anche di sogni che la incarnino oggi, dei volti di chi talvolta persino muore per lei, così, senza retorica, facendo solo bene il mestiere di politico. Sono loro la risposta al delirio confuso dei gilet gialli. Sono il preambolo della prossima Costituzione che l’Europa dovrebbe pur darsi. Sta agli europeisti trovare la voce per narrarli. La sfida di questi quattro mesi si gioca tutta qui: non sui “numerini” da far quadrare, ma sulle nostre libertà da difendere. Polonia. Sindaco di Danzica ucciso, a caccia dei responsabili politici di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 16 gennaio 2019 Dopo l’omicidio di Pawel Adamowicz, Kaczynski al governo viene accusato di alimentare una feroce caccia al “nemico pubblico”. Si ferma la campagna elettorale. Il giorno dopo è silenzio, nelle strade di Danzica solo “The Sound of Silence” di Simon & Garfunkel si leva sulla folla stretta nella veglia per il sindaco Pawel Adamowicz ferito a morte domenica 13 gennaio a 53 anni. La Polonia cerca i responsabili politici dell’omicidio commesso da un 27enne appena uscito di prigione e con presunti problemi psichici. Il presidente Andrzej Duda condanna le strumentalizzazioni, ma l’esame di coscienza collettivo è tutto sul clima da guerra civile nel quale è maturato l’assassinio del sindaco della tolleranza, ucciso a colpi di pugnale davanti a migliaia di persone durante un concerto benefico. Il sindaco che difendeva le minoranze, combatteva xenofobia e antisemitismo, apriva ai migranti Danzica città rifugio. I contestatori lo definivano un promotore di “idee degenerate” che fiaccavano lo spirito patriottico. Rispuntano provocatori “avvisi di morte” indirizzati a esponenti liberali da gruppi di ultradestra come la “Gioventù della grande Polonia”. Tra i destinatari c’era anche Adamowicz. Al centro del dibattito la retorica divisiva del partito nazionalconservatore di Jaroslaw Kaczynski al governo, accusato di alimentare una feroce caccia al “nemico pubblico”, mentre la campagna elettorale per le Europee e le Politiche si ferma e il cordoglio corre fino alla russa Kaliningrad. Il Ministero dell’Interno ha annunciato l’arresto di tre persone che in Rete avrebbero incitato a colpire altri sindaci. Proprio i sindaci sono i primi a reagire per sottrarre la memoria di Pawel alla spirale d’odio, con un’iniziativa per insegnare ai ragazzi a rinnegare la violenza del linguaggio: “Spesso le tragedie - dice a Breslavia Jacek Sutryk - nascono dalle cattive parole”. Spagna. La posta in gioco in Catalogna è lo Stato di diritto di Roberto Rampi e Matteo Angioli L’Opinione, 16 gennaio 2019 “Shame on Europe”. Questo si legge sull’asfalto all’ingresso del carcere di Lledoners, a 70 chilometri a nord di Barcellona. Noi l’abbiamo letta l’8 gennaio prima di incontrare quattro dei nove esponenti catalani in detenzione preventiva da un anno e due mesi. Vergogna per un’Europa che finge di non vedere che in quel carcere, oltre ai nove “presos politicos”, è detenuto anche lo Stato di Diritto. L’8 gennaio dunque abbiamo speso due ore intensissime con l’ex portavoce del governo regionale catalano onorevole Jordi Turull, l’ex ministro per il territorio e la sostenibilità onorevole Josep Rull, l’ex ministro per le relazioni esterne ed ex deputato europeo onorevole Raul Romeva e l’attivista e presidente dell’associazione “Assemblea Nazionale Catalana” Jordi Sanchez. La visita in carcere è stata preceduta da un incontro nella sede della Presidenza della Catalogna, nota come Generalitat de Catalunya, il presidente Quim Torra, il successore di Carles Puigdemont. Benché convinti che solo con una sovranità europea federale sia possibile contribuire al superamento dell’annosa questione, crediamo che il silenzio e l’ostracismo dell’Europa e di molti sedicenti “liberali” sia una scelta politicamente miope e suicida per tutte le parti coinvolte. La richiesta di dialogo da parte delle autorità di Barcellona con quelle di Madrid e Bruxelles e il rifiuto della violenza da parte degli esponenti catalani, confermate da uno sciopero della fame di tre settimane condotto dai detenuti che abbiamo incontrato, non possono passare inosservati. Le accuse mosse contro gli esponenti catalani, in particolare quella di ribellione, sono ingiuste e pericolose perché presuppongono l’impiego della violenza da parte degli imputati. Nell’organizzazione e svolgimento del referendum del primo ottobre 2017 sull’indipendenza invece, sono stati proprio i cittadini, anche anziani, ad aver subito la violenza della polizia spagnola che aveva ricevuto l’ordine di impedire il voto. Incarcerare dunque rappresentanti eletti ed attivisti del mondo dell’associazionismo per 14 mesi senza che questi abbiano commesso nessun atto violento è qualcosa di grave che non deve accadere né in Cambogia, dove dopo il regime dei Khmer Rossi si è installato un dittatore tutt’oggi inamovibile, né in uno dei maggiori paesi dell’Unione europea come la Spagna che, dopo la fine del regime di Franco ha votato una Costituzione democratica con una grande partecipazione proprio della componente catalana. Un referendum consultivo, come previsto dalla Costituzione spagnola, è una delle forme attraverso le quali viene esercitata la libertà di espressione. La negazione e la repressione di un simile atto, costituzionalmente garantito, deve suonare come un campanello d’allarme circa l’incapacità e la nolontà di governi di nutrire il dialogo, il contraddittorio, la conoscenza; in altre parole la democrazia. La posta in gioco a questo punto è il diritto di dissentire, presentare e dibattere pacificamente proposte alternative come si presume accada nelle società governate dallo Stato di Diritto, in cui nessuno è al di sopra della legge e in cui le leggi vengono applicate in linea con gli standard e le norme internazionali sui diritti umani. Se trovati colpevoli di ribellione, i detenuti rischiano pene dai 17 ai 25 anni. È accettabile? Se dovesse confermarsi questo scenario, una simile pena inflitta per aver commesso un’azione nonviolenta costituirà un pericoloso indebolimento della ricerca del dialogo politico, il cui soffocamento potrebbe esacerbare la situazione e incoraggiare manifestazioni di protesta violenta. Un’idea giudicata non buona si sconfigge con un’idea migliore, non con una bastonata dopo l’altra. Il silenzio dell’Europa è purtroppo comprensibile, ma certo non giustificabile. L’ultima cosa con cui vuole aver a che fare un conglomerato di Stati nazionali sono atti e rivendicazioni separatiste. Tuttavia, se anche i liberali si schierano con i nazionalisti e sovranisti di Madrid, impedendo il dialogo con Barcellona ed espellendo i democratici catalani dalla famiglia liberale europea, vengono meno anche le speranze per un’Europa unita in una federazione politica. L’auspicio è che la battaglia per lo Stato di Diritto che passa per i corpi dei nove prigionieri politici e per il territorio della Catalogna, popolato da circa 7 milioni di persone, cresca in un’ampia iniziativa politica di grande respiro per il diritto, la democrazia e la libertà di oltre 500 milioni di persone, possibili futuri cittadini degli Stati Uniti d’Europa. Per coltivare questa speranza crediamo che chiunque abbia a cuore il futuro democratico, federale e laico dell’Unione europea oggi debba andare a Barcellona, non Madrid. Cecenia. Nuova ondata di repressione: 40 gay arrestati e due uccisi di Giuseppe Agliastro La Stampa, 16 gennaio 2019 Il regime ceceno torna a perseguitare gli omosessuali. Lgbt Network denuncia una nuova caccia alle streghe contro le minoranze sessuali in Cecenia: un’ondata di violenze che - secondo l’ong - in meno di un mese ha portato alla detenzione illegale di almeno una quarantina di uomini e donne e, come minimo, all’uccisione di due di loro. Una morte atroce, provocata dalle torture della polizia, stando alle fonti interpellate dagli attivisti. Ma le vittime potrebbero essere molte di più. Per Lgbt Network è al momento “impossibile stabilirne il numero”. Mentre un ragazzo gay fuggito in Francia e in contatto con alcuni omosessuali scappati dal paese ha raccontato alla testata online Meduza che i morti potrebbero essere tra 10 e 20. La Cecenia è una turbolenta repubblica del Caucaso governata col pugno di ferro da Ramzan Kadyrov: un fedelissimo di Putin accusato di gravissime violazioni dei diritti umani e per questo sanzionato da Usa e Ue. Le autorità cecene ovviamente respingono tutte le imputazioni a loro carico. Ma a confermare le nuove persecuzioni contro gli omosessuali sono anche alcune fonti sentite da Novaya Gazeta. Un anno e mezzo fa fu proprio la testata investigativa russa a svelare che oltre cento omosessuali erano stati arrestati illegalmente e torturati dalla polizia in luoghi di detenzione segreti e che alcuni erano stati addirittura uccisi. Allora il regime di Kadyrov rispose alle accuse insinuando che in Cecenia non ci siano gay. Adesso, per bocca del ministro dell’Informazione Dzhambulat Umarov, bolla la denuncia di Lgbt Network come “una completa fesseria”. Ma ancora una volta ricorre a parole che non fanno che rafforzare i sospetti. “Non spargete i semi della sodomia nella benedetta terra del Caucaso”, ha tuonato il ministro. “Non cresceranno come nella pervertita Europa”. Da Lgbt Network arrivano accuse ben circostanziate. Secondo il numero uno dell’ong, Igor Kochetkov, le persone detenute illegalmente dalla polizia sono rinchiuse ad Argun, a 20 chilometri da Grozny. Gli agenti - spiega l’attivista - cercano di “impedire in tutti i modiche coloro che sono finiti nel loro mirino “lascino la regione o ricorrano alla giustizia”, e per raggiungere il loro scopo “sequestrano i documenti” degli omosessuali e “minacciano di aprire inchieste penali” contro coloro che sono caduti nelle loro grinfie “o contro i loro cari”. Nonostante ciò, Lgbt Network fa sapere di essere riuscita a far scappare dalla Cecenia in un anno e mezzo circa 150 persone che si trovavano in una situazione di potenziale pericolo: 130 di loro hanno trovato rifugio fuori dalla Russia.