La scelta della Consulta sui diritti del Parlamento di Sabino Cassese Corriere della Sera, 13 gennaio 2019 La Corte costituzionale ha respinto il ricorso di trentasette senatori sulla mancata discussione della legge di Bilancio ma ha stabilito che il metodo dovrà cambiare. Si è andati ben oltre la prassi in vigore da più di un quindicennio, perché in precedenza il Parlamento votava un testo esaminato dalla commissione Bilancio, sul quale il governo poneva la questione di fiducia. Anche il presidente della Repubblica ha parlato di “grande compressione dell’esame parlamentare”. È sorto un conflitto paragonabile a quello che oppose Bismarck al Parlamento prussiano nel 1859-1866. Trentasette senatori hanno sollevato conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, lamentando che il Senato (sia opposizione, sia maggioranza) non aveva avuto neppure il tempo di esaminare il disegno di legge. La Corte costituzionale ha deciso che il ricorso è inammissibile perché il conflitto non era grave e manifesto, ma ha contemporaneamente stabilito che singoli parlamentari possono rivolgersi alla Corte per violazioni gravi e manifeste delle loro prerogative e che in futuro “simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate”. È stato opportuno rivolgersi alla Corte, “giurisdizionalizzando” un conflitto politico? La Corte avrebbe potuto dichiarare ammissibile il ricorso e poi entrare nel merito? Essa è stata debole o coraggiosa? Il conflitto non era solo politico. Riguardava sia i rapporti tra governo e Parlamento, sia quelli tra maggioranza e opposizione, sia quelli tra singolo parlamentare e assemblea. Questi sono parte dell’equilibrio costituzionale stabilito nella Costituzione, che attribuisce al Parlamento e alla sua maggioranza il potere di approvare le proposte del governo, all’opposizione il compito di controllare la maggioranza, ai singoli parlamentari la funzione di conoscere e deliberare. L’equilibrio, questa volta, è stato rotto - ha detto la Corte - ma non in maniera manifesta e grave. Se la Corte avesse dichiarato ammissibile il ricorso (che apriva la via a più risposte, ma era anche carente nell’individuare il vizio della procedura), si sarebbero dischiuse due strade. Il governo avrebbe potuto subito ripresentare il disegno di legge di Bilancio al Senato, facendolo approvare nelle forme rituali: il vizio era infatti solo di procedura, sanabile. Oppure, si sarebbe potuto aspettare la decisione della Corte nel merito, che avrebbe richiesto due o tre mesi, lasciando il Bilancio 2019 “sub judice”, con le conseguenze politiche che si possono immaginare per il Paese e per la Corte. Quest’ultima ha quindi saggiamente e arditamente preso un’altra strada, quella di mettere insieme una decisione di inammissibilità per l’oggi e di fondatezza per il futuro, affermando chiaramente che il disegno di legge di Bilancio, a partire dall’anno prossimo, deve essere approvato con le procedure indicate dall’articolo 72 della Costituzione. La Corte, in terzo luogo, ha colto l’occasione per porre coraggiosamente un argine alle aberrazioni di alcune procedure parlamentari, ristabilendo l’equilibrio costituzionale tra singolo parlamentare e assemblea, e tra maggioranza e opposizione. L’ha fatto con una decisione che ha importanti effetti di sistema, perché ha stabilito che il funzionamento interno delle assemblee parlamentari (i cosiddetti “interna corporis”) non sono sottratti al controllo della Corte quando vi siano manifeste e gravi violazioni della Costituzione (questa volta non vi erano, per diversi motivi). Lo strumento per assicurare il controllo è l’apertura del ricorso ai singoli parlamentari (infatti, in questo caso, sono stati privati della possibilità di esaminare il disegno di legge non solo i senatori dell’opposizione, ma anche quelli della maggioranza). Finora, la Corte costituzionale aveva detto che le Camere debbono trovare i correttivi nel loro interno. D’ora in poi, mille parlamentari possono rivolgersi alla Corte se vi sono gravi e manifeste violazioni delle loro prerogative. Viene così ristabilito l’equilibrio dei poteri, sia impedendo al governo di sfruttare la questione di fiducia con i cosiddetti maxiemendamenti che bloccano o strozzano l’esame parlamentare (è quindi rafforzato il Parlamento), sia impedendo alla maggioranza parlamentare e alle stesse opposizioni di ridurre l’area delle prerogative dei singoli parlamentari, e quindi ridando voce ai “peones” e limitando la “tirannide della maggioranza” lamentata fin dai tempi di Madison e di Tocqueville. Non ci sono più aree immuni dal sindacato costituzionale. Uno dei maggiori costituzionalisti tedeschi, nel paragonare la Corte costituzionale italiana a quella tedesca, in un saggio recente, non ancora pubblicato, ha fatto l’elogio dell’approccio minimalista della nostra Corte citando la seconda lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso, dove è scritto che “la forza si manifesta pienamente nella debolezza”. Con la decisione raggiunta il 10 gennaio scorso, la Corte fa un grande passo avanti, dando l’impressione di restare ferma. Riporta quello che appariva come un conflitto politico nell’alveo del diritto. Amplia il proprio sindacato all’attività interna del Parlamento, quando vi siano violazioni gravi e manifeste della Costituzione. Mette le basi per il riconoscimento di uno statuto dell’opposizione. Rende più visibile la dialettica tra maggioranza e opposizione, e tra singolo parlamentare e assemblea. Fa fare un passo avanti alla incerta democrazia italiana. Legittima difesa. Di Maio depone le armi: “Prima si approva e meglio è” di Angelo Picariello Avvenire, 13 gennaio 2019 Nella maggioranza si moltiplicano le ragioni di frizione, anche se domani si apre una settimana decisiva per trovare la quadra in un unico decretone - che dovrebbe essere approvato giovedì in consiglio dei ministri - sulle due questioni simbolo, il reddito di cittadinanza e “quota 100”. Ci mancava solo la cannabis, ad alimentare le divisioni. “Non mi sembra che sia una priorità in questo Paese legalizzare chi si fa le canne”, dice Matteo Salvini, davanti un gazebo della Lega, a Milano. Beppe Grillo ha sostenuto che l’iniziativa potrebbe portare benefici nel contrasto alla legalità, ma il leader della Lega la vede diversamente: “Fermiamo 15 persone per strada e chiediamogli quale è la priorità che il Parlamento e il governo devono affrontare. Immagino che il lavoro e la sicurezza vengano prima”, dice confermando la linea emersa nell’intervista al nostro giornale del capogruppo al Senato del Carroccio Massimiliano Romeo, di tener fuori dal contratto i “temi sensibili”. Ma c’è una polemica ancora più appuntita, frutto del ritorno alla satira del fondatore di M5s. Ad aprire lo scontro era stato proprio Beppe Grillo. “Ho detto alla madre di Salvini che quella sera doveva prendere la pillola - è la ricostruzione di quanto detto dal comico in teatro a Napoli, pubblicata da Repubblica - Anni fa, quando lo incontravo, mi dava del lei. Poi parlai alla madre al cellulare. Salvini è un foruncolo sul progresso”. La risposta non si fa attendere: “Secondo Grillo mia mamma doveva prendere la pillola invece di partorirmi? Io rispondo, anche a nome della mia brava mamma, con un sorriso” scrive il vicepremier leghista, chiudendo il tweet con una faccina sorridente. C’è, ancora, il fronte Tav a spaccare in due non solo la coalizione di governo, ma in qualche in modo pure il Paese. Tuttavia i due vicepremier gettano acqua sul fuoco: “Io non guardo i sondaggi e vado avanti con questo governo”, assicura Salvini. “Il mio sondaggio - dice - è quello che la gente mi dice quotidianamente, i grazie che raccolgo per i fatti, non le chiacchiere”. E anche Di Maio spinge sulle ragioni che uniscono. Mano tesa alla Lega sulla nuova legittima difesa, già approvata dal Senato: “Per me prima si approva la legge meglio è”, dice, escludendo modifiche alla Camera. Ma intanto, il M5s prova a cavalcare ora la rivolta francese. Oggi il vicepremier, con Alessandro Di Battista, come rivelato dal Fatto quotidiano, ha in programma a Roma un incontro con due leader dei Gilet gialli. Decreto sicurezza, noi stiamo con le Antigoni Il Manifesto, 13 gennaio 2019 Si ripropone, da secoli, ogni volta che insorge lo “stato di eccezione” - ovvero ogni volta che il potere politico esubera non solo rispetto all’ordine giuridico ma alle norme etiche o alla percezione di valori non scritti della civiltà - lo storico conflitto fra Creonte e Antigone, fra la Legge storica e la Legge naturale e umana della compassione e della pietà. Il conflitto è noto e gli dà voce l’immensa tragedia di Sofocle: da una parte le ragioni di Creonte, il tiranno di Tebe che, interpretando le leggi della città che impediscono sepoltura ai traditori, proibisce l’inumazione del ribelle Polinice; dall’altra le ragioni di Antigone, la giovane fanciulla sorella di Polinice che, vedendo il cadavere esposto al martirio dei corvi, disobbedendo alla legge, con rischio personale, sacrificando la sua felicità (è promessa ad Emone, figlio di Creonte), porta il corpo del fratello nella città e lo seppellisce. Sofocle, i Greci cioè, non prendono posizione per una delle due parti (anche se la tragedia si chiama Antigone). Sono tragici appunto e sanno che non ci può essere società e giustizia senza il rispetto della legge, così come non può esserci umanità senza la pietà e l’inumazione dei morti. Da tragici, cavalcano entrambe le ragioni (anche se, appunto, la tragedia continua a chiamarsi Antigone). Noi invece, qui ed ora, stiamo dalla parte di Antigone e di tutte le Antigoni. Perché sono molte, dopo quella dell’alba greca. In nome di Antigone, per esempio, si schierarono gli avvocati che accusarono i criminali nazisti durante il processo di Norimberga: processo che in nome di Creonte non avrebbe mai potuto essere celebrato in quanto quei capi nazisti non avevano fatto altro che obbedire alla legge scritta, storica, del loro Stato. Così come fu in nome di Antigone che i soldati americani strapparono la loro carta di identità per disobbedire alla scelta scellerata della guerra del Vietnam, ed è in nome di Antigone che in ogni paese, tanti e tanti disobbedienti, si ribellano alla violazione dei diritti umani pur sancita dalla legge di quei Paesi. Stiamo dunque con le Antigoni, disobbedienti per far andare avanti la vita, perché è falsa la separazione, perché è falso che possa esistere una Legge che sia contro la Vita. La vita, la sua dignità, la cura della sua fragilità, è il fondamento della legge, senza del quale la legge non è che esercizio retorico o peggio, brutale esercizio del potere: uno “sterile e colpevole legalismo”, come denunciò nel 1946 Piero Calamandrei, appellandosi invece alle “leggi superiori di Antigone”, leggi dell’umanità che poi improntarono lo spirito e i principi della nostra Costituzione. Stiamo con le Antigoni e dunque con quei Sindaci, che, mettendo a rischio la sicurezza del loro mandato, in questi giorni disobbediscono ad un Decreto contro l’immigrazione, una vera e propria legge razziale che fomenta la violenza e la paura, sentimento non ammissibile nello Stato, ma appunto foriero a legittimare solo uno “stato di eccezione”. Stiamo con le Antigoni e con i Sindaci anche perché la civiltà che più amiamo è figlia di un mare di terre e di mari, come diceva un suo grande cantore, che non può essere pensato se non come una koinè ospitale, dove le voci, le storie degli uomini e delle donne, si intrecciano, si scambiano e si danno rifugio e reciproco soccorso. In questo mare, nel basso Mediterraneo, si sta compiendo un crimine che ci rinfacceranno tutti i libri di storia. E fossimo stati più giovani, molti di noi avrebbero prestato i loro corpi per fermare questo massacro, magari andando su quelle navi dove la meglio gioventù europea oggi va all’aiuto dei naufraghi. Possiamo però oggi mettere a disposizione le nostre parole, i nostri libri, gli spazi nei giornali, i nostri insegnamenti a scuola e all’università, per sostenere un grande movimento di disobbedienza e resistenza civile che restituisca all’Italia la pietà (la pietas). In nome di Antigone. Per Officina dei Saperi: Laura Marchetti, Ilaria Agostini, Lucinia Speciale, Maria Pia Guermandi, Cristina Lavinio, Tiziana Drago, Renata Puleo, Lidia Decandia, Rossella Latempa, Amalia Collisani, Francesca Leder, Piero Bevilacqua, Enzo Scandurra, Tonino Perna, Giuseppe Aragno, Vittorio Boarini, Dino Vitali, Roberto Budini Gattai, Francesco Trane, Alessandro Bianchi, Luigi Vavalà, Velio Abati, Battista Borghi, Alfonso Gambardella, Francesco Santopaolo, Rossano Pazzagli, Battista Sangineto, Giuseppe Saponaro, Romeo Salvatore Bufalo, Paolo Favilli, Piero Caprari, Gianni Vacchelli, Franco Blandi, Franco Novelli, Piero Totaro, Carmelo Albanese, Giovanni Attili. Andrea Battinelli, Alberto Ziparo, Franco Toscani, Ugo M. Olivieri. Chi volesse aderire al Manifesto può farlo alla mail: officina-dei-saperi@googlegroups.com. Livia Pomodoro: “Le colazioni con Falcone al Quirinale da Cossiga” di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 13 gennaio 2019 Livia Pomodoro, 78 anni, è stata in magistratura per 50 anni. Dal 2007 al 2015 è stata presidente del Tribunale di Milano, ruolo prima ricoperto per il Tribunale dei minori. Presidente Livia Pomodoro, lei era capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia quando la mafia trucidò Giovanni Falcone, la moglie Francesca e i ragazzi della scorta. Due mesi dopo toccò a Paolo Borsellino. Come visse quei mesi nel cuore dello Stato colpito dalla mafia? “Giovanni mi convinse ad accettare l’incarico. Il ministro Claudio Martelli voleva creare una direzione nazionale antimafia, una anticorruzione, una per le forze di polizia... gli serviva una persona competente. Tentennavo, Falcone mi telefonò: “Arrivo anch’io, lavoreremo bene insieme”. Accettai e furono anni durissimi. Alla 8 di mattina il presidente Cossiga mi tirava le orecchie se non avevo già letto i giornali. Martelli rimproverò me e Falcone di andare troppo spesso a colazione dal Presidente. Nella primavera del ‘92 mi ruppi i legamenti della caviglia e fui costretta a muovermi in carrozzella. Ogni venerdì, Giovanni lasciava sul mio tavolo i dossier : “Se sono da te, sono più tranquillo”. L’ultimo maledetto venerdì disse: “Vado a pescare il tonno”. “Faresti meglio a riposarti” risposi, e partii per Milano con Liliana Ferraro, sua vice, che sarebbe stata mia ospite. La notizia ci travolse nel pomeriggio. Liliana partì per Palermo, io per Roma. Convocai dall’ultimo usciere al primo funzionario sul grande scalone. Dovevamo reagire. L’indomani partii per Palermo. Rimasi un’ora accanto alla bara, poi tornai al ministero. Qualche giorno dopo, Maurizio Costanzo mandò in onda la sua trasmissione da Palermo. Insistette perché vi partecipassi, ma gli chiesi di rimanere in platea. A un certo punto si spensero le luci e illuminarono me. Costanzo cominciò a farmi domande. Tornando in aereo, Martelli disse: “Quella scena rimarrà impressa nella memoria”. Sbarcati, ci venne incontro il Capo della polizia: “Dobbiamo metterla sotto protezione speciale”. Per due mesi rimasi reclusa nel ministero. Poi uccisero Borsellino. La notte lavorammo all’inasprimento del 41 bis, firmato sul cofano della macchina del ministro”. Fu quella la sua scuola di vita? “In realtà no. Quand’ero giudice della famiglia mi costringevo a tour defatiganti per parlare con la gente: non insegnate ai vostri figli ad essere remissivi, ma a far valere le proprie ragioni con il cervello. Poi divenni capo di un gruppo di procuratori della Repubblica per i minori, ma i poliziotti telefonavano sempre a me. Le racconto una notte qualunque. Squilla il telefono: “Dottoressa, abbiamo trovato per strada una donna nuda, urla e ha un bambino in braccio, pare abbia fame”. Portatela in ospedale e prendete un panino per il piccolo. “Il bambino non mangia perché i genitori gli hanno detto di non prendere cibo dagli estranei”. Cercate il padre. “Suona il clarinetto in un locale notturno”. Andate a prenderlo e portatelo in ospedale. A quel punto, il bimbo azzannava il panino. Poi c’erano le Salomè”. Salomè? Chi erano? “Salomè era una bella prostituta siciliana. Si vendeva in piazza Diaz e anche in casa. Ci segnalarono che aveva partorito e “lavorava” in presenza del bambino. Mandai un appuntato per un sopralluogo. “La signora Salomè mi ricevette in abito da lavoro”. In che senso? “Un corpetto con cui esercitava e nient’altro... C’era una culla con bimbo e la suddetta Salomè mi minacciò dicendo di riferire alla dottoressa Pomodoro che gliel’avrebbe fatta pagare”. Per alcuni giorni, alle 5 di mattina squillò il mio telefono: “Puttana, io ho finito di lavorare, adesso comincia tu!”. La convocai nel mio ufficio. C’era la coda, lei era la penultima. Una donna parlava bene di me, sostenendo che aiutavo la gente. Salomè intervenne: “Dopo non aiuterà più nessuno” e mostrò uno stiletto. La donna entrò e me lo raccontò. Chiamai i carabinieri, ma Salomè era scomparsa. Allora me la feci portare in ufficio: “O accetti di mandare a balia il bimbo e di vederlo solo quando non eserciti, o finisci in galera”. Accettò: il bambino tornò a casa quando cominciò ad andare a scuola e Salomè a fare una vita meno in prima linea”. Come arrivò da Molfetta, dove è nata, a fare il giudice a Milano? “Io e mia sorella gemella Teresa siamo nate nel 1940. Avevamo tre fratelli più vecchi, il primo, Giovanni, pilota, non tornò da una spedizione su Alessandria d’Egitto. Mamma sopravvisse al dolore perché eravamo nate noi. Papà era farmacista, inviso al regime. Per punizione lo costringevano a fare i turni di notte. Presto sfollammo in campagna e papà veniva a trovarci per cena. Il mio primo ricordo è di mamma che fa coroncine di lucciole da metterci nei capelli quando arriva papà. Io e Teresa crescevamo in simbiosi, ma eravamo diverse: lei diceva di avere il terzo occhio, era creativa; io prosaica. Aveva le idee chiare e intraprese studi umanistici; io prima volevo fare il medico, poi il diplomatico, infine mi laureai in Giurisprudenza, senza convinzione, ma con 110 e lode e dignità di pubblicazione, perché quando decido di fare qualcosa ci metto l’anima. Partii per Ginevra con una borsa di studio e, tornata, sostenni l’esame per entrare in magistratura, carriera appena aperta alle donne. Giunsi a Milano in una mattina del ‘66. Teresa mi avrebbe raggiunta dopo: avrebbe fatto inizialmente la preside e sviluppato la sua passione per il teatro alla scuola di Giorgio Strehler”. Cominciavano gli anni caldi... “Terribili furono i Settanta. Perdevo per strada i compagni di viaggio. Sono finita in molte liste delle BR. Con Guido Galli andavamo al lavoro sulla mia 125 scassata. Dovevamo essere uccisi insieme, ma entrò in azione Prima linea trucidandolo alla Statale e anticipando i brigatisti. Anni dopo ero pm in un processo contro alcuni terroristi. Mentre il presidente era in camera di consiglio, autorizzai un imputato a salutare la sua bambina in aula. Uno di loro mi disse: “Siamo contenti di non averla ammazzata”“. Non ha mai temuto che lo Stato cedesse? “Avevamo l’orgoglio di far bene il nostro mestiere. Io avevo grandi maestri e imparavo dai miei errori. Il presidente del tribunale, Luigi Bianchi d’Espinosa, dopo una delle mie sentenze mi chiamò: “Quando la smetti di scrivere sciocchezze?”, e mi prese sotto la sua ala. Prima di morire mi donò la sua toga rossa. Altro grande maestro fu Adolfo Beria d’Argentine”. Lei è madre del Codice di procedura penale per i minori, in vigore “intonso” da trent’anni. Come andò? “La guerriera che è in me ha lottato anche allora. Fu durante la prima esperienza al ministero con Virginio Rognoni e poi con Giuliano Vassalli. La riforma del Diritto penale era affidata alla presidenza di Giandomenico Pisapia, a me il Codice di procedura penale per i minori. Ritenevo che il Codice per i minori dovesse essere inserito in un capo di quello per gli adulti. Vassalli era contrario: “Livia, passerai alla storia, cosa vuoi di più?”. Non importava: ero convinta che così sarebbe stato meno efficace. Sbattei la porta e mi rintanai sulle colline dell’Oltrepò pavese. Ogni giorno sentivo il mio vice per far progredire il codice e, all’ennesima telefonata di amici che mi imploravano di cedere, scesi dall’Aventino e lo firmai”. Lei è stata presidente del Tribunale per i minori e poi del Tribunale di Milano, prima donna ad assumere un incarico così importante, tanto da diventare un’icona. Nemmeno in quell’occasione le tremarono i polsi? “Venni nominata mentre ero in vacanza con Teresa in Caucaso. Di lì a poco mia sorella sarebbe mancata e solo io sapevo della sua malattia. Il tribunale era una meravigliosa carcassa di nave con solo il timone. Mi rimboccai le maniche per riorganizzarlo e, il 20 agosto 2008, Teresa mi lasciò. Quella notte, disperata, ripensai alla nostra vita. Al mattino ero ancora più determinata: i sogni non possono morire. Mi gettai a capofitto nel lavoro e assunsi la presidenza dello Spazio Teatro No’hma, mantenendo in vita il progetto di Teresa”. Ci fu anche un marito? “Mi sono sposata nel 1979 con un collega. Colto, gran viaggiatore. Dieci anni dopo mi propose di ritirarci e passare gli anni successivi in giro per il mondo. “Non è il mio progetto”, risposi, e ci separammo senza drammi”. È parente di Giò e Arnaldo Pomodoro? “Siamo cugini. Per molto tempo loro coltivarono una reciproca incomprensione, ma quando Giò si ammalò, Arnaldo fece un grande gesto: alle Scuderie del Quirinale chiesero una sua opera da esporre all’ingresso di una mostra dedicata ai grandi scultori del Novecento; lui cedette lo spazio a Giò. Io, Teresa, Arnaldo e il suo compagno abbiamo passato molte estati di vacanza insieme a Tangeri. Andavamo in una spiaggia sull’oceano. Teresa, con il suo terzo occhio, ogni giorno perdeva qualcosa. Un giorno perdemmo lei, finché ci accorgemmo di una coda di marocchini in riva al mare che seguiva una donna avvolta da veli. Era Teresa: provava la parte di Elettra e non si accorgeva di essere diventata un’attrazione”. Vogliamo uscire dal carcere migliori di quando siamo entrati L’Espresso, 13 gennaio 2019 Siamo un gruppo di detenuti del carcere di Larino (Campobasso), coinvolti dal gran vociare che si fa riguardo agli istituti di pena in questo periodo. L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un preliminare di decreto di modifica di alcune condizioni legate alla detenzione ha segnato la nostra estate con un orizzonte di speranza e contemporanea fiducia. Per la prima volta non si è affrontata la questione carcere con un’ottica mirata a liberare posti o punire comportamenti sbagliati, si è cominciato a parlare di condizione dell’essere umano, al di là della pena. Garanti, regole certe nei rapporti con la Magistratura di sorveglianza, sanità penitenziaria, tempi e attese ridotte per le decisioni, una grande occasione. Ma all’improvviso, quando all’orizzonte si intravedeva qualcosa, quando tutto era così vicino i tempi si sono altrettanto improvvisamente dilatati, nascosti da una enorme incertezza. Un disastro, forse era meglio non illudersi e continuare con i soliti ritmi, in carcere basta poco a modificare lo stato d’animo. Poco dopo, a seguito di gravi fatti di cronaca, la marcia indietro si è collegata ad una visione populista della pena, slegata completamente dalla rieducazione. Certo, è vero, la punizione dei colpevoli è giusta e deve esistere. Ma chi non vuole più sbagliare nella vita ed ha approfittato della detenzione per migliorare se stesso come uomo e come cittadino, ha diritto di essere valutato per quello che è diventato partecipando alla rieducazione, alla quale ha il dovere di partecipare come condannato sì, ma soprattutto come uomo e come cittadino. Ultimo colpo, il valzer dei Direttori. Come terzo atto di un silenzioso disastro, le figure coordinatrici di tutte le attività degli Istituti di pena sono state contemporaneamente rimosse, movimentate, con conseguenze disastrose sulle attività trattamentali di ogni penitenziario. Un cambiamento così improvviso non appartiene al carcere, le figure civili negli istituti hanno sempre assicurato il contatto con le Scuole, con gli Enti di Formazione, con i volontari, le Curie, le cooperative, le ditte che seguendo le leggi dello Stato hanno investito nel lavoro penitenziario, le case famiglia, gli Enti Pubblici. Da un giorno all’altro tutta la rete e le sinergie create spariscono, bisogna crearne di nuove, inventare rapporti che invece richiedono tempo, fiducia e conoscenza. Risultato? La paralisi completa di tutto il pianeta carcere, e per una volta fidatevi di chi conosce dall’interno il carcere e non parla per chiedere di ridurre la pena o di uscire, ma chiede invece a gran voce di continuare sulla strada della partecipazione piena all’opera rieducativa non da parte del condannato, ma da parte dello Stato. Paradossale, ma è così. Questo scritto si può tradurre in poche righe: abbiamo sbagliato, vogliamo pagare, la Legge prevede dei percorsi e noi li vogliamo percorrere, secondo Legge: esseri umani che devono uscire dal carcere migliori di quando sono entrati. Lo Stato deve esserci vicino, deve essere un sostegno, noi dobbiamo impegnarci a migliorare, ma senza interrompere il cammino già fatto ed i sacrifici affrontati. Detenuti nel carcere di Larino (Campobasso) Firenze: overdose mortale a Sollicciano, maxi risarcimento ai familiari di Gerardo Adinolfi La Repubblica, 13 gennaio 2019 I giudici condannano il ministero: 675mila euro per non aver impedito lo spaccio fra le celle. Il ministero della Giustizia dovrà risarcire la famiglia di una detenuta morta per overdose nel carcere di Sollicciano, quindi sotto custodia dello Stato. Il Tribunale civile di Firenze ha condannato l’amministrazione penitenziaria a versare oltre 675 mila euro di risarcimento ai genitori, ai tre figli e ai due fratelli, assistiti dall’avvocato Gabriele Melani. La donna, 36 anni, è deceduta il 28 ottobre 2014 nel reparto femminile del carcere fiorentino dopo aver assunto una dose letale di eroina. Pur riconoscendo “il comportamento colposo della vittima per aver volontariamente e coscientemente assunto la sostanza stupefacente - scrive il giudice Massimo Donnarumma nella sentenza - può ritenersi accertato come vi sia stata una condotta di tipo omissivo” da parte del carcere di Sollicciano “per non aver adottato misure idonee a controllare e evitare l’ingresso degli stupefacenti nella struttura carceraria”. Per il giudice, infatti, già mesi prima della morte della detenuta era nota all’amministrazione del carcere “la capillare e diffusa circolazione di sostanze stupefacenti all’interno di Sollicciano e nel reparto femminile”. E a seguito delle “plurime segnalazioni” e dei “segnali d’allarme” i vertici del carcere avevano adottato dei provvedimenti che per il Tribunale però sono stati “del tutto inadeguati rispetto al fenomeno di capillare e continua circolazione della droga e come fosse possibile mettere in campo altri interventi per contrastarlo”. Interventi risolutivi che, dice il giudice, sono stati poi messi in atto soltanto dopo la morte della donna. “L’aver consentito l’ingresso capillare e costante della droga nella struttura - scrive il giudice - è sintomatico di un’evidente e grave carenza di sicurezza all’interno della struttura carceraria, oltre che sotto il profilo della tutela della salute dei detenuti tossicodipendenti, che hanno avuto plurime occasioni per procurarsi sostanze dannose e potenzialmente letali in un ambiente che dovrebbe essere protetto”. La sentenza della seconda sezione civile ripercorre le cause del decesso della detenuta sottolineando come “la tossicodipendenza conclamata” della donna fosse ben nota all’autorità penitenziaria. Dopo che gli erano stati revocati i domiciliari, proprio per l’uso di sostanze stupefacenti e per problemi con l’ex convivente, la donna sarebbe dovuta rimanere in carcere fino al 30 ottobre, data in cui il Tribunale avrebbe deciso se affidarla a un centro di recupero insieme alla figlia minore. Ma è morta due giorni prima di quel giorno. Altre due ragazze, nei giorni precedenti e successivi al decesso, si erano sentite male proprio per sospette overdose. La sentenza descrive anche come avveniva lo spaccio nel reparto femminile di Sollicciano. cioè attraverso permessi premio o colloqui con i familiari e poi pagata tramite la spesa in carcere. L’amministrazione si è difesa in Tribunale affermando di aver fatto tutto quanto in suo potere per impedire quella morte. In quei giorni furono fatti controlli delle urine alle detenute sospettate dello spaccio, furono intensificati controlli ordinari nei loro confronti e dei loro familiari e circa un mese prima ci fu un intervento delle unità cinofile nel carcere. Ma per il giudice, considerata la “gravità della situazione” evidenziata anche nelle relazioni di servizio, doveva essere fatto di più. Il Tribunale, nello stabilire i risarcimenti ai familiari, ha anche tenuto conto del rapporto di parentela ma anche dei legami sentimentali. Ha escluso dai risarcimenti l’ex convivente, per l’assenza di una relazione stabile mentre li ha concessi al padre, alla madre, ai tre figli e ai due fratelli. Taurianova (Rc): è morta la poliziotta penitenziaria Sissy Trovato Mazza Corriere della Calabria, 13 gennaio 2019 Si è spenta nella serata di sabato Sissy Trovato Mazza, la poliziotta penitenziaria calabrese in stato vegetativo da due anni a causa di un colpo di pistola esploso da una mano ignota mentre era in servizio a Venezia l’1 novembre del 2016. Il caso della giovane, all’epoca 28enne, è stato al centro della cronaca nera. Le indagini, infatti, sono state inizialmente indirizzate ad un suicidio, tesi che non ha mai convinto i genitori della ragazza. Sissy, in servizio all’istituto di pena femminile della Giudecca di Venezia, aveva iniziato una propria battaglia personale contro gli abusi in carcere. L’attenzione mediatica per il caso, ha portato gli investigatori ad orientarsi poi sull’ipotesi di aggressione a terzi e dunque potrebbero aprirsi una nuova ipotesi investigativa per omicidio. Sissy si è spenta nella casa dei suoi genitori a Taurianova. Le sue condizioni si erano aggravate nelle ultime ore. Portata al vicino ospedale di Polistena, i medici hanno constatato la grave infezione e acconsentito ai genitori di poterla portare a casa. Trento: carenze sanitarie nel carcere. Bordon (Asp): sì a più infermieri di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 13 gennaio 2019 Sarà rafforzata la presenza di infermieri che si occupano dell’assistenza e della cura dei detenuti nel carcere di Spini di Gardolo. Giovedì la questione è stata discussa durante un vertice, nel corso del quale il personale ha chiesto anche intervento sulle attrezzature per migliorare la quotidianità del proprio lavoro. “Siamo disponibili” ha detto il direttore generale dell’Azienda sanitaria Bordon. Anche le associazioni chiedono un incontro. Domani vertice al commissariato. In arrivo più infermieri nel carcere di Spini di Gardolo che si aggiungono alle attuali 13 figure che si occupano dell’assistenza e della cura dei detenuti (circa 350 persone nel 2018), ma anche interventi sulle attrezzature e l’informatizzazione per migliorare la quotidianità del proprio lavoro. “Siamo aperti a rafforzare l’organico e a trovare ogni soluzione per migliorare il lavoro degli operatori sanitari in carcere”, spiega il direttore generale dell’Azienda sanitaria Paolo Bordon che giovedì ha incontrato, insieme al direttore sanitario Dario, al direttore del servizio ospedaliero Guarrera gli infermieri del carcere che hanno esposto le proprie esigenze dopo la rivolta di dicembre che ha fatto emergere le problematiche esposte dai detenuti tra cui quelle sanitarie. “È un gruppo molto coeso e motivato che ringrazio - prosegue Bordon - ora siamo nella fase di brain storming generale, ma entro fine mese saremo in grado di definire un modello organizzativo nuovo”. Prima però il passaggio importante di domani alle 10 al Commissariato del governo dove si riunirà il “Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica” allargato: attorno al tavolo il prefetto Sandro Lombardi, il questore Giuseppe Garramone, il governatore Maurizio Fugatti e l’assessora alla salute Stefania Segnana, la direttrice del carcere Francesca Gioeni, i vertici dell’Azienda sanitaria, la garante dei detenuti Menghini e il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Padova Sbriglia, che con i vertici della Camera penale Fedrizzi e del Consiglio dell’ordine degli avvocati de Bertolini oltre al cappellano del carcere Mauro Angeli, parleranno dei “nodi” del carcere da risolvere. “L’avevamo promesso dopo la rivolta e ora lo facciamo per trovare soluzioni e fare prevenzione - commenta il questore Garramone - sono state invitate tutte le persone e gli enti convolti dalle problematiche nel penitenziario di Spini. Erano sostanzialmente due: uno legato al personale di sorveglianza e l’altro all’assistenza sanitaria”. Problemi che il questore, il prefetto e la direzione del carcere avevano capito fin da subito e raccolto nella lunga e difficile trattativa con i detenuti rivoltosi del 21 dicembre scorso. Con loro c’era anche la garante dei detenuti Antonia Menghini che con i carcerati è a stretto contatto. “Abbiamo tutti molta fiducia di poter trovare da questo incontro soluzioni migliorative e di prevenzione - spiega la docente di diritto penale all’università di Trento - al di là dell’importante fotografia dell’esistente, credo si possa immaginare in chiave operativa come si può procedere per migliorare la situazione, serve subito una linea operativa”. Fiducioso anche il direttore Bordon, che formalizzerà a breve al governatore Fugatti e all’assessore Segnana la sua relazione sull’attività attualmente garantita in carcere e sulle nuove proposte di modello organizzativo che emergerà dagli incontri. E precisa: “È stato proprio il presidente Fugatti a chiedermi di fare un lavoro di ricognizione di avanzare delle proposte: voglio dire che c’è una grande disponibilità del presidente per migliorare la situazione attuale: mi pare ci siano tutte le premesse per trovare soluzioni ottimali per chi lavora in carcere e per chi è detenuto”. Napoli: “non uccise nessuno né ordinò gli omicidi”, assolto dopo 26 anni di Simona Musco Il Dubbio, 13 gennaio 2019 All’assoluzione si è arrivati a seguito di due annullamenti con rinvio da parte della Cassazione. Ventisei anni dopo l’arresto, 20 dopo la condanna, Cosimo Commisso, classe 1950, alias “u quagghjia”, non è più il mandante di quegli omicidi che gli erano costati l’ergastolo. Ora è libero. Una sentenza clamorosa quella della Corte d’appello di Napoli, che, come riporta Gazzetta del Sud, ha annullato la condanna all’ergastolo pronunciata dalla Corte di assise d’appello di Reggio Calabria il 24 luglio 1998, diventata definitiva il 12 maggio 1999 “per non aver commesso il fatto”. Commisso era ritenuto mandante di cinque omicidi e tre tentati omicidi tra il 1989 e il 1991, quando a Siderno, nel cuore della Locride, era in corso la sanguinosa faida tra i Commisso e i Costa. Ogni omicidio, secondo la sentenza “Siderno Group”, “è stato realizzato in attuazione di un programma di eliminazione dei componenti il clan avversario, previa individuazione delle vittime e degli esecutori materiali da parte dei capi delle rispettive consorterie”, ovvero Cosimo Commisso e Giuseppe Costa, leader del clan rivale e, oggi, collaboratore di giustizia. Erano loro due, secondo le sentenze, i “capi delle rispettive organizzazioni” e avevano agito facendo prevalere “le motivazioni dell’odio su ogni barlume di umanità”, perché, diceva Costa, “la guerra è guerra”. Un ruolo di vertice che, a Commisso era stato riconosciuto grazie anche alle dichiarazioni di numerosi pentiti - sette nel corso del processo e, più avanti, a condanna già avvenuta, anche da Costa - “i quali avevano ricostruito la linea di successione nel ruolo di capocosca dal 1975 in poi siccome attribuito, dopo l’uccisione di Antonio Macrì, dapprima a Francesco Commisso, quindi a Vincenzo Commisso” e poi al “quagghjia”. All’assoluzione si è arrivati a seguito di due annullamenti con rinvio da parte della Cassazione. L’ennesimo ricorso in Cassazione ha portato Commisso davanti ai giudici di Napoli, dove i giudici hanno assolto Commisso, basandosi sulle nuove prove. Fino al 1987 c’erano solo loro, i Commisso, al cui interno i Costa avevano operato, fino ad un certo punto, solo come affiliati, occupandosi del traffico di droga, il cui ricavato veniva reinvestito dai Commisso nel controllo degli appalti pubblici a Siderno. Alcuni contrasti, però, minarono il rapporto tra le “famiglie”, fino allo scontro armato: i Commisso accusarono i Costa di aver intrapreso iniziative autonome. Il casus belli fu rappresentato da un furto d’armi a casa di Cosimo Commisso, attribuito proprio ai rivali, che pagarono con la morte di Luciano Costa, fratello di Giuseppe, massacrato il 21 gennaio 1987. Quella morte comportò la rottura definitiva degli equilibri ed una successione vertiginosa di fatti di sangue. Lo scontro, però, si rivelò ben presto impari: pochi gli uomini dei Costa, un esercito quello dei Commisso, che hanno così decimato gli avversari, che hanno contato 26 morti su 34 omicidi complessivi. La richiesta di revisione. Grazie ad un memoriale lungo 150 pagine, nel 2015, Commisso è riuscito ad ottenere la revisione del processo. “Non è seriamente sostenibile - si leggeva nella sentenza di condanna - che un delitto eccellente come quelli in questione fosse stato deliberato da persona collocata in posizione men che verticistica della gerarchia mafiosa del clan”. In quanto capocosca, dunque, Commisso non poteva non sapere. Ma le prove che le cose siano andate così, aveva stabilito la Cassazione pronunciandosi sulla revisione, vanno rintracciate con assoluta certezza. Al “quagghjia” erano stati attribuiti il duplice omicidio di Giordano Donato e Massimiliano Costante, il tentato omicidio e l’omicidio di Giuliano Costa, i tentati omicidi di Giuseppe Costa e Gandolfo Cascio, e gli omicidi di Vincenzo Costa e Vincenzo Filippone. Inizialmente l’accusa gli aveva contestato 20 morti e 15 tentati omicidi che però, secondo Commisso e i suoi legali, potevano avere moventi diversi. Tra questi c’è l’omicidio del carabiniere-killer Giordano, trovato morto sulla Limina, assieme a Costante, il 17 luglio del 1991, quasi decapitato, su una Lancia Thema in fiamme. Giordano, killer a pagamento della famiglia Costa, sarebbe morto per aver ucciso Luciano Commisso, fratello di un altro Cosimo Commisso, classe 1954, freddato sul lungomare di Siderno. Nonostante il legame di parentela fosse blando, per i giudici Luciano e “u quagghjia” avevano un rapporto molto più intimo, motivo per cui poteva esser stato lui ad ordinare quella vendetta. Ma Giordano era vicino anche al clan Cataldo di Locri, ritenuto alleato dei Costa, elemento, questo, che per i legali poteva inserire la sua morte in un altro possibile contesto di vendetta. Brindisi: “messa alla prova”, firmato l’accordo tra Comune e Tribunale lostrillonenews.it, 13 gennaio 2019 Sono state firmate nella mattinata di venerdì 11 gennaio due convenzioni tra il Tribunale di Brindisi, rappresentato dal Presidente dott. Alfonso Pappalardo, e la Città di Francavilla Fontana, rappresentata dal Sindaco Avv. Antonello Denuzzo, in merito allo svolgimento dei lavori di Pubblica utilità. Tecnicamente la convenzione consentirà, a coloro che ne hanno diritto e senza alcun costo per l’Ente, la sospensione del processo con messa alla prova per attività di pubblica utilità nel Comune di Francavilla Fontana. Si tratta di una differente modalità di definizione del processo tramite cui è possibile giungere ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato. L’idea di fondo è quella di risarcire socialmente per il danno o per il reato compiuto. Così come previsto nella delibera dello scorso 24 ottobre, le aree di intervento per la messa alla prova sono: prestazioni di lavoro per finalità sociali e socio-sanitarie nei confronti di persone alcol-dipendenti e tossicodipendenti, diversamente abili, malati, anziani, minori, stranieri; prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali; prestazioni di lavoro per la fruibilità e la tutela del patrimonio ambientale, ivi compresa la collaborazione ad opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo, di protezione della flora e della fauna con particolare riguardo alle aree protette, incluse le attività connesse al randagismo degli animali; prestazioni di lavoro per la fruibilità e la tutela del patrimonio culturale e archivistico, inclusa la custodia di biblioteche, musei, gallerie o pinacoteche; prestazioni di lavoro nella manutenzione e fruizione di immobili e servizi pubblici, inclusi ospedali e case di cura, o di beni del demanio e del patrimonio pubblico, compresi giardini, villee parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia; prestazioni di lavoro inerenti a specifiche competenze o professionalità del soggetto. L’iniziativa, partorita dagli assessorati alle Pari Opportunità e alle Politiche Sociali del Comune di Francavilla Fontana, rappresenta un importante passo in avanti nella Città degli Imperiali per una completa attuazione dell’art. 27 della Costituzione, ed in particolare al comma che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Questa mattina ho sottoscritto due Convenzioni tra il Comune di Francavilla Fontana e il Tribunale di Brindisi - ha dichiarato al termine dell’incontro il Sindaco Denuzzo - entrambe, operative da subito, consentiranno agli imputati di reati punibili con pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni di chiedere la sospensione del procedimento penale che li riguarda e svolgere gratuitamente lavori di pubblica utilità in favore della nostra comunità. Sono certo - conclude il Sindaco - che anche grazie a questo strumento sarà possibile giungere ad una concezione diversa della pena, dando piena attuazione all’articolo 27 della Costituzione”. Padova: corsi della Scuola Edile per la formazione di detenuti e immigrati di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 13 gennaio 2019 Il direttore del carcere Due Palazzi: “Auspico che la collaborazione sia ampliata”. Ci sono anche due immigrati inseriti nel progetto Sprar di Padova tra i quindici diplomati ed i nove lavoratori formati dalla Scuola Edile Padova, fondata nel 1947, che ieri mattina hanno ricevuto il diploma. Una breve cerimonia preceduta dalla tavola rotonda organizzata dall’amministrazione cittadina sul tema “Il valore del lavoro nel progetto di vita dei migranti. Spunti di riflessione ed esperienze a confronto”. Tra i relatori il vicesindaco Arturo Lorenzoni, il direttore del carcere Due Palazzi Claudio Mazzeo, il questore Paolo Fassari, don Luca Facco, direttore della Caritas, ed i rappresentanti di tutti le istituzioni cittadine che hanno portato il loro contributo al dibattito illustrando i tanti progetti in corso con la Scuola Edile Padova. “Con la consegna del diploma si chiude il percorso costruito con tanti enti di città e provincia di inserimento lavorativo di persone richiedenti asilo che hanno capacità straordinarie ed un grande entusiasmo - commenta Lorenzoni - Spero che questo sia l’inizio di un percorso di collaborazione perché non c’è integrazione che non passi attraverso sicurezza e dignità del lavoro. L’immigrazione può creare opportunità per le imprese. Non vedo alternative all’accoglienza diffusa e a percorsi di inserimento al lavoro - conclude - Mi auguro che il decreto Salvini possa essere rivisto e migliorato”. Tra i diplomati Pashk, kossovaro a Padova da un anno con la famiglia, e Clinton, nigeriano, entrambi inseriti nello Sprar padovano che si sono detti soddisfatti del corso da muratore seguito e dell’attenzione che la scuola ha prestato loro. Sono già inseriti in un tirocinio in un’azienda edile padovana. Il direttore del Carcere ha invece illustrato il corso professionale per detenuti organizzato con la Scuola. Una rete di formazione per dieci detenuti in vista del reinserimento sociale, che Mazzeo auspica venga ampliata in quanto in carcere operano già molte cooperative, ma mancava un progetto di formazione aperto all’esterno. Con l’Università invece la Scuola edile ha avviato un progetto per la costruzione di un edificio pilota destinato alla didattica e alla ricerca, che vedrà insieme studenti universitari ed edili. “Da due anni la scuola si è aperta - spiega la presidente Silvana Mason Cazzaro di Costruzioni Ance Padova - e abbiamo progetti in corso con tutti gli enti del territorio. Siamo accreditati dalla Regione, inoltre collaboriamo col progetto Sprar del Comune, con la Camera di Commercio ed il Carcere solo per citare alcuni. I costruttori sono l’unico settore ad avere un ente bilaterale che rende l’insegnamento ed i programmi flessibili e pronti a rispondere alle esigenze di mercato”. Mason sottolinea come il settore edile, dopo la crisi, sia cambiato diventando sempre più specializzato e le aziende faticano a trovare personale preparato. “La Scuola offre anche un servizio per far incontrare domanda ed offerta”. Si tratta del portale Blen.it avviato lo scorso marzo attraverso il quale hanno già trovato lavoro venti persone, 14 tramite agenzia interinale e 6 con gestione diretta della scuola. Molti anche gli allievi che non si fermano ai tre anni di professionale ma proseguono gli studi fino alla laurea in architettura od ingegneria. La vicepresidente Rosanna Tosato di Fillea Cgil, in rappresentanza delle organizzazioni sindacali, sottolinea come l’ente bilaterale salvaguardi sia la rappresentanza degli imprenditori che dei lavoratori. “Il prossimo anno sono in programma corsi innovativi finanziati dalla Regione. Il settore edile - dice - ha bisogno di formare nel miglior modo possibile e di affrontare nuove sfide: la compatibilità ambientale, la lotta alla dispersione scolastica, la formazione degli immigrati che sono la nuova ricchezza per la manodopera senza dimenticare la sicurezza sul lavoro”. Torino: formazione per la gestione dei Tso, un corso per medici, infermieri e agenti di Claudio Laugeri La Stampa, 13 gennaio 2019 I progetti dei familiari di Andrea Soldi. Un corso di formazione per preparare medici, infermieri e polizia giudiziaria ad affrontare i malati psichiatrici. E soprattutto, i trattamenti sanitari obbligatori (Tso). “Ho questo progetto e il denaro del risarcimento sarà utilizzato anche per questo”, dice Maria Cristina Soldi, sorella di Andrea, 45, il malato di schizofrenia paranoide morto il 5 agosto 2015 proprio in seguito a un tentativo di Tso. Per quella vicenda, il giudice Federica Florio ha condannato a 20 mesi (con la condizionale) lo psichiatra e i tre vigili urbani intervenuti in piazza Umbria per quell’intervento. Il processo Maria Cristina e il padre Renato si erano costituiti parte civile. Fino alla sentenza di primo grado, hanno sempre rifiutato le offerte di risarcimento fatte da Comune e Asl. Poi, un paio di mesi fa hanno deciso di accettare l’offerta di 460 mila euro (comprese le spese legali) sempre declinata. “Non ci è mai interessato il risarcimento, lo abbiamo fatto per partecipare al processo, per poter avere giustizia”, spiega ancora la sorella di Andrea. E ancora: “Quest’estate, mio padre è stato male, non se la sentiva più di andare avanti con la questione giudiziaria. Così, abbiamo accettato il risarcimento”. Ma anche prima di quel momento, Maria Cristina ha sempre cercato di andare oltre: “Questa tragedia deve servire a qualcosa e non si deve ripetere. Per questo ho pensato a un corso di formazione. Ma non ho le qualifiche per poterlo organizzare da sola. Deve essere condiviso, studiato da persone competenti, ma soprattutto deve coinvolgere tutti i soggetti che partecipano ai Tso”. I progetti Ma questo è soltanto un tassello del puzzle che Maria Cristina ha in mente: “Vorrei anche sostenere un approccio diverso con le famiglie, serve un maggiore supporto”. La malattia mentale è una devastazione per chi deve essere “Era sempre pronto ad aiutare chi si fosse trovato in difficoltà” ricordano i colleghi del Soccorso alpino, in un mese nero per gli incidenti in quota. Matteo, come Alberto e Gabriele, affrontavano nel modo giusto un percorso di crescita nell’alpinismo. “Così curato, ma anche per le persone che gli stanno vicino. “Non tutti hanno avuto le nostre possibilità. Siamo riusciti a far vivere Andrea in un alloggio da solo, i medici avevano detto che sarebbe stato importante per cercare di costruire una autonomia propria. E poi, c’è l’aspetto del reinserimento, dei progetti, del lavoro”. Ha ancora in mente le pagine del diario di Andrea, dove lui raccontava la noia di quei pomeriggi passati a maneggiare plastilina in una comunità. “Non era un bambino, non aveva neanche un ritardo mentale, aveva bisogno di qualcosa adatto a lui”, racconta Maria Cristina. Per questo, ha intenzione di “cercare associazioni con progetti validi da finanziare”. Tante idee, ma il progetto legato alla formazione è quella trainante. “Mi dicono che qualcosa sia già cambiato, ma vorrei che gli operatori coinvolti in quelle situazioni potessero studiare e condividere un approccio diverso, più legato al dialogo e meno alla forza”, aggiunge. Maria Cristina vorrebbe seminare quel denaro per far crescere qualcosa di buono. Andrea sarebbe contento. Voghera (Pv): turni di lavoro troppo lunghi nel carcere, stop del giudice di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 13 gennaio 2019 Mancata contrattazione, il Tribunale del Lavoro dà ragione al ricorso delle sigle di polizia. Il Tribunale del lavoro di Pavia ha accolto il ricorso del sindacato Uil-Pa contro la direzione della casa circondariale di Voghera. La causa era stata mossa, come spiega il sindacato per la condotta “del direttore del carcere di Voghera quando ha prolungato i turni di servizio senza la prevista e vincolante contrattazione sindacale”. Nel 2017 infatti, la direzione del carcere aveva allungato i turni degli agenti da sei a otto ore al giorno per coprire il servizio con il personale a disposizione. Il ricorso era stato presentato sulla base dell’articolo 28 della legge numero 300 del 1970, chiedendo il riconoscimento della condotta antisindacale dell’amministrazione consistita “nell’inosservanza del protocollo d’intesa regionale in materia di personale della polizia penitenziaria cui riconoscere il diritto alle ferie in occasione delle festività e dei periodi estivi e nella mancata contrattazione sindacale in materia di articolazione dei turni del personale di servizio”. Il 22 maggio 2018 il tribunale ha respinto il ricorso, la Uil-Pa ha impugnato la decisione e ha presentato un altro ricorso in opposizione chiedendo “il ripristino dell’orario ordinario di servizio o, nei casi di necessità disciplinati dalla normativa vigente, avviare la contrattazione sindacale per la deroga ai principi dettati dalle norme sindacali di rango superiore”, si legge nelle carte. Il giudice, si legge nella sentenza, ha dato ragione al sindacato riconoscendo “la natura antisindacale della condotta di parte”, ordinando “di astenersi dal reiterarla in futuro” e “di rimuoverne gli effetti”. Soddisfatto Gian Luigi Madonia, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Lombardia e Segretario di Categoria di Pavia e Lodi, che ha spiegato: “Possiamo affermare che tutti gli sforzi e l’impegno profuso hanno prodotto un ottimo risultato, dal punto di vista sia sindacale sia giuridico. Abbiamo apprezzato il lavoro di un giudice che, con terzietà, ha oggettivamente valutato l’intera vicenda. I contenuti del dispositivo di sentenza lasciano ben intendere la competenza e la giustezza dell’analisi. Cosa che purtroppo non avevamo registrato nella precedente occasione dove si giustificavano tutte le violazioni in ragione della carenza di organico. Un principio che, se dovesse trovare spazio altrove, determinerebbe la morte dei diritti contrattuali in tutto il pubblico impiego, proprio perché interamente caratterizzato da carenze”. Caserta: Gmc Onlus nel carcere di Santa Maria Capua Vetere di Alessandro Fallarino ottopagine.it, 13 gennaio 2019 Evento gospel nel reparto femminile del carcere sammaritano. Ieri mattina si è tenuto un evento che ha coinvolto le detenute del carcere di Santa Maria Capua Vetere. La Gmc Onlus, attiva nelle opere sociali e spirituali da anni in particolare verso i detenuti e le rispettive famiglie, si è adoperata per la creazione di un altro evento gospel nel reparto Senna, reparto femminile del carcere sammaritano. Ormai da anni il direttivo gmc, presenziato da Maria Garofalo Turco, con l’attiva collaborazione di tutti assistenti spirituali, organizza questi eventi evangelistici nelle svariate carceri della nazione. Direzione, polizia penitenziaria ed educatori del carcere di Smcv si sono prodigati nel dare ospitalità al gruppo degli operatori Gmc onlus, allestendo una sala dove si è tenuto l’evento, promosso dalla Chiesa Cristiana Evangelica Adi di Santa Maria Capua Vetere. Il gruppo musicale della chiesa evangelica ha realizzato dei cantici spirituali, “permettendo - spiegano dalla Onlus - alle detenute di potersi approcciare con la Fonte della Pace e della Gioia, Cristo Gesù il Signore. Dai loro visi si è percepito la necessità di colmare quei vuoti che le varie circostanze della vita hanno creato e, percependo la presenza di Dio, queste donne hanno realizzato che solo Lui può colmare quei vuoti e guarire le ferite”. Giuseppe Di Iorio, pastore evangelico delle Assemblee di Dio in Italia, ha predicato un messaggio dalla Parola di Dio. L’evento si è concluso con l’invito, da parte di Domenico Turco, pastore della Chiesa Adi di Santa Maria Capua Vetere, a continuare a partecipare alle riunioni evangelistiche che ogni settimana, il lunedì mattina, il pastore Giuseppe di Iorio tiene nel carcere sammaritano e con l’invito a ricevere il messaggio dell’evangelo anche nelle rispettive famiglie, curate dal gruppo evangelistico della stessa associazione. A breve altre notizie da parte della Gmc che prosegue con costanza questa attività di evangelizzazione nelle Carceri. Verona: l’arte dei margini che cura quando non vuole essere, per forza, terapia di Federica Lavarini veronanetwork.it, 13 gennaio 2019 “In carcere, come conduttore di un laboratorio teatrale per tre anni, ho fatto una delle esperienze più potenti della mia vita professionale”. Esordisce così, Renato Perina, nella sua intervista a Pantheon. Interprete e regista teatrale con un dottorato in pedagogia generale e sociale, è autore di diversi articoli scientifici tra cui la monografia Per una pedagogia del teatro sociale, pubblicato da Franco Angeli. Da tempo è ospite con un blog culturale su Il Fatto Quotidiano. “Quello con i detenuti è stato un incontro che ha allargato il mio orizzonte artistico, ha dato più senso alla mia esperienza teatrale. Ho dovuto ricorrere a strategie e risorse insospettate, mi sono trovato arricchito e in modo sconcertante. Si può fare un teatro di potenza e qualità proprio nel luogo marginale per definizione. Mi sono scoperto al centro della mia creazione con attori dalla forza espressiva rara, difficile da trovare fuori” spiega l’attore veronese. L’incontro con la realtà del carcere è avvenuto a partire dalla tesi di dottorato in Pedagogia “a cui sono arrivato piuttosto tardi, dove ho approfondito dal punto di vista della ricerca tutto quello che avevo vissuto prima, empiricamente”. Ovvero, laboratori di teatro in un centro di igiene mentale di Verona, il teatro nelle scuole e nei licei, di provincia, in Veneto e Lombardia, “una passione con la quale mi guadagnavo anche uno stipendio”. Al tempo del dottorato, Renato Perina porta avanti una ricerca sul ‘teatro socialè compiendo una sorta di saldatura, di sinergia tra un luogo simbolico e operativo di estrema libertà con ambiti contrassegnati da estremo limite. La tesi di dottorato diventa quindi un libro e Perina, interpellato a collaborare per un progetto con il carcere di Montorio, si ritrova a condurlo. “Alla fine, quel laboratorio l’ho diretto facendo convergere esperienze concrete di teatro e teoriche di pedagogia sociale, di disagio e marginalità, ma ogni esperienza è a sé stante. Non mi interessa né rieducare né fare percorsi di benessere; l’arte terapia penso sia una sciocchezza. L’arte, e quindi anche il teatro, è sempre terapica ma, parafrasando Thierry Maulnier, la funzione curativa dell’arte esiste nella misura in cui l’intenzione curativa è assente. Nei tre anni di laboratori e spettacoli ho incontrato una cinquantina di detenuti/attori colpevoli di reati di ogni genere, anche i più aberranti. Ho incontrato persone che mi hanno sorpreso in tutti i sensi”. Il lavoro di Perina con i detenuti si è concentrato, poeticamente, sulle ambivalenze dell’esistenza: “Abbiamo lavorato su I fiori del male di Charles Baudelaire e sui testi di Pier Paolo Pasolini, per rappresentare l’interfaccia bene/male, dentro/fuori, integrato/emarginato, umano/disumano. Ho inserito temi che potevano essere interessanti per i carcerati per dar loro dei feedback e, in qualche disperato modo, comunicare, senza mai affermarlo, che nulla è perduto. Senza moralismi e, forse, senza esserne convinto fino in fondo. Se avessi convinzioni così decisive forse non farei teatro, l’ispirazione stessa sarebbe arida perché credo che essa nasca soprattutto da un senso di mancanza, di inadeguatezza e al tempo stesso di una insopprimibile fiducia nella bellezza e nella sua forza sovversiva”. Terminata l’esperienza con il carcere, Perina è ora impegnato in diversi reading e progetti teatrali in cantiere con Bagliori associazione culturale: da gennaio 2019 partirà in città, a Verona, un laboratorio sul palco aperto a tutti (Dal laboratorio teatrale alla messa in scena) “utilizzerò lo stesso metodo usato con i detenuti. Qual è? Non ce l’ho”. Aversa (Ce): musica e… cyclette per i detenuti da “Amici per Caso” e Rotary pupia.tv, 13 gennaio 2019 È stato un grandissimo successo lo spettacolo musicale degli Amici per Caso che si è tenuto il 12 gennaio nella Casa di Reclusione di Aversa. Entusiasta la partecipazione del pubblico in sala composto di detenuti ma anche di ospiti. Sono intervenuti la presidente del Tribunale Napoli Nord, Elisabetta Garzo, il dirigente della Polizia di Stato, Vincenzo Gallozzi, il maestro Piero Viti, il presidente del Rotary di Aversa, Pasquale Esposito, che ha sponsorizzato l’iniziativa con una partecipazione anche concreta, donando alla struttura delle cyclette per l’attività sportiva dei detenuti. È stato un concerto in cui si è messa in evidenza la maestria del gruppo, il grande mandolinista Paolo Fagnoni, i bravissimi musicisti Carlo Maria Palmiero, Giacomo Napolano, Pierpaolo Damiano, Vincenzo Arnoldo, le straordinarie voci di Luisa Grimaldi e di Antonio Crispino, la simpatica presentazione di Romualdo Guida. Carlotta Giaquinto, direttrice dell’Istituto, commenta: “La gioia più grande è stata vedere l’apprezzamento del pubblico per una musica meravigliosa che rappresenta un patrimonio inestimabile e che è stata espressa in modo impeccabile e con grande emotività e trasporto. Ringrazio gli Amici per Caso e il Rotary per la loro sensibilità”. Napoli: “Mamma vita mia”, in un docu-film i tattoo dei carcerati di Giulia Echites La Repubblica, 13 gennaio 2019 Giuseppe Di Vaio, regista, e il fotografo Braian Anastasio, hanno realizzato un film che racconta la vita dei galeotti e dei loro tatuaggi. A Napoli, tra i Quartieri Spagnoli, Forcella, Pianura e Santa Maria a Cancello, 12 ex detenuti raccontano la propria sopravvivenza: “Alcuni sono personaggi leggendari, con un passato molto duro”. Salvatore ha tatuati sul pene i cinque punti della malavita. Sul braccio, invece, ha la scritta ‘Mamma vita mia’. A Napoli negli anni Settanta e Ottanta era questo il tatuaggio più diffuso tra detenuti e criminali e Mamma vita mia è proprio il titolo del documentario pensato e realizzato da Braian Anastasio con la regia di Giuseppe Di Vaio. Tatuatore il primo, fotografo il secondo, i due hanno raccolto le storie di dodici ex carcerati (non tutti però ex delinquenti) per ricercare il significato originale del tatuaggio “un fenomeno che oggi è prettamente di moda, ma che una volta, soprattutto a Napoli, era una pratica diffusa tra i criminali. I criminali avevano una sorta di obbligo morale a tatuarsi”, racconta Giuseppe Di Vaio che, come street photographer, aveva già realizzato un progetto dedicato ai disegni sulla pelle, Naples Ink Project in collaborazione con il giornalista del New York Times R. Capasso. “Braian mi ha proposto di tornare sul tema dei tatuaggi - continua Giuseppe - e allora ho deciso che questa volta sarebbe stato un film”. Il loro Mamma vita mia è stato selezionato per entrare nel cartellone della London Tattoo Convention, uno degli eventi dedicati al tatuaggio più importanti al mondo. Il film quindi ha fatto il suo debutto nel Regno Unito, ora ha iniziato il percorso dei festival nel nostro Paese e ci sarebbe già qualche network interessato al documentario per un suo eventuale passaggio televisivo. Girando tra i Quartieri, Forcella, Pianura, Santa Maria a Cancello, Giuseppe e Braian sono riusciti a entrare nei micro-mondi che gli ex detenuti, una volta usciti dal carcere, si sono costruiti per sopravvivere. “Alcuni sono personaggi leggendari, con un passato molto duro” dice Giuseppe. Da Don Salvatò, ad esempio, c’è un cartello appeso sul cancello con scritto: “In questa casa non voglio nessuno, né vivo né morto. Siete pregati di non bussare”. Eppure gli autori del film non solo hanno varcato la soglia di casa di Don Salvatò, ma hanno potuto ascoltare la sua storia. È lui stesso però a dire a un certo punto: “Oggi mi avete trovato calmo”, dopo aver mostrato i tatuaggi sulla schiena, una donna nuda di profilo (per realizzarla ci sono voluti sette mesi) affianco al volto di Gesù Cristo. Non sono però gli unici segni sul suo corpo, ci sono anche quelli delle lamette sul braccio. E non è stata quella l’unica volta in cui Don Salvatò ha tentato il suicidio, ha anche pensato di buttarsi dalla finestra. “Per convincerli ad aprirsi e raccontare le loro storie abbiamo fatto con loro anche un lavoro psicologico” dice il regista. “Mi era già capitato, per altri lavori, di avere a che fare con soggetti come questi quindi sapevo come trattarli. E se all’inizio è complicato ottenere la loro fiducia, quando si rendono conto che non hai alcuna intenzione di fare loro del male diventa tutto più semplice. Anzi, alla fine per me è stata anche una bella esperienza dal punto di vista umano”. I protagonisti di Mamma vita mia sono ladri di stereo, contrabbandieri di sigarette ma anche affiliati della camorra. I corpi di tutti sono coperti di tatuaggi. “Iniziavamo a tatuarci già in strada” racconta Amedeo che ha cominciato prima ancora di entrare in riformatorio e poi in carcere. “Ci faceva sentire qualcuno, il tatuaggio era un simbolo di rispetto”. Se oggi chi si tatua lo fa, ad esempio, per segnare un particolare momento della propria vita, “all’epoca solo i delinquenti erano tatuati - dice Don Ciro - e quando le altre persone ci vedevano scappavano, come se avessimo avuto la scabbia”. Naturalmente c’erano immagini ricorrenti e con un valore simbolico. “Il più diffuso in assoluto era proprio la scritta dalla quale abbiamo tratto il titolo - spiega Il regista - i detenuti si tatuavano “Mamma Vita Mia” per dimostrare il senso di appartenenza alla donna che li aveva messi al mondo, l’unica persona della quale si fidavano cecamente. L’asso di bastoni, la carta napoletana, invece, era il tatuaggio del “capo bastone”, colui che comandava una paranza, il gruppetto di malavitosi che era sotto il suo controllo. Il pesciolino stava ad indicare una persona abituata a farsi i fatti suoi, il senso era “acqua in bocca”. Gli occhi sulle spalle invece erano un avvertimento a stare sempre attento”. Come dice Salvatore nel film, “attento agli infami”. Non erano pochi quelli che in carcere si tatuavano sul pube la scritta “tutto per te” e poi mandavano una lettera alla donna amata nella quale scrivevano di aver dedicato a lei quel nuovo tatuaggio. Tante le immagini religiose, soprattutto i volti: Gesù Cristo, la Madonna del Carmine e la Madonna dell’Arco andavano per la maggiore. “Ogni volta che provavo a fare un tatuaggio rischiavo l’isolamento”, racconta nel documentario Salvatore. Lui, a Poggioreale, era il detenuto che i tatuaggi li realizzava, costretto a ingegnarsi con quel che riusciva a trovare per costruire una macchina in grado di incidere la pelle. “All’inizio il metodo era questo - spiega Di Vaio - si attaccavano tre aghi a un pezzetto di legno e poi si intingevano gli aghi nell’inchiostro”. L’inchiostro era il “nero fumo” e anche quello richiedeva un processo di realizzazione: si accendeva un fuoco sul fondo di una pentola che, di conseguenza, diventava nero. Quindi si grattava via la parte nera che veniva poi mescolata con un materiale denso, spesso dentifricio. I tre agi si intingevano in questa cremina e poi andavano a bucare la pelle. Col tempo, questo metodo rudimentale è stato sostituito e per facilitare il tutto si collegavano gli aghi ai motorini dei vecchi walkman. Era rischioso realizzare e farsi fare tatuaggi in carcere, non dovevi mai essere scoperto. Ma tutti accettavano il rischio “pur di passare un po’ di tempo, pur di passare le giornate”. Migranti. Il degrado fa business sulla pelle degli asylanten di Roberto Persia Il Manifesto, 13 gennaio 2019 Inchiesta sul Centro di accoglienza per richiedenti asilo alle porte di Roma. A Castelnuovo di Porto dovrebbero esserci 650 ospiti, ma di notte altri se ne aggiungono. La cooperativa Auxilium, vicina a Comunione e Liberazione, gestisce la struttura. Il centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto è un blocco di cemento armato in una area isolata della campagna romana, tra la via Flaminia e la via Tiberina. Sono 54,7 i chilometri che lo separano da Roma e 5 quelli dal centro abitato più vicino. Fa parte di un comprensorio di più di 120.000 metri quadrati ormai ampiamente in disuso: un centro della Croce rossa e un meccanico sono quello che resta di funzionante in un panorama desolato. Nessuna insegna, nessun cartello. Solo un insieme di strutture circondate da filo spinato e telecamere, con una sbiadita scritta all’ingresso, “Centro Polifunzionale”. Dal 2008 l’impianto accoglie 650 ospiti, ma “durante la notte scavalcare la recinzione non è difficile”, racconta uno dei ragazzi incontrati lungo la strada perimetrale al centro, così il numero cresce. I C.a.r.a. sono strutture in cui vengono accolti migranti dopo l’identificazione, persone che intendono chiedere la protezione internazionale. Attraverso bandi di gara, il ministero dell’Interno appalta i servizi dei centri a entri gestori privati per la durata di un triennio. Le commissioni territoriali che si occupano dell’esame delle domande sono venti e sono formate da un funzionario della prefettura, uno della questura, un rappresentante dell’ente locale e un membro dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). I tempi di permanenza degli “ospiti” sono legati al lavoro delle commissioni e agli esiti delle domande: riconoscimento dello status di rifugiato, protezioni sussidiarie, protezioni per motivi speciali oppure si può ricevere il diniego al quale è possibile fare ricorso. La dislocazione in aree periferiche rispetto alle città che contraddistingue queste strutture ne nega di fatto la funzione integrativa per la quale venivano istituiti. Quella di Castelnuovo di Porto è attiva dal 2008, 12 mila metri quadri, 172 stanze, un campo da calcio, una zona lavanderia e un atrio interno. Il centro ha una particolarità: sorge a poche centinaia di metri dal Tevere. È per questo che la zona è classificata dall’Autorità di bacino del fiume come area a massimo rischio esondazione. Superata una doppia rampa di scale si apre uno spazio dove confluiscono le varie corsie attraverso le quali è difficile muoversi: accumulati fuori dalle stanze, mucchi di indumenti e qualche valigia fanno da intralci. Le pareti, alcune di colore bianco, altre gialle, mostrano ancora i resti della alluvione che allagò nel 2014 il centro. A poca distanza l’una dall’altra sulle porte delle stanze, per chi ha la fortuna di averle ancora, si legge: “4 letti”. All’interno la realtà è un’altra, sono almeno in 8, i più sfortunati sono costretti a dormire in terra su materassi. Nemmeno un armadietto a disposizione, tutto sparso sul pavimento. Le finestre che danno sull’atrio interno non hanno più vetri, scotch e plastica ne hanno preso il posto. Le altre stanze che si vedono non sono diverse, il numero di ospiti è lo stesso. “4 letti”, insomma, continua ad essere la promessa disattesa. Chi non trova posto nelle stanze si stende in dormitori improvvisati: una branda, qualche coperta e quello che resta di vecchie biciclette trasformano il tetto in stanza. Finito il lungo corridoio si accede ad uno spazio comune: ci sono scale per raggiungere il piano sottostante e un biliardino malconcio. Le pareti ammuffite, a volte bucate, e escrementi di animali sul pavimento testimoniano un servizio igienico a dir poco scadente. Al supermercato comprano candeggina e prodotti per pulire i pavimenti, ma anche assorbenti, nonostante il servizio di pulizia e la fornitura di prodotti igienici siano compresi nelle specifiche tecniche della gara: “Quelli che ci danno qui sono inutilizzabili e le pulizie non vengono effettuate, chi dovrebbe farlo si limita soltanto a presentarsi - denuncia una ragazza- qui le cose sono come dovrebbero essere solo in apparenza”. Nel centro ci sono anche donne incinta e bambini e da qualche tempo è impossibile l’utilizzo dell’acqua calda: va e viene. Era il 2016 quando l’Anac, dopo alcune, ispezioni aveva rilevato problemi legati all’erogazione dell’acqua calda che ad oggi sembrerebbero ancora irrisolti. Per ogni ospite la cooperativa Auxilium dei fratelli Chiorazzo, vincitrice dell’appalto, incassa 21,90 euro al giorno. L’immobile di proprietà dell’Inail dal 2008 è stato dato in concessione alla prefettura di Roma ma del contratto che doveva essere redatto a seguito di accordi non esiste traccia. Viene definito nella relazione dell’Anac del 2016 un “contratto passivo” e la passività sembrerebbe risiedere anche nella irresponsabilità con la quale entrambi i contraenti gestiscono le opere di manutenzione: “Anche sotto l’aspetto della ripartizione degli oneri di manutenzione assume rilevanza l’assenza di un contratto tra le parti che avrebbe potuto disciplinare l’attività manutentiva in maniera chiara e precisa”. Quello su cui non c’è alcun dubbio è la somma corrisposta dalla Prefettura all’Inail, che dal 2008 al 2017 è stata di 12.260.735,2 euro, spese emergenziali escluse. La gara d’appalto pubblicata sul sito della Prefettura di Roma “da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso”, rivela le ragioni di un fallimento pronosticabile già dal suo incipit. La miglior offerta è quella della coop cattolica Auxilium, dopo il commissariamento della Enriches 29. Era il 2015 quando, secondo quanto scritto dai Pm di Roma, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati - condannati nel 2018 per associazione di stampo mafioso - avevano stretto con i Chiorazzo “un patto di non belligeranza” per aggiudicarsi la gestione di mille migranti. I due parlavano di Chiorazzo come di un nemico, ma un nemico potente, con cui cercare un modus vivendi: “È amico di Gianni Letta, quello!”. Detto “O’vaticanista”, Angelo, il maggiore dei fratelli, è un fedelissimo di Comunione e Liberazione nella quale milita dai tempi dell’università, militanza che gli è valsa il soprannome e amicizie di spicco, una su tutte quella di Giulio Andreotti. La cavalcata della coop di Senise, un piccolo paesino lucano, va a gonfie vele, nonostante piccoli incidenti di percorso. Stando al bilancio della camera di commercio la gestione dell’accoglienza ha fruttato all’Auxilium 56.246.970 euro nel 2015 e 61.161.257 nel 2016. Nella graduatoria, al secondo posto, la coop Senis Hospes (che ha gestito il C.a.r.a. di Foggia fino alla revoca del Viminale nel 2017) con 26.272.514 nel 2015 e 46.146.761 nel 2016. Entrambe con la sede amministrativa nella minuscola Senise, a pochi metri una dall’altra. Con un’offerta di 15.565.972,50 per tre anni - fino al 6 aprile 2017 - e un ribasso del 27,1% (rispetto ai 21.352.500 di euro stanziati dalla Prefettura), la coop dei fratelli Angelo e Pietro Chiorazzo ha vinto l’appalto. Per intenderci: hanno affermato di poter gestire ciascuna persona con 21, 90 euro al giorno, a fronte dei 30 stimati dal Ministero dell’Interno, che ringrazia e sottoscrive. Dei 21, 90 euro al netto dei servizi che dovrebbero essere esplicati dalla Auxilium, ne restano 2,5 che vengono messi a disposizione dei migranti. Cala il sole, e l’essenza di un impianto vero e proprio di aerazione si fa sentire: “Battiamo i denti dal freddo, non c’è altro da fare”, racconta Abou. Di notte, i nemici principali diventano le cimici che infestano i letti. “Le lenzuola sono sempre le stesse da un anno e mezzo”, denunciano due ragazzi, “al C.a.r.a. è difficile anche dormire”. Nel frattempo, dal 12 dicembre 2017, la nuova gara per ottenere la gestione del centro è in corso. L’Auxilium, che già era alle prese con il decreto ministeriale del 7 marzo 2017 (suddivisione in 4 lotti: servizi, pasti, servizi di pulizia e igiene ambientale e beni), per i bandi di gara relativi ai centri con più di 300 posti dovrà fare i conti anche con la nuova legge sulla sicurezza volta dal ministro Salvini. Con un decreto, della durata di 90 giorni, la gara è stata sospesa in data 13 novembre 2018. I tre mesi dovrebbe essere sufficienti per aggiornare i bandi di gara in conformità al nuovo schema di capitolato redatto dall’ Anac (Autorità nazionale anti corruzione), si legge dal sito della prefettura di Roma. L’Auxilium, prima della sospensione, figurava tra gli ammessi nella gestione del primo lotto: importo a base d’asta 9.701.152,50 su un totale, per i 3 lotti, di 36.928.437,00. Akram Zubaydi, direttore del C.a.r.a., nega che le presenze nel centro eccedano il limite consentito di 650 e per il resto preferisce non rilasciare dichiarazioni: “Dovete chiedere al Ministero dell’Interno, poi vi accoglieremo a braccia aperte”. Invece il comune di Castelnuovo dice di non essere a conoscenza del numero di residenti nel centro e della sua grandezza: “Lo sa il Ministero, chiedete a loro”. Abbiamo chiesto e il Viminale ha confermato che “al momento il C.a.r.a. non presenta una situazione di sovraffollamento rispetto a quanto contrattualmente previsto, come risulta dal dato delle presenze”. In merito al sovraffollamento dei migranti nelle 172 stanze, “la disposizione degli ospiti è condizionata da diversi fattori quali la presenza di nuclei familiari, vulnerabilità e situazioni particolari”. Intanto a Castelnuovo è sera, sono le 23 e gli ultimi ospiti fanno ritorno al centro. È tornato anche Messi (come lo chiamano tutti), uno dei bambini del C.a.r.a.. Ha 6 anni e da 3 vive qui dentro. Droghe. La rima di Sfera Ebbasta al vaglio della Procura di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 gennaio 2019 Due senatori di Forza Italia denunciano il trapper per istigazione all’uso di sostanze stupefacenti. I pm aprono un’inchiesta. “Ho visto le guardie lì a destra, uh/ In tasca ho una cosa che, no,/ fratè, non è concessa, uh”. “Ah, droghe leggere, tasche pesanti, ah/ Quanti serpenti a sonagli, ah/ Con una mano pronti per spararti/ Con l’altra pronti a salvarti (…) Lei vorrebbe un po’ di (sniff) io non tocco quella roba, no”. “L’odore di un pacco di erba che si sente in tutta la scala/ I fra’ che non fanno traslochi ma se vuoi ti svuotano casa/ Senza un lavoro normale, se lo inventano/ Quello che non hanno loro, se lo prendono”. Sono testi come questi che la procura di Pescara dovrà vagliare accuratamente per scoprire se Gionata Boschetti, in arte Sfera Ebbasta, nella top ten delle classifiche e seguito da milioni di ragazzini, con le sue canzoni abbia realmente istigato i suoi fan all’uso di sostanze stupefacenti. I magistrati pescaresi infatti hanno aperto un fascicolo a suo carico dando seguito all’esposto presentato da due senatori di Forza Italia, Lucio Malan e Massimo Mallegni. I quali hanno scelto la procura del capoluogo adriatico tra quelle delle città in cui il cantante si è esibito durante il tour dell’estate scorsa (14 date), molto prima della triste notte tra il 7 e l’8 dicembre in cui morirono cinque ragazzi e una donna nella tragedia della discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo (Ancona) dove si sarebbe dovuto tenere un concerto di Sfera Ebbasta. Il dolore di quel dramma è ancora vivo, e tocca corde molto viscerali, come dimostra l’eco ottenuta dal post scritto su Facebook dalla madre di una vittima che si è scagliata contro il cantante accusandolo di avere “sei morti sulla coscienza”. Così, dopo le “femministe” che attaccavano il trap boy per i suoi testi assolutamente non politically correct nei riguardi delle donne e per la sua visione pornografica del sesso, ora è la volta dei proibizionisti. Per i due senatori, i testi di Sfera Ebbasta, oltre a “frequenti oscenità”, “si riferiscono pressoché tutti all’uso di droghe e spesso al loro spaccio, senza mai accennare alle negatività di tali pratiche”. Naturalmente si spera che alla procura di Pescara abbiano reati più importanti da perseguire e magistrati che comprendano che il trap è un sottogenere dell’hip hop, non certo musica raffinata ma espressione di una sottocultura giovanile che trova effimeri consensi. A meno che non si insista con pratiche talebane e iniziative come questa che i Radicali italiani hanno definito “da sciacallaggio”. Bolivia. Arrestato Cesare Battisti, preso a Santa Cruz di Andrea Galli Corriere della Sera, 13 gennaio 2019 Una squadra speciale dell’Interpol formata da investigatori italiani ha catturato il 64enne terrorista pluri-assassino Cesare Battisti, latitante dal dicembre 2018 dopo la revoca dello status di residente permanente in Brasile e l’ordine di estradizione del presidente Michel Temer. Camminava in una strada di Santa Cruz de la Sierra, popolosa città nell’entroterra della Bolivia. Quel passante aveva una barba finta e soprattutto aveva in tasca un documento d’identità brasiliano riportanti un nome e un cognome, Cesare Battisti, e una data di nascita, il 18 dicembre 1954. Alle 17 di sabato 12 gennaio, le 22 in Italia, una squadra speciale dell’Interpol formata da investigatori italiani ha catturato il 64enne terrorista pluri-assassino Cesare Battisti, latitante dal dicembre 2018 dopo la revoca dello status di residente permanente in Brasile e l’ordine di estradizione del presidente Michel Temer. Come appreso dal Corriere, che ha dato notizia della cattura alle 2 della notte del 13 gennaio, Battisti era da solo. Non ha opposto resistenza. Indossava pantaloni e maglietta di colore blu, e un paio di occhiali per proteggersi dal forte sole e cercare, ulteriormente, di camuffarsi. Caricato in macchina e accompagnato in una caserma della polizia per le comparazioni tecniche (a cominciare dalle impronte), l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo non ha aperto bocca. La pista - Quella squadra speciale aveva indirizzato con decisione la caccia intorno a Santa Cruz poco prima di Natale. Un lavoro minuzioso e certosino, un lavoro di strada attingendo agli informatori e alla conoscenza del territorio, un lavoro di tentativi, calcoli e azzardi. Nella giornata di sabato, l’epilogo. Dapprima è stata circoscritta la zona nella quale Battisti si era nascosto. Dopodiché, sono stati compiuti gli appostamenti in almeno tre, quattro aree differenti, anche se sempre nel raggio di pochi chilometri. Fin quando, a bordo della strada, con un passo ciondolante, forse conseguenza di uno stato di ebbrezza, gli investigatori dell’Interpol hanno notato quell’uomo. Tolta la barba, che come detto si è rivelata fasulla, c’erano molti dettagli sia dell’andatura sia dei lineamenti, in particolare del viso, che combaciavano con le ultime fotografie e gli ultimi video su Battisti, anche se parecchio datati. L’Interpol, con il supporto della polizia boliviana, ha avvicinato e accerchiato il terrorista. Il futuro - Una storia infinita, quella di Cesare Battisti. Che ora dovrebbe essere terminata per sempre. Prima bisogna attendere il completamento di tutti i passaggi tecnici. Ma poi, per Battisti si potrebbe aprire, in tempi brevi, il provvedimento di espulsione dalla Bolivia che innescherà il rimpatrio in Italia. Originario di Cisterna di Latina, evaso nel 1981 dopo una condanna per banda armata, il terrorista è stato condannato in contumacia per la partecipazione a quattro omicidi. Scappato in Messico e in Francia, autore di romanzi noir, Battisti aveva raggiunto il Brasile nel 2004. Tre anni dopo, era stato arrestato. Ne era seguita una lunga sequenza di colpi di scena: lo status di rifugiato, il diritto d’asilo, la richiesta di estrazione negata, un nuovo arresto, l’immediata scarcerazione, un massiccio movimento di intellettuali di tutto il mondo a favore di Battisti e contro la decisione di Temer di concedere l’estradizione. Era convinto d’avere ancora appoggi potenti in Sudamerica e rifugi sicuri, il terrorista. Quando l’hanno preso, procedeva a testa alta, in mezzo ad altri passanti, sicuro d’essere anonimo e al riparo come loro. Kenya. Silvia Romano a 2 mesi dal sequestro, tra silenzi e misteri di Francesco Battistini Corriere della Sera, 13 gennaio 2019 La famiglia e la Farnesina chiedono discrezione. Annullate le manifestazioni per la liberazione della cooperante italiana. I passi falsi e le speranze della polizia di Nairobi. State zitti, se potete. Per il 20 gennaio, a due mesi dal sequestro di Silvia Costanza Romano in Kenya, un gruppo di uomini di buona volontà stava per organizzare un flash mob nelle città italiane. Tutti in strada, a chiedere solamente una cosa: liberatela. Le adesioni si stavano accumulando, dalle “madamine” torinesi del Sì-Tav a personalità della scienza, della cultura, dello spettacolo. Poi, lo stop: la famiglia di Silvia, cortese, preferisce il silenzio. La Farnesina, più decisa, lo raccomanda. Niente striscioni, nessuna fiaccolata, nemmeno pubbliche preghiere. Anche il presidente Mattarella, nel discorso di fine anno, ha evitato di citare la prigionia della ventitreenne milanese. Davanti alla Scala, i tremila scesi venerdì in piazza contro il decreto sicurezza si sono limitati a ricordare quel nome perso nel vento del bush - “piano piano scivola via - ha twittato qualcuno - e la dimenticheremo, povera ragazza” e si sono uniti in un applauso su invito di un’ong, presente il sindaco Giuseppe Sala. Niente altro. Il silenzio è una strategia. Spesso giusta, com’è stato per molti ostaggi salvati dai negoziati riservati e dai riscatti mai confessati. Talvolta inutile, come fu per il povero Giovanni Lo Porto prima dimenticato, poi ammazzato per sbaglio da un drone americano sul confine afghano. O come stanno dimostrando i desaparecidos ormai quasi persi nella memoria: il bresciano Sergio Zanotti, rapito fra Siria e Turchia nell’aprile 2016; il missionario cremonese Luigi Maccalli, preso in Niger lo scorso 18 settembre; padre Paolo Dall’Oglio, sequestrato a Raqqa cinque anni e mezzo fa. Di questi italiani si torna a parlare solo quando ne rapiscono altri - il veneto Luca Tacchetto scomparso il 15 dicembre in Burkina Faso, con un’amica, o il bresciano Alessandro Sandrini (Turchia, ottobre 2016), oppure i tre napoletani Raffaele Russo, Antonio e Vincenzo Cimmino (Messico, gennaio 2018) -, ma a tutti i familiari viene chiesto dal nostro governo sempre, immancabilmente, di tacere. Per Silvia Romano, al silenzio italiano s’è contrapposta in queste settimane la loquela kenyota. Incontenibile, spesso fuori luogo. Dietro ogni svolta annunciata, ci s’è schiantati regolarmente sul muro del nulla: capi della polizia prodighi d’annunci (“siamo vicini!”), di rassicurazioni (“è viva!”), d’indicazioni (“è ancora in Kenya!”), il tutto senza mai un elemento di prova che andasse oltre il proclama. Investigatori ora rimossi, ora richiamati. Dichiarazioni che non dicevano molto e qualche agente che consigliava, addirittura, di ricorrere agli stregoni e alla magia nera. Dispiego di droni che nessuno ha mai visto, d’elicotteri che decollavano solo per trasportare le autorità locali. Decine d’arrestati, rilasciati in poche ore. L’ultima speranza d’una “svolta” viene dalle parole del procuratore di Nairobi, Noordin Haji, che a una delegazione italiana d’avvocati s’è in realtà limitato a manifestare l’intenzione di “procedere in maniera più decisa” nelle ricerche. Stiamo a vedere. Per adesso, è emerso solo il pasticcio delle indagini. Con cinquanta giorni di ritardo, le autorità si vantano d’avere messo il coprifuoco in un’area di 40mila km quadrati com’è la valle del fiume Tana, abitata qua e là solo da contadini e pastori, dominata da grandi clan familiari che diffidano della polizia, non collaborano e non si sognerebbero mai di rompere l’omertà. Gli investigatori sono sicuri che la banda con l’ostaggio non sia emigrata in Somalia? Ci sono 700 km di confine e solo quattro punti di controllo, andare di là è la cosa più semplice. E infine: ricordate i tre ricercati, “gli autori materiali del sequestro a Chakama”, sui quali il governo africano aveva messo una taglia di quasi 25mila euro? Il figlio d’uno di loro, Yusuf Kuno Adan, dice che in realtà suo padre è morto sei mesi fa e ha mostrato in tv il certificato del decesso: non è detto che sia autentico, perché nei municipi kenyoti è facile pagare per avere questi documenti, ma la notizia è stata data dieci giorni fa da un giornalista Rai, Jari Pilati, e nessuno s’è preso la briga di smentirla o di confermarla. Che cos’ha rallentato un caso che tutti a novembre, mentre esplodevano le polemiche pro o contro gli umanitari, davano per quasi risolto? Aver individuato i rapitori e l’area della prigione, ottenere la collaborazione della moglie d’uno della banda, catturare uno dei carcerieri, tutto questo a un certo punto ha lasciato ipotizzare perfino un blitz imminente (per la verità temuto dal governo italiano, che non si fida molto della capacità delle forze speciali kenyote di portare a casa incolume Silvia). “Arrivano notizie incoraggianti”, sorrise dunque nell’immediato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Salvo smentire “seccamente” qualche giorno dopo, via agenzie, varie voci che circolavano a Nairobi e sulle quali il sito Africa ExPress aveva trovato conferme: ottenuta la prova in vita dell’ostaggio e ricevuta una richiesta di riscatto, da Salvini in persona sarebbe arrivato ai nostri servizi l’ordine di non pagare. “Non si parla di riscatto”, ha precisato il vicepremier. Chiarissimo. Nessun blitz. Niente soldi. Ma allora in Kenya su che cosa indagano, se stanno indagando? E su che cosa si tratta, se si sta trattando? Iraq. Processi sommari e pena di morte: così ci si sbarazza delle “donne dell’Isis” di Michele Giorgio Il Manifesto, 13 gennaio 2019 Il duro prezzo pagato dalle mogli dei miliziani islamisti nei tribunali di Iraq e Siria del nord. Almeno 4.500 le donne arrivate da tutto il mondo. I Paesi di origine accolgono solo i figli. Solo una minima parte di queste donne si è unita allo Stato Islamico per ragioni ideologiche. Tutte le altre hanno seguito i mariti divenuti mujaheddin o sono state costrette a sposarli. Oggi che, almeno territorialmente, non esiste più lo Stato Islamico proclamato nel 2014 nel Nord della Siria e dell’Iraq da Abu Bakr al Baghdadi, le donne dell’Isis, così come sono comunemente chiamate, pagano a caro prezzo, anche con la vita, scelte che molto spesso altri hanno fatto al loro posto. Sono almeno 4.500 le donne giunte dopo il 2014 in Siria e Iraq da tutto il mondo islamico e da diversi Paesi occidentali, con l’intenzione di risiedere con il resto della famiglia nei territori controllati dagli uomini del “califfato”. Molte di loro sono vedove e hanno figli piccoli. Una presenza “ingombrante” di cui i governi vogliono sbarazzarsi, in ogni modo. Le “occidentali”, giunte dall’Europa, rischiano relativamente di meno. Talvolta tornano nei Paesi d’origine dove, dopo aver affrontato un procedimento penale, riescono a cavarsela con qualche anno di carcere. Invece le “arabe” in Iraq e nei tribunali nel nord della Siria, fuori dal controllo di Damasco, subiscono un processo sommario, che in media dura una decina di minuti raccontano i giornali online mediorientali. In Iraq dai campi di detenzione le donne vengono portate davanti a tre giudici. La corte pronuncia il nome della imputata per il reato di terrorismo e indica il suo paese d’origine. Dopo un rapido esame dei documenti, i giudici si rivolgono alla donna, chiusa in una gabbia sorvegliata da poliziotti, chiedendole se si dichiara colpevole o innocente. Non viene letto nessun atto di accusa e non c’è dibattimento o interventi degli avvocati della difesa. Nell’aula non c’è il pubblico, assenti i rappresentanti del Paese di cittadinanza dell’imputata. Neanche l’ombra di membri di organizzazioni per i diritti umani. Se è fortunata la donna sarà condannata all’ergastolo, ma di solito la punizione è la morte per impiccagione, sentenza che viene eseguita immediatamente. I figli in un attimo diventano orfani di entrambi i genitori: il padre morto quasi sempre in combattimento o in un bombardamento, la madre impiccata per aver vissuto nello Stato Islamico. Quindi sono mandati nei Paesi di origine dei genitori che si dichiarano pronti ad accoglierli. Secondo il Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione e della violenza politica del King’s College di Londra, oltre il 10% degli stranieri che si sono uniti all’Isis erano donne. Alcune erano “schiave del sesso” a disposizione dei combattenti. Altre erano solo mogli che accudivano i figli. Lo scorso agosto, 1.700 donne dell’Isis, con i loro bambini, sono state catturate nella regione di Tal Afar, in Iraq, dalle forze curde peshmerga e portate a Baghdad. I bambini non accompagnati dalla madre sono stati mandati agli orfanotrofi. Gran parte delle donne sono ancora detenute, in attesa di identificazione o del processo. Tra queste c’è Nuh Suwaidi, uno dei casi più noti. La donna 24enne lasciò Colonia, in Germania, per seguire il marito jihadista Mahmoud, prima in Iraq e poi in Siria. Ha raccontato che giunta in Turchia fu fatta entrare in Iraq. “Non sapevo nemmeno dove fossi - ha raccontato. Mio marito è partito due giorni dopo il nostro arrivo e si è unito a un gruppo di militanti. Non sapevo dove stesse andando o per quanto tempo. È tornato dopo una settimana per un giorno, e questo si è ripetuto per un anno. Nel frattempo quelli dell’Isis mi hanno insegnato a sparare e hanno anche pubblicato una mia foto ma io non mai partecipato ad azioni armate”. Suwaidi adesso teme di essere condannata a morte nonostante sia cittadina tedesca. I giornali online arabi spiegano che la sorte di molte di queste donne dipende dall’atteggiamento dei loro Paesi d’origine. In molti casi accettano di far rientrare solo i minori, lasciando le madri al loro destino di fronte ai giudici in Iraq e nel nord della Siria. La Russia, il Ciad e l’Indonesia sono gli Stati più clementi e oltre ai bambini spesso sono pronti ad accogliere anche le madri che poi saranno processate. Sono almeno 1.200 i bambini nati nel territorio controllato dal “califfo” al Baghdadi in territorio siriano. Tunisia. Festa della Rivoluzione: grazia per 2.160 detenuti Ansa, 13 gennaio 2019 Il presidente della Repubblica tunisina, Beji Caid Essebsi, ha deciso di concedere la grazia a 2.160 detenuti in occasione dell’ottavo anniversario della rivoluzione del 14 gennaio. La decisione è stata presa dopo un incontro con il ministro della Giustizia, Mohamed Karim Jamoussi. Il provvedimento prevede per 521 detenuti la scarcerazione immediata e una riduzione della durata delle pene detentive per gli altri. La concessione della grazia è stata valutata da una commissione speciale, seguendo i requisiti del principio di uguaglianza fra i detenuti, della natura del reato, del tempo di permanenza in carcere e della buona condotta dei detenuti. Rimangono esclusi i colpevoli di reati gravi, terrorismo e incitamento all’odio. Pakistan. Il caso di Asia Bibi, la censura ha “silenziato” le violenze di Stefano Vecchia Avvenire, 13 gennaio 2019 Un ruolo difficile, quello dell’informazione in Pakistan, sottoposta alle pressioni di un potere che sa essere persuasivo quando ritiene necessario intervenire con la censura. Come per l’ordine diffuso ai mass media pachistani che ha anticipato la sentenza di assoluzione della Corte Suprema nei confronti di Asia Bibi, la donna cattolica a rischio di impiccagione per l’accusa d blasfemia dopo oltre nove anni trascorsi in carcere. Le manifestazioni e le violenze organizzata da gruppi religiosi estremisti subito dopo il verdetto il 31 ottobre sono state controllate a fatica dalle forze di sicurezza prima che intervenisse una tregua negoziata con il governo, ma nessuno nel Paese ha potuto scriverne o trasmetterne immagini. Nella notte prima della decisione dei giudici, un messaggio inviato via Whatsapp dal direttore dell’Autorità per la regolamentazione dei media elettronici ha invitato tutti i responsabili dell’informazione a non “coprire” eventi nella giornata successiva che fossero connessi con la vicenda di Asia Bibi. Come descritto dal giornalista e analista politico Ahmed Tamjid Aijazi che ha la sua residenza fuori dal Pakistan, “il giorno della sentenza, queste indicazioni sono state applicate con il massimo impegno da tutti, dai cronisti come dai più noti anchorman e i media hanno ignorato completamente quanto successo nelle strade del Pakistan, ponendo un velo tra la realtà e la popolazione”. In altri casi, però, i mass media garantiscono un ruolo di informazione e di vigilanza primario, ad esempio nel rendere nota l’interminabile sequenza di abusi verso i settori più deboli della società. Come quelli contro tre donne cattoliche - due giovani cugine e la madre di una di esse - accusate di furto poco dopo Natale da un notabile musulmano del villaggio di Chakffiumra, nella provincia del Punjab. Torturate, sono state poi arrestate e detenute arbitrariamente per due settimane in un posto di polizia. Saima, una delle ragazze, lavorava da tre anni e mezzo come domestica in casa di Rana Saif, imprenditore con connessioni politiche, ma in vista del suo matrimonio previsto a febbraio aveva comunicato al datore di lavoro che lo avrebbe lasciato, suscitandone ira e volontà di rivalsa. Secondo quanto dichiarato alla polizia da Rana Saif, il 27 dicembre la ragazza avrebbe sottratto gioielli per un valore di 1,9 milioni di rupie pachistane, circa 12mila euro. Per questo, Saima è stata prima torturata con la madre Kausar Rehana e la cugina Salma che viveva con loro, per costringerle a confessare il furto e poi nuovamente maltrattate nella centrale di polizia dove - per evitare che all’esterno si venisse a conoscenza dell’accaduto - il 9 gennaio è stato emesso un mandato di arresto. Il caso è stato denunciato da attivisti per i diritti umani e evidenziato dai mass media e, dopo il coinvolgimento di Ajaz Augustine, ministro per i Diritti umani del Punjab, l’ispettore responsabile è stato sospeso dal servizio ed è stata avviata un’inchiesta. Restano ancora sotto sorveglianza Kausar e la figlia Saima, che si troverebbe in cattive condizioni fisiche. Rana, uno zio e l’ufficiale di polizia responsabile della custodia sarebbero però riusciti a costringerla a firmare con l’impronta del pollice un documento che nega la necessità di una visita medica per verificarne lo stato di salute. Cina. “Bei lüyou”, le vacanze forzate dei dissidenti ilpost.it, 13 gennaio 2019 Sono organizzate e pagate dal Partito comunista per tenere lontani i suoi critici durante gli eventi che contano. All’inizio di settembre il dissidente cinese Zha Jianguo, attivista per la democrazia e da molti anni sotto la sorveglianza del Partito comunista, fu portato in “vacanza forzata” alla diga delle Tre Gole, la diga più grande del mondo, costruita nel 2006 sul Fiume Azzurro, nella provincia cinese di Hubei. In quei giorni a Pechino si stava tenendo l’importante Forum sulla cooperazione tra Cina e Africa, e il governo cinese voleva assicurarsi che niente turbasse lo svolgimento dell’incontro. Zha Jianguo era considerato un potenziale pericolo, a causa delle sue denunce online contro il Partito comunista e a favore della democrazia: trascorse nove giorni lontano da Pechino insieme a tre uomini del Partito, senza possibilità di pubblicare post critici e polemici, tutto pagato dal ministero cinese della Sicurezza pubblica. L’esperienza di Zha Jianguo, che è stata raccontata in un articolo sul New Yorker da suo fratello, Zha Jianyiang, non è un caso isolato. Da diversi anni, infatti, il Partito comunista cinese manda pochi e selezionati dissidenti a fare “vacanze forzate” durante importanti eventi di politica interna o estera, accompagnati - o per meglio dire sorvegliati - da uomini del Partito. Non esiste un riconoscimento ufficiale di questa pratica da parte del governo della Cina, e i dettagli e le testimonianze sono poche. La pratica delle “vacanze forzate”, una specie di alternativa alla sorveglianza stretta e al carcere, viene indicata con l’espressione cinese “bei lüyou” (traducibile con molta libertà in italiano come “essere turistificato”), dove il prefisso bei implica che quell’azione è avvenuta perché la polizia ha forzato la persona che l’ha compiuta, o l’ha incastrata in un modo che sia lei alla fine a risultare responsabile dell’atto (altri esempi: bei zisha, “è stato suicidato”; bei loushui, “gli hanno evaso le tasse”; bei piaochang, “è stato incastrato perché fatto trovare in compagnia di prostitute”). Negli ultimi anni, ha scritto Zha, la lista dei bei è diventata sempre più lunga, e le azioni attribuite ai dissidenti, o che i dissidenti sono stati costretti a compiere, sono diventate sempre più varie e particolari. Tra tutte, quella di “essere turistificati”, cioè di essere costretti ad andare in vacanza per mancare a importanti eventi politici, è probabilmente la meno spiacevole. A Pechino, ha scritto Zha, questa pratica riguarda poco più di una decina di dissidenti ogni anno, solitamente quelli che sono conosciuti dalle ong e dai media occidentali. Nel marzo 2018, per esempio, una troupe di Bbc filmò il dissidente cinese Hu Jia pochi minuti prima della sua partenza per una “vacanza forzata” organizzata dal governo. Hu era appena uscito dal portone del suo condominio, a Pechino, e si fermò qualche secondo a parlare con i giornalisti. Disse che era diretto a Shenzhen, nella provincia del Guangdong, dove si sarebbe fermato per una ventina di giorni, periodo durante il quale a Pechino si sarebbe tenuta la riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento cinese. Quando arrivarono i due accompagnatori-poliziotti, uno dei due prese la valigia di Hu per portarla in macchina, mentre l’altro interruppe la conversazione con BBC. La pratica del “bei lüyou” è piuttosto strana e spesso poco comprensibile, se vista da fuori. Il New Yorker ha raccontato che i tre poliziotti-accompagnatori di Zha Jianguo durante la “vacanza forzata” alla diga delle Tre Gole si comportarono per lo più come suoi assistenti: si preoccuparono di comprare i biglietti d’ingresso ai siti turistici, di fare il check-in e il check-out negli hotel, di scattare foto nei punti più panoramici. In diverse occasioni il gruppo fece escursioni organizzate da una vera agenzia con veri turisti, provocando la curiosità degli altri partecipanti, che chiedevano che tipo di relazione ci fosse tra Zha e i suoi accompagnatori. Nel 2017 il giornalista Christian Shepherd di Reuters scrisse che alcuni attivisti pensavano che il governo privilegiasse le “vacanze forzate” per rendere i dissidenti meno accessibili ai giornalisti stranieri, attirando il meno possibile la loro attenzione. Zha ha scritto sul New Yorker che l’obiettivo delle “vacanze forzate” sembra essere ammorbidire le posizioni dei dissidenti più conosciuti e “irriducibili”, adottando pratiche meno punitive rispetto al carcere e favorendo la nascita di rapporti personali con gli accompagnatori-poliziotti, come successe per esempio nel caso di suo fratello Jianguo. Potrebbe però esserci anche un’altra ragione. Le “vacanze forzate” potrebbero servire come una specie di “stimolo morale” tra gli agenti delle forze di sicurezza cinesi, che hanno così la possibilità di viaggiare completamente gratis in posti che non avevano mai visto prima. In cinese c’è un termine che indica questo concetto, cioè un “dovere bello da compiere”: meichai. In occasione del Forum sulla cooperazione tra Cina e Africa che si è tenuto a Pechino a inizio settembre, Jianguo non fu l’unico dissidente a essere allontanato dalla capitale in una “vacanza forzata” organizzata dal governo. Pu Zhiqiang, avvocato per i diritti civili specializzato nella libertà di espressione, fu mandato nella provincia dello Sichuan; Hu Jia, l’attivista intervistato da BBC, nella città portuale di Tianjin; He Depu, dissidente e sostenitore del Partito democratico cinese, cioè una forza di opposizione al Partito comunista, nelle praterie della Mongolia Interna; e Zhang Baocheng, attivista per i diritti umani, in un resort sulla spiaggia dell’isola di Hainan.