Buttare via la chiave o buttare via il carcere? di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 14 gennaio 2019 Buttare via la chiave. Ormai una frase fatta, che ascoltiamo spesso perché l’ossessione punitiva dilaga. Una frase pronunciata spensieratamente, salvo considerare che l’ossessione potrebbe colpire anche te, o portare in galera un parente, un figlio, un amico. Qualche sera fa, nella rotonda di San Vittore, se n’è discusso a lungo. Il tema, un po’ più problematico, era: “Buttare via la chiave o buttare via il carcere?”. Un dibattito della rassegna “Ti porto in prigione”, che fino al 20 organizza numerosi incontri fra la Triennale - dove è aperta una mostra fotografica sul reparto La Nave - e appunto l’istituto di pena San Vittore. Pubblico misto, l’altra sera: detenuti e gente di fuori. E ha fatto un certo effetto sentir dire, in avvio della discussione, che “il carcere così com’è non è solo inutile, ma anche dannoso”. Soprattutto perché a dirlo era Gherardo Colombo. Uno che ha fatto il magistrato (prima giudice istruttore dell’inchiesta sulla Loggia P2, poi pm del pool Mani pulite) per 33 anni, e s’è poi dimesso con 14 anni di anticipo quando, da magistrato di Cassazione, ha capito che non si riconosceva più nel suo ruolo. Di chi esercita l’azione penale, manda in galera le persone, chiede e ottiene condanne. Da allora frequenta le carceri (oltre che le scuole) come volontario, cercando di diffondere il rispetto della legalità. E non la pensa diversamente Luigi Pagano, che ha fatto il direttore di carceri per 40 anni, e sostiene che il suo lavoro è una “fatica di Sisifo”, spingi un macigno fino in cima sapendo che rotolerà a valle. Il carcere, in Italia, è disumano (lo dice anche la Corte dei diritti dell’uomo) e anticostituzionale, perché non rieduca. Oltre che inutile. Mai dire mai: ergastolo per nessuno di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2019 “La giustizia non è fatta dal “… ti punisco”, è fatta dal “ti riporto insieme con noi…”. (Agnese Moro). Premetto che non c’è prezzo, né pena, e mai ce ne potrà essere, che possa ripagare i parenti delle vittime di un reato, non a caso alcuni filosofi dicono che la migliore vendetta è il perdono. Sono fortemente convinto che uno dei maggiori valori dell’umanità sia il perdono. Infatti, che soddisfazione potrà mia avere una persona a cui hanno ucciso il padre in una rapina, sapere che il suo assassino deve stare chiuso in una cella 20, 30 anni o per sempre? Questa non è giustizia, è solo vendetta e la vendetta lascia solo uno strano sapore amaro in bocca. E questo lo dico per esperienza. La migliore vendetta per un figlio a cui hanno ucciso il padre sarebbe pretendere che la società o lo Stato cambi, migliori ed inserisca nella società, la persona che ha sbagliato. Sì, è vero, la mia è utopia, ma l’utopia è il motore del mondo. Cent’anni fa andare sulla luna era un’utopia, io ora sono convinto che il carcere non sia necessario: il carcere non è la medicina, il carcere è il male e pure il carcere migliore è sempre un luogo di ingiustizia e sofferenza. È improbabile che le persone diventino buone chiuse in una gabbia. La certezza della pena potrebbe essere anche di fare scontare la pena fuori dal carcere. La società non è più tutelata se si mettono fuori le persone a fine pena, perché il carcere, nella maggioranza dei casi, crea dei mostri o degli emarginati. Una società è giusta se, prima di pretendere che non ci siano reati, pretende che non ci siano luoghi di sofferenza e d’ingiustizia. Io credo che l’inferno non sia un luogo giusto, né di qua, né nell’aldilà, per questo penso che Dio all’inferno non ci mandi nessuno. Penso che se qualcuno desidera che una persona stia dentro tutta la vita il suo desiderio di giustizia si trasforma in vendetta. La pena per essere giusta deve pensare al futuro e non al passato, l’ergastolo invece guarda sempre indietro e mai avanti. La pena per essere capita, compresa ed accettata deve avere una fine, una pena che non finisce mai non può essere capita, compresa ed accettata. Credo che neppure Abele avrebbe voluto l’ergastolo per Caino, altrimenti Abele sarebbe diventato come Caino, come sta accadendo in questo periodo, che i “buoni” stanno diventando peggio dei cattivi e la cosa più brutta è che lo stanno diventando in nome della giustizia. Una sentenza drogata del Tribunale di Firenze di Franco Corleone L’Espresso, 14 gennaio 2019 Nell’ottobre del 2014 una detenuta nel carcere di Sollicciano morì per overdose e ora il Tribunale civile di Firenze ha condannato l’Amministrazione Penitenziaria a un risarcimento di 675.000 euro alla famiglia (genitori, figli e fratelli). Una buona notizia? Certamente viene affermata la responsabilità dello Stato per la vita delle persone private della libertà e questo è un principio fondamentale che i Garanti dei diritti dei detenuti hanno sempre affermato. Così questa decisione dovrebbe essere ribadita in tutti i casi di morte “naturale” e soprattutto nei casi di suicidio. Quello che non va è la motivazione della sentenza del giudice Massimo Donnarumma che contesta una condotta omissiva da parte del carcere di Sollicciano “per non aver adottato misure idonee a controllare e evitare l’ingresso degli stupefacenti nella struttura carceraria”. L’intera argomentazione del giudice è inaccettabile. Si prefigura il carcere come un luogo inaccessibile, chiuso alle relazioni esterne con un sistema di controllo simile a quello del regime del 41bis per persone che non dovrebbero stare in carcere. Il sogno del giudice è un panottico occhiuto in cui i detenuti siano chiusi in cella per 24 ore al giorno, senza godere dei colloqui, senza frequentare la scuola, soprattutto senza permessi. Una prigione contro la Costituzione, dunque. Sulla questione del rapporto droghe e carcere vi sono proposte e riflessioni che il dr. Donnarumma probabilmente non conosce ma che aiuterebbero a essere meno superficiali e meno assertori della via puramente repressiva. Anche in carcere deve entrare la pratica e gli strumenti della riduzione del danno come chiede l’Oms, a partire dalle siringhe ai profilattici. Il servizio sanitario deve essere fornito di strumenti salvavita, in primo luogo il naloxone. Questo pone in evidenza il ruolo del servizio sanitario pubblico che non deve essere subalterno alle ragioni della sicurezza. Può darsi che la motivazione sia dettata da buone intenzioni o determinata dal senso comune. Il rischio di questa decisione, giusta e sbagliata insieme, è che induca l’Amministrazione penitenziaria sulla difensiva e ad attuare misure contro i diritti fondamentali delle persone recluse. La bandiera della riforma del carcere e il rifiuto di un puro contenitore della marginalità sociale e dei soggetti deboli deve essere alzata con intransigenza. Bonafede: “La pianta organica dei tribunali sarà completata nel 2019” giornalelavoce.it, 14 gennaio 2019 “Ci sono 360 magistrati che provengono da concorsi e che andranno a lavorare nei tribunali, oltre a 320 che deriveranno da concorsi pendenti. Questo porterà alla saturazione, cioè tutti i posti delle piante organiche saranno riempiti al 100% nello spazio di pochissimo tempo, tutto nel 2019”. Lo ha riferito il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede intervenendo alla puntata dedicata ai “Palazzi di giustizia” di Presa Diretta, che andrà in onda domani su Rai3 alle 21.20. In più, ha aggiunto il titolare di Via Arenula, “abbiamo deciso di aumentare la dotazione organica, oltre alla saturazione, di 600 posti per i magistrati. Questa è una cosa, ci tengo a dirlo, che non era mai stata fatta”. I soldi, ha riferito il ministro nell’intervista “ci sono e sono già stanziati. In tutto abbiamo stanziato per la giustizia poco più di 500 milioni di euro, una somma enorme. L’ultimo ampliamento di pianta organica risaliva all’inizio degli anni novanta ed era di 400 magistrati, noi aumentiamo di 600. Ci sono 3 mila unità di personale amministrativo in più”. E per quanto riguarda il blocco del turnover ha precisato che “sulla giustizia è stata prevista una deroga e si potrà procedere con mille assunzioni anche prima dello sblocco di novembre”. Legittima difesa. Pene certe e giustizia veloce, non far west di Tommaso De Beni vvox.it, 14 gennaio 2019 La legge caldeggiata da Salvini non é la soluzione migliore. Perché quando c’é un morto il processo s’ha da fare. In tempi recenti ha fatto il giro d’Italia l’immagine del carabiniere aggredito a Roma da alcuni “tifosi” della Lazio dopo la partita di coppa con l’Eintracht. Il militare si è messo in mezzo a una missione punitiva difendendo un tifoso tedesco e prendendosi così insulti e bottigliate in testa. Tutti, anche lo stesso ministro dell’Interno Matteo Salvini, hanno difeso il carabiniere e condannato l’aggressione. Da notare però che il suo merito è stato proprio quello di aver mantenuto il sangue freddo: lui, autorità costituita di fronte a un’evidente minaccia, ha evitato di sparare e per questo è stato elogiato. Un normale cittadino invece, tra qualche tempo, di fronte a una situazione anche meno pericolosa, potrebbe sparare ed evitare conseguenze in nome della legittima difesa. Questo se anche la Camera farà passare senza modifiche il testo della Lega. Un conto sono le istituzioni vicine alla gente, un conto è uno Stato che si defila (dopo essere stati “imprenditori di noi stessi”, ora dovremmo essere anche poliziotti, avvocati, medici, di noi stessi?). Quello che preoccupa veramente della nuova legge è la non punibilità in caso di “stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”, la quale aggiunge che “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. Se i concetti di “grave turbamento” e di “altri mezzi di coazione fisica” sono stabiliti in maniera arbitraria, il rischio far west è dietro l’angolo. Torna alla mente per esempio l’assurdo caso di Luciano Re Cecconi, centrocampista della Lazio che avrebbe compiuto 70 anni lo scorso 1 dicembre e che invece fu ucciso a 28 anni da un gioielliere. Il calciatore entrò nel suo negozio assieme a due amici, i quali conoscevano il titolare, Bruno Tabocchini, che all’improvviso esplose un colpo di pistola colpendo il calciatore in pieno petto e uccidendolo. Tabocchini, che aveva da poco subito un furto, disse che Re Cecconi era entrato dicendo “fermi tutti, questa è una rapina” e mimando il gesto della pistola. I testimoni avrebbero poi smentito questa versione, inoltre pare che Tabocchini fosse stato perfettamente in grado di identificare le persone entrate in negozio, anche perché Re Cecconi era un calciatore famoso. Il gioielliere fu poi assolto perché si ritenne che avesse agito per legittima difesa. A 40 anni di distanza la vicenda presenta ancora molti lati oscuri. Ora, è comprensibile che lo Stato non voglia dare l’impressione di accanirsi contro chi subisce le rapine: nella nuova norma infatti è giustamente eliminata la possibilità di risarcimento ai ladri o ai loro familiari. Ma quando c’è un morto non si può pretendere di evitare un processo che accerti i fatti. Piuttosto si può evitare di far pagare le spese processuali al rapinato e soprattutto si devono accelerare i tempi della giustizia e assicurare pene certe per i ladri. Nella maggior parte dei casi di furto i rapinatori sono seriali, quindi andrebbero bloccati prima di dover costringere i cittadini a difendersi da soli. Con la nuova legge invece sembra che si dica ai cittadini: “armatevi e fatevi giustizia da soli, lo Stato vi lascerà fare”. Legittima difesa: una legge pericolosa e oltre i limiti costituzionali di Chiara Liberati* medium.com, 14 gennaio 2019 Entro febbraio potrebbe essere approvata la proposta della Lega per un allargamento del regime della legittima difesa. Sarà sempre possibile sparare se si subisce un’irruzione in casa o in negozio, senza nessuna necessaria proporzionalità tra offesa e difesa. Si limiterà anche la possibilità del giudice di decidere se c’è stato un eccesso o meno nell’utilizzo di armi. Una riforma sganciata dalla situazione reale e che, per solo scopo propagandistico, rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di tutti. La legittima difesa, già inserita all’interno del codice penale Zanardelli del 1889, è una causa di giustificazione pensata da sempre come ipotesi scriminante ogniqualvolta fosse a rischio la vita o l’incolumità della persona. In epoca fascista, con l’entrata in vigore del Codice Rocco nel 1930, questa venne codificata all’articolo 52 che nella formulazione originaria stabiliva che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Dunque forte era il richiamo voluto dal legislatore dell’epoca fascista al principio di proporzionalità a garanzia della coerenza e della ragionevolezza del sistema. Con la destra al Governo, su proposta della Lega, il 13 febbraio 2006 (Legge 59), l’articolo 52 fu sottoposto a modifica con una riforma che, sin da allora, rispondeva ad esigenze di tipo elettoralistiche. Si era infatti a poche settimane dalle elezioni politiche, poi perse dal centrodestra. Per ampliare la definizione di reazione legittima vennero aggiunti all’articolo due commi che prevedevano una proporzionalità anche nei casi in cui la difesa fosse avvenuta conseguentemente a una violazione del domicilio o dei luoghi in cui si esercitano attività commerciali, professionali o imprenditoriali, consentendo in questi casi l’uso di un’arma legittimamente detenuta. Venne così introdotta la legittima difesa speciale o domiciliare. Nonostante questa modifica, che sembrava placare l’animo turbolento dei partiti, la legittima difesa non ha mai smesso di agitare il sonno delle forze politiche, Lega su tutte che, tornata al Governo nel giugno scorso, ha fin da subito promosso una ulteriore modifica ampliativa alla legittima difesa domiciliare. Il contratto di Governo sottoscritto dal partito del ministro Salvini e dal Movimento 5 stelle contiene infatti al suo interno la modifica della legittima difesa, “in considerazione del principio dell’inviolabilità della proprietà privata, si prevede la riforma ed estensione della legittima difesa domiciliare, eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa) che pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione nella propria abitazione e nel proprio luogo di lavoro”. Ciò che si prevede è quindi l’eliminazione del requisito della proporzionalità tra difesa e offesa, con conseguente ostacolo alla discrezionalità del giudice, ed il rischio di incentivare la difesa privata e l’uso delle armi anche là dove non ce ne fosse alcun bisogno. Una eliminazione che ha preoccupato giuristi, giudici, avvocati, questa volta tutti d’accordo nel ritenerla una riforma palesemente irragionevole. Tra loro Francesco Minisci, presidente dell’associazione nazionale magistrati (Anm) che, in audizione in commissione Giustizia alla Camera, ha ribadito come le modifiche dell’articolo 52 comporterebbero dei “rischi e pericoli” aggiungendo che “non si può abbandonare il principio di proporzionalità. Senza quest’ultimo?—?ha sottolineato Minisci?—?il rischio è quello di legittimare reati più gravi come l’omicidio”. Una proposta dunque che, come quella del 2006, ha uno scopo prettamente elettorale, visto l’avvicinarsi delle elezioni europee. Una proposta sganciata da bisogni reali di giustizia. Questo ci dicono i dati. Secondo le rilevazioni del Ministero della Giustizia il numero relativo ai procedimenti penali aventi ad oggetto la legittima difesa sono molto bassi: ad esempio nel 2016 si sono registrati solo 2 procedimenti per violazione dell’articolo 52. Dunque una emergenza inventata di sana pianta. Si sfruttano pochi casi di cronaca senza attenzione al dato criminale e statistico. Questa è la ricetta populistica classica. E senza preoccuparsi dei dati Istat, i quali evidenziano come in Italia vi sia una situazione generale di sicurezza che non giustifica una riforma del codice penale: ad esempio non si riscontra una recrudescenza di reati contro il patrimonio violenti. Sono in diminuzione omicidi, rapine e furti, che si sono ridotti in modo notevole, rispettivamente del 43,9%, del 37,6% e del 13,9% negli ultimi anni. Il programma di governo sembra fare dunque gioco sulle paure dei cittadini e si propone così di riscrivere l’articolo 52 del codice penale per trasformare la legittima difesa in un diritto di difesa svincolato dai limiti Costituzionali, rendendo quest’articolo quasi paragonabile ad una licenza per uccidere in nome dell’autotutela. Una riforma che potrebbe favorire la diffusione e l’uso di armi da fuoco come strumenti per difendersi in caso di violazioni di domicilio. Come evidenziato dall’Associazione italiana dei professori di Diritto penale (Aipdp), “questa riforma ci farebbe passare dal “diritto di legittima difesa” al “diritto di difesa”, e soprattutto di difesa con le armi”. Secondo l’attuale disciplina il soggetto vittima dell’aggressione è autorizzato a difendersi, anche con un’arma legittimamente detenuta, “sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Con le modifiche che si vogliono apportare al testo in vigore, ad essere messo in discussione è l’eccesso di legittima difesa, che andrebbe sempre ad escludersi nei casi in cui vi sia un’intrusione nella propria abitazione o nel proprio luogo di lavoro. Obiettivo della proposta sembra essere quello di rafforzare le tutele per coloro che reagiscono ad una violazione del domicilio, considerando “sempre” esistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa ed eliminando il giudizio di discrezionalità del giudice in materia. La proposta di legge andrebbe dunque a sottrarre al giudice la possibilità di valutare se si sia o meno trattato di un eccesso di legittima difesa, ovvero se sparare e uccidere qualcuno fosse stato realmente necessario per difendere la propria incolumità e i propri beni. Con questa nuova disposizione di fatto si potrebbe autorizzare a sparare sempre, anche nel caso in cui la persona che viola il proprio domicilio sia disarmata. Tuttavia va precisato che pur limitando questa discrezionalità del giudice, nessuna legge potrà impedire l’obbligatorietà dell’azione penale che scatta nei casi di omicidio o di ferimento dovuti a colpi di arma da fuoco. La verifica sulle reali intenzioni dell’aggredito sarà sempre necessaria e inevitabile sarà quindi l’iscrizione nel registro degli indagati. Questo ancor di più per gli effetti collaterali che potrebbe avere questa legge. A sottolineare la necessità del verificarsi di una serie di accertamenti è anche il presidente di Anm, che ha affermato che “non può bastare la parola dell’aggredito per evitare che inizi un procedimento penale”. Delegare la possibilità di difesa ai privati cittadini anziché alle forze dell’ordine potrebbe certamente provocare un aumento del “fuoco amico”. L’esempio di quanto accaduto al calciatore della Lazio Re Cecconi, ucciso da un suo amico gioielliere mentre stava inscenando una finta rapina, dovrebbe fare da monito. Laddove la percezione di insicurezza dovesse incontrare la disponibilità di un’arma da fuoco, gli effetti collaterali possono essere tragici, anche di fronte a chi scavalcasse una recinzione per recuperare un pallone. Un pericolo ancor maggiore di fronte ad una totale inesperienza e ad una mancanza di addestramento nell’usare un’arma e nel sapere come e quando usarla. Ma tra gli effetti indiretti della riforma ci potrebbe essere certamente il diffondersi di armi da fuoco (cosa questa che sta già avvenendo con un aumento del 13,8% delle licenze per porto d’armi in un solo anno) che, benché detenute per scopo di difesa privata, possono trasformarsi in strumenti di offesa, in particolare in quei contesti familiari dove negli ultimi anni sono avvenuti quasi un terzo degli omicidi denunciati in Italia. Più armi in circolazione potrebbero dunque avere come conseguenza diretta un improprio uso dell’arma stessa, rendendo così non solo la società più insicura e portando ad un aumento dei tassi di omicidi e di suicidi. Il Ministro degli Interni, Matteo Salvini, con la presente proposta di legge sembra ispirarsi ad una normativa paragonabile a quella in vigore negli Stati Uniti, che offre un modello dove la sicurezza è molto meno garantita che in Italia. Negli Usa la possibilità di detenere armi ha portato ad un incremento di coloro che utilizzano una difesa armata, con un tasso di omicidi di molto superiore rispetto a quello italiano. Secondo i dati sulla diffusione, negli Stati Uniti circolano mediamente 88.8 armi ogni 100 abitanti, mentre in Italia questo numero scende a 11,9 armi ogni 100 abitanti. In America questa presenza diffusa di armi da fuoco si traduce in 2,97% omicidi ogni 100 abitanti che queste producono. In Italia i morti sono lo 0,71% ogni 100.000 cittadini, che è comunque il tasso più alto d’Europa. È quindi di fondamentale importanza ribadire come in questa fase sarebbe importante controllare il fenomeno legato alla diffusione di armi, non soffiando sul fuoco di un’insicurezza percepita che è del tutto opposta alla sicurezza reale su cui le persone possono contare nel nostro paese. *Associazione Antigone Giustizia lenta, “effetti negativi” per il 65% delle piccole imprese di Diodato Pirone Il Messaggero, 14 gennaio 2019 Secondo gli imprenditori italiani il nostro sistema giudiziario ha effetti negativi sul 65% delle piccole imprese e sul 53% delle grandi aziende. È il dato più interessante del sondaggio SWG effettuato fra il 7 e il 10 gennaio intervistando 1.000 imprenditori italiani. I quali riconoscono “effetti positivi” del sistema giudiziario solo nel 9% dei casi. Dal sondaggio emerge che il cattivo funzionamento dei processi e gli inceppamenti che spesso caratterizzano i complessi meccanismi della macchina della giustizia secondo due imprenditori su tre (il 67% per l’esattezza) colpiscono sia i cittadini che le imprese. Solo il 13% sostiene che le imprese subiscano le inefficiente più marcate. Per gli imprenditori i processi in Italia durano mediamente 883 giorni e 1’85% di loro ha la sensazione che le lungaggini giudiziarie italiane abbiano una durata “molto più” o “più” lunga rispetto a quelle che vengono affrontate negli altri paesi europei. Tutto questo ha un prezzo pesante. L’opinione degli imprenditori raccolta dagli analisti della SWG è nettissima: il 93% sostiene che l’inefficienza della macchina giudiziaria italiana pesa “molto” o “abbastanza” sull’economia e il 53% la lentezza della giustizia ha o ha avuto un peso negativo rilevante (nel 16% dei casi “molto rilavante”) nella propria azienda. Nell’opinione degli interrogati le cause dei guai del sistema giudiziario vanno ricercate al 73% nella “carenze del sistema e delle normative” mentre per il 21% nell’“alto tasso di litigiosità che esiste in Italia”. Molto netta anche l’opinione su uno dei temi più dibattuti della giustizia italiana: le differenze nell’applicazione delle leggi. Per il 50% del campione il nodo sta nell’eccesso di discrezionalità dei giudici e per il 26% nella “cattiva qualità del dettato legislativo”. Alla domanda sulle limitazioni di investimenti all’estero causate dall’inefficienza della giustizia 1’86% risponde positivamente, mentre il 73% degli imprenditori sottolinea con un “poco” o “per niente” che la macchina della giustizia non tiene conto dei cambiamenti economici in atto. In questo contesto riserva qualche sorpresa il fatto che “solo” il 52% degli imprenditori auditi da SWG dica di non avere fiducia nella magistratura. Ne ha invece “molta o abbastanza” il 45% del campione. La stessa domanda ma sul “sistema giudiziario nel suo complesso” ottiene risposte diverse, con il 62% che opta per il pollice verso e solo il 37% che mostra una quota di fiducia. Sul tema domani alle 19.30 presso La Lanterna in via Tomacelli a Roma si terrà un convegno dell’associazione “Fino a prova contraria” dedicato a “Una nuova giustizia”. Parteciperanno tra gli altri Giuliano Amato, David Ermini, Nicola Gratteri, Carlo Nordio, Gianni Letta, Paola Severino. Saranno presenti anche Elisabetta Casellati e Matteo Salvini. Vietato maltrattare oggetti antichi. Così il collezionismo diventa reato di Francesco Grignetti La Stampa, 14 gennaio 2019 Con le nuove norme, chi rende inservibili beni culturali propri o altrui, rischia il carcere. Silenzioso, ma implacabile, quasi per forza d’inerzia, sta per diventare legge un vecchio ddl Orlando-Franceschini che questo Parlamento ha ereditato dalla scorsa legislatura, e su cui il Pd sta investendo molto, con il quale si innalzano le pene e s’istituiscono nuovi reati collegati ai beni culturali. Ci saranno pene draconiane e reati inediti, tipo il “possesso ingiustificato di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli”. Comprare un metal detector da spiaggia, sarà un reato punibile con 2 anni di carcere. Anche il semplice collezionista dovrà stare molto attento. Sarà reato se il suo bene culturale dovesse deteriorarsi o distruggersi per incuria. Reato grave anche la vendita qualora non sia rispettata una notifica del ministero dei Beni culturali. Peggio ancora, la vendita all’estero. Inevitabili le ripercussioni anche sul mondo di antiquari e case d’asta. Se infatti è più che comprensibile che si perseguitino i tombaroli di casa nostra, chi traffica in reperti dal Medio Oriente in combutta con i terroristi dell’Isis, o i predoni dell’arte che smerciano opere rubate nelle chiese, la legge in arrivo - approvata alla Camera il 22 ottobre scorso, ora all’esame del Senato - ha messo in eccezionale allarme il mondo dei commercianti d’arte. Temono di finire tutti sotto processo. Già, perché la legge ha un difetto d’origine: nello stabilire che il codice penale dovrà adeguarsi ai “delitti contro il patrimonio culturale”, non precisa che cosa sia esattamente un bene culturale. Le pene in arrivo sono pesanti: da 3 a 6 anni per il furto di beni culturali, da 4 a 10 anni a chi ne fa ricettazione, da 5 a 14 anni a chi ne fa riciclaggio, da 6 mesi a 2 anni a chi commette violazioni in materia di alienazioni, e così via. Fino alla reclusione da 2 a 5 anni per chi “distrugge, disperde, deteriora, o rende inservibili o non fruibili beni culturali propri o altrui”. Ebbene, che cosa è un bene culturale? La legge non lo dice. Si rinvia a un decreto legislativo del 2004, il Codice dei beni culturali e del paesaggio, emendato diverse volte nel tempo, che dà una interpretazione assai vaga e onnicomprensiva. Sostanzialmente, oltre i reperti di preistoria e paleontologia, e la numismatica rara, sono da considerare beni culturali (e quindi rientrano nei delitti di cui si parla) “i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio”. Ovvero, sono bene culturale protetto dalla legge le opere con almeno 70 anni di storia. Nella discussione alla Camera si è vista una eccezionale convergenza al di là degli schieramenti. Molti hanno ricordato il caso dei tifosi olandesi che avevano danneggiato la Barcaccia del Bernini e che non avevano subìto neppure un processo in Italia. Ecco, con i nuovi reati in arrivo, spiegava l’onorevole Luca Paolini, Lega: “Anche avessero pagato in base alle normative vigenti, avrebbero rischiato la bellezza di fino a 1 anno di reclusione per danneggiamento e un’ammenda non inferiore a 2.065 euro. Con la normativa che andiamo ad approvare gli anni di galera diventano da 2 a 5 e per avere eventualmente la sospensione condizionale della pena, dovranno prima riparare il danno”. Ma se è perfino ovvio difendere con il codice penale il capolavoro di Bernini come un “bene culturale”, è normale imporre un’uguale pena a chi abbia in casa un quadro dell’Ottocento e ne causi il deterioramento per incuria? Nel coro favorevole alla nuova legge, si è sentita solitaria la voce contraria di Francesco Paolo Sisto, Forza Italia: “Quando andremo nella pratica ad applicare questa normativa - ha detto, da avvocato prima che da onorevole - saranno i cittadini a pagare questa incompetenza”. E chi di mestiere commercia oggetti di collezione è ricorso a Carlo Giovanardi, l’ex senatore noto nell’ambiente come collezionista di francobolli. “Potenziali vittime di queste norme - dice - saranno milioni di cittadini che posseggono un bene culturale. Collezionisti, operatori nel settore e case d’asta si troveranno in una situazione tale da paralizzare ogni attività. Auspico che si facciano audizioni per capire gli effetti perversi della legge”. Finita in Bolivia la fuga di Battisti. Conte: “Oggi arriverà in Italia” di Francesco Grignetti La Stampa, 14 gennaio 2019 L’ex terrorista era fuggito dal Brasile dopo l’intenzione del presidente Bolsonaro di estradarlo. Santa Cruz de La Sierra, Bolivia. Un uomo con pizzetto e occhiali neri cammina spedito tra i negozi. È Cesare Battisti, classe 1954, un terrorista italiano che in Italia dovrebbe scontare l’ergastolo e che invece è latitante dal 1981. Lo acciuffano uomini della polizia speciale boliviana, ma ci sono funzionari italiani che vigilano. L’arresto di Battisti è un successo investigativo italiano, dell’Antiterrorismo di casa nostra. Battisti infatti era uno dei ricercati “most wanted” e da quando il Brasile era diventato terra non più ospitale - con l’elezione del presidente di destra Jair Bolsonaro - l’uomo era scappato in Bolivia dove il 18 dicembre aveva presentato richiesta di asilo. Non ha avuto risposta. Appena arrestato Battisti, si apre un caso procedural-diplomatico. L’Italia lo vuole subito, senza se e senza ma, e il governo invia un aereo. Anche il Brasile, però, (non va dimenticato che Battisti ha la doppia cittadinanza) lo rivendica, non fosse altro perché Bolsonaro vuole giocare il successo sul piano interno, far vedere che “la musica è cambiata” e poi offrire lui il gradito regalo al governo del suo amico Matteo Salvini. Con il passaggio per il Brasile, però, si rischiano tempi lunghi e esiti incerti. In Italia si irrigidiscono, anche se nessuno vuole apparire scortese nei confronti di Bolsonaro. È una gaffe di un ministro brasiliano, alla fine, a risolvere il tutto: annuncia anzitempo che Battisti andrà da loro e che quanto prima un secondo aereo, brasiliano, andrà a prenderlo. Irritazione della Bolivia. E decisione finale di darlo all’Italia attraverso la procedura di una semplice espulsione, per via amministrativa, che evita ogni lungaggine. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro sottolinea che “abbiamo deciso di aiutare l’Italia sul caso del terrorista Cesare Battisti. Il Brasile non sarà più il rifugio di criminali travestiti da prigionieri politici”. Giuseppe Conte, ringrazia e lo annuncia con comunicato ufficiale: “Siamo soddisfatti di questo risultato che il nostro Paese sta aspettando da troppi anni. Ho sentito al telefono il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, che ho voluto ringraziare. E allo stesso modo ringrazio le autorità boliviane”. Oggi Battisti sarà in Italia, il suo aereo è decollato alle 22 e atterrerà alle 12,30. Probabilmente la prima tappa che lo attende è il carcere di Rebibbia, come annuncia il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il più soddisfatto di tutti è Salvini. Da settimane volavano avanti e indietro i suoi messaggi via Twitter con Bolsonaro e figlio. La cattura di Battisti gli era stata promessa. “Non è un prigioniero politico - dice ora - è un infame, un vigliacco, un delinquente che merita di finire i suoi giorni in galera”. E poi la butta in politica: “Certi scrittori, intellettuali e cantanti firmavano appelli per Battisti. Sono orgoglioso di essere nemico di certa gentaglia”. Gli risponde Andrea Orlando, Pd: “Dispiace che una vicenda come questa venga usata per aprire qualche stupida polemica: in momenti come questo è importante tutelare l’unità e l’orgoglio nazionale”. L’inesorabile giustizia della democrazia, si archivia una pagina tragica d’Italia di Gianni Riotta La Stampa, 14 gennaio 2019 In Italia nessuna storia sembra mai finire davvero, conclusa per sempre, nei libri di Storia. Non conosciamo tutti i nomi dei rapitori del presidente Moro, né i luoghi del suo martirio. Mandanti e sicari di piazza Fontana, Ustica, Bologna, sono fantasmi gelidi e troppi latitanti si beffano della giustizia, Delfo Zorzi in Giappone, Alessio Casimirri in Nicaragua. L’arresto in Bolivia e l’estradizione verso l’Italia del terrorista Cesare Battisti, condannato a due ergastoli per gli omicidi commessi con i Proletari armati per il comunismo, dopo decenni di latitanza a Parigi e in Brasile, ci offrono l’opportunità di chiudere, per la legge e nei nostri cuori, almeno una pagina tragica del passato prossimo. Il volto scavato di Alberto Torreggiani, che dal 1979 - aveva 15 anni - vive in sedia a rotelle, ferito dai terroristi Memeo, Grimaldi e Masala nell’agguato che vide ucciso, con un colpo alla nuca, il padre Pierluigi, ieri, per la prima volta, sembrava non soddisfatto di un’inutile vendetta, ma consapevole che in democrazia la giustizia, pur tarda, è inesorabile. A quell’assassinio Cesare Battisti prese parte, secondo la sentenza, come ideatore, condannato a 13 anni e 5 mesi, poi ne ebbe 12 per concorso nell’omicidio del negoziante Lino Sabbadin, con due ergastoli per gli omicidi del maresciallo Antonio Santoro e dell’agente Andrea Campagna, medaglie d’oro alla memoria, di cui è ritenuto, personalmente, il killer. Con saggezza, il presidente Mattarella ha espresso la sua “soddisfazione” per l’arresto di Battisti e auspicato che tutti i terroristi a piede libero paghino per crimini commessi. Intorno a Battisti, un criminale comune che in carcere, dopo rapine e reati commessi durante il servizio militare, aveva scelto il terrorismo, s’era creato invece un clima, snob e torbido, di solidarietà. Autore di romanzi gialli, Battisti si atteggiava a perseguitato dalla repressione, proletario ribelle, rivoluzionario terzomondista, sollevando brividi di entusiasmo negli ultimi caffè parigini e complicità vetero gauchista a Rio. Avventatamente grandi firme, dal filosofo Henri-Levy al Nobel García Márquez, siglavano appelli per lui mentre altri autori, di mediocre talento e perfida fibra morale, impugnavano i social media per aggredire chi chiedeva giustizia. L’avvento alla presidenza in Brasile del politico di destra Jair Bolsonaro ha costretto Battisti a ridarsi alla macchia, ma stavolta gli agenti italiani lo attendevano, al capolinea verso il carcere, in Bolivia. Adesso tutti, governo, opposizione, intellettuali, dovrebbero adottare l’aplomb del presidente Mattarella, senza usare la scia di sangue per meschini regolamenti di conti in un’Italia passata, dal piombo all’odio online. La consegna di Battisti non è “un regalino”, come improvvisamente twitta al ministro Salvini il figlio di Bolsonaro. È la conseguenza del lavoro, durato anni, di magistratura e polizia, con la collaborazione dei nostri diplomatici e leader e il premier Conte ne raccoglie, con giusto vanto, il frutto collettivo. Non è “finita la pacchia” di Battisti, siamo riusciti, come nazione, ad amministrare la giustizia con pazienza, determinazione, tenacia. Strumentalizzare il Battisti in carcere per la fazione di casa, ne sminuisce l’importanza e offende i familiari delle vittime. È invece cruciale, per tutti, chi ha visto il sangue in strada e chi lo studia a scuola, dare del “caso Battisti” un primo passo per comporre la memoria condivisa di quella che il poeta Franco Fortini definì “falsa guerra civile”. In questi anni, dagli alti scranni del Parlamento ai festival culturali, tra tennis, libri e cinema, si incontrano reduci del terrorismo, che mai hanno pagato il prezzo, se non del carcere, almeno della verità. Terroristi condannati espurgano da Google la fedina penale e riappaiono in pubblico come scienziati, romanzieri, manager, sempre zitti sul passato. Abbiamo chiuso, con un tacito patto di mezza omertà, troppi drammi, senza onorare la Storia, senza rispettare la Giustizia. Battisti in Italia permette di scoprirci per una volta uniti, non a caccia di faide ma di rispetto del dolore. Nel bellissimo saggio “Aldo Moro, il Professore” (Lastaría Edizioni) Giorgio Balzoni, che dello statista fu studente prediletto a Giurisprudenza, ricorda un pensiero di Moro, che suona ancora magnifico “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. Proviamoci, c’è ancora tempo. Le domande di Fiammetta Borsellino ancora senza risposta di Ernesto Morici* tempostretto.it, 14 gennaio 2019 Importante, chiarissimo il pensiero del Presidente della Repubblica nel giorno del 26esimo anniversario della strage di via D’Amelio. Onorare la memoria del giudice Borsellino e delle persone che lo scortavano significa anche non smettere di cercare la verità su quella strage. Il 17 luglio del 2018 la lettera pubblicata su Repubblica riportava le 13 domande che Fiammetta Borsellino, con semplicità e fermezza, poneva a tutti. Ad alcuni in particolare, chiamati in causa a ragione di loro conoscenze e/o competenze specifiche. Mi ritengo di parte perché ho avuto modo di conoscere Paolo e so anche cosa significa condividere rischi con le colleghe, i colleghi, le collaboratrici i collaboratori, le donne e gli uomini delle scorte. Tutti quelli che negli anni 80 iniziarono a combattere le mafie con metodi di contrasto nuovi, tutti a Palermo, come a Palmi o a Trapani o a Reggio Calabria e in molti altri centri a notevole densità mafiosa, avevano messo in conto la possibilità di essere uccisi, il dolore e le difficoltà delle famiglie. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare la sorte fin qui toccata ai caduti di via D’Amelio. Intendo sorte “processuale”, per una vicenda costellata di fallimenti ed ancora priva di verità giudiziaria completa. Pensavo che da subito ci potessero essere risposte alle domande di Fiammetta. Sono necessarie anche risposte pubbliche, o quantomeno assicurazioni pubbliche che le risposte saranno fornite all’autorità giudiziaria competente. La verità giudiziaria ha bisogno del processo e la attenderemo. La verità storica appartiene alle famiglie, al Paese, alla memoria di Paolo Borsellino e di Agostino Catalano, di Emanuela Loi, di Vincenzo Li Muli, di Walter Eddie Cosina e di Claudio Traina. Nessuno può tirarsi indietro. Se è vero che vi furono depistaggi di spessore non indifferente che inquinarono il primo processo, è anche vero che rispondere alle domande poste può essere un buon punto di partenza per capire la ragione dei depistaggi. Il disimpegno nel rispondere alle domande sarà colpevole, e sarà anche colpevole il volgere la testa altrove, il considerare le domande come lo sfogo di familiari incapaci di accettare un fallimento giudiziario ed un destino di silenzio a fronte di rituali, di celebrazioni ridondanti di retorica. Che senso ha plaudire al richiamo del Capo dello Stato alla ricerca della verità se poi non seguono comportamenti concludenti? Tutti quelli che ancora ci sono, tutti hanno il dovere di rispondere, magari per dire cose già dette e che possono essere sfuggite al dolore dei familiari, certamente per fugare perplessità e forse, e perché no, per trasformare un errore anche incolpevole e la sua spiegazione in un momento di impulso investigativo nuovo. Per chi ha avuto un ruolo istituzionale è un imperativo morale, a maggior ragione se collega o amico di chi è caduto per tutti noi. Per chi ha oggi un ruolo istituzionale è un dovere intervenire, rimuovendo qualsiasi ostacolo alla ricerca della verità storica. La commissione regionale antimafia della Regione Sicilia è intervenuta. Dai primi riferimenti giornalistici si ha la conferma di un quadro complessivo inquietante. Proviamo dunque a rispondere e solo così potremo presentarci a tutti i prossimi 19 luglio senza vergogna. Proviamo a rispondere a tutte le domande, anche se mi permetto di cambiare l’ordine o di accorparle. La prima riguarda le misure di sicurezza adottate per proteggere Paolo, le donne e gli uomini che con lui condividevano i rischi di quei giorni. Credo che alla Prefettura di Palermo ed alla competente direzione o al competente ufficio centrale del Ministero dell’Interno debba esistere la documentazione inerente la protezione di Paolo. A questa domanda possono rispondere dunque il prefetto di Palermo pro tempore e il ministro per l’Interno pro tempore. E potranno essere anche ascoltati o riascoltati i colleghi dei poliziotti, caduti per riferire tutto ciò che può essere utile per ricostruire quei giorni terribili. Si può rispondere anche alla domanda su quello che può definirsi il primo accesso sui luoghi. Dal verbale di sopralluogo dovrebbero emergere i nomi di coloro che coordinarono il primo accesso. Immagino vi fossero il procuratore di Palermo, aggiunti, sostituti e forse ci sarà stato anche il Procuratore di Caltanissetta. E tra gli intervenuti, i cui nomi dovrebbero emergere dal verbale presente negli atti processuali, alcuni saranno ancora vivi. Rispondano dunque alla domanda. Giuseppe Ayala potrà dare una risposta in relazione alla specificità della domanda di Fiammetta. È stato pm al processo istruito dal pool di Palermo. Ha vissuto una carriera intensa come magistrato e come politico. Altre risposte ci aspettiamo dai componenti della Procura di Caltanissetta. Forse erano giovani e inesperti all’epoca, ma oggi sono certamente in grado di valutare, alla luce dell’esperienza acquisita, eventuali disfunzioni, errori, pressioni, sensazioni. Devono rivisitare il vissuto, ripartire da zero, individuare eventuali errori o escluderli. Il depistaggio fin qui accertato non può essere un alibi che coinvolge la nazione intera. Il ministero della Giustizia è dotato di un Ispettorato composto da magistrati in grado di condurre ispezioni amministrative ed inchieste, nel rispetto dell’autonomia dei giudici con riferimento alle valutazioni di merito. Il ministro della Giustizia pro tempore potrebbe dunque promuovere un’inchiesta per ricostruire con la lettura degli atti e l’audizione dei protagonisti di allora, magistrati, investigatori, cancellieri etc., le condotte poste in essere nel corso delle investigazioni, la loro corrispondenza alle regole processuali ed eventuali condotte inadeguate. Perché non fu sentito Pietro Giammanco sulle circostanze indicate nella domanda specifica? Ci aspettiamo anche di sapere perché non fu convocato Paolo Borsellino che pubblicamente aveva detto di avere cose importanti da riferire. Perché? A questa domanda ciascuno dei componenti di allora delle Procure di Caltanissetta e di Palermo può dare una risposta. Si può pensare che Paolo volesse lanciare un messaggio generale e pubblico al quale fare seguire la sua verità processuale. E si può anche legittimamente pensare che fosse stato costretto a rendere pubblica la sua richiesta perché quella avanzata in forma riservata non era stata accolta. Paolo Borsellino negli anni 90 era un magistrato professionalmente preparato e forgiato alla scuola della legalità e della prova. La sua vita professionale lo testimonia. Era un magistrato maturo, consapevole che al di fuori della prova legittimamente acquisita c’è il nulla, il vuoto processuale, se si vuole l’inutile teorema. Dunque nella richiesta d’essere ascoltato c’era sicuramente la consapevolezza che solo un atto formale, una deposizione verbalizzata poteva dare concretezza processuale ai suoi pensieri. Perché dunque non fu convocato? Possono essere date risposte alle altre domande specifiche rivolte ai magistrati che all’epoca condussero le indagini. Ma anche poliziotti, carabinieri, cancellieri che vissero quegli anni, tutti oggi devono sentire il dovere di una rivisitazione degli eventi. Importante è stato il lavoro della Commissione regionale antimafia della Regione Sicilia. In questo senso un contributo rilevante possono offrirlo anche il presidente del Consiglio e il ministro dell’Interno pro tempore. È in loro potere chiarire se ci sono o se non ci sono atti utili per nuove investigazioni negli archivi del ministero dell’Interno o dei servizi di sicurezza e, nell’ipotesi affermativa, rimuovere eventuali ostacoli alla loro conoscenza pubblica o riservata all’autorità giudiziaria procedente. Offrano con sensibilità istituzionale un ulteriore passaggio importante nella ricerca della verità, nella lotta alla mafia. Fiammetta Borsellino non è sola. I moltissimi giovani che negli anni hanno capito cosa è la mafia e cosa è la vera antimafia saranno sempre con lei. Confrontarsi con il passato è ineludibile. I ruoli istituzionali svolti e quelli in essere impongono doveri istituzionali. Non confrontarsi ha il valore della diserzione. Muovendo dalle risposte alle domande poste potremo muovere passi decisivi verso una verità che i congiunti di Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo, Paolo e Walter e tutti noi attendiamo. Nino Di Matteo, nell’audizione pubblica il 17 settembre davanti alla Commissione del Csm, ha ripercorso alcuni momenti del suo impegno nei vari processi, e pur rappresentando preoccupazioni per possibili strumentalizzazioni delle legittime istanze di verità, ha sostanzialmente indicato con le sue riposte e i suoi chiarimenti la strada che anche altri potranno percorrere per la ricerca della verità. Speriamo che sia pubblicata integralmente sui media la relazione della Commissione regionale antimafia della Regione Sicilia, in modo che diventi patrimonio di conoscenza integrale per tutti. Credo che milioni di Italiani, soprattutto giovani, continueranno ad alimentare in modo sempre più pressante la richiesta di risposte e di verità affinché i prossimi 19 luglio possano essere giorni di resurrezione civile per il paese intero. Non credo ci si possa sottrarre. *Ex magistrato del Tribunale di Messina Resta la responsabilità del datore se il lavoratore usa strumenti impropri e pericolosi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 29 ottobre 2018 n. 49373. In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per escludere la responsabilità del titolare della posizione di garanzia, l’interruzione del nesso di condizionamento, a causa del comportamento imprudente del lavoratore, da solo sufficiente a determinare l’evento, richiede che la condotta del lavoratore si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento, spiegano i giudici della Cassazione con la sentenza 49373/2018, è “interruttivo” non perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare: ciò che peraltro deve escludersi quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità (come nella specie, in cui l’infortunio si era verificato per l’utilizzo di uno strumento di lavoro del tutto improprio e potenzialmente pericoloso). Addebito di responsabilità a carico del datore - È principio consolidato quello secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, l’addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell’infortunio, giacché al datore di lavoro, che è “garante” anche della correttezza dell’agire del lavoratore, è imposto (anche) di esigere da quest’ultimo il rispetto delle regole di cautela (cfr. articolo 18, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81). A tale regola, si fa unica eccezione, in coerente applicazione dei principi in tema di interruzione del nesso causale (articolo 41, comma 2, del codice penale), in presenza di un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile del lavoratore: in tal caso, anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell’evento dannoso, essendo intervenuto un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile (e come tale inevitabile) del lavoratore, finisce con l’essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento dannoso (l’infortunio), che, per l’effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore. Ciò può verificarsi in presenza (solo) di comportamenti “abnormi” del lavoratore, come tali non suscettibili di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. In questa prospettiva, secondo la lettura più recente e accreditata (cfr. anche, in parte motiva, sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhahn e altri), il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere dell’infortunio subito dal lavoratore non solo quando il comportamento di quest’ultimo risulti definibile come “abnorme” e quindi non suscettibile di controllo da parte del titolare della posizione di garanzia (dovendosi considerare abnorme non solo il comportamento posto in essere in una attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, ma anche quello “connesso” con lo svolgimento delle mansioni lavorative, ma consistito in qualcosa di radicalmente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro), ma anche quando il comportamento del lavoratore, pur non abnorme di per sé, risulti “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il titolare della posizione di garanzia è chiamato a “governare”. In termini, di recente, sezione IV, 20 marzo 2018, Bozzi, laddove in una situazione analoga a quella esaminata si è esclusa l’“abnormità” della condotta del lavoratore, perché si versava in un’ipotesi disciplinata dall’articolo 71, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008, che pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di mettere “a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all’articolo 70, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie”. Distinzione tra reato di frode informatica e utilizzo indebito di carte di pagamento Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2019 Reati contro il patrimonio - Reato di frode informatica - Configurabilità - Utilizzo ripetuto di bancomat clonato - Esclusione - Riconducibilità alla fattispecie di cui all’art. 55, d.lgs. 231/2007. Il reiterato utilizzo di un bancomat clonato presso uno sportello bancario integra gli estremi del reato di indebita utilizzazione di carte di credito di cui all’art. 55, nono comma, d.lgs. 231/2007 (ora art. 493-ter c.p.) e non già quello di frode informatica di cui all’art. 640 ter c.p.,poiché il reiterato ritiro di denaro contante mediante supporto magnetico illecitamente duplicato configura l’utilizzo indebito di uno strumento di prelievo sanzionato dal predetto articolo 55. Mancano invece nella suddetta fattispecie criminosa l’uso fraudolento di un codice di accesso a un sistema informatico o un abusivo intervento sul sistema stesso, allo scopo di procurare un ingiusto profitto a sé o ad altri, elementi che qualificano il reato di frode informatica. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 4 gennaio 2019 n. 213. Reati contro il patrimonio - Frode informatica - Utilizzo di codice di accesso fraudolentemente captato al fine di trarne profitto per sé o per altri - Configurabilità - Fattispecie. Integra il delitto di frode informatica, e non quello di cui all’art. 55 n. 9 del D.Lgs. n. 231 del 2007, la condotta di colui che, servendosi di un codice di accesso fraudolentemente captato, penetri abusivamente nel sistema informatico bancario ed effettui illecite operazioni di trasferimento fondi, al fine di trarne profitto per sé o per altri. (In motivazione, la S.C. ha ritenuto decisiva la sussistenza dell’elemento specializzante, costituito dall’utilizzo “fraudolento” del sistema informatico). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 21 dicembre 2015 n. 50140. Reati contro il patrimonio - Frode informatica - Utilizzo di carte di credito clonate nel circuito informatico bancario - Reato - Sussistenza - Fattispecie. Configura il delitto di frode informatica, e non quello di indebita utilizzazione di carte di credito, la condotta di chi, utilizzando una carta di credito falsificata e un codice di accesso fraudolentemente ottenuto in precedenza, entra abusivamente nel sistema informatico di una banca compiendo operazioni illecite di trasferimento fondi, tra cui quella di prelievo di contanti attraverso i servizi di cassa continua. (Fattispecie, nella quale l’indagato, introdottosi nel sistema informatico di una società di gestione dei servizi finanziari, utilizzava senza diritto i dati relativi a carte di credito appartenenti a cittadini stranieri ed effettuava, così, transazioni commerciali, conseguendo un ingiusto profitto). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 16 ottobre 2015 n. 41777. Frode informatica - Condotta materiale - Indebito utilizzo di carte falsificate per prelievo di contanti. È ravvisabile il reato di frode informatica (articolo 640-ter del Cp) nella condotta di chi, attraverso l’utilizzazione di carte falsificate e la previa artificiosa captazione dei codici segreti di accesso (Pin), penetri abusivamente all’interno dei vari sistemi bancari, alterando i dati contabili mediante ordini abusivi di operazioni bancarie di prelievo di contanti attraverso i servizi di cassa continua. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 6 maggio 2011 n. 17748. Venezia: Sissy, licenziata mentre era in coma e liquidata con soli seimila euro di Davide Tamiello Il Gazzettino, 14 gennaio 2019 “Vogliamo la verità sulla sua morte”. Ha vissuto in un limbo per 26 mesi. Oltre due anni di agonia a cui Maria Teresa Sissy Trovato ha messo fine l’altra notte. La giovane agente di polizia penitenziaria, originaria di Taurianova (Rc) che ieri avrebbe compiuto 29 anni, era in coma dal 1 novembre del 2016. Quel giorno, un proiettile esploso dalla sua pistola l’aveva raggiunta alla testa, mentre si trovava all’interno di un ascensore dell’ospedale civile di Venezia, dove si trovava per verificare le condizioni di una detenuta che aveva appena partorito. Suicidio, incidente, omicidio: che cosa sia successo quel drammatico giorno d’autunno è ancora un mistero. I famigliari di Sissy sono alla disperata ricerca della verità e non hanno nessuna intenzione di arrendersi. Ieri, però, dopo tanto lottare, è arrivato il giorno del dolore: Sissy ha esalato l’ultimo respiro. “Non auguro a nessuno quello che stiamo provando in questi giorni - dice papà Salvatore - però una cosa voglio che si sappia: Sissy ha lottato come una leonessa per 26 mesi. Ha combattuto per rimanere in vita e non ha mai mollato”. Salvatore e Caterina, genitori della giovane, così come tutti i famigliari e gli amici, non credono e non vogliono credere all’ipotesi del suicidio. Le spiegazioni che hanno avuto non sono state sufficienti a cancellare i loro dubbi. “Noi dobbiamo capire cos’è successo - continua Salvatore - la Procura di Venezia ha accettato di prolungare le indagini e speriamo che, ora, si decidano a far luce sul serio. Non azzardatevi a parlare di suicidio finché non avremo saputo la verità, fino a quando non avremo chiarito tutti i punti oscuri di questa vicenda”. “Rabbia e vergogna” - Ma quello che Salvatore e Caterina non hanno proprio digerito è la lontananza delle istituzioni. “L’hanno abbandonata mentre era in coma - continua - e lei faceva parte di questo mondo. L’hanno licenziata a febbraio e liquidata con 6.700 euro, questo valeva per lo Stato la vita di mia figlia”. I famigliari di Sissy non hanno mai negato di non aver apprezzato il lavoro degli inquirenti veneziani. Ora che la giovane agente non c’è più, è esplosa anche tutta la rabbia e la frustrazione. “Non hanno mai risposto alle nostre domande - prosegue Salvatore - hanno esaminato il cellulare di mia figlia? Perché è entrata in quell’ascensore? Qualcuno le aveva dato un appuntamento? Noi abbiamo il diritto di sapere, per loro invece dovrebbe essere un dovere”. Le reazioni - “È una notizia tristissima che addolora profondamente tutti, familiari, amici e l’intera amministrazione della quale faceva parte - aggiunge in una nota Francesco Basentini, capo del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria - mi auguro che la stessa determinazione con la quale Sissy ha dimostrato di voler rimanere aggrappata alla vita sia da sprone, ora più che mai, per l’accertamento della verità”. Lutto anche nel mondo del Calcio a 5, di cui Sissy aveva fatto parte da protagonista vincendo con la maglia della Pro Reggina il primo scudetto nella storia della seria A femminile, nel 2012. “Sissy, il futsal italiano non ti dimenticherà”, è il saluto del presidente della divisione calcio a 5 Andrea Montemurro: prima delle gare di Serie A e A2 femminile, ieri, è stato osservato un minuto di raccoglimento. Al cordoglio della famiglia e degli amici si sono aggiunte le associazioni Penelope Italia Onlus e Gens Nova Onlus, da sempre in prima linea per i diritti delle persone scomparse e delle vittime dei crimini più efferati. “Triste veder spento un sorriso così bello - dicono i presidenti Antonio Maria La Scala e Stefano Tigani - e ricordiamo alle autorità che la verità non è un optional, ma un dovere nei confronti delle vittime e dei loro cari”. Il giallo irrisolto di un suicidio che sembra un omicidio La verità sembra scontata, ma solo in apparenza. Perché di certo, in realtà, al momento non c’è ancora nulla: altrimenti il gip veneziano Barbara Lancieri non avrebbe accettato l’opposizione della famiglia alla richiesta di archiviazione della procura, chiedendo nuove indagini. “I termini scadranno a fine mese - spiega l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia, noto alle cronache giudiziarie per aver seguito in passato i casi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi - noi non abbiamo verità precostituite, andiamo avanti e aspettiamo l’esito delle indagini suppletive”. Indagini a cui ora si aggiungerà anche l’esito dell’autopsia, richiesta dall’autorità giudiziaria e motivo per cui il funerale non è ancora stato fissato. Coni d’ombra - La difesa fa leva sui tanti coni d’ombra della vicenda, a cominciare dalla testimonianza choc di un’ex detenuta che, ai microfoni della trasmissione Chi l’ha visto?, aveva raccontato di uno strano giro di festini a base di droga e alcol, in carcere, tra agenti e detenute. Sissy, nei mesi precedenti a quel tragico 1 novembre, aveva fatto rapporto proprio ai suoi superiori su questa questione. A questa particolare coincidenza si aggiungono gli altri dubbi legati alle telecamere: le immagini l’avrebbero immortalata sempre senza guanti, eppure sulla sua pistola non sono state trovate impronte. In più sull’arma non sono state trovate tracce di sangue. “Una circostanza impossibile”, aggiunge il legale. Altra incongruenza, per Anselmo, è quella legata alla traiettoria del proiettile: alla nuca, dal basso verso l’alto, una posizione innaturale per uno sparo suicida. Tra gli altri aspetti, la difesa ha chiesto le indagini del dna (che non erano state effettuate prima) visto che lo stub, l’analisi sulle tracce di polvere da sparo, ha rilevato la stessa quantità su entrambe le mani. Questo, secondo la tesi dell’avvocato, perché Sissy andava al poligono e lì sì sparava tenendo la pistola con entrambe le mani. Come mai, cioè, una mano che aveva appena esploso un colpo, non aveva una concentrazione maggiore rispetto all’altra? Gli accertamenti - E così, il gip ha chiesto di dare una risposta a tutti questi quesiti irrisolti. È stata accolta la richiesta di acquisizione delle celle telefoniche per chiarire anche il traffico di telefonate di quella giornata da parte dei colleghi. Accolta anche la richiesta sul Dna, che punterà a capire se l’arma possa essere stata pulita prima di essere stata posizionata da un eventuale aggressore. Gli accertamenti riguarderanno anche il computer di Sissy, per vedere se ci siano state cancellazioni. Ci sarà infine anche un approfondimento con i consulenti medico legali per vedere se la lesione sia compatibile con il ritrovamento dell’arma impugnata. Come ultima disposizione: nessuno avrebbe sentito il rumore dello sparo, ma la pistola non aveva il silenziatore. Il gip ha chiesto quindi di sentire alcuni dipendenti che quel giorno si trovavano nelle vicinanze dell’ascensore. Trento: “nel carcere servono un medico di notte e uno psichiatra tutti i giorni” ildolomiti.it, 14 gennaio 2019 L’appello della Camera Penale per il carcere. L’Apss: “Troppi detenuti rispetto agli standard”. Viaggio nelle carceri di Trento. Fedrizzi: “Il primo problema è quello relativo alla grave sofferenza psichica delle persone. Dal questionario emerge che viene garantita una presenza psichiatrica all’interno della casa circondariale solo per sei ore alla settimana”. È alta l’attenzione della società sul carcere dopo i disordini che si sono verificati lo scorso 22 dicembre. Si lavora per cercare di migliorare le condizioni di chi è nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Di queste ore è la notizia di un sopralluogo condotto nella struttura da una delegazione di dirigenti dell’Azienda sanitaria. Che evidenzia, tra l’altro, difficoltà nel garantire l’assistenza sanitaria “a un numero di detenuti molto elevato rispetto agli standard previsti”. La visita risale a giovedì: è avvenuta, fanno sapere dall’Azienda sanitaria, “in seguito a specifici incontri con Claudio Ramponi, referente per la sanità penitenziaria e Chiara Mazzetti, responsabile per la medicina penitenziaria”. Il direttore generale dell’Azienda sanitaria Paolo Bordon, il direttore sanitario Claudio Dario, il direttore del Servizio ospedaliero provinciale Giovanni M. Guarrera e il direttore del Servizio governance dei processi di assistenza e di riabilitazione Annamaria Guarnier si sono incontrati con gli infermieri che garantiscono l’assistenza sanitaria in carcere per ascoltare le loro opinioni in merito al lavoro svolto e all’attuale servizio offerto, nonché le loro proposte di miglioramento. In questo incontro, fanno sapere sempre dall’Azienda sanitaria, “la direzione aziendale ha constatato la coesione di un gruppo di persone molto compatto e stabile anche nella condivisione di valori importanti e ha manifestato la propria gratitudine per l’opera che continuano a prestare”. Dal colloquio è emersa anche “la difficoltà degli operatori a garantire, in alcune occasioni, l’assistenza sanitaria ad un numero di detenuti molto elevato rispetto agli standard previsti”. In seguito alla visita la direzione dell’Azienda sanitaria “formalizzerà al Presidente della Provincia e all’assessora alla Salute una relazione sull’attività attualmente garantita in carcere e su eventuali nuove proposte di modello organizzativo”, ricorda una nota di Via Degasperi. Quello della salute nella casa circondariale è un tema su cui si concentra anche la Camera Penale. Due sono le visite effettuate dalla Camera penale e dall’Osservatorio carcere nel 2016 e nel 2017. Durante una di queste ai detenuti è stato somministrato un questionario di 54 domande volto proprio a sondare la qualità di vita e le principali problematiche. A questo fa riferimento il presidente Filippo Fedrizzi: “Dal punto di vista medico non abbiamo riscontrato grosse lamentele - afferma - tranne che per alcuni elementi. Il primo è quello relativo alla grave sofferenza psichica delle persone. Dal questionario emerge che viene garantita una presenza psichiatrica all’interno della casa circondariale solo per sei ore alla settimana”. “Ma in carcere - prosegue il presidente della Camera Penale - ci sono 340 persone, di cui 80 soggetti con problemi di dipendenza da droga o alcol. Ci sono molte situazioni di gravissima sofferenza psichica. Quando parlo di disagio psichico altissimo in carcere non mi riferisco solo alle psicopatologie. Ci sono ad esempio persone che vengono lasciate via lettera dalla propria moglie o dal proprio marito; stranieri che sentono da un conoscente di un incidente o un ricovero in ospedale che ha interessato un loro parente e che devono aspettare mesi per potersi mettere in contatto con i propri familiari (le telefonate al Paese d’origine devono essere autorizzate)”. “Non è pensabile che queste persone debbano aspettare di vedere lo psicologo o uno psichiatra per un mese” dice Fedrizzi. Se va bene: “Parliamo di sei ore a settimana? Moltiplicato per 50 fanno 300 ore all’anno: con 340 detenuti significa che l’esperto riesce a vedere nemmeno tutte le persone per una sola ora all’anno”. L’avvocato presidente della Camera Penale si dice quindi favorevole alla proposta, già avanzata in passato, di creare “un centro diurno in carcere”, con la presenza di uno psicologo o di uno psichiatra tutti i giorni. Una soluzione che potrebbe essere attuata e gestita a livello provinciale, sottolinea, a differenza delle visite e delle azioni del magistrato di sorveglianza e degli educatori. Il secondo problema riscontrato come risultato del questionario promosso dalla Camera Penale sarebbe quello dell’assistenza sanitaria notturna: “Manca un medico di notte, quindi bisogna chiamare un’ambulanza o la guardia medica. Si rischia che passi un’ora per avere i soccorsi, ma con 340 persone un malore può capitare”, conclude Fedrizzi” che sottolinea anche “da ultimo” la segnalazione di “qualche problemino con le cure odontoiatriche che di recente non sarebbero garantite ai livelli precedenti”. Sassari: nel Polo Universitario Penitenziario 29 matricole, cinquanta gli iscritti buongiornoalghero.it, 14 gennaio 2019 Il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari (Pup), al quinto anno di attività, raggiunge quest’anno per la prima volta i 50 studenti iscritti. “Un bel traguardo - dice il Prof. Emmanuele Farris, delegato del Rettore per il PUP - che ci stimola a migliorarci sempre. Ma al di là del numero, sottolineo che dei nostri 50 studenti, ben 29 sono nuovi immatricolati. Per la prima volta siamo presenti in 5 istituti penitenziari sardi - con Oristano che si aggiunge ad Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio - e in 3 istituti peninsulari (Asti, Cuneo, Udine). Abbiamo studenti in tutti i circuiti di detenzione, dalla media sicurezza al 41bis”. Numeri importanti quindi per il PUP dell’Università di Sassari, i cui iscritti in regime di detenzione studiano prevalentemente nei dipartimenti di Agraria, Giurisprudenza, Storia e Scienze Umanistiche e Sociali. Nuovi servizi per il PUP Uniss: iscrizioni in carcere e accoglienza. La qualità si costruisce migliorando i servizi che arrivano all’interno degli istituti penitenziari per i detenuti che vogliono intraprendere un percorso di studi universitari: anche quest’anno docenti e amministrativi dell’ateneo turritano hanno effettuato l’Orientamento per diplomati nei mesi di giugno-luglio 2018. “Successivamente, visto l’alto numero di manifestazioni d’interesse per i nostri corsi, abbiamo istituito due nuovi servizi: il supporto amministrativo per le iscrizioni in carcere nei mesi di ottobre e novembre, e l’accoglienza in ingresso di cui ci stiamo occupando sistematicamente. Riteniamo doveroso che tutti gli studenti, anche all’interno di un istituto penitenziario, percepiscano la vicinanza dell’istituzione universitaria e abbiano un contatto diretto con i referenti del corso di studi prescelto, per definire le tappe del percorso e individuare le prime materie da studiare” precisa il Prof. Farris. Un’azione capillare che richiede l’adesione di un numero elevato di docenti (11 referenti dei dipartimenti e dei corsi di laurea) e di personale amministrativo dell’Università (16 unità). Libri di testo grazie al sostegno dell’ERSU. Contemporaneamente, in queste settimane vengono distribuiti i testi di studio acquistati con i fondi erogati da ERSU Sassari, partner fondamentale di questo progetto. Ma il 2018, e ancor più il 2019, sarà caratterizzato da uno sforzo importante da parte del PUP per attività indirette, sia verso gli studenti sia verso detenuti non iscritti ai corsi universitari. Bando per 23 tutor. Per sostenere gli studenti detenuti, l’ateneo ha messo in moto le risorse derivanti dal fondo premiale da 220.000 euro ricevuto (unico ateneo in Italia) nel 2018 dal Miur: Il bando per 23 posizioni da tutor scade il 15 gennaio alle 12 - è pubblicato sul sito dell’Università di Sassari e a partecipare se ne hanno i requisiti. Corso ad Alghero per detenuti non universitari. Per il secondo anno consecutivo, grazie alla collaborazione con la Direzione penitenziaria, verrà realizzato ad Alghero un corso di 8 seminari mensili, da novembre 2018 a giugno 2019, richiesto dai detenuti e progettato insieme a loro, che quest’anno esplora le potenzialità e le criticità del comparto ittico (lo scorso anno era stato dedicato al comparto agro-zootecnico). Un piano di comunicazione innovativo. “Nel 2019 dedicheremo tempo e risorse per attività di comunicazione, di formazione e informazione sul Polo Universitario Penitenziario. Far sapere all’opinione pubblica quello che facciamo, fare sistema con altre istituzioni e con il terzo settore, è una parte fondamentale della nostra strategia”, dichiara ancora Farris. Per questo l’Università di Sassari ha progettato un piano di comunicazione specifico per il Polo universitario penitenziario, innovativo, che si configura come best practice comunicativa a livello nazionale. Per il Rettore Rettore Massimo Carpinelli, “L’Università di Sassari quindi non considera i 50 iscritti un punto di arrivo, ma un punto di partenza, in un’ottica di miglioramento continuo delle proprie politiche di inclusività destinate ad utenze con esigenze specifiche, tra le quali appunto gli studenti in regime di detenzione - afferma Carpinelli - In questo ambito saranno anche potenziate le sinergie con gli altri 28 atenei italiani che realizzano attività di didattica in ambito penitenziario, riuniti da Aprile 2018 nella Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp), in cui Ateneo turritano ha un ruolo di coordinamento, facendo parte insieme a Torino, Pisa, Padova e Napoli Federico II del direttivo nazionale in carica”. Milano: riabilitarsi nella Nave, a San Vittore un reparto unico in Italia di Marzia Paolucci Italia Oggi, 14 gennaio 2019 Obiettivo il trattamento avanzato delle dipendenze nelle carceri. Un accordo che i detenuti-pazienti richiedenti firmano impegnandosi a rispettare le regole specifiche del reparto. Riabilitarsi dal punto di vista clinico e criminologico. È quello che succede nel reparto “La nave” di San Vittore, un modello unico in Italia nel trattamento avanzato delle dipendenze in carcere a cui dal 13 dicembre al 20 gennaio 2019, è dedicata la rassegna milanese a ingresso libero “Ti porto in prigione”. Organizzata dalla neo nata Associazione Amici della Nave con il Provveditorato regionale e l’Azienda socio sanitaria Santi Paolo e Carlo di Milano, prevede oltre un mese di eventi fra mostre, incontri con operatori, magistrati ed esperti di pena e detenzione, per raccontare sedici anni di vita del reparto nato sedici anni fa con l’obiettivo di disintossicare da droga ed alcol i pazienti detenuti. Inaugurata il 13 dicembre scorso dai due ideatori del reparto, Luigi Pagano, all’epoca direttore del carcere, e Graziella Bertelli, psicologa, tuttora responsabile del progetto, la rassegna prevede lo svolgimento in parallelo degli eventi tra le sale della Triennale e la Rotonda di San Vittore. Nel palinsesto, incontri con gli esperti su finalità della pena, architettura dei luoghi della sua esecuzione e sicurezza sociale e anche un reportage fotografico che in sessanta scatti ripercorre la vita dei detenuti negli ultimi due anni, una collezione d’arte e le interviste di Daria Bignardi che in Ora Daria invita a parlare chi vive e ha vissuto l’esperienza del carcere. Coinvolti Gherardo Colombo, ex magistrato e oggi volontario a San Vittore, Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale e Stefano Boeri, architetto e urbanista Protagonista assoluto della rassegna, si chiama così il reparto chiamato a traghettare i suoi naviganti fuori dal carcere ma soprattutto fuori dalle dipendenze che ne hanno segnato l’ingresso. Situato al quarto piano del terzo raggio della Casa circondariale di San Vittore, è dedicato alla cura dei detenuti-pazienti dipendenti da sostanze quali droga e alcol. Il servizio è rivolto a coloro che, trovandosi in regime di detenzione, vengono valutati idonei e sufficientemente motivati a intraprendere un percorso di cambiamento in un contesto di cura e di responsabilizzazione. Lo scopo è quello di sollecitare la comprensione e la rielaborazione dei comportamenti che hanno portato alla dipendenza e alla devianza. “Io sottoscritto (...) faccio richiesta di ubicazione presso il III raggio 4° piano della Casa circondariale San Vittore impegnandomi contestualmente al rispetto delle seguenti regole: Mi impegno ad astenermi dall’uso di qualsiasi sostanza stupefacente ed alcool e a sottopormi all’esame delle urine quando mi verrà richiesto. Prendo coscienza che il mancato rispetto di queste regole comporterà la dimissione dal reparto”. È il testo dell’accordo che i detenuti-pazienti richiedenti, firmano impegnandosi a rispettare, oltre alle regole del sistema penitenziario, anche quelle specifiche del reparto la cui quotidianità è scandita da numerose attività individuali e di gruppo e da momenti di confronto. Celle confortevoli con servizi separati dal lavandino, aperte durante il giorno e un ventaglio di corsi tra pittura, teatro, musica, computer, pelletteria, ne fanno il fiore all’occhiello del carcere. Fra le cose espressamente proibite: usare il cellulare, entrare in cella non accompagnato, usare un linguaggio offensivo e volgare, rubare il telecomando Tv o Hi-Fi, vandalizzare il reparto, rovesciare bibite sul pavimento. Fra le cose richieste: dimostrarsi interessati al progetto. Il servizio - nato nel 2002 su iniziativa dell’allora Servizio Psicoterapeutico della Asl di Milano - si chiama S.S. Trattamento Avanzato Nave, e fa parte della struttura complessa Area Penale e Penitenziaria della Azienda Socio Sanitaria Santi Paolo e Carlo di Milano. L’équipe di trattamento multidisciplinare persegue l’obiettivo di garantire un “programma trattamentale e riabilitativo” dal punto di vista clinico e criminologico. Ad affiancare i professionisti, anche numerosi volontari che scelgono di dedicare un po’ del loro tempo libero al reparto. I pazienti che iniziano il trattamento fin dall’ingresso nel circuito penitenziario, lo proseguono anche una volta fuori dal carcere. Gorizia: “La città entra in carcere” gli chef cucinano per i detenuti di Francesco Fain Il Piccolo, 14 gennaio 2019 Successo dell’iniziativa “La città entra in carcere” voluta da don Alberto De Nadai. Pranzi comunitari offerti da sei ristoranti e pasticcerie per il progetto di inclusione. La città è entrata in carcere. Il Natale è ormai trascorso ma nel penitenziario di Gorizia è ancora vivissimo il ricordo delle domeniche di dicembre grazie all’iniziativa, mai realizzata prima, partita timidamente e fortemente voluta da don Alberto De Nadai. Il carcere di Gorizia è una Casa circondariale. E nelle case, in genere, il primo impatto “di relazione” è la tavola. Questo ha ispirato tutte le iniziative volte a portare all’interno del carcere il clima di casa e, per citare l’arcivescovo Radaelli “non abbiamo solo fame di cibo, ma anche fame di relazioni e la tavola è il luogo delle relazioni”. Così, eccezionalmente, si sono potuti organizzare i pranzi comunitari in corridoio con una lunga tavolata. Si è realizzata l’idea di don Alberto, sia grazie all’adesione al progetto dell’amministrazione carceraria, sia per la disponibilità di alcuni ristoratori che hanno offerto gratuitamente i pranzi per circa 20 persone. Si va dal ristorante locanda 101 alla trattoria Ponte del Calvario, dal bistrot Moscardino alla pasticceria L’oca Golosa, per finire con il Rosenbar. L’organizzazione è stata coordinata da Michela Fabbro, presidente dell’Associazione “Gorizia in tavola” nonché titolare, assieme al marito, proprio del ristorante Rosenbar. Il pranzo di Natale è stato offerto dalla cooperativa Hanna House di Fiumicello e ogni detenuto ha trovato sotto il proprio piatto un biglietto personalizzato (scritto da don Alberto, loro assistente spirituale). Durante la prima settimana d’Avvento, ogni detenuto aveva ricevuto un biglietto affrancato così da poter scrivere gli auguri ai propri familiari. Alla fine di ogni pranzo festivo, gli ospiti hanno scritto a ogni ristoratore una lettera di ringraziamento, firmata da tutti. Ci sono stati anche gli incontri con l’arcivescovo e il sindaco, separatamente. Entrambi, in assemblea con i detenuti, il venerdì pomeriggio hanno ascoltato con interesse le loro richieste. In particolare si sente l’esigenza di predisporre all’interno del carcere una sala adeguata per gli incontri con i familiari e un luogo di attesa specialmente per coloro i quali arrivano da lontano e aspettano in strada il momento di poter andare ai colloqui con i propri cari. Al sindaco Ziberna è stata fatta, inoltre, la richiesta di un’assistente sociale che s’interessi sia dei semiliberi per lavori socialmente utili, sia di chi, finita la pena, sta uscendo dal carcere e ha bisogno di trovare un lavoro. Durante l’assemblea l’arcivescovo ha sottolineato l’importanza delle relazioni senza le quali non esisteremmo e ha visitato le celle dove vivono i detenuti. Il clima di famiglia e casa è stato anche rievocato con il gioco della tombola a fine pranzo, con diversi premi che sono stati acquistati grazie alle offerte dei cittadini che, sorpresi da questa iniziativa e da questo nuovo clima in carcere, hanno voluto partecipare a questo Natale diverso. Milano: il canto libero di San Vittore in Triennale con la Vanoni Corriere della Sera, 14 gennaio 2019 Quattro schermi dentro San Vittore, altrettanti alla Triennale: dove il pubblico potrà vedere in diretta un coro di cento detenuti e volontari che cantano “Ma mì” con Ornella Vanoni nella rotonda centrale del carcere, davanti al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ma anche seguire dal vivo la doppia intervista di Daria Bignardi a due ex detenuti, nel Salone d’Onore. Sul tema della bellezza come via per il recupero e quindi anche per la sicurezza. Succederà domani, a partire dalle 18, grazie all’impegno tecnologico e umano della Rai di Milano: uno degli ultimi eventi della manifestazione “ti Porto in prigione” organizzata dall’associazione Amici della Nave con Triennale, direzione di San Vittore e provveditorato regionale delle carceri, in corso fino a domenica prossima. Oltre al ministro Bonafede interverranno tra gli altri il presidente della Triennale Stefano Boeri, il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano e il provveditore Luigi Pagano. Accesso libero in Triennale a partire dalle 17.45. Presadiretta (Rai3): inchiesta sui ritardi dei tribunali e intervista il ministro Bonafede primapress.it, 14 gennaio 2019 Il programma di Riccardo Iacona, Presadiretta su Rai3, arriva a 24 ore dalla cattura di Cesare Battisti in Bolivia che coincide con l’argomento trattato nel programma di oggi lunedì 14 gennaio dove il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede risponderà alle domande del conduttore sui “Palazzi di ingiustizia” dopo che le telecamere di Presadiretta sono entrate nei tribunali italiani di Venezia, Palermo, Latina, Catania, Tempio Pausania, Avellino e Napoli dove il personale è seppellito da fascicoli pendenti, e condanne definitive che non si riesce a far eseguire oltre a richieste di arresto inevase. La puntata muove dall’inchiesta sulla macchina della Giustizia che rischia il collasso: l’emergenza dei Tribunali italiani, il mondo dei giudici, le correnti nella magistratura, le pressioni della politica, le storie di errori giudiziari e di malagiustizia. L’ospite in studio, in apertura della seconda parte è, invece, il ministro della Salute, Giulia Grillo che risponderà alle critiche del presidente dimissionario dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, alle polemiche degli ultimi giorni circa le informazioni raccolte sulle simpatie politiche degli scienziati e soprattutto sulle emergenze della sanità pubblica e i nuovi progetti in campo. Torna in libreria “Vento di tramontana” di Carmelo Sardo di Benedetta Tintillini umbriaecultura.it, 14 gennaio 2019 Torna in libreria, a otto anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, “Vento di tramontana”, il romanzo di esordio del giornalista agrigentino Carmelo Sardo. Laurana Editore riporta sugli scaffali un’opera frutto della professione e della sensibilità dell’autore che ha potuto, grazie alla sua attività giornalistica, avvicinare la realtà carceraria e la varia umanità che la abita. Carcerieri e reclusi condividono gli stessi spazi, le stesse esperienze e, in un certo qual modo lo stesso destino, staccati dal mondo esterno e catapultati in una realtà parallela dove le carte si rimescolano come i valori che regolano le loro vite. Sull’isola di Favonio, al largo della costa siciliana, un antico carcere ospita boss mafiosi e delinquenti di basso calibro, la cui convivenza è regolata da leggi non scritte che il protagonista, poliziotto penitenziario di leva, deve imparare in fretta. È il 1982, l’anno degli storici mondiali vinti dall’Italia di Bearzot, dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della sanguinosa contesa del potere tra la nuova mafia corleonese e quella palermitana, la vecchia mafia, quella che aveva ancora una sua “deontologia”, rispetta le donne ed i bambini e conserva un, seppur distorto, senso dell’onore. Il protagonista conquisterà la fiducia di un vecchio boss alla cui carismatica personalità non saprà resistere. Il giovane poliziotto troverà nella figura del capo mafia un punto di riferimento certo nei precari equilibri del carcere offrendo all’ “illustre” detenuto, per contro, sicuro appoggio al suo dolore. Una storia che, seppur leggiadra ed al contempo profonda, dolce e triste, ricorda da vicino il genuino rapporto tra secondino e capomafia raccontato da De Andrè in “Don Raffaè”. Un rapporto, tra la guardia ed il detenuto, di profondo rispetto e fiducia, ognuno fedele al suo ruolo e, al tempo stesso, cosciente del destino che li (e ci) accomuna nella fatica di vivere. Un racconto che svela alcune dinamiche proprie della vita del carcere, di chi spera di uscire, di chi ha perso la speranza, di chi vede scorrere, da una parte e dall’altra delle grate, i giorni, tutti dolorosamente uguali. Patricia Arquette, seduzione pericolosa nell’alta sicurezza di Luca Celada Il Manifesto, 14 gennaio 2019 L’attrice racconta il suo personaggio nella serie di Ben Stiller “Escape at Dannemora”, per cui ha vinto un Golden Globe. Una donna guardia carceraria, il rapporto di sesso coi due detenuti, l’evasione Patricia Arquette nel ruolo di Tilly in una scena della serie. Vera storia della rocambolesca evasione di Richard Matt e David Sweat dal Clinton Correctional Facility di Dannemora nello stato di New York, nel 2015, Escape at Dannemora (in Italia su Sky Atlantic e on demand) segna l’esordio di Ben Stiller come regista di serie. Già dietro la cinepresa dei Tropic Thunder e degli Zoolander (ma anche di Giovani carini e disoccupati e di I Sogni Segreti di Walter Mitty), l’attore/regista dà un’ottima prova in questo “true crime” che parte, appunto, dalla cronaca dell’evasione e della caccia ai due detenuti i fuggiti grazie alla complicità di una guardia carceraria con cui entrambi avevano una relazione. Nell’obbiettivo di Stiller prende forma una storia di seduzione sullo sfondo fosco di una provincia desolata e desolante, un’America nel pieno del grigio inverno trumpiano visto che, come dice il regista, “la serie tratta anche della nostra cultura della detenzione, riflettendo lo stato di profonda divisione politica del Paese col 99% di guardie bianche che controllano l’80% di detenuti neri e ispanici. Non è il nostro argomento principale ma emerge nelle vite di queste persone che ogni mattina fanno un’ora di macchina per andare a lavorare in carcere per pochissimi soldi”. Al centro c’è Tilly Mitchell interpretata da Patricia Arquette - irriconoscibile sullo schermo - una donna di mezza età; è lei la guardia carceraria che instaura coi due uomini il legame sentimentale all’origine della loro fuga. Incontriamo l’attrice che per il ruolo ha appena vinto un Gloden Globe a Los Angeles. Come ti sei preparata? David Sweat l’ho incontrato di persona mentre Tilly ho preferito non conoscerla. Ho visto delle sue interviste in tv e mi è bastato. Come attrice è stato affascinante osservare una persona mentire così spudoratamente. Mi è sembrata una abilissima manipolatrice e non volevo che potesse manipolarne la produzione in qualche modo. Ho letto poi centinaia di pagine con gli atti del processo e ho guardato tutti i filmati disponibili. Hai capito quali sono state le ragioni delle sue azioni? La storia d’amore coi due detenuti mi è sembrata nascere dall’insofferenza della donna verso un marito con cui era sposata da sempre e del quale era un po’ la balia. Non lo considerava all’altezza di nulla e gli serbava rancore. Inizia un rapporto con Matt (Benicio del Toro, ndr) da cui è attratta in quanto “maschio alfa”, è un rapporto pericoloso ed elettrizzante per lei nuovo. E poi stringe un rapporto più tenero con l’altro uomo, Sweat Paul Dano, ndr), il detenuto più giovane che è in fondo anche un po’ materno. Poi c’è l’ambiente in cui vive, la piccola città… Si, in quella la cittadina quasi tutti o lavorano nel penitenziario o sono sposati con qualcuno che ci lavora. E come spesso avviene la comunità dipende dalla prigione per sopravvivere. Non c’è molto da fare, è freddo, è grigio, l’inverno sembra interminabile. Ci sono guardie hanno relazioni con altre guardie - di recente una guardia ne ha uccisa un’altra perché era l’amante della moglie. Credo che ogni essere umano si voglia sentire vivo, amare, flirtare…Tilly è una normale donna coi suoi desideri, la sua sessualità. Mi interessava esplorare questo aspetto perché di solito si pensa che se non hai 20 anni e un certo tipo di corpo la cosa non ti riguarda più. In qualche modo invece lei riesce a sentirsi ancora bella, desiderata. E mi è sembrato importante perché a Hollywood vengono rese sessualmente vive solo persone che con un determinato fisico. Ma questo non riflette la realtà - nemmeno quella dell’industria porno dove esiste un enorme mercato per milf e grassi, la gente ricerca anche autenticità. Il lato spudoratamente sessuale di questa donna bisognosa di sentirsi bella e sexy fuori dagli stereotipi mi attraeva. Non credo che sia stata abbastanza raccontata la storia della vera sessualità delle persone. Qual è la portata economica del lavoro dei detenuti? Non mi rendevo conto di quanto sia massiccio il complesso penale-industriale. Mentre in America le fabbriche chiudono e le aziende delocalizzano, nelle carceri ci sono migliaia di detenuti che confezionano indumenti pagati 38 centesimi l’ora. È una vera industria nascosta. Avete girato in una vera prigione? Anche. In realtà abbiamo girato in diversi istituti, tutti luoghi opprimenti. Ci sono un sacco di patologie mentali nelle persone che li abitano, soprattutto i detenuti ma non solo, insieme a una costante sensazione di pericolo. C’è bisogno di urgenti riforme eppure le comunità in cui si trovano i penitenziari spesso temono il cambiamento perché dipendono economicamente dalle prigioni. La cosa più assurda che ci è capitata è che ci hanno fatto visitare la vera prigione dove è accaduta la storia, la nostra guida era una donna che ci ha portato nella sartoria e nel ripostiglio dove Tilly faceva sesso con i prigionieri. Ebbene, qualche settimana dopo è stata arrestata anche lei per la stessa infrazione e ora rischia 17 anni di galera. Là dentro ogni rapporto, ogni emozione vengono intensificati e amplificati. Sei stata una protagonista del movimento per la parità delle donne nell’industria dello spettacolo, a che punto siamo? La California ha da poco approvato una legge che impone la parità retributiva. Alcuni stati lo hanno fatto ma in molti stati più piccoli e poveri le leggi non ci sono e c’è invece una grande diseguaglianza nei salari, e ancora molta strada da fare. Io vorrei solo che il mio Pase fosse equo e non sessista o razzista e spero che ci arriveremo un giorno, anche se con Trump abbiamo fatto un bel balzo indietro - a dir poco. Questi ultimi due anni sono stati scioccanti, e inoltre mi sembra che la svolta verso l’estrema destra e anche il suprematismo bianco stia coinvolgendo anche altri paesi. Di sicuro è un momento abbastanza cupo. Povertà, 25 miliardi all’anno vanno nelle tasche sbagliate di Milena Gabanelli e Rita Querzè Corriere della Sera, 14 gennaio 2019 Cinque milioni di poveri in Italia non si possono ignorare, ed è giusto dare loro un assegno di sussistenza. Ma i soldi vanno spesi bene perché a pagare l’Irpef sono sempre i soliti 41 milioni di italiani. E anche tra loro non tutti se la passano benissimo. Troppe risorse nelle tasche sbagliate - Ogni anno l’Inps spende 53 miliardi per aiutare chi sta peggio. In gran parte vanno in assegni sociali e integrazioni al minimo. In teoria può fare domanda solo chi è sotto a un certo reddito (per la pensione sociale non bisogna superare i 5.954 euro l’anno, per esempio). Nella realtà oltre un terzo di questi soldi (ovvero 18,5 miliardi) va alle famiglie con redditi superiori alla media. Lo stesso meccanismo vale per i 18 miliardi di spesa generale per la lotta alla povertà. Oltre un terzo - 6,5 miliardi - va al 50% di italiani con redditi superiori alla media. La legge che ha istituito il Reddito di inclusione (Rei) prevedeva un riordino della spesa sociale. Non è mai stato fatto. I cittadini quando vanno a votare non premiano chi gli toglie qualcosa. E i partiti lo sanno. Incroci a monte per scoprire gli Isee-truffa - Spesso la spesa sociale finisce a chi non ne avrebbe diritto perché è facile truccare le carte. Lo strumento che valuta come se la sta passando una famiglia è l’Isee. L’ultima riforma l’ha migliorato, ma secondo le verifiche della Guardia di Finanza, il 60% degli Isee è basato su autodichiarazioni false. Il tasso di irregolarità è del 90% per le esenzioni dai ticket sui farmaci e del 39% per le richieste di prestazioni sociali nei primi mesi del 2018. Più che aumentare i controlli a valle bisogna incrociare sempre a monte i dati delle proprietà immobiliari, dei redditi e delle giacenze medie sui conti correnti. Ancor meglio inserire i dati delle amministrazioni in un Isee già precompilato: doveva partire nel 2018, ma ancora non si è visto. Troppi bonus: serve il casellario delle prestazioni - Prendiamo una famiglia povera della periferia di Milano a cui nasce un figlio. Può sicuramente chiedere il bonus bebè appena rifinanziato nell’ultima legge di Bilancio. Ma ci sono anche il bonus alla nascita da 800 euro - che incassano tutti, non solo i poveri - oltre al bonus nazionale per la frequenza al nido. Poi c’è la bebè card del Comune e il bonus nido della regione Lombardia. In pratica la mano destra non sa cosa fa la sinistra. Sarebbe il caso di coordinare le varie misure. L’Inps avrebbe dovuto varare il “casellario”, un fascicolo con le prestazioni sociali percepite da ciascun cittadino. Il progetto non è mai decollato. Logico sarebbe che, in base all’Isee, una serie di misure scattassero in automatico, in funzione della situazione di ciascuno. Assegni proporzionati al costo della vita nei territori - Se si guarda l’incidenza sul totale della popolazione, il record del disagio è al Sud con il 10,3% degli abitanti in povertà assoluta (contro il 5,1% del Centro e il 5,4% del Nord). Ma il 52,5% delle famiglie povere abita comunque al Centro-Nord. L’Istat ha calcolato che nelle periferia di una grande città del Nord, un single per la propria sussistenza ha bisogno di 780 euro al mese. Da qui il reddito di cittadinanza. In un piccolo comune del centro, però, bastano 707 euro, che scendono a 560 euro nel comune del Sud. Avrebbe senso dunque un assegno parametrato al costo della vita del luogo in cui vive il richiedente. Più servizi (e non solo per l’impiego) - Anpal servizi stima che il 70% degli aspiranti al reddito non sia subito in grado di lavorare, perché ha minori o disabili a carico, problemi di salute e di dipendenze. Sono 3 milioni e mezzo di persone che dovranno stipulare un “patto per l’inclusione sociale” con i Comuni. Nel 2016 la spesa dei Comuni per i servizi sociali ammontava a 7 miliardi e 56 milioni di euro: quelli ricchi offrono servizi sociali ai loro cittadini, gli altri no anche se sul loro territorio si trova la maggior concentrazione di poveri. In Calabria, dove ci si attende il maggior numero di richieste di Reddito di Cittadinanza, la spesa procapite per i servizi sociali è di 22 euro, contro i 517 euro della Provincia Autonoma di Bolzano. Il 15% dei fondi del Rei doveva servire a potenziare i servizi sociali. Per il 2019 il nuovo governo mobilita 347 milioni, che diventeranno 587 nel 2020 e 615 dal 2021 in poi. Risorse insufficienti, mentre non è ancora chiaro con quali criteri saranno ripartite. Lavori socialmente utili (flop dietro l’angolo) - Chi prende il reddito di cittadinanza dovrebbe fare 8 ore alla settimana di lavoro socialmente utile. Serve quindi personale che organizzi il lavori da fare. I lavoratori vanno poi formati e assicurati. Ad oggi esistono solo pochissime sperimentazioni e la maggior parte dei Comuni non è attrezzata. Serve più tempo per potenziare i controlli sul lavoro nero e assumere navigator stabili - Le Regioni devono assumere 4.000 navigator per potenziare i propri centri per l’impiego. Vuol dire che si dovranno fare 20 bandi pubblici. Dall’emissione del bando all’assunzione ci vuole mediamente un anno (sei mesi alle Regioni più virtuose). Per aggirare l’ostacolo e partire il primo aprile con il Rdc, il governo intende assumere subito 4.000 navigator con contratti a termine tramite Anpal servizi. Successivamente i 4.000 precari (con il compito di educare i disoccupati a trovare lavoro) dovrebbero partecipare ai concorsi delle Regioni per passare a tempo indeterminato. Poi c’è il lavoro nero: nemico numero uno del reddito di cittadinanza. È vero che ci sono sgravi contributivi per chi assume un povero, ma nessuna azienda assume a tempo indeterminato se non ne ha bisogno. L’economia sta frenando, e in gran parte del Paese i centri per l’impiego non riusciranno a offrire tre occasioni di lavoro in 18 mesi. Che fare? Non escludere dagli sgravi i contratti a termine. Poi potenziare i controlli sui settori e nei territori a maggiore concentrazione di nero. In particolare agricoltura, dove la percentuale arriva al 16,4%, servizi alle persone (22,8%), costruzioni (10,8%), commercio e logistica (7,9%). La legge di Bilancio prevede l’arrivo di 930 nuovi ispettori del lavoro in tre anni, di cui 300 nel 2019. Ma è improbabile che siano operativi prima di fine anno. Reddito agli stranieri residenti da 10 anni Il governo stima che saranno 250.000 ad averne diritto. Le stime di fondazione Ismu parlano di 300.000 (su oltre 5 milioni di immigrati, circa un milione è residente da 10 anni, e il 30% è in stato di povertà). Il Comune di Milano ne stima 700 mila. Le richieste verranno presentate nei Comuni, che però non sono in grado di verificare “dove” hanno accumulato i 10 anni di residenza perché l’ anagrafe nazionale in capo a Sogei non è mai stata completata. In sostanza, se non si fa in fretta a completare i registri nazionali e a riorganizzare un sistema iniquo, troppi soldi continueranno a finire nelle tasche sbagliate. Come stanno davvero di salute i migranti irregolari? di Cristina Da Rold Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2019 Come stanno davvero di salute i migranti irregolari? Anche un recente rapporto sulle persone che vivono in Lombardia a cura dell’Associazione di volontariato NAGA ha mostrato che non dobbiamo avere paura di chissà quale contagio: la vulnerabilità reale non riguarda noi ma loro, che vivono in condizioni di sempre maggiore indigenza. Nel complesso il rapporto ha rilevato l’estrema rarità di malattie infettive: appena 29 casi su oltre 2000 persone: 21 casi di scabbia, 6 di epatite, 1 caso di morbillo e 1 caso di sifilide. Nel 2017, 62 individui (il 3% del campione) sono stati inviati all’ospedale per sospetta tubercolosi ma soltanto 3 di questi, su oltre 200 persone, sono risultati positivi alle successive analisi. Le diagnosi piu’ comuni sono quelle relative alle malattie del sistema muscoloscheletrico (12,1%), in particolare dolori articolari e lombosciatalgia; seguite da quelle del sistema respiratorio (11,4%), come faringite e sindrome influenzale; della cute e del tessuto sottocutaneo (10,8%) e infine dell’apparato genitale, comprese contraccezione e gravidanza (10%). Il 7,4% delle donne e il 5,8% degli uomini ha mostrato invece disturbi psichici e comportamentali, come d’ansia e disturbo post-traumatico da stress, con percentuali più elevate fra i maschi provenienti dall’Africa Sub-Sahariana. Il rapporto ha analizzato quasi 8000 persone che si sono recate al Naga in tre anni, 2044 solo nel 2017. Si tratta della più vasta banca dati sulle condizioni mediche dei cittadini stranieri irregolari non ospedalizzati in Italia. In questo caso inoltre Tutti i nuovi utenti del Naga vengono sottoposti ad uno screening per la possibile presenza di tubercolosi, che verrà poi ripetuto annualmente. Anche se non ci sono stati focolai di sorta, quindi pericoli per noi, non significa che queste persone stiano bene. Il numero di uomini con una situazione abitativa stabile è diminuito costantemente dal 2014 a oggi, e questo non stupisce, dal momento che nel 2017 solo una persona su tre che si è recata per la prima volta al Naga aveva un lavoro. La percentuale di occupati fra chi è in Italia da meno di un anno non raggiunge il 20%, dopo due anni ad avere un lavoro è il 41,6% dei migranti irregolari lombardi e il 50% fra chi è qui da tre-quattro anni. Uno su tre non ha una casa. Nel 2014 il 77% dei migranti irregolari lombardi che sono entrati in contatto con il Naga viveva in affitto, nel 2017 si è scesi al 68%. Gli uomini irregolari senza dimora in Lombardia sono passati dal 22% del totale del 2014 al 30,9% del 2017, le donne dall’11% al 10%. Queste persone presentano una elevata frequenza di traumatismi (14% contro il 5.3% negli individui in affitto,) di patologie del sistema respiratorio e problemi cutanei, che potrebbero essere causate - spiegano gli esperti - dall’esposizione al freddo e dall’assenza di buone condizioni igieniche. Si osserva anche una maggiore prevalenza di disturbi psichici e comportamentali (il 12% delle persone senza dimora contro il 6% degli individui in affitto). Archiviando i dati (e il Naga lo fa digitalmente) il rapporto ha osservato che gli immigrati irregolari mostrano una maggior incidenza di disturbi all’apparato muscoloscheletrico rispetto ad un gruppo di controllo composto unicamente da pazienti italiani, ma una minor incidenza di malattie dell’apparato respiratorio e gastrointestinale nonostante le loro precarie condizioni fisiche e piscologiche. Chiaramente anche il tipo di lavoro incide sull’output sanitario Il motivo della maggiore prevalenza di patologie respiratorie è la presenza nel gruppo degli irregolari degli ambulanti. Fra loro il 22,2% ha mostrato problemi respiratori, contro l’11,1% di chi ha un’occupazione temporanea e il 5,5% di chi ha un lavoro stabile. Lo stesso si è osservato per i traumatismi. Ancora una volta i dati mostrano che solo offrendo lavoro e soluzioni abitative accessibili si può combattere quella primaria indigenza che crea la cattiva salute e quindi ulteriore indigenza. La nuova epoca segnata dai muri. Dal 1989 di Berlino a Trump di Antonio Polito Corriere della Sera, 14 gennaio 2019 Trent’anni fa la caduta di un Muro chiuse la Guerra Fredda. Trent’anni dopo l’America chiude i battenti, la più lunga serrata della storia, pur di costruire un Muro. Fino al 1989 l’Occidente voleva abbattere le barriere per liberare chi vi era rimasto dentro. Nel 2019 vuole innalzarle per tenere fuori chi vuole entrare. Non c’è niente di più simbolico di una semplice parete di cemento per capire come è cambiata la storia del mondo in soli tre decenni. Con il Muro di Berlino finì la grande illusione del comunismo; quella di un nuovo ordine liberale sta svanendo adesso. Scambiammo la globalizzazione con il cosmopolitismo, e ne stiamo pagando il prezzo con la rivincita delle nazioni. La storia, che al professor Fukuyama sembrava finita, si è rimessa in moto, ma all’indietro. Quando i berlinesi si liberarono del loro, di muri nel mondo ce ne erano 16. Trent’anni dopo sono 63. Una recinzione per tener fuori i messicani si erge già per più di mille chilometri, con tanto di sensori elettronici e visori notturni, ma a Donald Trump non basta. Dal canto loro i messicani se ne sono fatta una per tenere fuori i guatemaltechi. L’Ungheria, il Paese che rese inutile il Muro di Berlino smantellando il filo spinato elettrificato che sbarrava la frontiera con l’Austria, e aprendo così un varco verso Occidente ai tedeschi in fuga dall’Est, si è ora rifatta la sua barriera di filo spinato, lunga 175 chilometri e alta tre metri e mezzo, sul confine con la Serbia, per fermare gli immigrati. I popoli che erano rimasti imprigionati dietro la Cortina di Ferro oggi sono i più ansiosi di costruirsene una nuova. E dove c’è il mare, e non si possono costruire muri, si chiudono le frontiere, come con la Brexit, o i porti, come con Salvini. Da che mondo è mondo, le civiltà umane usano le opere in muratura come un codice politico, un programma culturale, costruendo o abbattendo. L’imperatore Quin Shi Huang unificò la Cina facendo la Grande Muraglia. I comuni italiani, al culmine del successo, elevarono cattedrali e torri. Osama bin Laden è passato alla storia per le sue doti di demolitore. Chi ha paura costruisce muri, chi ha fiducia costruisce ponti. Alla fine dell’Ottocento il Circo Barnum portò su quello di Brooklyn ventuno elefanti per convincere i newyorkesi che era stabile e solido. Genova deve ancora abbattere il ponte Morandi per poterne avere uno così. Chi ha speranza costruisce strade. Sulle vie dell’impero romano ha viaggiato la civiltà, merci e idee, soldati e apostoli. Al suo apogeo la rete si dipanava per centomila chilometri di vie lastricate, che univano tra di loro 32 nazioni dei nostri giorni. Senza quelle strade il cristianesimo non ce l’avrebbe mai fatta a diffondersi in tutto il bacino del Mediterraneo a grande velocità, e la storia d’Europa sarebbe forse stata diversa. Più barbarica, per dir così. Ecco perché lo scontro politico sulla Tav e le infrastrutture è tutt’altro che banale, e anzi è forse la vera chiave della tenuta del governo. Si confrontano due culture, non solo due partiti. I leghisti vorrebbero chiudere l’Italia al Sud, al flusso che viene dall’Africa, ma aprirla verso il Nord, ai commerci con l’Europa. I Cinque Stelle si sentono aperti al Mediterraneo, ma preferiscono chiudersi all’Europa, pur di non scavare una galleria in una montagna. Sono ecologisti, ma hanno più tolleranza per il gasolio dei gilet gialli che per i binari di un treno. Non vogliono i tunnel ferroviari ma neanche le autostrade. Sognano un’Italia a chilometro zero. Alla moviola. Speriamo almeno che tra i due contendenti non finisca in pareggio, con l’Italia che si chiude al Sud e al Nord contemporaneamente. Costruire è il destino dell’uomo. L’autostrada del Sole fu fatta al ritmo di 94 chilometri all’anno, e lo chiamammo boom economico. Nell’Italia di oggi non si muove niente, e la chiamiamo stagnazione. Libia. La strada della pace è sempre in salita di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 gennaio 2019 L’inviato Onu Ghassan Salameh aveva detto di voler convocare l’Assembla Nazionale, descritta come “un importante momento di dialogo tra i massimi esponenti della società civile”, entro la fine del gennaio 2019. Eppure, nulla lascia presagire che nei prossimi 15 giorni ciò possa seriamente aver luogo. Sono precipizi e pareti ripide quelli che si prospettano sulla via della pacificazione della Libia. Che la strada per la tenuta della “Al Mutlaka al Watani”, l’Assemblea Nazionale, fosse tutta in salita Ghassan Salameh l’aveva ammesso già al termine della Conferenza di Palermo il 13 novembre. All’inviato Onu per la Libia la diplomazia italiana aveva affidato il compito di dare un senso compiuto all’evento. Ovvio che non bastava il successo di partecipazione, occorrevano risultati concreti. E questi, almeno per ora, non ci sono. Anzi, il tempo stringe. Salameh a Palermo aveva detto di voler convocare l’Assembla Nazionale, descritta come “un importante momento di dialogo tra i massimi esponenti della società civile libica in preparazione delle elezioni generali”, entro la fine del gennaio 2019. Eppure, nulla lascia presagire che nei prossimi 15 giorni ciò possa seriamente aver luogo. “Si viaggia in alto mare. Non è neppure detto che l’evento possa avvenire a febbraio o marzo”, sostengono fonti giornalistiche tripoline. Salameh rende noto un dettagliato documento preparatorio. Vi si specifica che l’Assemblea sarà formata da 140 membri, tra cui: 24 per le istituzioni elette (12 del Parlamento, 6 dell’Alto Consiglio di Stato, 6 della Costituente); 43 delle rappresentanze delle 22 province, specie dei consigli municipali maggiori; 31 dei partiti politici; 18 militari, compresi l’esercito di Khalifa Haftar (l’uomo forte della Cirenaica) e le maggiori milizie della Tripolitania. Ma si litiga sui nomi, non sono chiari i criteri di selezione, crescono frizioni tra etnie e tribù. Salameh si trova inoltre a dover combattere contro l’ostracismo dei circa 250 deputati attivi dei parlamenti di Tobruk e Tripoli, che si sentono esautorati. Nel frattempo, l’anarchia interna vede l’impennata di omicidi e attentati da parte delle colonne di Isis sempre più aggressive, specie nel Fezzan. L’arrivo di navi cargo cariche di armi turche a Misurata incattivisce le fazioni. Nessuno vuole i “foreign fighters” della Siria ilpost.it, 14 gennaio 2019 Centinaia di cittadini europei, statunitensi e asiatici andati a combattere con l’ISIS sono detenuti nelle prigioni curde, e oggi di loro non si sa cosa fare. Negli ultimi anni migliaia di persone provenienti da tutto il mondo si sono unite ai gruppi e alle milizie che stanno combattendo la guerra in Siria, tra cui lo Stato Islamico (o ISIS). Oggi molti dei cosiddetti “foreign fighters” - così sono chiamati i combattenti stranieri che vanno a fare una guerra in un paese diverso dal loro - si trovano nelle prigioni curde, nel nord e nell’est della Siria, catturati durante gli scontri tra curdi e ISIS: sono in attesa di essere rimpatriati nei rispettivi paesi o di essere sottoposti a un processo in Siria, ma i tempi potrebbero essere molto lunghi, ha raccontato il Wall Street Journal, perché nessuno si vuole fare carico di loro. I “foreign fighters” che sono detenuti nelle prigioni sotto la supervisione delle Forze democratiche siriane (Sdf), cioè la coalizione di arabi e curdi (soprattutto curdi) appoggiata dagli Stati Uniti che sta combattendo contro l’ISIS, sono circa 800. Sono sotto sorveglianza anche le donne straniere sposate ai miliziani dell’ISIS e i loro figli, oggi tenuti in diversi campi profughi della Siria. Da tempo i curdi tentano di convincere i paesi di provenienza dei “foreign fighters” a riprendersi i loro cittadini, senza però grande successo. Il problema è che molti paesi del mondo, tra cui diversi stati europei, non vogliono farsi carico del problema. Anzitutto c’è il rischio che i “foreign fighters” rimpatriati diventino una minaccia alla sicurezza nazionale, visto che molti di loro, già radicalizzati, hanno ricevuto un addestramento militare in Siria. Metterli in prigione rischia di causare una serie di altri problemi, soprattutto se si considera che negli ultimi anni le carceri sono diventate uno dei posti più fertili per il fenomeno della radicalizzazione. Per fare un esempio: Anis Amri, l’attentatore che il 19 dicembre 2016 investì la folla a un mercatino di Natale a Berlino, in Germania, si era radicalizzato nelle prigioni della Sicilia, dove si era avvicinato anche allo Stato Islamico. Diversi paesi del mondo, anche europei, hanno inoltre avviato da tempo dei programmi di de-radicalizzazione, che secondo diversi esperti sono gli unici in grado di favorire il reintegro dei soggetti radicalizzati nelle società dei loro paesi di origine: questi programmi, però, sono molto costosi e non danno risultati certi. C’è poi da considerare la questione dal punto di vista legale. Negli ultimi anni diversi paesi, tra cui l’Italia, hanno adottato nuove leggi antiterrorismo per punire i propri “foreign fighters” che erano andati a combattere in Siria e che le intelligence ritenevano un potenziale pericolo per la sicurezza nazionale. Nonostante le nuove norme abbiano aiutato i governi a tenere sotto controllo i propri cittadini radicalizzati, non sempre le autorità sono riuscite a perseguire in maniera efficace chi aveva commesso crimini in Siria o chi aveva operato per favorire il reclutamento di nuovi miliziani per conto di gruppi jihadisti. Da parte loro, i curdi hanno detto di non avere le risorse per processare i “foreign fighters”, e hanno aggiunto che la loro permanenza in Siria potrebbe diventare un problema. Abdulkarim Omar, leader curdo che si occupa dei rapporti con i paesi esteri, ha detto: “[I “foreign fighters”] sono detenuti in un’area che non è stabile e ogni vuoto di potere o situazione di caos potrebbe favorire una loro evasione e creare grandi pericoli”. Funzionari curdi hanno detto di avere contattato tutti i paesi dei cittadini stranieri detenuti in Siria, ma solo pochi hanno risposto: il Kazakistan, la Russia, il Sudan e l’Indonesia hanno rimpatriato alcune famiglie; una donna statunitense e una irachena sono tornate nei rispettivi paesi; Francia e Regno Unito si sono limitati finora ad aiutare i curdi a sostenere i costi di detenzione dei loro cittadini in Siria, e gli Stati Uniti hanno finanziato parte delle strutture detentive. La collaborazione dei curdi con i governi occidentali sulla questione dei “foreign fighters” potrebbe cominciare a essere condizionata anche dall’annuncio del governo statunitense di ritirare le proprie truppe dalla Siria (poi la decisione è stata ridimensionata, ma i timori sono rimasti). Non è chiaro cosa succederà ai curdi se dovesse venire meno la protezione statunitense, cioè il principale motivo per cui finora il Kurdistan siriano non ha subìto un attacco su larga scala proveniente dalla Turchia. Di certo c’è che la presenza dei “foreign fighters” nelle prigioni del nord-est della Siria sarà uno dei temi a cui presteranno più attenzione molti paesi del mondo, tra cui parecchi governi europei. Honduras. I mandanti dell’assassinio dell’attivista Berta Cáceres restano impuniti di Simone Scaffidi La Repubblica, 14 gennaio 2019 Nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016, due uomini armati hanno fatto irruzione nella casa dell’attivista honduregna assassinandola. Fondatrice del Copinh (Ong per la difesa dei diritti umani) Berta si era opposta alla costruzione della Centrale Idroelettrica Agua Zarca. Morire per le idee. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016, due uomini armati hanno fatto irruzione nella casa dell’attivista honduregna Berta Cáceres, assassinandola. In prima battuta, gli inquirenti hanno attribuito l’omicidio a presunti ladri, in un secondo momento è stata avanzata l’ipotesi del “delitto passionale”, ma a chi ha la sensibilità e la pazienza di non credere alle versioni fornite dal Potere, è stato chiaro fin da subito che Berta è stata ammazzata per rubarle la dignità e le idee, non le “cose” che aveva in casa. Fondatrice del Copinh - Consejo Cívico Popular e Indígena de Honduras, assieme alle sue compagne e alle comunità locali, Berta si era opposta alla costruzione della Centrale Idroelettrica Agua Zarca, promossa dall’azienda Desa. Per questa ragione è stata ripetutamente minacciata - di morte e di stupro - intimidita e alla fine assassinata. Berta, grazie al suo impegno, era diventata negli anni un punto di riferimento per tutte le organizzazioni latinoamericane che si occupano di diritti umani e portano avanti una lotta trasversale contro lo sfruttamento dei territori e le discriminazioni di genere e di etnia. Il processo e le condanne. Il 29 novembre 2018, dopo due anni di pressioni internazionali, indagini ufficiali e parallele, la corte del Tribunale penale nazionale di Tegucigalpa (la capitale dell’Honduras) ha emesso la sentenza di condanna per sette degli otto imputati per l’omicidio di Berta. Di queste sette persone, due sono funzionari o sono stati funzionari di Desa mentre quattro sono militari o ex militari dell’esercito della Repubblica dell’Honduras. Sergio Ramón Rodríguez è stato il direttore dell’area sociale e ambientale di Desa, considerato uno dei principali responsabili delle infiltrazioni in seno alla comunità indigena lenca al fine di garantire il consenso intorno al progetto e la sorveglianza di Berta Cáceres e altri membri del Copinh. Douglas Geovanny Bustillo è un ex tenente dell’esercito addestrato negli Stati Uniti che fino al giugno 2015 è stato capo della sicurezza di Desa, ritenuto una delle menti dell’agguato. Mariano Díaz Chávez è maggiore delle forze speciali di sicurezza dell’Honduras, anch’egli addestrato negli Stati Uniti, implicato in traffico di armi e droga. Henry Javier Hernández, sergente delle forze speciali sotto il comando di Diaz, è considerato il selezionatore e il capogruppo dei sicari che hanno realizzato l’omicidio. Gli altri tre nomi sono quelli di Edilson Duarte Meza, Edwin Rapalo e Oscar Torres, ex militari. Il 10 gennaio il tribunale comunicherà l’entità delle condanne, fino a tale data i sei sono sotto regime di carcere preventivo. L’evidenza. Le condanne confermano ciò che il Copinh aveva sostenuto fin dall’inizio delle indagini, ovvero che Berta è stata uccisa per volontà di alcuni funzionari dell’azienda Desa in stretta collaborazione con membri delle forze speciali dell’esercito honduregno. Tesi avvallata anche dall’inchiesta del Guardian del febbraio 2017, che ha anche messo in luce i legami tra i servizi segreti honduregni e le forze speciali statunitensi. Il Copinh, di cui Berta al momento dell’assassinio era coordinatrice, ha espresso perplessità per il mancato riconoscimento della propria organizzazione come parte lesa durante il processo e di conseguenza per l’esclusione formale di Desa, in quanto azienda, e dei suoi quadri dirigenziali come accusati. È stata fatta giustizia? Sarebbe interessante poterlo chiedere a Berta Cáceres. Ma il suo percorso e la sua storia rispondono per lei. Finché attiviste e attivisti che lottano per la giustizia sociale e ambientale verranno assassinate, minacciate e aggredite non si potrà parlare di giustizia per Berta. In Honduras, nel 2016, sono stati uccisi 14 attivisti ambientali, il numero pro capite più alto del mondo in rapporto alla popolazione del Paese. Il Paese centroamericano è stato in cima a questa macabra classifica per dieci anni (Fonte: Global Witness). I principali finanziatori della centrale idroelettrica. Nonostante la morte di Berta e il ferimento di Gustavo Castro, attivista messicano che era ospitato da Berta al momento dell’agguato, abbiano indotto i due principali finanziatori della centrale idroelettrica - la Netherlands Development Finance Institution (FMO) e la Finnish Fund for Industrial Cooperation (Finnfund) - a ritirarsi dal progetto il Copinh e la famiglia di Berta credono che la strada per la giustizia sia ancora lunga. In un’intervista rilasciata da Bertha Zúniga, figlia di Berta Cáceres e attuale coordinatrice del Copinh, a LINyM, l’attivista commenta così il giudizio della corte, augurandosi che in marzo inizi il processo contro Roberto David Castillo ex direttore di DESA: “La sentenza condanna gli esecutori materiali dell’omicidio e alcuni membri della struttura intermedia che ha organizzato l’attacco. Si è anche evidenziato come questi ultimi avessero un legame diretto con DESA. Purtroppo i mandanti sono ancora liberi e godono d’impunità”.