Processi, vittime e carnefici: cinici strumenti di consenso di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 gennaio 2019 Il carcere? Parola di ministro, è un posto dove si “deve fare marcire” le persone. Già pareva abbastanza, venerdì scorso, l’assedio dei familiari delle vittime al Tribunale di Avellino e le minacce al giudice dopo la sgradita sentenza sui 40 morti nella strage del bus sul viadotto Acqualonga: verdetto “che mi fa incazzare”, si era aggiunto a incendiare la situazione un vicepremier, e che “assolve qualcuno che ha la responsabilità dei morti”, aveva stabilito senza Appello o Cassazione l’altro vicepremier. Ma da domenica gli stessi ministri di Giustizia e Interno neppure fanno mancare la capitalizzazione del dividendo politico ricavabile dall’esposizione minuto per minuto della cattura-estradizione-incarcerazione del latitante Cesare Battisti, persino plasticamente tra due ali di vicepremier dichiaranti da bordo aeroporto al pari che da bordo web e tv. La “passerella”, criticata dalle opposizioni, è ancora il meno: contano ben più i messaggi così trasmessi ai cittadini. Il processo? Lo si fa decidere al televoto dei parenti delle vittime, tanto più strumentalizzate nel loro dolore quanto meno aiutate a comprendere il significato di una sentenza che in parte riconosceva proprio anche responsabilità dei gestori autostradali. Il giudice? Se si discosta dalla pretesa volontà popolare lo si può minacciare, senza che ciò desti scandalo come invece si percepiva (giustamente) ai tempi di Berlusconi. Il carcere? Parola di ministro, è un posto dove si “deve fare marcire” le persone. Persone, appunto. E invece la novità è che un assassino smette di restare persona, da sottoporre alla pena inflittagli per aver ucciso altre persone, ma è fatto passare attraverso un sovrappiù di rituale di degradazione, scandito proprio dai titolari della sicurezza pubblica a colpi di “maledetto” e “infame”. In nome (profanato) delle vittime, cinicamente strumentalizzate in veicoli di consenso. Non si può mai gioire, se una persona finisce in prigione di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 15 gennaio 2019 Dunque l’arresto di un latitante costituisce una “bella notizia”. Ed è una “bella giornata” quella in cui si apprende che il latitante in questione potrà finalmente scontare la sua pena in un carcere italiano. E così si gioisce, si fa festa, perché la pretesa punitiva dello Stato ha modo ora di realizzarsi. Ma è semplicemente vergognoso. È vergognoso che pressoché tutti abbiano partecipato a questo coro ignobile; che quasi tutti abbiano sentito l’esigenza di dichiararsi felici perché un uomo va in galera. Semmai alla notizia di un arresto si potrebbe essere presi da sollievo se si trattasse di soggetto attualmente pericoloso. Perché in tal modo, e cioè affidato alle cure di giustizia, non sarebbe più in grado di nuocere. Ma sollievo, al più: non gioia, non festa, non tripudio. In questo caro Paese, invece, in questo Paese cristiano, è già tanto se non si invitano formalmente i cittadini, magari capitanati da un ministro in divisa da secondino, ad accogliere l’”assassino” con urli e corde da forca agitate a reclamare giustizia. Una persona non dico buona, ma appena civile, non si fa far bella la giornata dalla notizia di un arresto. E non dichiara soddisfazione se un uomo si appresta a subire la prigione. Tanto meno lo fa in nome delle vittime, perché le vittime hanno semmai diritto di vedere applicata la legge dello Stato: uno Stato che esercita il suo potere repressivo e punitivo con silenziosa decenza, non per il tramite delle immonde sceneggiate di suoi rappresentanti che si mettono a capo della turba che chiede sangue. Il dolore e il senso di ingiustizia delle vittime non dovrebbero essere evocati da nessuno. Nessuno dovrebbe valersene a promozione di sé. Nessuno dovrebbe impugnarli per giustificare gioiosamente la pena del carcere. Perché il carcere può forse essere necessario, ma in ogni caso costituisce e produce infelicità: e l’infelicità altrui non dovrebbe dare felicità a nessuno. Come si vede, non nomino nemmeno la persona di cui si tratta. Né faccio riferimento alle responsabilità che gli sono state attribuite. Perché tutto questo non c’entra nulla. Potrebbe trattarsi di chiunque, e le responsabilità in questione potrebbero essere le più pesanti e inequivocabilmente accertate. Resterebbe in ogni caso indegno questo trionfo di manifestazioni infoiate, questa corsa a presenziare sulla scena dell’esecuzione assediata dal popolo perbene finalmente protetto da un governo che tiene le cose in ordine. Tutte bruttissime notizie che non riporta nessuno. Perché un ministro non può dire che un detenuto “deve marcire in galera” di Manuela D’Alessandro giustiziami.it, 15 gennaio 2019 Sentire un ministro dell’Interno affermare che un detenuto “deve marcire in galera” fa male alla Costituzione sulla quale tutti i componenti del Governo giurano al loro insediamento. Perché chi ha scritto la nostra carta si è ispirato a un’idea di carcere come possibilità di rieducazione per chi ci finisce dentro. E non ha precisato che questo principio vale solo per i criminali “meno cattivi”, ma riguarda tutti, anche i pluriomicidi come Cesare Battisti. Le pene, inoltre, dice sempre l’articolo 27 della Costituzione, non devono consistere in “trattamenti contrari all’umanità” il che significa che nessuno “deve marcire” in carcere, ma gli si deve consentire di vivere in salute, per quanto possibile, il suo pezzo di vita dietro le sbarre, senza finire in uno stato di putrescenza. Ma ancora di più fa male alla Costituzione sentire un Ministro pronosticare quanti anni di carcere debba scontare un condannato. La pena per l’ex terrorista è quella dell’ergastolo - e non ci sono dubbi - ma come poi verrà declinata lo stabilirà un giudice dell’esecuzione, colui il quale, codice alla mano, deve “adattare” la condanna alla singola persona. Se sarà un ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di ottenere dei benefici o misure alternative alla prigione salvo collaborazione con la giustizia o altre circostanze particolari, toccherà sempre a un giudice stabilirlo. E così se invece sarà un ergastolo comune, quindi con ampie possibilità, dopo molti anni, di poter godere di quei benefici e misure. Se poi dovesse accadere che le condizioni di salute di Battisti lo rendano incompatibile al carcere sarà sempre un giudice a scarcerarlo, come è accaduto per mafiosi, terroristi o altri criminali del suo rango. Non è buonismo, ma è la Costituzione. Torregiani: “Non trasformiamo Battisti in un orco” polisblog.it, 15 gennaio 2019 “Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto”. Alberto Torregiani vuole solo giustizia. Quando è stata diffusa la notizia dell’arresto di Cesare Battisti, Torregiani aveva predicato calma, temendo che non venisse estradato in Italia. Solo dopo averlo visto scendere dall’aereo ha potuto finalmente lasciarsi andare. “Ora c’è la certezza che sconterà la pena, la certezza che si può avere giustizia” ha detto, aggiungendo di aver visto “solo qualche spezzone dell’arrivo a Ciampino” e di non aver provato “nessun particolare effetto, se non quello di averlo visto da vicino per la prima volta, è diverso che vederlo in fotografia”. Torregiani è una delle vittime di Cesare Battisti, che il 16 febbraio 1979 lo ferì gravemente costringendolo su una sedia a rotelle, uccidendo nella stessa circostanza suo padre Pier Luigi. Nonostante il chiaro coinvolgimento emotivo, Torregiani ha chiesto di “non trasformare Battisti in un orco”, bensì di pensare alla possibilità di ristabilire giustizia: “Ho sentito che qualcuno si è lamentato che non scendesse dall’aereo in manette. Arriva in un aeroporto militare come Ciampino, circondato da 12 persone, vogliamo mettergli anche le catene ai piedi? Mi sembra esagerato. Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto. Niente benefici ma nessuna ulteriore restrizione rispetto a quelle che la legge prevede”. La vita che c’è dietro le sbarre di Mauro Leonardi Avvenire, 15 gennaio 2019 La notizia data dal ministro della Giustizia che Cesare Battisti sarebbe stato condotto a Rebibbia - poi corretta, annunciando che sarebbe stata preferita la destinazione di Oristano - mi aveva colpito molto perché da qualche tempo svolgo nel carcere romano il ministero di Cappellano (per l’esattezza sono un “art. 17”). Il terrorista dei Pac (Proletari armati per il comunismo) è colpevole di 4 uccisioni, tutte orribili, ma in particolare mi ha dato molto da pregare e riflettere il primo omicidio, perché aveva riguardato un agente della Polizia penitenziaria. Il cappellano di un carcere non svolge il suo ministero solo rivolto ai detenuti, ma anche rispetto a tutti coloro che operano in un istituto di detenzione, un po’ come il sacerdote di una scuola non pensa solo agli alunni, ma anche a famiglie e professori. L’omicidio del maresciallo Antonio Santoro fu commesso a Udine il 6 giugno 1978 a opera dei Pac che lo rivendicarono. Santoro era accusato dai terroristi di presunti maltrattamenti ai danni di detenuti, per “inchieste giornalistiche” di quotidiani come “Lotta Continua”, che gli imputavano abuso d’ufficio e di potere. Esecutore materiale dell’omicidio venne riconosciuto Cesare Battisti, poi condannato all’ergastolo. Battisti e Enrica Migliorati (anch’essa appartenente ai Pac) attesero la vittima davanti all’uscio di casa fingendosi fidanzati. Poi, al sopraggiungere di Santoro, Battisti gli sparò alle spalle tre colpi, di cui due mortali alla nuca. Nel volantino di rivendicazione, intitolato “Contro i lager di Stato”, i Pac scrissero che l’istituzione carceraria andava distrutta perché “ha una funzione di annientamento del proletariato prigioniero” e di “strumento di repressione e tortura”. Santoro ricevette la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. E il 6 giugno 2007 gli è stata intitolata la nuova caserma della Polizia penitenziaria di Udine. Espressioni come “lager di Stato”, “repressione e tortura”, “funzione di annientamento” mi arrivano come pugni allo stomaco perché io in carcere ho visto custodi - non “guardie” - attenti, pazienti, stanchi a volte, ma che riescono a vincersi perché sanno di essere, per forza di cose, i principali operatori nel lavoro di “educare attraverso la pena”. Chi è in carcere non è solo uno che ha sbagliato: è anche una persona che sta pagando per quello sbaglio e che sta ritrovando la propria dignità con lo scontare la pena che gli toglie la libertà. I sacerdoti sono in carcere perché “i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto” (art. 26 dell’ordinamento penitenziale): e quanto vale per la religione vale anche per tanti altri diritti. Auguro a Cesare Battisti di non guardare più il mondo attraverso concezioni teoriche. In carcere non troverà torturatori di un lager, ma persone che vedono i detenuti non attraverso il filtro dell’ideologia, quella che ha armato anche la mano dei Proletari armati per il comunismo, ma per ciò che sono: esseri umani come tutti noi. E troverà persone che stanno pagando un debito alla vita, con una pena che in Italia al di là dei luoghi comuni è certa e dura. Persone che, quasi sempre, sono poverissime e più ultime di tutti. Perché quando usciranno - se usciranno - non troveranno nessuno. Né mogli, né compagne, né figli, né parenti, né amici, né lavoro, né società capace di accogliere. E questo un agente lo sa meglio e prima di chiunque altro, perché passare la giornata assieme ai detenuti significa inevitabilmente vivere la loro vita e sapere che i carcerati sono i reietti della società. Un agente non tortura; un agente spera che la detenzione e le misure a essa collegate (quando ci sono...) servano a non vedere più tornare in carcere chi esce quando ha scontato la pena in condizioni anche al limite della tollerabilità. E il più grande dolore è vedere delusa questa speranza e dover mormorare tra sé e sé dopo poco tempo “io ti ho già visto” perché, negli anni in cui il carcere lavorava per custodire il detenuto, nessuno nella società ha lavorato per essere capace di accogliere quella persona una volta libera. La differenza tra vendetta e giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 gennaio 2019 Battisti, Salvini e gli sciacalli che sostituiscono il rancore alla ragione. Il 14 gennaio del 2019 non verrà ricordato solo come il giorno dell’arrivo in Italia di un ex terrorista sfuggito per troppi anni alla nostra giustizia, ma verrà ricordato anche come il giorno in cui il tentativo osceno di trasformare l’arresto di un criminale nella scena di uno sciacallaggio elettorale ha contribuito a dirci qualcosa di importante più sugli avvoltoi di governo che sul criminale catturato. La decisione di Matteo Salvini, ministro dell’Interno, e di Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, di consentire la diretta streaming dalle pagine Facebook del Capitano dell’arrivo di Cesare Battisti all’aeroporto di Ciampino non è solo una scelta di carattere mediatico ma è una scelta che in una certa misura svela l’essenza precisa di un tratto identitario importante presente nel codice genetico di entrambi gli azionisti di governo: la propensione naturale a sostituire la vendetta con la giustizia. Il ragionamento vale quando ci troviamo di fronte a un ministro dell’Interno che non si limita a complimentarsi con le forze dell’ordine per aver riportato in Italia un ex terrorista che sconterà il resto dei suoi anni in carcere, ma che per attirare il numero più alto di cuoricini possibile arriva a dire come se fosse al bar di augurarsi che l’arrestato “marcisca” in galera. Ma la logica dello scalpo, dello sfregio, della gogna vale quando in realtà ci si occupa anche di tutto il resto. Vale quando si parla di corruzione e quando ci si concentra più su come aumentare le pene che su come prevenire i reati. Vale quando si parla di costi della politica e quando piuttosto che occuparsi dell’efficienza della macchina dello stato ci si occupa solo di intervenire su qualche auto blu, solo di sfregiare i pensionati d’oro, solo di sfigurare i politici con i vitalizi. Vale quando di fronte a un caso di cronaca che cattura l’attenzione degli elettori piuttosto che trovare soluzioni per risolvere il problema si cerca un modo per mettere a disposizione del televoto un capro espiatorio. Vale quando si parla di immigrazione e quando l’uomo nero che arriva dal mare diventa un pedone da demonizzare sulla scacchiera della vendetta sociale. Vale quando si parla di tutto questo ma vale anche quando si parla di altro. Vale quando si parla per esempio di economia e quando la necessità di offrire ai cittadini più giustizia sociale si trasforma in un dovere di offrire ai cittadini una forma di giustizialismo sociale. Vale anche quando si parla di riforme e vale quando la politica di un governo viene tarata unicamente non per migliorare un paese ma per vendicarsi nel modo più veloce possibile di chi ha governato prima. E se ci si riflette un istante è la V di vendetta, che è anche non a caso la V del movimento cinque stelle, che da sette mesi a questa parte guida in modo chiaro l’azione del governo: vendetta contro la legge Fornero, vendetta contro il Jobs Act, vendetta contro l’Europa, vendetta contro Macron, vendetta contro il liberismo, vendetta contro i nemici, vendetta contro i tecnici non allineati, vendetta contro le istituzioni in dissenso, vendetta contro i giornali antagonisti, vendetta contro gli imprenditori ribelli, vendetta contro le voci critiche. La diretta streaming di Salvini e Bonafede non è stata dunque un’occasione utile per ricordare chi è davvero Cesare Battisti, e per fortuna in Italia una sinistra solidale con i Cesare Battisti è stata spazzata via dalla storia, ma è stata un’occasione per ricordare che la politica degli sciacalli, sostituendo il rancore alla ragione, tende a occuparsi più dei bersagli che delle soluzioni e tende con forza a dimostrare anche in diretta streaming che la V del malumore non fa rima solo con vendetta ma spesso fa rima anche con vergogna. Quei ghigni di Stato che umiliano la giustizia di Francesco Merlo La Repubblica, 15 gennaio 2019 Nelle scena da saloon allestita in aeroporto si specchiano il delirio da finto rivoluzionario di Battisti con quello da “castiga-comunisti” dei gialloverdi. Sono solidali di ghigno e di grugno, Cesare Battisti che si atteggia a vittima, e Matteo Salvini che si atteggia a boia. Solo loro due sono convinti - poveracci - che sia stata arrestata la Sinistra, entrambi spacciatori della medesima allucinazione drogata: la cattura non di un delinquente che premeva grilletti e svuotava caricatori come un qualsiasi altro assassino, ma di “un criminale comunista”, una specie di Stalin che organizzava rapine proletarie non a Baku ma a Milano, di un Che Guevara che sparava non ai soldati di Batista ma all’orafo Pierluigi Torregiani e al commerciante di carni Lino Sabbadin. Sembrano dunque scritturati dallo stesso regista, il Battisti che si racconta come il braccio militare di un’Italia dove gli scrittori e gli artisti delegavano a lui e a quelli come lui la rivoluzione armata, e il Salvini che finge di credergli e dunque dice di averli finalmente presi tutti, anche “gli intellettuali complici”, come ripete. E “magari - ha aggiunto - si tratta di quegli stessi scrittori e artisti che ora sono contro di me”. Come quel... Claudio Baglioni, per esempio. E si capisce subito che il delirio è lo stesso e che i due sono compari quando Battisti, alle 11. 35, scende da un piccolo ed elegante Falcon stipato di poliziotti saliti dalla scaletta. Uno dopo l’altro escono dal portellone come una legione che sembra non finire mai. È sempre così che si prepara il colpo di teatro: rispettando il lungo ordine di apparizione prima del nome famoso, del mostro che diventerà protagonista. E intanto il coprotagonista Salvini, pur aspettandolo insieme al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in fondo all’invisibile red carpet del delitto, pur essendo lì per Battisti e solo per Battisti, dice: “Non voglio incontrare Battisti, altrimenti non so cosa gli farei a questo criminale comunista”. Ovviamente indossa il solito giubbotto della polizia, che ormai è una gag di avanspettacolo, e batte pure il palmo della mano destra sul distintivo come nei giuramenti d’onore. Così la giustizia italiana, che dalla libertà di Battisti venne umiliata, è ora con la sua cattura ridotta a parodia della guerra tra sceriffi e banditi e dunque è di nuovo umiliata. Del resto anche Battisti, quando in aereo ha saputo che ad aspettarlo c’erano ben due ministri, non solo non si è meravigliato, ma ha evocato “l’accanimento punitivo dell’Italia che mi vuole far marcire in galera”. Poco prima Salvini aveva annunziato su Facebook: “Battisti marcirà in galera”. Pensate: non c’è nulla di meno italiano dell’accanimento punitivo e del concetto di marcire in galera. E infatti attorno, poliziotti e fotografi, militari e giornalisti, autisti e chissà che altro, sono una piccola folla che durante la lunga attesa discute, come sempre, di prescrizioni, perdoni e condoni: niente vendette infinite e niente “ora e sempre resistenza”, anche se niente riesce a scalfire l’antipatia per questo Battisti che spavaldamente per 37 anni ha esibito la sua impunità come Salvini e Bonafede stanno ora stanno esibendo la sua cattura. E c’è chi ricorda quando “si fece fotografare a brindare contro l’Italia” e chi invece, dice: “porello, fa pena, ha la faccia d’uno che se deve fà - notate la sintesi comica e mirabile - trent’anni d’ergastolo”. Ma nessuno ha parole di vera pietà per l’assassino che mimava il ruggito del rivoluzionario in esilio, e nessuno prende sul serio il ministro che, in divisa paramilitare, imita il ruggito dell’America di Bush a Baghdad quando catturarono Saddam: “Ladies and Gentlemen: We got him”. E invece a Battisti che avanza dritto, con il pizzetto rossastro da tombarolo e i capelli tinti di nero, i fotografi gridano “a terrori’, viè qua, guardate”. Sarebbero spifferi di verità per Battisti se la sceneggiatura nera da presa di Fort Apache non lo rafforzasse nell’ illusione che non solo gli anni settanta non sono finiti, ma che nella galera di Oristano dove lo hanno destinato, lo faranno, chissà, commissario del popolo, o capo di qualche Brigata rossa antimperialista, perché insomma continua quella cosa che non era che un debut. Anche la conferenza stampa organizzata sulla pista, con i soldati che portano fuori un tavolo di radica per mettervi sopra i microfoni, è “la mossa” per tirare ancora un applauso, un trucco, un imbonimento da vecchio capocomico che in teatro si chiama “carrettella”. E infatti non solo sulla scena della pista, ma pure nel backstage, vale a dire nelle salette dell’aeroporto, tra Salvini e Bonafede è tutto un sorridersi di compiacimento e di soddisfazione per averlo lì, per avere l’orso nel sacco, e poterlo ricoprire di insulti, con una valanga di aggettivi, delinquente, vigliacco... sino appunto a criminale comunista. È una furia di parole che non ha nulla a che fare con la civiltà della giustizia e perciò è sicuramente piaciuta a Battisti, perché di nuovo somiglia al suo atteggiamento di sfida, ghigno contro ghigno, gli dà dignità di pantera invece di trattarlo da gatto castrato, lo conferma protagonista di un codice irreale, definitivamente gli fa credere d’essere nelle mani non dei suoi giudici naturali ma dello Spielberg d’ Italia. Sapete come si è svolta la conferenza stampa? Prima Salvini ha ringraziato Dio e la fortuna e il sole di Roma e tutte le forze dell’ordine e il presidente Bolsonaro, e poi di nuovo Bonafede ha ringraziato Dio e la fortuna e il sole di Roma e tutte le forze dell’ordine e il presidente Bolsonaro. E intanto il mozzo dello staff Leonardo Foa, giovane figlio del neopresidente della Rai, filmava tutto con la smania del vecchio paparazzo, molto puntando il viso esotico di Battisti mentre scendeva: brrr, che brivido. Mancava solo l’ubriaco che srotolasse il vecchio wanted nel “saloon Ciampino”. Poi alle 13, prima di infilarlo in un’auto della polizia e di portarlo via, hanno costretto Battisti a una seconda passerella per i tg dell’ora di pranzo: non c’è successo senza bis. E, infine, tutti ci siamo trasferititi di corsa a Palazzo Chigi dove alle 14 nella saletta della presidenza del Consiglio, questa volta insieme a Giuseppe Conte che aveva diritto alla sua parte, è stato di nuovo celebrato, con una seconda conferenza stampa, il trionfo della civiltà gialloverde sulla barbarie, ancora definita comunista da Salvini. L’idea forte è che Battisti sia stato preso perché il Paese è cambiato, perché l’aria è diversa e perché il presidente Bolsonaro, che è di destra come questo governo italiano, ha i suoi stessi valori: insomma, proprio come pensa Battisti, i brasiliani fecero una cosa di sinistra quando lo misero fuori dal carcere e ora hanno fatto una cosa di destra organizzando il suo ritorno nel carcere italiano. La verità è che la latitanza di Battisti non marchiava solo la memoria delle vittime ma anche la storia del nostro paese e della sinistra italiana, degli operai, dei sindacalisti, dei poliziotti e del Partito comunista di allora che sconfissero il terrorismo, innanzitutto togliendogli quella maschera di difensori del popolo che adesso Salvini gli restituisce. Il palco e la diretta social. L’arrivo di Battisti in Italia si trasforma in uno show di Maria Corbi La Stampa, 15 gennaio 2019 Polemica per la presenza dei ministri a Ciampino: “Passerella avvilente”. Bonafede: sarebbe stato offensivo non esserci, i cittadini sono orgogliosi. Il Falcon del 31esimo Stormo apre le porte ed eccolo, Cesare Battisti, sulla scaletta con una scorta di forze dell’ordine e la faccia tesa, con quella sua solita smorfia che in tanti leggono come sorriso. Anche oggi che non c’è niente da ridire e che sarebbe opportuno il silenzio, di tutti. La Giustizia ha parlato e dovrebbe bastare. Ma non sono questi i piani e si capisce subito quando allestiscono un palchetto ai bordi della pista, mai vista prima una cosa del genere. Non una conferenza stampa, quella ci sarà alle 14 a Palazzo Chigi per includere tutti, ma un breve comizio del ministro del’Interno Matteo Salvini che indossa la giacca a vento della Polizia di Stato e ha accanto, un po’ in ombra, il responsabile della Giustizia Alfonso Bonafede. Nell’attesa Salvini dice: “Spero di non vederlo da vicino”. Rimane il dubbio su cosa farebbe il ministro dell’Interno a Battisti incrociandolo, mentre è chiara la piega che sta prendendo questa giornata. C’è anche una piccola telecamera a favore dei social che non molla il ministro dell’Interno e trasmette anche un suo colloquio con un dirigente della Polizia. Salvini gli dice: “Siamo solo all’inizio”, il funzionario risponde: “Ma ce n’è uno, una grande perla, che ci è rimasto qua (e si indica la gola, ndr) ma abbiamo delle carte da giocare”. I follower impazziscono. “Sono sicuro che le nostre forze dell’ordine con la collaborazione dei servizi stranieri potranno assicurare alla giustizia italiana decine di delinquenti e assassini”, arringa Salvini dal palco in diretta Facebook. “Spero che questo riunisca il Paese e penso e spero che su questo nessuno si divida”. A dividere non è certo l’arresto, ma le parole del vicepremier leghista a contorno. Non piacciono a molti. Sono destinate ad alimentare la pancia populista del Paese, e i social più giustizialisti dove già ci si lamenta dell’assenza del tintinnio di manette. “Marcirà in galera”, assicura Salvini. “Finalmente finirà dove merita un assassino comunista, un delinquente, un vigliacco”. Parole così diverse e stonate rispetto a quelle moderate pronunciate da Alberto Torregiani figlio di Pier Luigi, il gioielliere ucciso il 16 febbraio 1979 dai Pac. “Ora c’è la certezza che sconterà la pena, la certezza che si può avere giustizia”. Ha visto qualche spezzone dell’arrivo di Battisti a Ciampino e dice di non aver “provato nessun particolare effetto”. “Non trasformiamolo in un orco”, aggiunge. “Qualcuno si è lamentato che non scendesse dall’aereo in manette. Arriva in un aeroporto militare, circondato da 12 persone, vogliamo mettergli anche le catene ai piedi? Mi sembra esagerato. Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto”. L’esposizione del prigioniero, lo show, non è piaciuto a molti. A iniziare da Gian Carlo Caselli, magistrato simbolo della lotta al terrorismo e alla mafia: “Quello di Battisti non è uno scalpo da esibire, resta un pericoloso criminale che è stato finalmente arrestato e che deve espiare la pena inflittagli, fino alla fine. Non altro”. Mentre l’ex premier Paolo Gentiloni critica “qualche passerella di troppo in aeroporto”. In tanti notano come ad accogliere la salma di Antonio Megalizzi, vittima dell’attentato di Strasburgo, per il governo andò solo Fraccaro. Dura la reazione di Riccardo Magi, deputato di Più Europa, e Silvia Manzi, il segretario di Radicali Italiani: “È avvilente vedere due dei massimi esponenti del governo andare ad accogliere un condannato in via definitiva per reati gravissimi all’aeroporto. A occuparsene dovrebbero essere solo le forze dell’ordine e la magistratura, non i politici”. Anche la senatrice grillina Elena Fattori è contrariata: “Non amo le modalità “sbatto il mostro in prima pagina e ci salto sopra a piedi pari battendo i pugni sul petto”“. A sera il ministro Bonafede si difende in tv: “Perché passerella? Domandi a qualsiasi cittadino se non era orgoglioso che due ministri fossero lì. Avrei considerato offensivo non andare”. Battisti, ultima scena. L’ex terrorista-trofeo torna nelle patrie galere di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 gennaio 2019 Il leghista Salvini e il grillino Bonafede presenziano al rientro del super latitante sulla pista dell’aeroporto romano di Ciampino. Trasferito immediatamente nel carcere ad alta sicurezza di Oristano dove sconterà l’ergastolo. Quando, a metà pomeriggio, le porte del carcere di Massama si chiudono alle spalle del lungo corteo di auto blindate che a sirene spianate hanno scortato l’ex terrorista Cesare Battisti dall’aeroporto di Oristano fino alla casa circondariale “Salvatore Soro” dove sono rinchiusi prevalentemente detenuti in regime di alta sicurezza, i riflettori si possono anche spegnere. L’evento clou della giornata si era già consumato qualche ora prima, quando all’aeroporto di Ciampino era atterrato l’aereo proveniente da Santa Cruz, in Bolivia, dove il super ricercato è stato arrestato sabato scorso dagli uomini dell’Interpol. A bordo pista, sotto la vigilanza dei cecchini e in compagnia di un folto gruppo di agenti, ad attendere il pluriomicida, riportato in Italia dopo quasi 38 anni (fuggì in Francia nel 1981, dopo essere evaso dal carcere di Frosinone), c’erano il ministro dell’Interno leghista Matteo Salvini e il Guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede. L’ex terrorista affiliato negli anni 70 ai Proletari armati per il comunismo ha avuto dunque l’onore di un alta rappresentanza governativa che è mancata invece solo qualche settimana fa, come hanno fatto notare diversi rappresentanti dell’opposizione, alla salma del giornalista Antonio Megalizzi, vittima dell’attentato terroristico di Strasburgo. Ma tant’è: il governo giallo-bruno può rivendicare ora di aver ottenuto giustizia per le quattro vittime (il maresciallo Antonio Santoro e l’agente Andrea Campagna, trucidati nel 1978, il gioielliere Pierluigi Torregiani e il macellaio Lino Sabbadin uccisi nel 1979) di Cesare Battisti, divenuto durante la sua latitanza prima in Francia e poi in Brasile anche un celebre scrittore. Ora possono tirare un piccolo sospiro di sollievo i parenti delle vittime che ieri hanno reagito in modi differenti: “Io non perdono nessuno e i buonisti a tutti i costi dovrebbero cucirsi la bocca”, ha commentato Adriano Sabbadin, figlio di Lino. Mentre il figlio di Pierluigi Torregiani, Alberto, che pure in passato è stato candidato nelle liste di Fratelli d’Italia (che ieri hanno inscenato un sit in davanti al consolato brasiliano per “ringraziare” Bolsonaro), ha esortato: “Non trasformiamolo in un orco. Ho sentito che qualcuno si è lamentato che non scendesse dall’aereo in manette. Vogliamo mettergli anche le catene ai piedi? Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto”. Battisti, ormai quasi 65enne, che per questi delitti ha espiato solo quattro anni nel carcere di Brasilia (e pochi mesi in Italia), dovrà ora scontare l’ergastolo (non ostativo) e sarà sottoposto a isolamento, anche diurno, per i prossimi sei mesi - come tutti i condannati alla stessa pena - nella sezione As2, il circuito di massima sicurezza riservata ai terroristi. A permettere l’applicazione della massima pena possibile in Italia è stato il fatto che l’estradizione non è avvenuta dal Brasile (Paese che non prevede l’ergastolo) ma dalla Bolivia, e non verso l’Italia ma verso il Paese guidato da Jair Bolsonaro. Che ieri è stato ringraziato pure da Salvini con una “lunga, cordiale e costruttiva” telefonata nella quale i due leader dell’estrema destra si sono impegnati ad incontrarsi “presto” e a “rinsaldare i legami tra i nostri popoli, i nostri governi e la nostra amicizia personale”, come ha riferito lo stesso vicepremier durante la conferenza stampa indetta a Palazzo Chigi subito dopo aver “accolto” Battisti a Roma. Eppure il merito dell’arresto del criminale usato come trofeo andrebbe almeno in parte riconosciuto anche al presidente boliviano Evo Morales, il cui ministro dell’Interno Carlos Romero ha dichiarato ieri di aver consegnato Battisti alle autorità italiane dopo che, il 26 dicembre scorso, la richiesta di asilo politico avanzata qualche giorno prima dall’ex terrorista italiano era stata respinta. Una volta arrestato, ha riferito il premier Giuseppe Conte durante la conferenza stampa con Salvini, il governo italiano ha discusso le fasi del rientro di Battisti a Roma con lo stesso Bolsonaro: “Abbiamo valutato la possibilità che potesse transitare da Brasilia, e le difficoltà di questo passaggio”, ma è stato dirimente “l’aspetto per cui l’Italia non ha un vincolo come il Brasile nel limite della pena”. Riferiscono le cronache italiane che durante il volo da Santa Cruz, Cesare Battisti, che al momento dell’arresto non ha opposto alcuna resistenza, ha mostrato documenti con il suo vero nome, non era armato, non era camuffato e in tasca aveva solo qualche spicciolo, avrebbe dormito un sonno tranquillo. “Ora so che andrò in prigione”, avrebbe detto ai funzionari dell’Antiterrorismo che lo hanno accolto a Ciampino, ringraziandoli per il trattamento che gli era stato riservato e per i vestiti più pesanti che aveva ricevuto durante il volo. Le cronache boliviane invece parlano di un accorato pianto a cui si sarebbe lasciato andare l’ex terrorista aspettando l’aereo che lo riportava in patria. Ora, riferisce Salvini, “stiamo lavorando su altre decine di terroristi: su alcuni abbiamo già riscontri positivi”. Concetto ribadito via Facebook dal ministro Di Maio che ricorda i tanti terroristi “rossi e neri ancora a piede libero. Non finisce con Battisti - scrive il vice premier grillino - Questi signori devono sentire la pressione dell’Italia che finora ha accettato la qualunque”. Linguaggio qualunquista anche dal leader leghista che polemizza con “qualche ex primo ministro frustrato”: “Non si può dire che Battisti era comunista? Allora diciamo che è un pacifista”. Dal canto suo l’ex premier Paolo Gentiloni, intervistato da Un giorno da Pecora, su Rai Radio1, ricorda che l’ex criminale comune entrato negli anni ‘70 nel Pac, “ha avuto protezioni molto singolari in Francia, con Mitterand e Sarkozy, e poi la protezione esplicita in Brasile, terminata col cambio di governo due anni fa. Già quando ero Ministro degli Esteri si iniziava a pensare alla possibilità che questa situazione si sarebbe potuta sbloccare”. Intanto il pm Alberto Nobili, responsabile dell’antiterrorismo della procura di Milano ha aperto un’inchiesta “esplorativa”, senza ipotesi di reato né indagati, sulla rete di protezione di cui avrebbe usufruito Battisti anche in Italia, come risulterebbe da una serie di telefonate agganciate da una cellula boliviana durante l’ultima latitanza, quella cominciata il 14 dicembre scorso quando l’allora presidente brasiliano Temer firmò il decreto di estradizione verso l’Italia. Due ministri non vanno ad accogliere un terrorista di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 15 gennaio 2019 Salvini è il Fregoli della p.a.. Veste impropriamente le divise di tutti i corpi con i quali ha a che fare come ministro. Siamo gente poco seria. Lo sappiamo bene. E con scarsa serietà ci siamo comportati in occasione del rientro in Italia del latitante Cesare Battisti, da Cisterna di Latina. Qualcuno l’ha definito ieri “ex terrorista”, commettendo un errore marchiano: si tratta di un terrorista a tutto tondo, anche oggi. Di “ex terrorista” si sarebbe potuto parlare se, accettando la pena comminatagli dalla Giustizia italiana, avesse scontato tutto ciò che aveva da scontare, al netto dell’ampia indulgenza introdotta nel nostro Paese dalla legge Gozzini, i cui danni sono sotto gli occhi di tutti. Compreso quello dell’italianissimo “dumping criminale” che spinge i delinquenti dell’Est a delinquere in Italia per il lassismo complessivo del sistema, ben meno severo di quelli vigenti nelle nazioni d’origine, per esempio, la Bulgaria, la Romania, la Serbia. Si è anche scritto, a disdoro di Battisti che, in tutti questi anni, quasi 40, non ha mai espresso una parola di pentimento o di compassione per le sue vittime innocenti. E questo la dice lunga sull’approccio nazionale al crimine e ai criminali, quasi che lo Stato sia equiparabile al prete del confessionale, pronto ad assolvere di tutto tutti a condizione che si pentano. Il pentimento è un cinico strumento in mano ai delinquenti per incassare sconti di pena, domiciliari, affidamenti, insomma tutto l’armamentario immaginato e legiferata in un’ottica distorta della funzione di Giustizia, come definita in Costituzione. La natura redentiva della pena non può e non deve incidere sulla sostanza afflittiva: la restrizione nelle patrie galere, accompagnata da attività formative, non dovrebbe subire interruzioni o attenuazioni, finché un soggetto professionalmente preparato non giudichi esaurita la propensione al delitto. Ma questi sono discorsi quasi filosofici che alla gente non interessano. Ciò che interessa è che, dopo tanti anni, Battisti è stato consegnato all’Interpol e, quindi, alla autorità italiane perché sconti in Italia la pena cui è stato condannato. Ciò è accaduto in Bolivia, la nazione governata dal presidente Evo Morales, il cui partito, Movimento per il Socialismo, è una delle poche forze di sinistra rimaste al potere in America. Il principio della fine l’aveva annunciato, già in campagna elettorale, Jair Bolsonaro, il candidato di destra che, vincendo, ha realizzato in Brasile l’alternanza tra sinistra e destra che è diventata fisiologica in molte nazioni avanzate. Ottenuta l’elezione, Bolsonaro ha onorato la propria promessa, formulata all’Italia soprattutto per il senso politico anche interno della consegna del fuggiasco: l’instaurarsi di un governo non indulgente nei confronti dei terroristi, in contrasto con l’acquiescenza di Lula che aveva scelto di chiudere gli occhi di fronte a questo caso, i cui lineamenti criminali erano e sono indiscutibili. Nel senso che sono stati accertati dall’autorità giudiziaria italiana che ha sì utilizzato una normativa eccezionale e di emergenza, ma non ha mai derogato dai principi di una Costituzione democratica. Se c’è una pecca nell’operazione, essa riguarda l’assenza sul territorio brasiliano di un efficace spiegamento dei servizi segreti italiani, il cui compito sarebbe stato quello di monitorare Battisti là dov’era, impedendogli di fuggire in Bolivia. L’operazione della cattura, ascrivibile a un poliziotto boliviano sensibilizzato dagli avvisi di ricerca con l’immagine del terrorista, ha messo una “pezza a colore” al buco che gli aveva consentito di abbandonare il proprio rifugio scappando, appunto, in Bolivia. Dicevamo che siamo poco seri: i network televisivi nazionali hanno trasmesso la cronaca dell’arrivo del Super-Falcon dell’Aeronautica militare, dotato dell’autonomia necessaria per la trasvolata, e presentato due ministri del governo italiano schierati a Ciampino in attesa del latitante. Il ministro dell’interno, Matteo Salvini, in giaccone della Polizia di Stato (mise assolutamente ridicola e abusata: un messaggio controproducente) e Alfonso Bonafede, ministro della giustizia. Una presenza la cui funzione esclusiva era il “farsi vedere”, ostentando se stessi di fronte al pubblico dei media. Per questo siamo poco seri e poco credibili. Qualcuno ha notato l’assenza del Capo della Polizia: Franco Gabrielli è persona seria e sa bene che l’evento non merita una particolare celebrazione. Solo la soddisfazione della fi ne di una anomalia. Giustizia spettacolo a Ciampino di Marcello Sorgi La Stampa, 15 gennaio 2019 Due ministri all’aeroporto ad accogliere un latitante preso dopo 37 anni. Telecamere autorizzate dal governo a filmare in primo piano ogni mossa del detenuto che sta per essere trasportato nelle patrie galere. E al centro della scena, lui, Battisti, sudicio, stazzonato, con la barba lunga, perché non gli è stato consentito neppure di lavarsi o cambiarsi d’abito (cosa invece abituale per chiunque incorra nell’inconveniente di un arresto). Il “ghigno” descritto dal responsabile del Viminale (ovviamente in divisa della polizia) nella diretta streaming di cui ha vantato “trentamila spettatori”, essendone l’instancabile conduttore, è apparso in realtà uno sguardo rassegnato, a tratti stralunato e meravigliato, dato che certamente non s’aspettava un’accoglienza pubblica come quella che gli è toccata. Ora, che la macchina della sicurezza, quando fa un colpo importante, cerchi ovviamente di valorizzarlo, ci sta pure. Ma neanche a Totò Riina, vale a dire il capo indiscusso della mafia, che tra l’altro fu preso in giacca di cachemire e camicia di seta, era stata riservata un’ostensione del genere. Picchi di crudeltà furono toccati 25 anni fa ai tempi di Tangentopoli, come quando il collaboratore di Forlani, Enzo Carra, venne condotto in tribunale con gli schiavettoni, certe manette pesanti d’altri tempi avvitate sui polsi. Non a caso la più grande inchiesta sulla corruzione fu scandita da suicidi di detenuti eccellenti, in carcere e fuori. Non è dato sapere che idea abbia di sé Cesare Battisti. Per quanto affetto da delirio narcisistico come tutti i terroristi, è impossibile che si consideri una figura-chiave degli Anni di piombo, avendo avuto un ruolo tutto sommato marginale ed essendo stato condannato, in parte, anche per reati comuni senza alcuna matrice politica. Ma se appunto il latitante catturato sabato si considerava un protagonista minore di un’epoca tragica chiusa da tempo, il modo trionfale con cui è stato ricevuto a Ciampino, la mostrificazione messa in atto da Salvini con il suo solito linguaggio truculento (“Dovrà marcire in galera!”), il mancato rispetto di normali diritti, come ripulirsi e rivestirsi prima di entrare in carcere, lo avranno convinto che non è così, e l’Italia ha voluto dargli un posto nella storia - sia pure nella storia criminale - più importante di quello che gli spettava. Purtroppo non è la prima volta che un governo prende un abbaglio del genere. Quando Silvia Baraldini, la componente delle Black Liberation Army arrestata negli Stati Uniti fu estradata in Italia nel 1999 (per essere poi scarcerata grazie all’indulto nel 2006, malgrado una condanna durissima non scontata per intero), l’allora ministro di Giustizia Diliberto fu a un passo dal recarsi all’aeroporto per accoglierla Né si era riusciti a trattenere il deputato di Rifondazione comunista Ramon Mantovani, quando un anno prima, nel novembre 1998, aveva accompagnato in Italia il leader del Partito curdo (e armato) dei Lavoratori Ocalan, che causò una delle grane internazionali più complicate al neonato governo D’Alema. Per non dire di Cossiga che voleva nominare senatore a vita Renato Curcio, il fondatore delle Br. Voglia di apparire, mancanza di senso della misura, un’idea della comunicazione politica ormai vicina al parossismo, ieri e oggi, trascinano ministri di diversa estrazione nel paradosso. Eppure anche Salvini dovrà rendersi conto che Battisti, benché ergastolano e responsabile di delitti efferati, adesso è un detenuto come gli altri. Scontati i sei mesi di isolamento, potrà incontrare i familiari, chiedere, tramite gli avvocati, una revisione dei processi che lo riguardano, collaborare, se vorrà, con le forze di polizia. E soprattutto non potrà essere sottoposto a tortura, dato che il nostro ordinamento non la prevede e in alcuni casi l’ha punita. Pensate come sarebbe stato diverso, se invece di queste quarantott’ore di commedia e tragedia attorno all’arresto di un terrorista di seconda fila, un laconico comunicato, solo quello, avesse annunciato che era già ristretto nella sua cella. Campania: il Garante denuncia le criticità del sistema carcerario linkabile.it, 15 gennaio 2019 “Sovraffollamento ed eccesso di custodia cautelare”. Così si è espresso Samuele Ciambriello intervenuto nella trasmissione Mattina 9 in onda su Canale 9 che ha proseguito dicendo: “C’è sovraffollamento perché ci sono leggi che portano per piccoli e medi reati in carcere, reati relativi alla tossicodipendenza e all’immigrazione, ma c’è anche tanta gente per un uso eccessivo della custodia cautelare, tant’è che molte volte le persone escono senza nemmeno il processo di primo grado”. Parole importanti del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania, emblematiche se consideriamo che la capienza delle carceri campane è di 6.152 unità e che le stesse sono costrette ad ospitarne 7.760. Un’altra criticità portata alla luce da Ciambriello è l’esigua presenza di figure sociali a fronte del l’elevato numero di detenuti, sono solo 95 gli educatori e 45 gli psicologi che si occupano dei detenuti in tutta la regione. Detenuti che ricordiamo in molti casi non si confrontano con figure sociali per mesi. Ciambriello infine ha parlato di 8 detenuti internati a Poggioreale e 3 a Santa Maria Capua Vetere, ossia coloro che hanno problemi psichici e andrebbero ospitati nei Rems, le strutture riabilitative per i malati psichiatrici, e che invece si trovano in carcere per mancanza di posti nelle strutture riabilitative, concludendo il suo discorso dichiarando: “Queste persone se non ci sono posti nei Rems devono essere mandate in altri luoghi, alternativi al carcere, non possono essere lasciati lì, mi sembra una doppia ingiustizia e una doppia illegalità”. Sardegna: aumentano i detenuti iscritti all’Università di Emanuela Carucci Il Giornale, 15 gennaio 2019 Oristano si aggiunge agli istituti penitenziari dove già è possibile frequentare le lezioni. Il polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari (il Pup), al quinto anno di attività, raggiunge, nel 2019, per la prima volta il numero di cinquanta studenti iscritti. A comunicarlo è l’Università di Sassari, in una nota. “Un bel traguardo - dichiara il professore Emmanuele Farris, delegato del Rettore per il Pup - che ci stimola a migliorarci sempre. Ma al di là del numero, sottolineo che dei nostri cinquanta studenti detenuti, ben ventinove sono nuovi immatricolati. Per la prima volta siamo presenti in cinque istituti penitenziari sardi - con Oristano che si aggiunge ad Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio - e in tre istituti peninsulari (Asti, Cuneo, Udine). Abbiamo studenti in tutti i circuiti di detenzione, dalla media sicurezza al 41bis”. Gli iscritti in regime di detenzione - si legge ancora nella nota - studiano prevalentemente nei dipartimenti di Agraria, Giurisprudenza, Storia e Scienze Umanistiche e Sociali. Anche per quest’anno docenti e amministrativi dell’ateneo turritano hanno effettuato l’orientamento dedicato ai diplomati. Le attività si sono svolte nei mesi di giugno e luglio del 2018. “Successivamente, visto l’alto numero di manifestazioni d’interesse per i nostri corsi, abbiamo istituito due nuovi servizi: il supporto amministrativo per le iscrizioni in carcere nei mesi di ottobre e novembre, e l’accoglienza in ingresso di cui ci stiamo occupando sistematicamente. Riteniamo doveroso che tutti gli studenti, anche all’interno di un istituto penitenziario, percepiscano la vicinanza dell’istituzione universitaria e abbiano un contatto diretto con i referenti del corso di studi prescelto, per definire le tappe del percorso e individuare le prime materie da studiare”, precisa il professor Farris. Un’azione capillare che richiede - si aggiunge nella nota - l’adesione di un numero elevato di docenti (undici referenti dei dipartimenti e dei corsi di laurea) e di personale amministrativo dell’università (sedici le unità). Contemporaneamente, in queste settimane - fa sapere l’Università di Sassari - vengono distribuiti i testi di studio acquistati con i fondi erogati da Ersu Sassari (l’ ente regionale per il diritto allo studio universitario), partner fondamentale del progetto. Ma il 2018, e ancor più il 2019, sono stati e saranno caratterizzati - si aggiunge - da uno sforzo importante da parte del PUP per attività indirette, sia verso gli studenti sia verso detenuti non iscritti ai corsi universitari. Per sostenere gli studenti detenuti, l’ateneo ha messo in moto le risorse derivanti dal fondo da 220mila euro ricevuto (unico ateneo in Italia) nel 2018 dal ministero dell’Università e della Ricerca: Il bando per 23 posizioni da tutor scade oggi, 15 gennaio, alle 12. La nota dell’Università di Sassari aggiunge che per il secondo anno consecutivo, grazie alla collaborazione con la direzione penitenziaria, verrà realizzato ad Alghero un corso di otto seminari mensili, da novembre 2018 a giugno 2019, richiesto dai detenuti e progettato insieme a loro, destinato a esplorare le potenzialità e le criticità del comparto ittico (lo scorso anno era stato dedicato al comparto agro-zootecnico). “Nel 2019 dedicheremo tempo e risorse per attività di comunicazione, di formazione e informazione sul Polo Universitario Penitenziario. Far sapere all’opinione pubblica quello che facciamo, fare sistema con altre istituzioni e con il terzo settore, è una parte fondamentale della nostra strategia”, dichiara ancora Farris. Per questo l’Università di Sassari - si aggiunge nella nota - ha progettato un piano di comunicazione specifico per il Polo universitario penitenziario, innovativo, che si configura come best practice comunicativa a livello nazionale. Per il rettore sardo Massimo Carpinelli, “l’Università di Sassari quindi non considera i cinquanta iscritti un punto di arrivo, ma un punto di partenza, in un’ottica di miglioramento continuo delle proprie politiche di inclusività destinate ad utenze con esigenze specifiche, tra le quali appunto gli studenti in regime di detenzione”. “In questo ambito saranno anche potenziate le sinergie con gli altri ventotto atenei italiani che realizzano attività di didattica in ambito penitenziario, riuniti da Aprile 2018 nella conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, in cui l’ateneo di Sassari ha un ruolo di coordinamento, facendo parte insieme a Torino, Pisa, Padova e l’Università Federico II di Napoli del direttivo nazionale in carica”, ha concluso Carpinelli. Puglia-Basilicata: arte, cultura e spettacolo dal vivo nelle carceri rainews.it, 15 gennaio 2019 Accordo pubblico tra il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata e il Teatro Pubblico Pugliese-Consorzio regionale per le Arti e la Cultura. Primo nel suo genere in Italia, si tratta di un accordo strategico che punta ad intraprendere azioni congiunte in tema di arti, cultura e spettacolo dal vivo che tendano allo sviluppo di percorsi di sensibilizzazione e formazione di detenuti degli istituti penitenziari pugliesi nell’ambito di laboratori teatrali, musicali, coreutici e artistico-culturali. Progetti indirizzati alla conoscenza e allo sviluppo di tutti i mestieri dello spettacolo dal vivo da realizzare all’interno degli istituti. Percorsi di contatto tra il mondo dell’arte, dello spettacolo dal vivo e della cultura e gli istituti penitenziari pugliesi, al fine di creare iniziative di diffusione culturale e di intrattenimento all’interno dei penitenziari, oltre che canali virtuosi di confronto tra Teatro Pubblico Pugliese, Amministrazione Penitenziaria e artisti esterni. Azioni sinergiche di partecipazione a bandi per finanziamenti europei, nazionali o indetti da Fondazioni o Enti nazionali. L’accordo è stato firmato nella sede del Tpp di via Cardassi tra il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, Carmelo Cantone e il Presidente del Teatro Pubblico Pugliese, Giuseppe D’Urso. L’accordo ha la durata di cinque anni. Oristano: l’85% dei detenuti è in regime di Alta Sicurezza Ansa, 15 gennaio 2019 Problemi di sovraffollamento e organico agenti insufficiente. La Casa circondariale “Salvatore Soro” alla quale è stato destinato l’ex terrorista Cesare Battisti, è una struttura di nuova costruzione realizzata nella frazione di Massama in sostituzione della vecchio carcere di Oristano. Inaugurata nel 2012, ha evidenziato sin da subito diversi problemi strutturali mai interamente risolti. Ha una capienza di 260 detenuti, ma il numero viene spesso superato. La casa di reclusione è organizzata in sei sezioni, cinque delle quali destinate esclusivamente ai detenuti in regime di alta sicurezza, che sono mediamente l’85 per cento del totale, e una sola per detenuti comuni. La popolazione carceraria è composta, in misura maggioritaria, da italiani con condanne lunghe, in regime di alta sicurezza. Non ci sono detenuti col 41 bis nè collaboratori di giustizia. La prevalenza di detenuti in regime di alta sicurezza è stata segnalata come criticità da Antigone, l’Osservatorio per i diritti e le garanzie nel sistema penale. “Tale fattore - spiegano - ha comportato una sostanziale riduzione delle attività trattamentali. L’organizzazione e la quotidianità nell’istituto prevedono uno svolgimento della giornata essenzialmente nelle sezioni detentive e sono predisposte scarse attività da svolgere. Questa penuria ha comportato nel corso del 2016 diverse proteste dei detenuti, nonché una visita del Garante nazionale, che ha individuato una serie di problematiche e delle indicazioni per la direzione”. Le proteste del 2016 sono culminate in uno sciopero della fame durato oltre venti giorni, al quale aderirono 35 reclusi dell’alta sicurezza: nel mirino il sovraffollamento e le difficoltà per gli incontri con i familiari e il magistrato di sorveglianza. La struttura si trova in aperta campagna, a poche centinaia di metri dalle case della frazione di Massama, ed è raggiungibile con gli autobus del servizio di trasporti urbani del Comune. Può contare su un direttore, che però deve occuparsi anche della Colonia penale di Is Arenas, un comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria, sei ispettori, quattro sovrintendenti e 136 agenti. Un organico più volte denunciato come insufficiente dalle organizzazioni sindacali del personale. Busto Arsizio: cresce il sovraffollamento, mancano agenti, educatori e medici di Angela Grassi La Prealpina, 15 gennaio 2019 Tante ombre, qualche luce. Il 2019 è iniziato al carcere di Busto Arsizio con una conferma del guaio peggiore, ovvero il sovraffollamento delle celle. La media è di 450 presenze. E continuano a mancare gli educatori, che potrebbero aiutare a rendere le giornate dei reclusi più orientate a una effettiva rieducazione. Proseguono i servizi “in missione” da altre strutture, non per tutti i giorni della settimana. Messi male come prima? “Purtroppo sì - risponde il direttore Orazio Sorrentini - Abbiamo anche una gravissima carenza di medici, dei 9 previsti ne sono attivi solo 3. Ma di questo la competenza non è dell’amministrazione penitenziaria, tutto dipende dall’Asst Valle Olona (e si aggiunge alla lista dei problemi da risolvere per il nuovo dg Eugenio Porfido, ndr.)”. Nessuno spiraglio? “Qualcuno sì. Sembra che, entro poco più di un mese, si possa attivare un’apparecchiatura radiologica che dovrebbe evitare molti invii immediati all’ospedale. Potremo fare qui le radiografie, il che evita trasferte che tengono impegnati per ore gli agenti. A volte capita una banale caduta al campo sportivo e viene richiesto un accertamento, con l’apparecchiatura qui perderemo meno tempo”. Per gli educatori si prepara un “interpello nazionale”: sono state effettuate delle assunzioni e il Dipartimento carcerario ora sta chiedendo a quanti sono già in servizio se abbiano una preferenza per il trasferimento, visto che i posti che ora occupano dovrebbero essere destinati ai nuovi arrivi. “Pare che qualcuno abbia fatto istanza per venire a Busto, anche se non ho ancora la conferma ufficiale. Speriamo - dice Sorrentini - I problemi purtroppo sono gli stessi degli ultimi mesi del 2018. Il sovraffollamento è una emergenza nazionale, si sono superati i 60mila detenuti in tutta Italia. Ci sono carenze di figure professionali un po’ in tutti settori, anche alla polizia penitenziaria mancano forze e non sono arrivati nuovi agenti”. Sabato è andato in pensione Antonio Coviello, dopo 40 anni di servizio. Altri pensionamenti sono previsti nei prossimi mesi. Ora tre poliziotti hanno superato i concorsi e diventeranno vice ispettori: “A parità di numero, avremo tre sottufficiali in più. Di fronte a una grave carenza di figure intermedie, è un passo avanti. Ci sono agenti e assistenti, ma pochi sovrintendenti e quasi nessun ispettore. In totale 186 in organico, alcuni a disposizione della commissione medica ospedaliera. Esclusi quelli parliamo di 175-178 persone in servizio”. A fine novembre l’ultima novità era stata l’avvio dello sportello del garante regionale dei detenuti. Carlo Lio non ha avuto modo di fare colloqui in dicembre, ma è venuto a Busto un suo delegato. “Con Lio c’è un contatto costante - spiega Sorrentini - lo devo incontrare la prossima settimana, è persona assolutamente disponibile e seria. Riguardo la questione del garante comunale, dopo l’audizione a metà novembre non ho più ricevuto notizie”. Trento: emergenza carcere, un Tavolo di lavoro con tutti gli operatori lavocedeltrentino.it, 15 gennaio 2019 Nella giornata di giovedì, in seguito a specifici incontri con Claudio Ramponi, referente per la sanità penitenziaria e Chiara Mazzetti, responsabile per la medicina penitenziaria, il direttore generale dell’Azienda sanitaria Paolo Bordon, il direttore sanitario Claudio Dario, il direttore del Servizio ospedaliero provinciale Giovanni M. Guarrera e il direttore del Servizio governance dei processi di assistenza e di riabilitazione Annamaria Guarnier, si sono incontrati con gli infermieri che garantiscono l’assistenza sanitaria in carcere per confrontarsi su quanto accaduto recentemente nella Casa Circondariale di Trento, ascoltare le loro opinioni in merito al lavoro svolto e all’attuale servizio offerto nonché le loro proposte di miglioramento. In questo incontro la direzione aziendale ha constatato la coesione di un gruppo di persone molto compatto e stabile anche nella condivisione di valori importanti e ha manifestato la propria gratitudine per l’opera che continuano a prestare. Dal colloquio è emersa anche la difficoltà degli operatori a garantire, in alcune occasioni, l’assistenza sanitaria ad un numero di detenuti molto elevato rispetto agli standard previsti. In seguito a questo incontro con gli operatori sanitari la direzione aziendale formalizzerà al presidente della Provincia e all’assessore alla salute una relazione sull’attività attualmente garantita in carcere e su eventuali nuove proposte di modello organizzativo. Per lo stesso argomento si è riunito ieri mattina, presieduto dal commissario del governo prefetto Sandro Lombardi, il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per valutare la situazione della casa circondariale di Trento alla luce dei fatti avvenuti lo scorso 22 dicembre e che ha visto coinvolti che aveva visto coinvolti circa 200 dei 334 detenuti presenti nella struttura. Alla riunione oltre ai vertici delle locali forze dell’ordine erano presenti il presidente della provincia Fugatti, l’assessora Franzoia in rappresentanza del sindaco di Trento il sostituto del procuratore generale De Benedetto ed il procuratore Raimondi, la presidente del tribunale ed i magistrati di sorveglianza, i rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia, il provveditore per il triveneto, il direttore della azienda provinciale per i servizi sanitari, la direttrice del carcere, il comandante la polizia penitenziaria, la garante dei detenuti, la direttrice dell’ufficio di esecuzione penale, il presidente dell’ordine degli avvocati e della camera penale di Trento. L’incontro ha costituito l’occasione per attivare collaborazioni e sinergie tra tutti i componenti istituzionali, cosi come dichiarato dal prefetto Lombardi il 22 dicembre scorso come autorevole interlocutore dei detenuti, per poter realizzare i più opportuni interventi su quelli che sono stati individuati come obiettivi di miglioramento: l’assistenza sanitaria, l’educazione ed il rapporto con il mondo del lavoro. A conclusione della riunione il prefetto lombardi ha proposto l’attivazione di un tavolo di lavoro che si riunirà ogni quattro mesi per fare il punto sulle attività ed i percorsi avviati. La proposta è stata accolta con favore e da subito i responsabili delle istituzioni presenti instaureranno buone pratiche di comunicazione per l’approfondimento delle varie problematiche. Piacenza: Garante dei detenuti; nominato Faimali, insegnante in pensione Libertà, 15 gennaio 2019 Il professor Antonello Faimali è stato designato dal sindaco di Piacenza Patrizia Barbieri come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Tra le motivazioni che hanno portato alla scelta del professore piacentino di 67 anni “la competenza nel campo dei diritti umani, delle attività sociali e del mondo del lavoro con particolare sensibilità per gli istituti di prevenzione e pena”. Faimali era andato in pensione nel 2017 dopo trent’anni di insegnamento all’Itas Raineri-Marcora; dal 2004 era distaccato alla sede dell’Ipas Marcora alla Casa circondariale delle Novate. È stato insegnante in scienze agrarie e anche responsabile dei rapporti tra la scuola, la direzione della Casa circondariale e delle associazioni di volontariato. Il bando per la selezione è stato pubblicato nel dicembre 2018 a un anno e mezzo di distanza dalle dimissioni di Alberto Gromi che aveva ricoperto il ruolo in precedenza. La determina è stata pubblicata all’albo pretorio del Comune di Piacenza lunedì 14 gennaio 2019. Oltre a Faimali aveva presentato la propria candidatura il generale Riccardo Cioce. Lazio: “Formarsi per ripartire “, al via le iscrizioni per corsi formazione per detenuti Nova, 15 gennaio 2019 Sono aperte le iscrizioni ai corsi di formazione per detenuti ed ex-detenuti nell’ambito del progetto “Formarsi per ripartire: una nuova vita dopo il carcere”, organizzato dall’Isola solidale con il sostegno della Fondazione nazionale delle comunicazioni. L’iscrizione sarà possibile fino al 31 marzo. Per info si può visitare il sito isolasolidale.it oppure si può chiamare il numero 06/5012670 o si può scrivere una mail a: segreteria@isolasolidale. Isola solidale è una struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Potranno accedere ai corsi di formazione gli ospiti della struttura di Isola solidale, altri detenuti ammessi alle misure alternative provenienti da carceri di Roma e indirizzati dall’Uepe (Uffici locali per l’Esecuzione Penale Esterna). Sono previsti 4 corsi per un totale di 10 detenuti a corso, con il coinvolgimento di formatori specializzati, affiancati da volontari e ulteriori figure professionali, comprendenti un avvocato, uno psicologo e un assistente sociale. I detenuti avranno l’occasione di sviluppare una professionalità attraverso un corso sulla coltivazione dell’orto della durata di 9 mesi, un corso di falegnameria di 4 mesi, un corso di restauro di 4 mesi e uno di alfabetizzazione informatica di 4 mesi. Per i programmi saranno impiegati cinque formatori specializzati: un agronomo, un esperto in orto coltura, un falegname, un restauratore e un informatico. Il progetto avrà la durata complessiva di un anno. “Con questi corsi vogliamo dare un’occasione a chi vive il mondo del carcere di ripartire - afferma Alessandro Pinna, presidente di Isola Solidale - e riscoprire una nuova vita dopo il carcere”. “È nostra convinzione - aggiunge Pinna - che il reinserimento lavorativo dell’ex-detenuto, restituendo alla persona la sua dignità di cittadino, sia un passo necessario e determinante a ridurre le recidive di reato”. Napoli: avvio dell’anno accademico del nuovo Polo Universitario Penitenziario wecanjob.it, 15 gennaio 2019 Università e carcere potrebbero sembrare realtà inconciliabili, due parole difficili da accostare, specialmente se si pensa allo stato in cui versano le carceri italiane. Eppure, in Italia, a differenza di molti altri Paesi europei, questo connubio è diventato negli ultimi anni sempre più verosimile. Ci riferiamo all’esperienza dei Pup (Poli Universitari Penitenziari), che, in ottemperanza alle norme sull’ordinamento penitenziario regolate dalla legge 26 luglio n. 354, offrono in molti Atenei italiani la possibilità, per i detenuti dotati di diploma di scuola superiore, di accedere ai corsi universitari normalmente preclusi a chi deve scontare una pena. In tutto, sul territorio nazionale, sono circa 20 i poli che si incaricano di fornire una formazione universitaria a chi non ha la possibilità di frequentare l’Università, attraverso vari strumenti come video-lezioni, e-learning e, in alcuni casi, anche con la presenza fisica dei docenti nelle carceri. Ricordiamo i Pup di Padova e Torino, quello regionale presente in Toscana, e ancora quelli di Rebibbia, Lecce, Sassari, Catanzaro e Bologna. Secondo il garante dei detenuti in Campania Samuele Ciambriello, sono circa 300 gli iscritti a queste realtà fra le 58.000 persone che costituiscono attualmente la popolazione carceraria italiana. Ai Pup citati si aggiunge da quest’anno quello di Napoli, nato dalla collaborazione tra l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Provveditorato regionale della Campania. Si tratta del primo caso in Campania in cui le lezioni universitarie verranno svolte direttamente all’interno delle carceri, mettendo i detenuti a diretto contatto con i docenti. A partire da oggi 15 gennaio, data di inizio dell’anno accademico, i 75 iscritti cominceranno a frequentare i corsi di laurea per i quali hanno espresso la propria preferenza. Sono circa 20 gli immatricolati per Giurisprudenza, altri 20 fra Erboristeria e Scienze nutraceutiche. Poi, ancora, Storia, Economia, Urbanistica e molti altri corsi. Si tratta di un’iniziativa felice che inverte l’idea per cui un carcerato non possa aspirare a formarsi anche durante il suo periodo di detenzione, virando concretamente verso quelle finalità riabilitative della pena sancite dalla Costituzione. Bologna: cinema in carcere, la Rai dona 700 dvd, Hera una nuova sala-proiezioni di Luca Bortolotti La Repubblica, 15 gennaio 2019 In vista della terza edizione di Cinevasioni, attesa in ottobre, la Casa circondariale rilancia il progetto culturale. Senza tabù: “Non sarei contraria a far vedere il fim su Cucchi - dice la direttrice - purché accompagnato da una riflessione seria”. Una videoteca da 700 titoli donata dagli archivi Rai, un cinema di prime visioni dentro al carcere in cui detenuti e liberi cittadini potranno guardare i film assieme. In vista della terza edizione di Cinevasioni, la Casa circondariale di Bologna rilancia il progetto: il primo festival cinematografico organizzato all’interno di un carcere torna a ottobre, intanto il percorso culturale per i detenuti si arricchisce di una sala da 200 posti dove proiettare i film appena usciti e di un ampio archivio di dvd. A indicizzare i film e organizzare proiezioni e cineforum, i detenuti che han partecipato ai primi due anni della scuola di Cinevasioni. La nuova classe è partita a novembre, venti persone scelte tra quelle con pena definitiva e in attesa di giudizio. “Solo con la cultura si realizza l’idea di carcere come riabilitazione, è dimostrato che diminuisce la recidiva”, spiega Giusella Finocchiaro, presidente Fondazione del Monte, che sostiene il progetto, patrocinato dal Comune. Grazie al contributo di Hera in primavera sarà rinnovata la sala polivalente, che ospiterà tutte le attività culturali interne, compresa una programmazione regolare che porterà proiezioni in prima visione ai detenuti. Ma aperta anche al pubblico esterno, “in una rivoluzione culturale, nel rispetto delle norme di sicurezza ed evitando l’effetto “visita allo zoo”, puntualizza la direttrice della casa circondariale Claudia Clementi. La scelta delle pellicole sarà condivisa, “ci chiedono film non deprimenti, un momento d’evasione”, spiega Angelita Fiore, direttrice di Cinevasioni e tra le insegnanti dei corsi, tra cui figura anche Ivano Marescotti. E nel caso di film controversi, come quello su Stefano Cucchi? “Sono favorevole - dice Clementi -, ma vanno accompagnati da una riflessione escludendo sensazionalismi”. Trieste: inaugurazione della mostra “Filatelia nelle Carceri” ilfriuli.it, 15 gennaio 2019 Sabato 19 gennaio, alle 11, verrà inaugurata nello Spazio Filatelia di Trieste in via Galatti 7/d, la mostra filatelica che chiude la sesta edizione del progetto “Filatelia nelle Carceri”. Per il sesto anno consecutivo alcuni ospiti della Casa Circondariale del Coroneo di Trieste hanno partecipato all’iniziativa “Filatelia nelle carceri”, che nasce da un’idea di Poste Italiane e si concretizzata attraverso un protocollo d’intesa sottoscritto con Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Ministero per lo Sviluppo Economico, Federazione tra le Società Filateliche Italiane e Unione Stampa Filatelica Italiana. All’interno del carcere triestino opera infatti il Circolo Filatelico “26”, che ha preso il nome dal numero civico dove è situata la casa circondariale. Un circolo speciale, diverso da tutti gli altri, eppure altrettanto entusiasta nello studio del vasto mondo dei francobolli. Mentori del gruppo di ospiti che hanno aderito al progetto sono Claudio Bacco del Circolo Filatelico sloveno triestino Laurenc Kosir e Daniela Catone, responsabile dello Spazio Filatelia delle Poste Centrali triestine. La raccolta e la composizione delle collezioni sono iniziate lo scorso giugno e si sono concluse a dicembre. Per circa sei mesi, coadiuvati da specialisti esterni, i filatelici del “26” hanno realizzato, ognuno per proprio conto, delle collezioni tematiche di francobolli. Un lavoro che ha previsto delle lezioni teoriche e pratiche. Dario presenta una collezione dedicata a Trieste e alla Venezia Giulia; Gianluca ha collezionato francobolli sul Regno di Italia e Cristian sulla Storia d’Italia nel periodo compreso tra il 1804 e il 1948; Fabio ha scelto la flora e dalla fauna; Maurizio ha approfondito il tema della giornata del francobollo e della giornata della filatelia; Luca si è concentrato sulla sua passione, i motori e Daniel sull’arte; non ultimo, Jonathan con un argomento molto originale, l’America nostalgica e, in particolare, le emissioni che riguardano Colombia, Argentina e Venezuela. L’esposizione, aperta a tutti, sarà visitabile gratuitamente fino al 2 febbraio (da lunedì a venerdì dalle 8.20 alle 13.35 e il sabato dalle 8.20 alle 12.35). Per informazioni: tel. 040/6764305. Migranti. Il governo va incontro ai sindaci ma dice no all’Europa di Carlo Lania Il Manifesto, 15 gennaio 2019 Sul decreto sicurezza il premier Conte trova l’accordo con l’Anci Ad Avramopoulos lista di 670 nomi da ricollocare tra gli Stati. Il decreto sicurezza non cambia, come dice il ministro degli Interni Matteo Salvini, ma la sostanza sì, almeno in alcune delle parti che più premevano ai sindaci. È l’esito dell’incontro di ieri tra il premier Conte e i rappresentanti dell’Anci, l’Associazione dei comuni italiani guidata dal sindaco di Bari Antonio Decaro. Un incontro che ha avuto un esito decisamente migliore di quello che Conte e Salvini hanno avuto sempre in giornata con il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos e che ha confermato ancora una volta la distanza che ancora separa Roma e Bruxelles sulla gestione di quanti attraversano il Mediterraneo per giungere in Europa. Il vertice con i sindaci - “Mi è sembrato di capire che non c’è stata alcuna rimostranza nella delegazione dell’Anci rispetto ai contenuti del decreto. Sono stati aiutati a capire cose c’è nel testo che era e rimane esattamente ciò che è. Se poi dieci sindaci su ottomila hanno bisogno di ulteriori chiarimenti glieli daremo”, ha riassunto Salvini l’incontro con l’Anci. I toni del ministro leghista (assente al vertice perché impegnato a Ciampino per l’arrivo dalla Bolivia dell’ex terrorista Cesare Battisti), non sono piaciuti ai sindaci, ma non sono comunque riusciti a smorzare la soddisfazione dei primi cittadini per i risultati ottenuti. Quattro i punti intorno ai quali si è discusso e raggiunto un accordo con il premier Conte. Il primo riguarda i richiedenti asilo considerati vulnerabili (donne incinta, famiglie con minori, persone con disagio psicologico, disabili) espulsi con il decreto dal sistema Sprar e destinati ai Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Per loro verrà creato un circuito apposito, parallelo a quello Sprar e finanziato attraverso il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) dell’Unione europea. Altra questione riguarda l’assistenza sanitaria di quanti richiedono la protezione internazionale e che - stando a quanto previsto dal decreto sicurezza - non possono più iscriversi all’anagrafe dei comuni. È stato deciso che anche essere domiciliati presso un Cas sarà sufficiente per poter continuare a usufruire del Servizio sanitario nazionale. Una circolare del ministero della Salute informerà tutte le Asl delle nuove disposizioni. Gli ultimi due punti riguardano l’obbligo per le prefetture di comunicare ai Comuni quante persone si trovano nelle strutture di accoglienza in modo da consentire la programmazione dei servizi (come ad esempio l’iscrizione a scuola dei bambini) e, infine, la garanzia che la copertura economica dei minori stranieri non accompagnati sarà a carico del governo. “Sono soddisfatto. Abbiamo portato delle proposte di integrazione e armonizzazione della norma e sono state accolte”, è stato il commento di Decaro al termine dell’incontro con il governo con cui verranno adesso verranno concordati alcuni incontri tecnici per decidere come procedere, presumibilmente attraverso una serie di circolari. “Criticità superate”, ha detto invece Conte, soddisfatto anche perché da parte dell’Anci non mi è stato presentato alcun dubbio di costituzionalità” riguarda all decreto. Cosa che però non avrebbe potuto essere, vista che non spetta all’Anci presentare eventuali rilievi costituzionali. E che non è del tutto esclusa. Per il sindaco di Napoli Luigi De Magistris - uno dei “disobbedienti” al decreto insieme al collega di Palermo Leoluca Orlando, il ricorso alla Consulta è tutt’altro che escluso: “La legge in più punti è manifestamente incostituzionale - ha detto - e sono assolutamente convinto che davanti al giudice della legittimità costituzionale cadranno pezzi del provvedimento”. Il vertice con Avramopoulos - Che dall’incontro con Salvini e Conte si potesse arrivare a un accordo probabilmente non ci credeva neanche il commissario europeo. Avramopoulos è venuto a Roma raccogliendo l’invito avanzato dal premier italiano a conclusione della vicenda delle navi delle ong tedesche Sea Watch e Sea Eye e con la speranza che anche l’Italia potesse far parte del meccanismo temporaneo di divisone dei migranti che Bruxelles sta mettendo a punto e che dovrebbe presentare nelle prossime settimane. Un meccanismo coordinato alla Commissione europea e del quale dovrebbe far parte, nelle intenzioni di Avramopoulos e Juncker, una decina di Paesi “volenterosi”. Da Salvini il commissario ha invece ricevuto una lista con 670 nomi di migranti da ricollocare in Europa e nella quale, secondo fonti Ue, sarebbero stati inseriti anche 102 rifugiati giunti in Italia con i corridoi umanitari. Due posizioni che più distanti di così non potrebbero essere. Razzismo da stadio: si tollera l’intollerabile di Maurizio Ambrosini* Avvenire, 15 gennaio 2019 Prima che come al solito dopo l’indignazione di qualche giorno si giri pagina, in questa pausa del campionato (in cui però anche i meno sentiti incontri di Coppa Italia hanno registrato ieri cori deplorevoli), è importante mantenere alta l’attenzione sul razzismo negli stadi. Il ministro dell’Interno Salvini, scrivendo alla ‘Gazzetta dello Sport’, ha lanciato una questione non banale, con lo stile della domanda retorica che fa appello al buonsenso: “Intendiamo difendere i giocatori beccati per il colore della pelle, ma non quelli a cui si insultano le madri? Inveire contro la famiglia di un Materazzi si può? E qual è il confine tra l’insulto razzista e l’insulto e basta?”. Matteo Salvini, in realtà, tira in ballo le madri per assolvere i razzisti da stadio. Ma, la differenza c’è ed è sostanziale. L’insulto riferito a una persona può essere becero, sguaiato, sanguinoso, ma resta un’offesa rivolta a un singolo individuo. Colpisce lui o lei nella sua singolarità, senza implicazioni collettive. È grave e incivile, ma non coinvolge altri. Non produce una categoria stigmatizzata. L’insulto razzista invece prende di mira un’intera collettività, definita in base al colore della pelle, e colpisce la persona in quanto appartenente alla collettività presa di mira. Lo stesso vale per la discriminazione territoriale. Insultando, gli aggressori gridano a gran voce, per di più nella forma collettiva dei cori da stadio, che appartenere a quella collettività, razziale o territoriale, porta con sé un disvalore, un’inferiorità intrinseca, una colpa inestinguibile. Inculcano un’idea tribale e feroce, di popoli che rivendicano la propria superiorità su altri popoli, ridicolizzandoli, disumanizzandoli, additandoli al disprezzo pubblico. Per questo l’Uefa e la FifPro (la Federazione internazionale dei calciatori professionisti) si sono dichiarate “molto preoccupate” e hanno criticato la mancata applicazione del protocollo anti-razzismo. Ossia la decisione di proseguire la partita come se nulla fosse accaduto. Un’altra questione discussa riguarda la severità applicata negli stadi, rispetto alla tolleranza per le espressioni discriminatorie, islamofobe, anti-tzigane o francamente razziste che circolano liberamente in altri ambiti, social media per primi, ma senza risparmiare la stampa ufficiale e lo stesso Parlamento. Lo hanno posto in evidenza in più occasioni i rapporti della Carta di Roma e di Amnesty International. La prevenzione del razzismo nella comunicazione pubblica è un problema serio, poiché coinvolge il tema sensibile della libertà di espressione. Meriterebbe più attenzione e più regolazione, ma non è possibile affrontarlo in questa sede. Ciò che invece richiede di essere sottolineato con urgente chiarezza è il valore pubblico e comunicativo della repressione del razzismo da stadio. Il calcio raggiunge milioni di persone, non solo quelle fisicamente presenti negli stadi, ma anche quelle che assistono alle partite mediante le dirette televisive. Si tratta dell’evento di massa più seguito del nostro tempo. Tollerare oppure stigmatizzare oppure reprimere determinati comportamenti ha un impatto sociale eccezionale. Per di più alle partite assistono giovanissimi e giovani che meritano di ricevere messaggi positivi, non incitamenti all’odio razziale. Per questa ragione la severa disciplina imposta dall’Uefa sui cori da stadio ha un valore educativo che va oltre il tifo, mentre in Italia una parte importante del sistema calcio cerca purtroppo di edulcorare, stemperare e disapplicare le norme antirazziste. Quanto al ministro Salvini, non è un caso che si sia vantato di conoscere direttamente le curve degli stadi e il mondo del tifo organizzato, criticando la Uefa e le sanzioni contro il razzismo calcistico. Quegli ambienti, quelle pose, quel linguaggio sono una componente costitutiva della base elettorale che gli è più fedele e del suo stesso bagaglio culturale. L’uomo della tolleranza zero e della sicurezza armata qui si scopre, invece, dialogante e inclusivo. Per fortuna c’è chi ha cominciato ad accorgersene e a chiedergliene conto, e non solo a Napoli. *Sociologo, Università di Milano e Cnel Jihadisti pericolosi per l’Europa anche quando sono dietro le sbarre Il Foglio, 15 gennaio 2019 Il processo a un francese accusato di aver ucciso quattro persone a Bruxelles mostra i rischi della radicalizzazione nelle carceri. Un processo per terrorismo che ha avuto inizio a Bruxelles giovedì scorso [il 3 gennaio, ndt] ha mostrato le difficoltà dei tribunali e delle carceri in Europa a contenere la diffusione dell’ideologia jihadista dietro le sbarre”, scrive Valentina Pop. “Mehdi Nemmouche, un 33enne francese di origine algerina, rischia l’ergastolo per la presunta uccisione di quattro persone al museo ebraico di Bruxelles nel maggio 2014. Le autorità spiegano che in prigione i terroristi tramano e diffondono la loro ideologia agli altri detenuti. Le carceri europee sono diventate un luogo di reclutamento per i terroristi malgrado gli sforzi di Francia, Belgio e di altri paesi europei di isolare i detenuti pericolosi e radicalizzati per evitare che facciano proseliti. ‘Le prigioni sono uno dei luoghi principali di radicalizzazionè, ha detto Guy Van Vliedrden, un giornalista belga specializzato nella ricerca dei foreign fighter. Le autorità fanno fatica a isolare gli estremisti o ad arrestarli, ed entrambe le soluzioni sono rischiose. I paesi prendono sul serio il problema della radicalizzazione nelle carceri, ha detto Gilles de Kerchove, il coordinatore dell’antiterrorismo dell’Unione europea. Nel 2017, la Francia ha creato un servizio di intelligence dedicato alle prigioni, che tiene sotto controllo circa 3.000 persone per prevenire la radicalizzazione. A luglio, il paese ha inaugurato un’unità di sorveglianza per monitorare i detenuti radicalizzati dopo il loro rilascio dalla prigione. Altri paesi stanno sperimentando dei consulenti religiosi, sociali e psicologici. Ma fino ad ora, spiega de Kerchove, nessuno ha ‘trovato la formula magicà. Questo è il primo processo in cui un cittadino dell’Europa occidentale ha viaggiato in Siria, si è arruolato nello Stato islamico ed è tornato in Europa per svolgere un attentato terroristico. Lo stesso percorso è stato replicato negli ultimi anni da altri foreign fighter, alcuni dei quali erano legati a Nemmouche. Nel gennaio 2015, un cittadino francese di origini maliane, convertito all’islam e radicalizzato in un carcere francese, ha preso alcuni ostaggi e ha ucciso quattro persone in un supermercato ebreo a Parigi. Ha coordinato l’attacco con altri terroristi che pochi giorni prima avevano ucciso 12 persone nell’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo. Tra i 5.000 individui che hanno lasciato l’Europa per l’Iraq e la Siria dal 2012, circa 1.500 sono tornati e 1.000 sono morti secondo Europol, l’agenzia di polizia dell’Unione europea. Le autorità hanno arrestato alcuni foreign fighter al loro ritorno in Europa perché giudicati colpevoli di avere fatto parte di gruppi terroristi in Siria e in Iraq. Altri hanno ricevuto la condizionale e continuano a essere tenuti sotto controllo dalle autorità. Tutti i foreign fighter noti ai governi sono in un programma di sorveglianza. L’Europol ha registrato 700 arresti in Europa per terrorismo di stampo jihadista tra il 2015 e il 2017, il doppio rispetto al 2013-2014. Il numero di jihadisti che hanno fatto ritorno è molto calato. Tuttavia, secondo il Terrorism Situation Report del 2018, c’è il rischio che coloro che hanno esperienza da combattimento possano radicalizzare gli altri detenuti. ‘I jihadisti di ritorno e altri estremisti in prigione possono spronare gli altri carcerati a viaggiare all’estero e condurre attività illegali’, scrive il rapporto. Gli avvocati di Nemmouche hanno detto che il giovane è legato all’attacco al museo ebraico ma che non è lui il cecchino immortalato dalle telecamere. I video di sorveglianza, a cui hanno avuto accesso alcuni media locali, mostrano l’attentatore con due valigie in mano mentre entra nel museo. L’uomo punta la pistola e spara a una coppia di israeliani. Poi spara a un impiegato del museo di 25 anni nella reception. Nel momento in cui prova a sparare alla quarta vittima, un pensionato francese, la pistola si inceppa e dà tempo al pensionato di premere un tasto di emergenza e bloccare la porta. L’attentatore estrae una mitragliatrice, spara alla porta e uccide la donna. L’attacco è durato poco più di un minuto. Gli inquirenti sono fiduciosi che le prove dimostreranno che Nemmouche è l’assassino. Nemmouche aveva con sé uno zaino con le stesse pistole usate durante l’attentato al momento del suo arresto a Marsiglia. Nacer Bendrer, un 30enne originario di Marsiglia, è attualmente processato per avere aiutato a organizzare l’attentato e per avere acquistato le armi. Bendrer nega le accuse. Nemmouche è processato in Francia per aver preso gli ostaggi, dopo essere stato identificato da quattro giornalisti francesi rapiti in Siria sei anni fa da alcuni estremisti dello Stato islamico. I giornalisti hanno anche identificato un belga di origine marocchina, Najim Laachraoui, che avrebbe ottenuto i giubbotti suicidi usati nell’attentato di Parigi nel 2015 e che è stato uno dei kamikaze nell’attentato di Bruxelles quattro mesi dopo. Gli inquirenti dicono di avere stabilito dei legami tra la cellula dello Stato islamico che ha eseguito gli attacchi di Parigi e Bruxelles. Ad esempio, ci sono state delle conversazioni telefoniche tra Nemmouche e uno dei coordinatori della cellula, che ha chiamato prima di sparare al museo ebraico. I contatti di Nemmouche con la cellula di Parigi e Bruxelles non si sarebbero fermati dopo il suo arresto, secondo la televisione pubblica belga. Durante la sua detenzione preventiva in un carcere belga di massima sicurezza, Nemmouche ha comunicato con un altro sospetto di alto profilo, Salah Abdeslam, l’unico attentatore di Parigi ancora vivo. In settimana è stato arrestato un ex jihadista siriano accusato di avere rubato una chiavetta Usb dall’ufficio del procuratore di Bruxelles. Secondo la procura, la chiavetta conteneva varie copie dell’autopsia delle 32 persone uccise nell’attentato di Bruxelles del 2016. L’uomo, che è stato identificato dalla procura come Iliass K., nega di essere il ladro. Kerchove ha detto che condannare un terrorista è piuttosto facile in Europa, ma è molto più difficile provare che un soggetto radicalizzato può rappresentare un pericolo per la società. ‘Prendere parte a un’organizzazione terroristica è un crimine, ma essere radicali no - ha detto Kerchove - Un soggetto può essere processato solo quando oltrepassa la linea rossa, ovvero quando scarica un tutorial su come comprare una pistola o progettare una bombà”. Brasile. Morto Mario Ottoboni, fondatore delle “carceri alternative” Apac agensir.it, 15 gennaio 2019 È morto ieri mattina in Brasile a São José dos Campos (Stato di San Paolo), all’età di 87 anni, l’avvocato Mario Ottoboni, il “visionario” fondatore, nel 1972 dell’Apac, Associazione di protezione e assistenza ai condannati. In pratica, grazie all’associazione sono nati degli istituti penitenziati alternativi, chiamati “carceri senza carcerieri”, prima nella diocesi di São José dos Campos e poi anche in altre città del Brasile, all’insegna del motto “Qui entra l’uomo, il reato resta fuori”. Entra nelle Apac chi ha già trascorso un primo periodo nel carcere “tradizionale”, su disposizione del giudice di sorveglianza. E sono molte le testimonianze sull’eccellenza di tale metodo. L’intuizione dell’avvocato Ottaviani, che è stato più volte anche in Italia (nel 2016 al Meeting di Rimini aveva raccontato la sua esperienza), ha contribuito a umanizzare un sistema, quello carcerario brasiliano, che resta tra i più violenti al mondo. La Regionale Sud 1 della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, in una nota diffusa poco fa, “si unisce al cordoglio della diocesi di São José dos Campos”, pregando perché “Dio accolga e ricompensi questo grande uomo, che ha fatto la storia nella difesa della dignità dei fratelli e delle sorelle detenute”. La nota prosegue ricordando che il metodo Apac si è esteso anche all’esterno del Brasile e rendendo omaggio all’amico e collaboratore dell’avvocato Ottoboni, Franz de Castro Holzwarth, martirizzato nella sua difesa dei detenuti nel 1981. Su di lui è stato aperto dal 2009 un processo di beatificazione. Il messaggio è firmato da dom Pedro Luiz Stringhini, vescovo di Mogi das Cruzes e presidente della Regionale Sud 1 della Cnbb. Polonia. Danzica, ferito a morte il sindaco dei diritti di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 15 gennaio 2019 Polonia. Il primo cittadino accoltellato durante un concerto di beneficenza da un ventisettenne “non affiliato a organizzazioni politiche”. Era diventato un bersaglio facile dell’estrema destra polacca. “Danzica è generosa, Danzica condivide il bene, Danzica vuole essere una città di solidarietà”, sono queste le ultime parole pronunciate dal sindaco della città polacca sul Mar Baltico Pawel Adamowicz accoltellato a morte nella serata di domenica su un palco durante l’evento clou della Grande Orchestra di Solidarietà Natalizia (Osw). La parola “solidarietà” in polacco rimanda anche a Solidarnosc, il primo sindacato libero dei paesi del blocco sovietico guidato da Lech Walesa e nato dagli scioperi dell’agosto 1980 proprio tra i cantieri navali di Danzica. Ogni anno l’Osw organizza una raccolta di fondi tra i cittadini in Polonia e all’estero per l’acquisto di attrezzature mediche per la cura dei bambini e delle persone anziane. Ieri Walesa ha ammonito: “Il livello del dibattito pubblico deve cambiare per evitare di incoraggiare le persone a compiere tali gesti”. È una morte che lascia un segno indelebile quella del primo cittadino di Danzica, deceduto in ospedale nella tarda mattinata, anche perché avvenuta durante uno di quei pochi eventi nazionali in grado di unire i cittadini polacchi al di là della cosiddetta “guerra polsko-polska” tra i sostenitori e gli oppositori del governo della destra populista di Diritto e giustizia (PiS), attualmente al potere in Polonia. Verso le ore 20 di domenica il ventisettenne Stefan W. (in Polonia i cognomi degli indagati non possono essere diffusi in assenza di una condanna o dell’assenso da parte della persona indagata), era riuscito a intrufolarsi nel locale e a salire sul palco dopo aver mostrato agli addetti alla sicurezza, una tessera della Pap, la principale agenzia di stampa polacca. Dopo aver colpito ripetutamente Adamowicz al torace con un coltello a serramanico di 15 centimetri, l’aggressore è stato disarmato non senza riuscire a prendere la parola sul palco: “Mi chiamo Stefan W., sono stato incarcerato per un ingiustizia. Piattaforma civica mi ha torturato. E per questo che Adamowicz è morto”. Piattaforma civica (Po) è una formazione liberale di centro-destra a cui appartiene anche l’attuale presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ma è soprattutto il principale antagonista politico del PiS a livello nazionale. Secondo le prime informazioni l’omicida affetto da disturbi psichiatrici era stato condannato in precedenza per una rapina in banca ma non risulterebbe affiliato ad alcuna organizzazione politica. Due estati fa l’organizzazione para-fascista della Gioventù polacca (Mw) aveva rilasciato 11 certificati di “decesso politico” con tanto di fotografia per undici sindaci polacchi rei, secondo gli organizzatori dell’happening, di aver sottoscritto un patto di collaborazione tra le amministrazioni locali in materia di immigrazione. Tra i destinatari del certificato l’ex-sindaca di Varsavia Hanna Gronkiewicz-Waltz (Po) ma anche lo stesso Adamowicz. In Polonia le varie forme di incitamento all’odio costituiscono un reato ai sensi degli articoli 256 e 257 del codice penale. I dati della procura nazionale sulle indagini hanno registrato un aumento di questi fenomeni negli ultimi anni. All’inizio del 2017 il ministro dell’interno polacco Mariusz Blaszczak aveva parlato di “sporadicità” dei casi di incitamento all’odio sottolineando quanto fosse inutile intraprendere azioni specifiche per arginare il problema. È indubbio che la vittima fosse diventata un bersaglio facile dell’estremismo. In carica come sindaco dal 1998, Adamowicz è stato un membro del Po fino al 2016. Alle elezioni amministrative di ottobre scorso, che hanno visto la debacle del PiS nei grandi centri del paese, si era presentato come candidato indipendente sconfiggendo alle urne proprio il figlio di Walesa, Jaroslaw del Po, e successivamente al ballottaggio, anche il candidato del PiS Kacper Plazynski. Nell’amministrazione cittadina Adamowicz si è sempre distinto per le sue posizioni progressiste, a sostegno dei diritti delle minoranze, degli immigrati e della comunità lgbt. Alcuni già si chiedono chi prenderà il posto dell’indimenticato Adamowicz alla guida di Danzica. Secondo le normative in vigore, l’esecutivo è chiamato a designare un successore ad interim per la carica di sindaco, in attesa di nuove elezioni cittadine che dovrebbero avere luogo non oltre il mese di aprile 2019. Iran. Iniziato lo sciopero della fame di due prigioniere di coscienza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 gennaio 2019 Come avevano annunciato la scorsa settimana, da ieri le due prigioniere di coscienza iraniane Nazanin Zaghari-Ratcliffe e Narges Mohammadi sono in sciopero della fame: un gesto disperato ed estremo per richiamare l’attenzione sulla loro ingiusta detenzione e sul diniego, da parte delle autorità iraniane, delle cure mediche specialistiche di cui entrambe hanno bisogno. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, che è anche cittadina britannica, è stata arrestata il 3 aprile 2016 all’aeroporto internazionale Imam Khomeini di Teheran, mentre stava salendo a bordo di un aereo che l’avrebbe riportata a Londra dopo aver visitato la sua famiglia in Iran insieme alla figlioletta Gabriella. Dopo mesi di detenzione in isolamento senza poter contattare un avvocato, nel settembre 2016 è stata condannata a cinque anni di carcere per “appartenenza a un gruppo illegale”: la Fondazione Thomson Reuters, un’organizzazione senza scopo di lucro che promuove il progresso socio-economico e il giornalismo indipendente. Nazanin Zaghari-Ratcliffe ha superato i 1000 giorni di carcere e ha compiuto 40 anni in detenzione. Recentemente ha sviluppato noduli al seno e secondo il marito Richard, che da Londra porta avanti la campagna per la scarcerazione, non riceve cure mediche adeguate. Narges Mohammadi, nota difensora dei diritti umani, è stata arrestata nel maggio 2015 e sta scontando una condanna a 16 anni di carcere per aver svolto una campagna per l’abolizione della pena di morte e aver preso parte a manifestazioni per denunciare gli attacchi con l’acido contro le donne. Soffre di embolia polmonare e in carcere ha sviluppato un disordine neurologico che le provoca epilessie e paralisi temporanee. Dopo aver annunciato l’imminente avvio dello sciopero della fame, le due detenute sono state punite dalla direzione del carcere che ha impedito loro di fare telefonate ai loro parenti. Yemen sud-occidentale. Le persone sono intrappolate dalle mine La Stampa, 15 gennaio 2019 Medici Senza Frontiere (Msf), che all’ospedale nella città di Mocha cura i pazienti di guerra o feriti dalle mine - un terzo dei quali sono bambini - chiede alle autorità e alle organizzazioni specializzate di accelerare lo sminamento delle aree civili per ridurre il numero di persone uccise o ferite dagli ordigni esplosivi. “Le organizzazioni specializzate per lo sminamento e le autorità devono intensificare i loro sforzi nella regione al fine di ridurre il numero delle vittime” afferma Claire Ha-Duong, capomissione di MSF in Yemen. Secondo il Centro di azione sulle mine dello Yemen, 300.000 mine sono state disinnescate dall’esercito yemenita tra il 2016 e il 2018. Gestito quasi esclusivamente dai militari, lo sminamento si concentra però su strade e infrastrutture strategiche, con scarsa attenzione alle aree civili. Oltre a sminare le aree strategiche dal punto di vista militare, occorre eliminare con urgenza tutti i tipi di mine e ordigni esplosivi dai luoghi abitati e dai terreni agricoli in modo che le persone possano tornare a vivere e lavorare nei campi in sicurezza. All’ospedale chirurgico da campo di MSF a Mocha, a 180 km a sud di Hodeidah nel Governatorato di Taiz, unica struttura nell’area a fornire cure di emergenza, non c’è giorno che non arrivi un ferito di guerra. Tra agosto e dicembre 2018 MSF ha ammesso e trattato più di 150 i pazienti vittime di mine e ordigni esplosivi improvvisati o inesplosi. Un terzo di loro sono bambini, colpiti mentre giocavano nei campi e il cui futuro ora è incerto a causa delle gravi conseguenze che questi incidenti avranno sull’intero corso della loro vita. “La costa tra Hodeidah e Aden è una zona rurale molto povera. Non solo le persone non hanno i mezzi per accedere alle cure, ma al di là del nostro ospedale non hanno un posto dove andare se hanno bisogno di un intervento chirurgico” racconta Husni Abdallah, infermiere di MSF. “Stiamo parlando di feriti di guerra che muoiono perché non riescono a raggiungere Mocha in tempo, ma anche donne incinte che perdono la vita durante il parto per mancanza di cure appropriate. Le mine poi causano problemi particolarmente gravi: vediamo fratture complesse, difficili da operare e che spesso richiedono amputazioni e lunghi mesi di riabilitazione”. Le mine stanno creando generazioni di persone mutilate e avranno un impatto di lungo periodo sulla vita dei singoli e sull’intera società, perché i sopravvissuti saranno persone potenzialmente più dipendenti dagli altri e più isolate socialmente. Nelle zone agricole, l’abbandono dei campi a causa delle mine ha un impatto economico molto pesante sulle famiglie che vivono di agricoltura. La popolazione del distretto di Mawza, a 45 minuti di macchina da Mocha, si è letteralmente dimezzata, perché la popolazione è fuggita a causa dei combattimenti. Come in altre località della zona dei combattimenti, i campi sono stati prima abbandonati, poi minati per impedire l’avanzata delle truppe militari. “Le persone qui vengono punite due volte: da un lato i bambini saltano sulle mine, dall’altro è impossibile coltivare i campi, e le famiglie vengono private della loro unica fonte di reddito” dichiara HaDuong di MSF. Arabia Saudita. Il dramma dei Rohingya espulsi: “prima ci hanno sfruttati e poi cacciati” di Stefano Vecchia Avvenire, 15 gennaio 2019 Non c’è pace per i Rohingya, la cui condizione apolide li espone a rischi altissimi, dalla tratta all’espulsione, anche quando cercano di trovare sicurezza e ospitalità in Paesi di fede islamica. Dei Rohingya, per decenni appena tollerati in Myanmar dove non hanno mai avuto diritto di cittadinanza e dove sono stati sottoposti a ondate persecutorie fino a quella forse definitiva, con caratteristiche di genocidio, iniziata a fine agosto 2017, pochi ormai restano nel Paese. Altri due milioni vivono in altri Paesi. Un milione in Bangladesh, confinante con lo Stato birmano settentrionale del Rakhine, il resto in una ventina di Paesi tra cui India, Indonesia, Malaysia, Nepal, Pakistan, Tailandia. Mezzo milione in Arabia Saudita, in maggioranza accolti durante la persecuzione dell’inizio degli anni Novanta, perlopiù integrati, in molti casi con la concessione della cittadinanza. Diversa è la sorte di quanti hanno tentato di raggiungere illegalmente dal 2012 il Regno saudita e che vivono nella clandestinità o rinchiusi in centri di detenzione per essere poi espulsi verso i Paesi di ultima provenienza o quelli di cui hanno un passaporto falso. Sono 32mila quelli rinchiusi nel centro di Shumaisi, a Gedda, non solo Rohingya. Tra essi anche donne e bambini. La loro sorte - un “volto” dell’immensa tragedia dei Rohingya finora ignorata - è emersa in un servizio pubblicato il 6 gennaio dal sito d’informazione Middle East Eye, che ha anche reso disponibile il video girato da un Rohingya mentre era in corso la sua espulsione attraverso l’aeroporto di Gedda (il video è visionabile dal sito web di Avvenire). Nella ripresa, mentre le immagini mostrano decine di Rohingya in fila, in attesa di imbarcarsi su un volo per il Bangladesh, una voce maschile dichiara che “l’Arabia Saudita è un Paese musulmano, ma non ha nessuna pietà”. “Quando sei qui ti vogliono solo sfruttare per riempirsi le tasche - racconto l’uomo. Sono qui per farvi sapere che, dopo essere stato in un centro di detenzione saudita per cinque anni in condizioni terribili, ora mi vogliono rispedire in Bangladesh”. “Le nostre autorità e rappresentanti in Arabia Saudita non hanno fatto nulla per impedirlo”, aggiunge un altro profugo, ripreso con le manette ai polsi. Gli espulsi sono stati rastrellati nella notte, senza preavviso. “Sto girando questo video in aeroporto”, si sente ancora. “Dopo che nel 2012 siamo scampati ad un genocidio (...) oggi l’Arabia Saudita, un Paese musulmano, ci dice di tornarcene da dove siamo venuti”. Purtroppo, i Rohingya non hanno alcun luogo che possano definire come “casa”, se non le aree del Myanmar da cui sono stati costretti a fuggire dalle operazioni dei militari e paramilitari sostenuti dalla popolazione buddhista locale. Il Bangladesh ha fornito un sostengo umanitario essenziale ma trova crescenti difficoltà nel garantire ai profughi il necessario in termini materiali e si sicurezza. Un accordo per il rimpatrio negoziato con il governo birmano resta al momento sospeso e le porte dell’accoglienza altrove sono praticamente chiuse. Non meraviglia quindi che all’arrivo nella capitale bengalese Dacca, tredici profughi siano stati arrestati con l’accusa di aver utilizzato documenti falsi per entrare in Arabia Saudita. Un modo forse per disincentivare altri a tentare la stessa strada.