Agevolare le relazioni per rendere normale la detenzione di Veronica Manca* Il Dubbio, 12 gennaio 2019 L’anno horribilis 2018 per il carcere si è appena chiuso e, all’alba dell’anno nuovo, si cercano nuove energie per continuare a lottare in nome del diritto, della giustizia e della Costituzione. Alle spalle una situazione locale pesante: alle soglie del Natale, Trento si è risvegliata con una rivolta un carcere, due suicidi nel giro di pochissime settimane (dalle modalità esecutive davvero allarmanti), tensioni alla ricerca di un equilibrio, forse mai raggiunto, forse nemmeno raggiungibile. Il quadro locale (con un tasso più alto di suicidi in tutta Italia, v. “A Trento l’ennesimo suicidio di un detenuto e scoppia la rivolta”, 27 dicembre 2018, della Giunta e Osservatorio Ucpi) si inserisce in una situazione generale a dir poco deprimente (a dicembre del 2018, si contano, infatti, 67 suicidi sparsi in tutta Italia). Anno nero anche per il sovraffollamento carcerario: oltrepassati i 60.000 detenuti presenti nelle carceri italiane, a fronte di una capienza regolamentare di circa 50.500 posti. Sul punto, ricorda Antigone che in carcere “ci si ammazza 19 volte più che nella vita libera”; ogni suicidio è sì un gesto individuale di disperazione che non va, quindi, mai strumentalizzato, ma alla luce dei dati forniti non si può non riconoscere una correlazione tra suicidi e condizione carceraria (v., Proposte di legge per prevenire i suicidi in carcere, 20 dicembre 2018, per la modifica degli artt. 18, 33 e 39 O. P.). Elemento comune delle ultime vicende drammatiche è la disperazione: l’esasperata ricerca di un equilibrio tra la propria condizione soggettiva di persona e quella oggettiva di detenuto. L’esigenza di risposte, il bisogno di confrontarsi, la necessità di comprensione sono fattori determinanti, propri dell’essere umano e delle dinamiche relazionali, anche e soprattutto in stato di detenzione. Ed è dalla relazione con l’altro che si (ri)costruisce la propria personalità in carcere: c’è chi ne approfitta per apprendere tutto ciò che gli viene offerto; c’è chi subisce passivamente; c’è chi non accetta la propria condizione né il ruolo istituzionale di chi gli sta di fronte. La condizione detentiva è personale, ma ciò che accomuna tutti i detenuti (come, del resto, le persone libere) è la relazione: dall’incontro/ scontro con le persone, si possono ricostruire i legami interrotti, ricucire le ferite provocate dal reato, avere il polso dell’avvenuta responsabilizzazione e toccare con mano i progressi raggiunti (o gli obiettivi mancati). Un assist importante, mi è stato dato di recente dalle stesse persone che vivono la reclusione (v., Claudio Conte, Sull’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge penitenziaria, in Ristretti, 5 gennaio 2019), che mi hanno ricordato come la condizione umana si preservi con il dialogo e la relazione con il prossimo: il contatto con la famiglia diviene cruciale nel mantenimento della “normalità” di vita nella condizione detentiva. Ed il primo momento di contatto si ha con il colloquio telefonico, momento spesso negato per esigenze organizzate o ridotto a 10 minuti sul corridoio una volta alla settimana o quando è possibile, date le turnazioni e le difficoltà materiali di rendere attuabile l’esercizio di un diritto che rimane, in ogni caso, irrinunciabile. Prassi applicative, protocolli organizzativi potrebbero rendere migliorabili la fruizione del colloquio telefonico, quanto meno renderlo regolare: si avverte, inoltre, l’esigenza di un mutamento normativo che regolarizzi e ampli la concessione dei momenti di vicinanza con la famiglia e le persone care, perché, come è noto, la “normalità” passa necessariamente per il tramite degli affetti e della relazione con il prossimo “qualificato”, perché più vicini al cuore. *Avvocato del Foro di Trento e responsabile della sezione Diritto Penitenziario per Giurisprudenza penale Legittima difesa, trovato l’accordo tra M5S e Lega di Liana Milella La Repubblica, 12 gennaio 2019 Il via libera definitiva alla Camera ai primi di febbraio. Nessun dissenso su un testo che vende un’illusione, quella che si possa, “sempre” e comunque, sparare contro un malvivente senza poi subire alcuna conseguenza giudiziaria. Strada definitamente spianata per la nuova legittima difesa. Il vessillo di Matteo Salvini da giocare in campagna elettorale. Nella prima settimana di febbraio alla Camera ci sarà il via libera definitivo. M5S stavolta non si oppone. Non entrano in azione i simpatizzanti di Fico, né tantomeno si muove l’anima più di sinistra dei pentastellati. Non c’è dissenso su un testo che vende un’illusione, quella che si possa, “sempre” e comunque, sparare contro un rapinatore senza poi subire alcuna conseguenza giudiziaria, neppure uno straccio di accertamento. M5S non protesta. Condivide. In commissione Giustizia alla Camera, tra gli 80 emendamenti presentati, non ce n’è neppure uno dei grillini. Prevale la linea del Guardasigilli Alfonso Bonafede, approvare il testo frutto di un compromesso già stilato al Senato, evitare che la legittima difesa diventi occasione per un nuovo scontro, soprattutto non contribuire a trasformarla in uno spot elettorale per le europee. Per molti giorni “radio Camera” aveva diffuso la voce che un dissenso grillino, proprio in commissione Giustizia, ci sarebbe stato e avrebbe prodotto uno scontro e forse costretto la maggioranza a un rinvio. Un’opposizione netta al testo approvato al Senato il 24 ottobre che garantisce una difesa “sempre” legittima qualora ci si trovi “in uno stato di grave turbamento” di fronte a un ladro e al solo sospetto che egli sia armato. Perché la filosofia della nuova legittima difesa - la norma originaria proposta dall’attuale sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, deputato fedelissimo di Salvini - è proprio questa: in una situazione di “grave turbamento”, come può essere quella di avvertire la presenza di un ladro in casa, che può attentare alla vita dei propri familiari e ai propri beni, non ci può essere il tempo per “pensare”, per valutare l’esistenza di armi e quindi l’opportunità o meno di una reazione con la pistola in pugno. Il sospetto, e quindi la paura, giustificano l’uso delle armi. Anche colpendo un ladro disarmato o magari già in fuga. Una dinamica condivisa e difesa da Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica amministrazione, avvocato di grido e prima consigliera di Salvini sulla giustizia. La novità politica, dopo la presentazione degli emendamenti nella commissione presieduta dalla grillina Giulia Sarti, è la totale assenza di un dissenso tra Lega e M5S. Gli 80 emendamenti testimoniano il forte dissenso del Pd, che chiede, come dice il vice presidente della commissione Franco Vazio, praticamente “di sopprimere l’intero testo”. All’opposto Forza Italia vuole renderlo più duro e pretende l’inversione dell’onore della prova. Il responsabile Giustizia forzista Enrico Costa, chiede che tocchi al magistrato dimostrare gli elementi di colpevolezza, mentre chi spara non deve affatto dimostrare le ragioni del suo gesto. Ancora qualche settimana, e la legittima difesa diventerà legge. Già dalla prossima si vota in commissione. All’inizio di febbraio Lega e M5S otterranno il via libera in aula. Lasciandosi alle spalle i richiami della magistratura. L’ex procuratore di Torino Armando Spataro la definisce “una legge aberrante”. L’ex pm di Mani pulite Pier Camillo Davigo dichiara che la nuova legge sarà fermata dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo perché ne infrange le disposizioni (proporzione tra offesa e difesa; non si spara alle spalle). Il presidente dell’Anm Francesco Minisci appena due giorni fa ha ribadito davanti ai deputati come una norma del genere “presenti vari profili di incostituzionalità”. E anche il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin ha invitato la maggioranza a valutare bene “la compatibilità costituzionale” del nuovo articolo 52. Ma i numeri della Camera vinceranno su dubbi e perplessità, anche perché stavolta M5S è d’accordo con la Lega. Legittima difesa, M5S lascia il campo alla Lega di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 gennaio 2019 Alla Camera, malgrado i distinguo grillini, nessun emendamento di maggioranza al disegno di legge che autorizza a reagire in armi all’interno del proprio domicilio. Sarà legge ai primi di febbraio. Nessun emendamento. Non è dalla legittima difesa che arriveranno scossoni per la maggioranza giallo-bruna. Del resto ce ne sono già a sufficienza sugli altri fronti, dal reddito di cittadinanza alle grandi opere, dalle nomine a da ultimo al diversivo della cannabis. I deputati del Movimento 5 Stelle non sono entusiasti del provvedimento bandiera della Lega che allarga le maglia della non punibilità di chi spara agli intrusi. Ma così come i colleghi senatori in prima lettura, non si metteranno di traverso. Anzi, se a palazzo Madama avevano presentato emendamenti correttivi per poi ritirarli, alla camera hanno evitato persino il gesto. In commissione giustizia ieri si sono chiusi i termini e gli 81 emendamenti depositati risultano tutti firmati dalle opposizioni. Il testo di legge resterà così quello arrivato dal senato. La Lega conta di riuscire a metterlo in calendario per l’ultimo sì nei primi giorni di febbraio. Le mediazioni con i grillini ci sono state e ci saranno su altri terreni, con differenti provvedimenti di legge. L’accordo di Yalta che regge il governo prevede il reciproco rispetto delle zone di influenza e a Montecitorio nello stesso giorno in cui si comincerà l’esame in commissione degli emendamenti alla legittima difesa - mercoledì 16 -, in aula comincerà a camminare la riforma costituzionale del referendum propositivo che per i 5 Stelle è la bandiera delle bandiere. Una legge che non fa scaldare il cuore della Lega - le proposte di Salvini in tema di riforme erano diverse e opposte, tipo il presidenzialismo - ma sulla quale i leghisti hanno comunque messo a segno qualche correzione. Innanzitutto l’introduzione di un quorum. Più abili, i deputati della Lega hanno sempre potuto giocare sul fatto che alla camera le loro posizioni erano condivise da tutte o da alcune opposizioni. Nel caso delle legittima difesa il provvedimento è addirittura già stato votato da Forza Italia e Fratelli d’Italia; le richieste di modifica della destra vanno nella direzione di legalizzare la difesa armata, dovrebbe essere il pubblico ministero a provare l’illiceità in tutti i casi di reazione all’interno del domicilio. “Non siamo scesi a compromessi con il Movimento 5 Stelle, per noi il testo del provvedimento approvato al senato è perfetto così”, ha detto ieri il deputato leghista della seconda commissione Riccardo Marchetti. La legge prevede che la difesa con un’arma detenuta legittimamente sia considerata “sempre” proporzionata se avviene all’interno dei luoghi di proprietà. L’eccesso colposo non sarà più punibile se chi ha agito lo ha fatto “in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Secondo l’Associazione magistrati questa novità sarà fonte di problemi perché è arduo distinguere un turbamento semplice (punibile) da uno “grave” (non punibile). La legge introduce anche un - rituale - aumento delle pene per i reati di violazione di domicilio, furto e scippo e prevede una generica “priorità” nelle udienze penali per i processi relativi ai delitti di omicidio colposo. Ostellari: “Con la nostra riforma mai più rinvii a giudizio per legittima difesa” di Errico Novi Il Dubbio, 12 gennaio 2019 Intervista ad Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia del Senato. “Mi permetta di citare Tommaso d’Aquino. Non un leghista cattivo: uno dei massimi pensatori della tradizione cristiana. Nel Catechismo della Chiesa cattolica spiega: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può anche essere un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri”. Noi ci ispiriamo a questo. Siamo vicini a chi è aggredito e costretto a difendersi perché sappiamo che proteggere l’incolumità delle persone care, oltre che la propria, è appunto un diritto e anche un dovere”. Andrea Ostellari è il senatore leghista che ha materialmente scritto la nuova legittima difesa. E non si limita ad annunciarne il segno di vicinanza ai cittadini. La difende dettaglio per dettaglio, anche dall’accusa di “poter legittimare l’omicidio” formulata poche ore prima dal presidente dell’Anm Francesco Minisci. “Sarà uno strumento utile innanzitutto ai magistrati per pervenire in tempi più rapidi e in modo migliore a quelle archiviazioni e a quei proscioglimenti ai quali oggi si arriva dopo lunghissimo tempo”, dice Ostellari, che a Palazzo Madama è il presidente della commissione Giustizia. È plausibile che la magistratura tema anche le aspettative suscitate dalla vostra legge. Nel senso che è preoccupata dal rischio di pesanti contestazioni nei confronti di pm e giudici in eventuali casi in cui, nonostante la riforma, i procedimenti per legittima difesa durassero comunque a lungo. Se la sente di rassicurare i magistrati sul fatto che non saranno oggetto di contestazioni? Guardi, io credo che la nostra maggioranza di governo, e in particolare noi della Lega che abbiamo spinto questa riforma, consegniamo ai magistrati una nuova formulazione degli articoli 52 e 55 tale da non dover più perdere troppo tempo e da poter chiudere le indagini con una certa tempestività. Ai cittadini sarà evitato lo stillicidio di processi lunghi come è avvenuto per esempio al tabaccaio di Padova Franco Birolo. Basta leggere il testo per comprendere cos’è che ci aspettiamo. Qui non c’entra la disponibilità a una maggiore comprensione per i giudici: semplicemente siamo convinti che le nuove norme consentiranno di arrivare all’archiviazione in tempi ragionevoli. Le indagini ovviamente ci saranno, insomma, ma voi ritenete improbabile che con queste norme possano esserci rinvii a giudizio per eccesso colposo di legittima difesa... Sarà molto ma molto difficile che una persona possa essere rinviata a giudizio per essersi difesa. E le archiviazioni che oggi arrivano dopo tantissimo tempo saranno richieste in tempi ragionevoli. Oltretutto, se si legge con attenzione la nuova formulazione dell’articolo 55, si vede che di fatto noi abbiamo eliminato l’eccesso colposo. Quel tipo di condotta non è più punibile. Naturalmente parliamo di chi reagisce di fronte al pericolo di aggressione, non di poter essere assolti dopo aver sparato a qualcuno che aveva varcato la soglia per altri motivi... Appunto: parliamo di tutela per le condotte incorniciate all’articolo 52 e all’articolo 55 del codice penale. In coerenza con quanto previsto in molti Paesi europei. A cominciare dalla Germania: il nuovo articolo 55, con la non punibilità in caso di grave turbamento suscitato dalla situazione di pericolo, è tratto dall’esperienza del sistema tedesco. Non c’è alcun allarme per il diritto europeo e soprattutto non ci sarà affatto il far west. Abbiamo affermato in maniera chiara e netta che lo Stato è a fianco del cittadino costretto a difendersi di fronte a minaccia di uso di armi e a violenza, non abbiamo incoraggiato a sparare a chi passa per strada. Il presidente del Cnf Mascherin ha detto: l’importante è che il magistrato verifichi sempre l’effettiva necessità della reazione e l’attualità del pericolo, in modo da applicare le norme in modo costituzionalmente orientato... La riforma è assolutamente in linea con la nostra Costituzione: non abbiamo alcuna incertezza, a riguardo. L’abbiamo esaminata con attenzione. Con queste modifiche abbiamo voluto definire il perimetro dell’accertamento giudiziario in relazione a casi nei quali prima c’erano troppe ombre. Non c’è alcuna legalizzazione dell’omicidio, come si è sentito dire. Il presidente dell’Anm ha detto che considerare “sempre legittima” la difesa del domicilio in caso di “minaccia di uso di mezzi di coazione fisica” può consentire di assolvere chi spara a un ladro che provava a forzare il cancello col cacciavite... Il magistrato può fare tutte le sue ipotesi, ma noi dobbiamo chiederci chi vogliamo difendere. Se un ladro rompe il cancello e minaccia di rivolgere un’arma contro di te, tu non puoi chiedergli di dirti cos’ha veramente in tasca, prima di decidere se difenderti o no. Ecco perché noi abbiamo scritto “minaccia di uso di armi” e non “ con armi”: se qualcuno minaccia di colpirmi, non è che posso essere legittimato a difendermi solo dopo aver visto qual è l’arma che ha in mano. Insomma: non parliamo di chi scavalca un cancello, ma di attacco alla vita tua e dei tuoi familiari. Ma tutti quei “sempre” inseriti all’articolo 52 sulla “difesa legittima” potrebbero indurre qualcuno a credere che è libero di sparare? No, guardi: la legittima difesa si pratica non necessariamente con un’arma. Chi ancora l’ha in casa può finire per affidarsi anche a un mattarello, per cercare di difendersi da un’aggressione. Questo per dire che non parliamo di cittadini pistoleri ma di gente che si trova in pericolo. Dire “legittima difesa uguale sparare” è sbagliato. Vuol dire difendersi. Esercitare un diritto che dal mio punto di vista è anche un dovere, come insegna Tommaso d’Aquino. Marche: quasi la metà dei detenuti ha problemi di droga anconatoday.it, 12 gennaio 2019 La fotografia del rapporto 2018 sui sei istituti di pena presenti in regione. Montacuto sovraffollato: ci sono oltre il 23% di detenuti in più della capienza massima. Quasi la metà fa uso di droghe. Ci sono meno agenti di polizia rispetto all’organico previsto che devono sorvegliare situazioni di sovraffollamento. Le carceri marchigiane e la loro situazione sono state fotografate all’interno del Rapporto 2018 presentato questa mattina da Andrea Nobili, Garante regionale dei diritti, per porre l’attenzione su vecchie e nuove criticità. Con Nobili c’erano anche il presidente del consiglio, Antonio Mastrovincenzo, e il consigliere pentastellato Gianni Maggi. Il carcere anconetano è il primo in classifica per numero di detenuti. Ce ne sono 316 detenuti, quasi il 42% stranieri, quando la capienza dovrebbe essere di 256 reclusi. Le sezioni di alta sicurezza a tutt’oggi ospitano 65 persone (tutti italiani). In generale, nelle carceri marchigiane, ci sono 929 detenuti, -10% rispetto al 2017. Aumentano i detenuti stranieri: sono 314, +1,3%. Nel corso della presentazione ufficiale del report, ospitata a Palazzo delle Marche, Nobili non ha mancato di confermare alcune delle maggiori criticità. In primis quella del sovraffollamento che, seppure non con percentuali elevatissime, continua a destare preoccupazione, considerate anche le oscillazioni delle presenze registrate in alcuni particolari periodi. A questo vanno rapportate le più volte denunciate carenze negli organici, sia sul fronte della polizia penitenziaria, sia su quello di tutte le altre figure chiamate a garantire gli adeguati percorsi di sicurezza, trattamento, reinserimento dei detenuti, di mediazione culturale (considerato il significativo numero di stranieri) e di assistenza sanitaria e psicologica, anche in considerazione dell’aumento di alcune patologie come quelle di carattere psichiatrico. Sempre in relazione preoccupante l’aspetto sanitario: il problema delle tossicodipendenze riguarda il 48,9% dei detenuti. “Una situazione complessa - spiega Nobili - aggravata dalla crisi economica e dal taglio dei fondi previsti, che spesso ha determinato difficoltà nel garantire i servizi primari. A risentirne anche le attività trattamentali, che, seppur ben avviate in alcuni istituti, hanno dovuto fare i conti con l’esiguità delle risorse regionali ed i ritardi nella loro assegnazione. Il supporto del volontariato, come ribadito nel terzo tavolo di confronto organizzato recentemente dal Garante con le associazioni di settore, ha permesso di far fronte ad alcune emergenze, riempiendo i vuoti che si sono inevitabilmente creati”. Sulla base dei dati raccolti dal Garante, risultano effettivamente in servizio 590 agenti di polizia penitenziaria (su 655 assegnati), 18 educatori e 14 psicologi. Per quanto riguarda la situazione sanitaria, le tossicodipendenze mantengono sempre il primato con 454 detenuti (pari al 48,9%), segnalati dall’area sanitaria, che presentano problemi di droga, mentre a seguire figurano le patologie di tipo psichiatrico, con 98 casi accertati. Nel suo intervento il Presidente Antonio Mastrovincenzo ha ricordato “l’impegno del Consiglio regionale sul fronte delle problematiche legate al sistema carcerario, non mancando di evidenziare l’importanza del confronto diretto attivato dal Garante attraverso gli incontri con le rappresentanze della polizia penitenziaria, del volontariato, dei settori sanitario e sociale. Non posso che ribadire l’importanza delle attività trattamentali, per le quali nel bilancio preventivo 2019 abbiamo previsto uno stanziamento di 260.000 euro. È una risorsa ovviamente non sufficiente, ma sta a confermare la nostra attenzione nei confronti di questo settore”. Cremona: un italiano di 52 anni si impicca in una cella a Cà del Ferro di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 12 gennaio 2019 Tragedia nella Casa circondariale di Cà del Ferro. Ieri pomeriggio, intorno alle 16, si è tolto la vita un detenuto proveniente dal carcere di Bollate (Milano). L’uomo, un italiano di 52 anni, nella struttura di via Palosca doveva scontare un cumulo pena per reati comuni, inclusa un’evasione dai domiciliari. Il fine pena era fissato nel 2020. Secondo quanto emerso nel tardo pomeriggio di ieri, il 52enne si è impiccato con una corda. Tutti i tentativi di salvarlo si sono rivelati inutili. I responsabili della casa circondariale hanno subito raccolto e fissato i tratti essenziali della vicenda. Finirà tutto nell’informativa che in queste ore arriverà sul tavolo del magistrato di turno. Si dovranno vagliare diverse cose, a cominciare dalla presenza di quella corda all’interno della cella. In Italia i suicidi in carcere sono un fenomeno in crescita costante. Nel corso dell’anno appena concluso sono state 67 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un penitenziario. Nel 2017 erano state 52 e l’anno precedente 45. Nel corso degli ultimi diciannove anni - come indicano le statistiche pubblicate di recente da Ristretti Orizzonti, i suicidi oltre le sbarre sono stati oltre mille, per la precisione 1.053. In totale i decessi (per tutte le cause) sono stati, nello stesso periodo, 2.884. Cremona: morte in carcere. “Noi non siamo topi”, lettera a Domenico di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 12 gennaio 2019 Il saluto dei detenuti della Sezione F del penitenziario al 52enne che la scorsa domenica si è impiccato in cella Si chiamava Domenico F., aveva 52 anni, stava scontando un cumulo di pene nel carcere di Cremona. Lo avevano trasferito dal penitenziario di Bollate. Sperava di poter uscire a febbraio. Gli è stato notificato l’atto: “Fine pena 2020”. Domenico si è impiccato con una corda nella cella numero 11 della sezione F. La tragedia è accaduta domenica pomeriggio. Domenico oggi non c’è più. Perché? È una lettera intrisa di dolore, di riflessioni e di domande quella dedicata a Domenico. L’ha scritta “Uno di noi”, l’hanno firmata i detenuti della sezione F, dalla cella 1 alla cella 25. In fondo: “Le nostre più sentite condoglianze da noi tutti alla tua famiglia”. “Uno di noi” è Piervittorio Belfanti, noto imprenditore mantovano. “Re dei ristoranti”, era un leader fuori, ora lo è in carcere. Il don del penitenziario gli ha chiesto di scrivere per Domenico. Lunedì si è messo al computer e ha riempito due pagine. “Stamattina, come ogni mattina, il buon giorno, la colazione, le due ore d’aria, poi il pranzo. Dentro queste mura il tempo scorre sempre e come non fosse successo nulla, nessuno ha voglia e forse nemmeno il coraggio di parlare di ciò che è accaduto ieri. Ed anche gli operatori e tutti coloro che vivono in questa struttura passano e oggi sembra un giorno come in altro. Allora vien da domandarsi: “come è possibile?”. Non è possibile... Noi siamo rinchiusi, ma cosa significhi veramente nessuno lo può sapere. Ricordatelo sempre. “Noi non siamo Topi”, si può morire, si può scegliere forse di morire così, ma non così, anche la morte dovrebbe avere un senso, ma perché, perché così?”. Belfanti parla di Domenico. “Camminando avanti e indietro nei nostri quattro metri quadrati, ho passato tutta la sera a ricordare quel signore, che solo oggi ho scoperto chiamarsi Domenico. Domenico come il giorno che ha scelto per lasciarci. Ogni domenica era con noi, era in prima fila durante la celebrazione della messa, era sempre pronto e felice di poter leggere per noi le preghiere e le invocazioni al Signore. Non ci posso credere e non vorremmo crederci, fa molto male, fa pensare, deve far riflettere, deve far agire, non si può perdere la vita così... noi non siamo e dobbiamo dimostrare di non essere topi”. Belfanti racconta che “solo tre giorni fa” Domenico “era a chiedermi se potevo aiutarlo in quanto una nuova notifica gli aveva allungato la detenzione di un anno, mi chiedeva se poteva fare un cumulo e magari vedersi togliere qualche mese nel ricalcolo. Proprio ieri, al termine della messa, mi si è avvicinato dicendomi che recuperati i numeri di registro delle sentenze, sarebbe venuto dame. Sempre educato, sempre gentile, sempre sommesso. Non so con quante persone abbia potuto parlare dopo di me, ma penso poche o forse nessuna. Questo mi impone di pensare che forse avrei potuto io aiutarlo, ma i cancelli dividono le sezioni. Napoli: entrano baby criminali, escono camorristi di Rosaria Capacchione fanpage.it, 12 gennaio 2019 Perché alcune comunità per minori non funzionano. L’universo delle comunità che ospitano i minori dell’area penale è fatto di tante realtà piccole ma efficienti ma anche di operatori improvvisati, di volontari che volontari non sono, di speculatori. C’è ad esempio gruppo di cooperative sociali che operano in provincia di Caserta che fanno capo a familiari stretti di esponenti di primissimo piano del clan del clan dei Casalesi. Un piede ben piantato ai Colli Aminei, nel Centro per la giustizia minorile di Napoli. Un altro solidamente ancorato in provincia di Caserta, tra Santa Maria Capua Vetere, Casal di Principe e Casapesenna. Una mano protesa verso la Sicilia, con l’obiettivo di espandere l’attività e di allargarla, magari, all’accoglienza a tutto tondo. Una robusta reputazione guadagnata negli anni negli ambiti dei servizi socio-assistenziali. Una rete familiare gravemente compromessa da condanne per mafia, così inquinata da sconsigliare a chiunque di operare in settori tanto sensibili. Intendiamoci: esseri figli, nipoti, sorelle di uomini del clan, anzi di esponenti di punta dei Casalesi e fondatori dello stesso cartello camorristico, non è un reato. Anzi, nella Campania dei cinquecentocinquanta comuni, in prevalenza sotto i diecimila abitanti, è quasi impossibile non avere parentele ingombranti. Ma è quanto meno un paradosso che a loro sia demandata la riabilitazione di minori agli arresti domiciliari o “affidati” in prova, piccoli camorristi delle paranze napoletane o giovani spacciatori dell’agro aversano. E che la sede operativa di cotanta riabilitazione sia a qualche centinaio di metri dalle case della famiglia Zagaria, in un paese - Casapesenna - dove è impossibile immaginare lavoro esterno o semplici passeggiate al sicuro da cattivi incontri. Eppure va proprio così. C’è un gruppo di cooperative sociali che operano in provincia di Caserta che fanno capo a familiari stretti di esponenti di primissimo piano del clan dei Casalesi: a Francesco Schiavone “Cicciariello”, cugino e omonimo del boss chiamato Sandokan e come lui condannato all’ergastolo e detenuto al 41 bis; a Carlo Del Vecchio, nipote del primo, per anni (e fino alla condanna per omicidio) referente del clan nell’area di Capua Santa Maria Capua Vetere; e all’entourage della famiglia Zagaria. Cooperative che gestiscono le carceri minorili private, cioè le case di accoglienza che ospitano i detenuti più giovani. Seguendo il filo delle deviazioni avvenute in alcune case-famiglia casertane, tra le quali i filmini girati di notte da Kekko “il nano”, il ragazzino che il 18 dicembre del 2017 accoltellò un coetaneo, Arturo, in via Foria a Napoli, la Squadra Mobile di Napoli si è trovata dinanzi a uno scenario inquietante, ancora tutto da approfondire. L’universo delle comunità che ospitano i minori dell’area penale (ma anche i “civili” in stato di momentaneo abbandono o gli stranieri non accompagnati) è fatto di tante realtà piccole ma efficienti ma anche di operatori improvvisati, di volontari che volontari non sono, di speculatori. E di un colosso con mire espansionistiche e una dubbia compatibilità territoriale. Il colosso si chiama “Serapide”, ha sede a Casagiove presso lo studio di Eufrasia Del Vecchio, nipote, figlia, sorella di Serapide è l’ente gestore di alcune case-famiglia. Le più importanti, la comunità alloggio Sant’Elena, a Casapesenna, e L’Incontro, a Santa Maria Capua Vetere. Eufrasia Del Vecchio, attraverso la Edv Service, si occupa della gestione amministrativa e legale delle comunità e della selezione del personale; la sorella Rosanna è socia fondatrice di Serapide assieme a Massimo Zippo, di professione parrucchiere (gestisce un negozio a Casal di Principe), amministratore unico della coop. Tutto in regola? Gli investigatori di via Medina non ne sono convinti. Trovando, nel frattempo, un baco nella legge: le procedure di accreditamento non prevedono l’informativa antimafia allargata; i rapporti tra enti locali (ma anche con il Centro per la giustizia minorile) sono sostanzialmente fiduciari, dipendenti da sopralluoghi sanitari e verifiche solo cartacee sulla validità dei progetti. Nulla sulla proprietà degli immobili, nulla sulla genesi societaria, nulla sull’effettiva adesione al protocollo “Wendy torna a casa” siglato oltre dieci anni fa con il ministero della Giustizia. Criticità che erano emerse anche in un altro caso, sempre all’attenzione della Squadra mobile di Napoli: la detenzione comoda, troppo comoda, garantita ai figli di esponenti di primo piano della camorra napoletana. E se qualcuno ha osato rispettare le regole e il protocollo, ecco arrivare - su richiesta dei familiari del minore (cioè della camorra) - la sospensione della convenzione con la coop troppo severa. Il caso era stato denunciato sei mesi fa dall’avvocato Carlo De Stavola, difensore dei responsabili della coop Oltre che ha gestito, in provincia di Benevento, a Telese, a comunità Altrove. Comunità che è stata costretta a chiudere i battenti senza che ai responsabili sia mai stata data alcuna spiegazione. Il fatto, raccontato da Fanpage.it il 2 luglio dello scorso anno: ai responsabili di cooperativa e comunità, Roberto Giuliano e Patrizia Tubiello, il 4 luglio del 2017 era stata sospesa la convenzione con il Centro per la giustizia minorile di Napoli. L’antefatto: a maggio dello stesso anno era stato affidato un minore accusato di rapina aggravata con recidiva. Ragazzo difficile, refrattario a regolamenti e leggi, chiuso, ombroso. Agli operatori della comunità era stato assicurato che proveniva da una famiglia normale. E invece quella famiglia aveva chiesto, anzi preteso, per lui un trattamento di favore: libertà di movimento, telefonino in camera, wifi libero. Al rifiuto era scappato. Evasione regolarmente segnalata ma l’annotazione (ovviamente obbligatoria) aveva provocato una sorta di richiamo all’ordine e di diffida agli operatori. Qualche settimana dopo il trasferimento in altra comunità più “comprensiva” e accomodante e la sospensione della convenzione tra il Centro per la giustizia minorile e Altrove. Decisione nata dopo un esposto firmato dai genitori del ragazzo e veicolato dall’assistente sociale che lo aveva in carico. Nessun cenno, nelle relazioni, al reale contesto familiare e sociale di provenienza. Il minore è un nipote, infatti, di quel Salvatore Dragonetti ucciso tre mesi dopo - il 6 settembre - al Borgo Sant’Antonio Abate assieme al cognato. La famiglia Dragonetti è storicamente famiglia di camorra. Imparentata con i Giuliano di Forcella, è organica al clan Mazzarella. Una famiglia normale? Ospite di Altrove era stato, in quel periodo, un ragazzo dell’agro aversano, arrestato per spaccio di droga. Con la chiusura del centro di Telese era stato affidato alla comunità Sant’Elena di Casapesenna. Come raccontato da Fanpage il 13 settembre dello scorso anno, nonostante il divieto espresso, utilizzava il telefonino e scriveva su Facebook, mandando messaggi ad amici e a chissà chi altro: “Buona nott, puzzat e famm. Ti posso solo piscare in testa”; “La morte arriva quando arriva, mi basta solo morire libero”. Qualche tempo dopo, ormai maggiorenne, è stato nuovamente arrestato. Roma: “Formarsi per ripartire”, una nuova vita dopo la detenzione Ansa, 12 gennaio 2019 Al via corsi formazione per detenuti. Sono aperte le iscrizioni ai corsi di formazione per detenuti ed ex-detenuti nell’ambito del progetto “Formarsi per ripartire: una nuova vita dopo il carcere”, organizzato dall’Isola Solidale con il sostegno della Fondazione nazionale delle comunicazioni. Al via oggi, l’iscrizione sarà possibile fino al 31 marzo. Per info si può visitare il sito isolasolidale.it oppure si può chiamare il numero 06/5012670 o si può scrivere una mail a: segreteria@isolasolidale. Isola Solidale è una struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che hanno commesso reati per i quali sono state condannati, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunti a fine pena, si ritrovano privi di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Potranno accedere ai corsi di formazione gli ospiti della struttura di Isola Solidale altri detenuti ammessi alle misure alternative provenienti da carceri di Roma Capitale e indirizzati dall’Uepe, gli Uffici locali per l’Esecuzione Penale Esterna. Sono previsti 4 corsi per un totale di 10 detenuti a corso, con il coinvolgimento di formatori specializzati, affiancati da volontari e ulteriori figure professionali, comprendenti un avvocato, uno psicologo e un assistente sociale. I detenuti avranno l’occasione di sviluppare una professionalità attraverso un corso sulla coltivazione dell’orto della durata di 9 mesi, un corso di falegnameria di 4 mesi, un corso di restauro di 4 mesi e uno di alfabetizzazione informatica di 4 mesi. Per i programmi saranno impiegati cinque formatori specializzati: un agronomo, un esperto in orto coltura, un falegname, un restauratore e un informatico. Il progetto avrà la durata complessiva di un anno. “Con questi corsi vogliamo dare un’occasione a chi vive il mondo del carcere di ripartire - afferma Alessandro Pinna, presidente di Isola Solidale - e riscoprire una nuova vita dopo il carcere. È nostra convinzione - aggiunge - che il reinserimento lavorativo dell’ex-detenuto, restituendo alla persona la sua dignità di cittadino, sia un passo necessario e determinante a ridurre le recidive di reato”. Firenze: emergenza freddo nel carcere di Sollicciano quinewsfirenze.it, 12 gennaio 2019 Il sindacato Uil-Pa ha denunciato l’assenza del riscaldamento in alcune aree della struttura detentiva. “Sempre al freddo nonostante le segnalazioni”. Il gelo di questi giorni si fa sentire, a detta della Uil-Pa, in maniera molto pesante nel carcere fiorentino di Sollicciano, tanto che il sindacato ha minacciato di rivolgersi alla procura. “Nonostante le varie denunce di quest’ultimi mesi” che hanno portato anche alla visita a sorpresa, il 17 dicembre scorso, del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sono “sempre al freddo” alcune aree del penitenziario fiorentino di Sollicciano, come “il reparto femminile, la caserma agenti nuova e la mensa di servizio dei poliziotti penitenziari”, così “come continua la medesima gestione approssimativa dell’intero penitenziario”, ha detto attraverso una nota il segretario toscano della Uil-Pa Eleuterio Grieco. Per il sindacato, oltre che sulle “gravi ripercussioni sulla salute” di chi nel carcere vi lavora o è detenuto, gli effetti del freddo si fanno sentire anche “sull’ordine e la sicurezza” nel penitenziario. Rivolgendosi poi al ministero, Grieco ha precisato come sia necessario che “oltre alla visita, ben gradita, dia nell’immediatezza risposte concrete al fine di risolvere le problematiche che investono il carcere Fiorentino”. Nuoro: Garante dei diritti dei detenuti cercasi La Nuova Sardegna, 12 gennaio 2019 A quasi un anno dalla conclusione del mandato di Gianfranco Oppo quale Garante dei diritti dei detenuti, il Comune di Nuoro non ha ancora nominato il suo sostituto. Lo rileva il consigliere comunale di minoranza Leonardo Moro, che ha scritto al presidente del Collegio del Garante Nazionale Mauro Palma per informarlo del fatto che ancora non sia stato coperto un ufficio così importante. “Come è noto - sottolinea Moro - il Comune di Nuoro è stato fra i primi capoluoghi di provincia ad istituire la figura. Questo con eccellenti risultati e con continuità, dapprima con Carlo Murgia e successivamente, fino al mese di febbraio 2018, con Gianfranco Oppo. L’opera e i rapporti forniti dal Garante di Nuoro confermano che la situazione carceraria necessita di una presenza forte, qualificata e costante a garanzia della popolazione carceraria”. Moro ricorda l’importanza della figura quale trait d’union fra mondo carcerario e società esterna. “Nonostante i numerosi solleciti al sindaco, a tutt’oggi, non risulta ancora affidato l’incarico”. L’auspicio è che la nomina venga fatta quanto prima, per ridare ai reclusi un essenziale punto di riferimento nel loro percorso rieducativo. Firenze: un Master per la gestione della salute nelle carceri stamptoscana.it, 12 gennaio 2019 Una formazione specifica per gestire la salute in un sistema molto particolare, quello penitenziario italiano, che raccoglie oltre 58mila reclusi, spesso in condizioni di sovraffollamento. È l’obiettivo del master di II livello in “Tossicologia, psicologia sociale, diritto e criminologia in ambiente penitenziario”, organizzato dall’Università di Firenze. Il Master fornisce a chi lavora o è interessato a operare negli istituti penitenziari una formazione multidisciplinare in un campo biomedico e giuridico, per affrontare le complesse problematiche della gestione del percorso delle persone private della libertà. Dalla tossicologia alla sociologia, dall’epidemiologia in ambito penitenziario alla psicologia e alla sessuologia, gli insegnamenti toccheranno tutti gli ambiti di possibile intervento. Un particolare focus sarà dedicato al fenomeno del suicidio in carcere, che coinvolge non solo le persone detenute ma anche gli agenti della Polizia Penitenziaria. Il corso è coordinato da Elisabetta Bertol - ordinario di Medicina legale dell’Ateneo fiorentino - e si svolge in collaborazione con la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria - Simspe Onlus e con Federazione italiana medici di famiglia. La scadenza per le domande di ammissione al Master è il 17 gennaio 2019. Tutte le informazioni sul corso sono disponibili online. Trento: incontro tra vertici dell’Azienda sanitaria e personale della Casa circondariale Il Trentino, 12 gennaio 2019 Giovedì scorso Claudio Ramponi (referente 118 della sanità penitenziaria), Chiara Mazzetti (responsabile medicina penitenziaria), Paolo Bordon (direttore generale Apss Trentino), Claudio Dario(direttore sanitario), Giovanni M. Guarrera (direttore del Servizio ospedaliero provinciale) e Annamaria Guarnier (direttore Governance processi assistenza e riabilitazione) hanno incontrato gli infermieri che garantiscono l’assistenza sanitaria in carcere. Obbiettivo dell’incontro le valutazioni circa quanto accaduto recentemente nella Casa circondariale di Spini di Gardolo (Trento). I dirigenti hanno ascoltato le loro opinioni in merito al lavoro svolto e riguardo all’attuale servizio, oltre alle proposte di miglioramento. Nel corso dell’incontro la Direzione aziendale ha constatato la coesione del gruppo di persone, definito molto compatto e stabile, anche nella condivisione dei valori: è stata infine manifestata la gratitudine per l’opera che continuano a prestare. Dal colloquio è emersa anche la difficoltà degli operatori a garantire, in alcune occasioni, l’assistenza sanitaria ad un numero di detenuti molto elevato rispetto agli standard previsti. In seguito a questo incontro con gli operatori sanitari la direzione aziendale formalizzerà al Presidente della Provincia ed all’assessore alla Salute una relazione sull’attività attualmente garantita in carcere, ed eventuali nuove proposte di modello organizzativo. Rimini: Comunità Papa Giovanni XXIII, in visita il presidente della Regione regione.marche.it, 12 gennaio 2019 Il presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, ha visitato stamane una casa di accoglienza per carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII a Coriano, vicino Rimini. Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Giovanni XXIII, e Giorgio Pieri, di Pesaro, responsabile della casa, hanno accolto il presidente delle Marche nella casa dove vivono 13 detenuti che stanno scontando la pena con misure alternative al carcere. Quella di Coriano è una delle sei comunità educanti con i carcerati, strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle strutture e nelle cooperative dell’associazione. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 61 detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 565 persone. Nell’ultimo anno le giornate di presenza sono state 12.199. “Le persone che hanno sbagliato - spiega Ramonda - devono giustamente pagare per i loro errori, ma devono anche essere rieducate. È quello che facciamo nelle nostre Comunità. Per chi esce dal carcere la tendenza a commettere di nuovo dei reati, la cosiddetta recidiva, è il 75% dei casi. Invece nelle nostre comunità, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli, i casi di recidiva sono appena il 15%”. Delle comunità educanti si è parlato anche al palacongressi di Rimini, in occasione della visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, lo scorso 7 dicembre. In quell’occasione il presidente della Repubblica, dopo aver abbracciato Daniele, un ex detenuto, ha dichiarato: “Dove c’è una comunità che accoglie, lì è possibile un esito positivo del percorso di riabilitazione, un dono incommensurabile per l’intera società”. Milano: carcere di San Vittore, la libertà viaggia sulla Nave di Giuseppe Matarazzo Avvenire, 12 gennaio 2019 È una “Nave” al quarto piano del terzo raggio di San Vittore, la casa circondariale al centro di Milano. Una nave per i detenuti “in transito”, verso una nuova vita. Un reparto speciale dove più che in altri spazi di detenzione si cerca di dare forma e corpo “al più disatteso fra gli articoli della Costituzione”, il 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nella Nave le celle sono aperte per dodici ore, una rivoluzione quando nacque il reparto sedici anni fa, il 14 luglio del 2002, per volere dell’allora direttore Luigi Pagano (oggi Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, mentre San Vittore è diretto da Giacinto Siciliano). Dodici ore in cui si susseguono attività psicoterapeutiche, lezioni sulla legalità, gruppi di studio sulle droghe e sulle dipendenze, gruppi di scrittura e di lettura, musica, teatro. E poi via via un giornale (“L’Oblò”), lavori di cartonaggio, yoga, il coro, il calcio e il rugby. Tanti “impegni” per riempire di contenuto quel “transito” e la vita di detenuti che la normalità, in altri contesti, costringe a bivaccare senza meta, in luoghi anonimi e alienanti. “Senza nulla da fare, senza nulla da imparare”. La Nave (la responsabile è Graziella Bertelli) è prima di tutto un sevizio sanitario - ora legato alla Asst Santi Paolo e Carlo nell’ambito del Servizio dipendenze aree penali - per arginare e combattere la dipendenza da sostanze, in previsione di un affidamento a servizi di recupero e reinserimento fuori dal carcere. Un percorso che non è un “privilegio”, ma una “fatica doppia”: “la fatica di condividere con gli altri nel reciproco rispetto, luoghi, spazi e regole; la fatica di fare i conti con il proprio passato, con la propria malattia, con la possibilità di un cambiamento”. E crederci. Fino in fondo. Una esperienza raccontata con bravura e delicatezza dal fotografo milanese Nanni Fontana in una mostra dal titolo “In transito. Un porto a San Vittore” promossa dall’Associazione Amici della Nave che si può visitare gratuitamente fino al 20 gennaio alla Triennale di Milano nell’ambito del progetto “ti Porto in prigione”. Al primo piano del palazzo dell’Arte le sbarre del terzo raggio si aprono per il visitatore alla scoperta di un mondo apparentemente così lontano. Il fotografo per un anno ha frequentato la struttura, ha conosciuto i detenuti, si è confrontato con loro. E li ha fotografati. Immortalandone “la volontà e le speranze di un passaggio verso una vita migliore per sé stessi e per la società che saprà accoglierli”. Guardando le foto di Fontana si sente magicamente il coro intonare un canto di libertà, come l’urlo dei calciatori dopo il gol appena segnato o la carica che abbracciati si trasmettono i giocatori in una partita di rugby. Si avverte la serenità dei semplici momenti di vita quotidiana, della lettura in biblioteca. Si respira la nostalgia di un detenuto albanese che guarda fuori dalla grata, sotto la bandiera con l’aquila nera a due teste. “Sono cresciuto davanti a San Vittore - spiega il fotografo indipendente Fontana -. Il carcera era lì, ma l’ho scoperto solo da grande, con mia moglie impegnata nel giornale “L’Oblò”. Mi sono avvicinato e ho lentamente maturato il desiderio di realizzare un percorso fotografico che raccontasse quello che avviene dentro. La sofferenza, la speranza di chi è costretto a vivere quella dimensione. Il rispetto di chi prova a rinascere, a riscattarsi”. In fondo la fotografia è stata una rinascita e una rivincita anche per Fontana, che negli anni dell’università, da studente in economia alla Bocconi, desiderava trovare un senso diverso del suo andare. Un viaggio in Mongolia gli aprì orizzonti diversi: “Completai comunque gli studi e sono oggi orgogliosamente bocconiano - continua, ma ho seguito la mia passione”. Il catalogo che accompagna la mostra riporta alcune testimonianze dei detenuti. Come quella di Gennaro: “Ho sempre visto il negativo nel prossimo, ho sempre pensato che tutti avessero uno “scopo di lucro”. E quindi mi comportavo di conseguenza, anticipando la fregature. Ora ho capito che non erano gli altri a essere sbagliati”. O di Pancrazio, che a volte si chiede: “Vale la p ena fare la vita che ho fatto?”. Percorsi in transito, verso una nuovavita. Disposti a metterci la faccia. A ripartite dai propri errori. “Mi ha colpito molto che questi ragazzi - aggiunge Fontana- abbiano dato il loro consenso a farsi fotografare posticipando il loro diritto all’oblio. In un tempo in cui la gente si fotografa per spirito puramente edonistico, loro hanno accettato di comunicare la loro vita in transito, cogliendo in questo un sincero amore per il lavoro che viene fatto nella Nave”. “Ti Porto in prigione” è anche una serie di incontri, dibattiti, una collezione d’arte all’interno di San Vittore. Per conoscere il carcere, capirlo, guardarlo con occhi diversi, senza pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. La riflessione sullo spazio, il tempo, la vita e la libertà. Il prossimo appuntamento è per il 15 nel salone d’onore della Triennale con l’“Ora Daria”: Daria Bignardi che dialoga con un ex detenuto sulla bellezza. Mentre il 18, alla Rotonda di San Vittore, ci sarà un approfondimento sull’Articolo 27 con Marta Cartabia e Adolfo Ceretti (per info e iscrizioni info.amicidellanave@gmail.com). Le porte del carcere si aprono. La speranza viaggia sulla Nave. “Il giovane criminale”. I racconti di Sasà, dai Quartieri spagnoli a Genet di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 12 gennaio 2019 Infanzia e adolescenza napoletana, le esperienze di piccola delinquenza fino agli anni in carcere. Salvatore Striano mette in scena in “Il giovane criminale” la sua personale storia di formazione in cui nulla viene omesso. Davvero è una esperienza fuori della norma stare ad ascoltare, incantati ma ben presenti, il racconto che Salvatore Striano, detto Sasà, fa della propria vita, dall’infanzia e adolescenza nei Quartieri spagnoli di Napoli, alle esperienze di piccolo crimine, fino al carcere. E oggi al teatro. Anzi da parecchio tempo, visto che Sasà proprio in carcere ha cominciato a giocare (jouer direbbero i francesi, che significa appunto anche recitare) col teatro. A Rebibbia nelle esperienze condotte da Fabio Cavalli, e poi anche nel film pluripremiato che vi girarono i fratelli Taviani, Cesare non deve morire, dove egli interpretava Bruto, l’assassino di Cesare quando questi stava per diventare tiranno a Roma. Da allora, libero per aver concluso i suoi conti con la giustizia, l’attore di film ne ha girati tanti (il primo era stato il leggendario Gomorra di Matteo Garrone), ma il teatro è rimasto per lui una passione profonda, o anche qualcosa di più: quasi il motore pensante della sua vita, e della sua condotta. Ne è prova lo “spettacolo” che periodicamente l’attore riprende, e che presenta in questi giorni a Roma (all’Off off di via Giulia, oggi e domani le ultime due repliche). Il titolo, sommessamente ma con chiarezza, indica già una direzione di lettura: Il giovane criminale. Genet-Sasà. E quella chiamata in causa del grande scrittore e commediografo francese non risulta affatto peregrina, così come non suona strumentale o puramente “accattivante”. Perché quella che Sasà ci racconta è evidentemente la sua propria personalissima storia, ambientata dove si è svolta, e appena arricchita di particolari coloriti. È una storia di formazione di cui nulla viene omesso. La bellezza narrativa è nel percorso in cui scelte, necessità, incidenti e accidenti si mescolano e si integrano riuscendo a trasformare un possibile finale “nero” in una favola del tutto aperta, come è l’attuale condizione di Sasà attore, narratore e soprattutto persona. Così come appare allo spettatore che vi assiste: senza infingimenti o stratagemmi, con tanta sincerità e un senso fortissimo dell’autocoscienza. Questo ce lo rende, a qualche punto del racconto, davvero la personificazione del pensiero di Genet, e il titolo scopre la sua derivazione da quel L’enfant criminel che l’autore francese scrisse nel 1948, quando, ottenuta la commissione di un articolo/saggio, sicuramente grazie a Sartre, da parte della prestigiosa e schieratissima Nouvelle Revue Française, se lo vide invece rifiutare per il suo “estremismo”. Quel quieto, ragionato racconto genetiano, rivive e prende concreto corpo in quello sobrio eppure lancinante di Sasà Striano, che senza retorica e senza compiacimento, ci guida alla scoperta della sua esperienza e della sua “formazione”. Assolutamente “genetiana”, e così lontana da caccole e manierismi e furbizie che solitamente gravano e respingono l’ascoltatore, anche sulle scene delle migliori intenzioni. Qui, per una volta, la simpatia diviene naturale e laica solidarietà. “Padre nostro che sei in galera”, di fra Beppe Giunti recensione di Giuseppe Matarazzo Avvenire, 12 gennaio 2019 Che significato ha la preghiera dentro un carcere? Come si fa a tenere insieme la verità e la dignità di ogni persona, uomo e fratello come noi, e la verità della sue azioni, in questo caso negative e per questo meritevoli di sanzioni? Fra’ Beppe Giunti ha trovato la porta di accesso ai cuori dei detenuti della casa di reclusione “San Michele” di Alessandria chiamandoli semplicemente - come suggeriva Francesco d’Assisi - “fratelli briganti”. “Quando i suoi frati gli chiedono direttamente se è giusto o no dare una mano ai briganti che vengono a bussare alla porta della fraternità, la risposta di san Francesco - spiega il frate conventuale - contiene un vero e proprio protocollo per avvicinare il mondo della criminalità e della devianza e ci consegna ancora a distanza di secoli una visione straordinaria e profonda. Intanto dà un obiettivo: conquistare le vite di quei fuorilegge. Non punta sulla sicurezza delle strade o sulle paure degli abitanti di Borgo San Sepolcro. Si focalizza sulla vita, sbagliata al momento. Poi si concentra sul togliere la causa prima della loro azione criminale, la fame: “comprategli da mangiare e da bere”. Quindi dovranno gridare forte le due verità apparentemente opposte e incompatibili: “Fratelli briganti”. Siete briganti, certo, ma nessuno può togliervi la qualifica di nostri fratelli. Dopo pranzo, aggiunge, cominciate a chiedere di astenersi dalla violenza, è il minimo per andare avanti”. I briganti - riportano le Fonti - “furono conquistati dall’umiltà e dalla benevolenza, rappresentate dalla tovaglia posta per terra, alla loro misura”. E alla fine eseguono “punto per punto” il programma: “restituiscono ciò che hanno ricevuto ed entrano nella logica del dare una mano, aprendosi alla misericordia di Dio che “li ispirerà a ravvedersi”“. Fra Beppe ha portato così il “Padre nostro che sei nei cieli” dietro le sbarre. E ora, con i fratelli briganti, racconta l’esperienza vissuta insieme in “Padre nostro che sei in galera” (Edizioni Messaggero Padova, pagine 120, curo 11,00), un testo semplice ma prezioso, che “fa sentire l’eco speciale e unica di questa preghiera, quando è sussurrata da queste persone e rimandata da questi muri”. In galera, sì. “Usiamola con coraggio questa parola - scrive fra Beppe, che indicava in antico le navi sulle quali si poteva essere condannati a remare e remare e remare”. Un viaggio che si può affrontare con la preghiera. Come una compagnia. “In questo luogo della solitudine personale, dove ciascuno fa i conti con sé stesso, rivolgere pensieri e parole al Padre è spezzare il cerchio rigido e freddo dell’isolamento”. C’è un “Tu” a cui rivolgersi. Che è “Nostro”. Di tutti. Che è “Padre, e non padrino”. Nostro, “un aggettivo fuori moda, fuori sintonia in un tempo saturo di individualismo, di solitudine, di cuori ripiegati su cellulari e ombelichi”. “Come sarebbe più sicuro se Dio fosse solo mio, se potessi risolvere le mie faccende solo con lui, senza dover sempre alzare gli occhi per vedere l’orizzonte umano delle mie azioni, dove si ribaltano le conseguenze dei miei “pizzini”, dei miei ordini portati in giro dai “suldati” del mio clan. Alzo gli occhi verso i suoi e sento la sua voce che chiede: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. La preghiera scorre con le riflessioni dei fratelli briganti: “dacci oggi il nostro pane quotidiano” fino al “liberaci dal male”. I fratelli briganti e il Padre nostro. Un incontro guidato da fra Beppe, con la sua umanità e la testimonianza che svolge in carcere con gli operatori delle cooperative sociali Coompany e Coompany2. Una preghiera e un viaggio che preparano l’“Amen”. Qui la riflessione fa vibrare le corde del cuore. “È un soffio questa parola. Esile ma potente, condivisa in ebraico, greco, latino, arabo, italiano. Certamente. Così sia. Ma non è anche la parola con la quale ho firmato le mie deposizioni? `Amen” è verità. È sicuro quello che ho detto, ci metto il nome e cognome, con la mia responsabilità personale”. E “Amen” della deposizione spesso coincide con il pianto, “un pianto irrefrenabile, che somiglia al primo pianto della vita, quando appena nato il bambino prende fiato da sé e diventa persona altra, dalla madre. Anche quel pianto fa nascere. Solo gli ipocriti non piangono, hanno dimenticato questo dono di Dio. Se vuoi tornare a essere una persona autentica devi scegliere la verità. Dichiarata e firmata”. Padre nostro che sei in galera. Liberaci dal male. Amen. Le colpe dell’emergenza migranti? Il 60% punta il dito contro l’Europa di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 12 gennaio 2019 Un italiano su due approva lo stop agli sbarchi, solo il 19% dice sì all’accoglienza. Dopo la definizione della legge di bilancio e le discussioni sui provvedimenti simbolo - reddito di cittadinanza e quota 100 - il tema dei migranti è ritornato in primo piano con la vicenda delle due navi delle Ong Sea Watch e Sea Eye. Una vicenda chiusa dopo molte tensioni interne e nei rapporti con l’Ue, che ha assunto fin dall’inizio un elevato valore simbolico e ha rappresentato un braccio di ferro, accompagnato dal consueto profluvio di dichiarazioni pro o contro la decisione di impedire lo sbarco nei porti italiani. In casi come questi, le maggiori responsabilità nell’individuare soluzioni sono attribuite da gran parte degli italiani (60%) all’Europa. È un’opinione che prevale tra tutti gli elettorati, sia pure con percentuali diverse: dal 42% degli elettori dell’opposizione di centrodestra all’80% di quelli di centrosinistra e, in mezzo, leghisti (61%) e M5S (70%). Al contrario il 13% ritiene che la responsabilità sia in capo alle Ong che si sono occupate di soccorrere i migranti e il 12% ai singoli Stati nelle cui acque territoriali sono giunte le navi. Un italiano su due (51%) è convinto che si debba mantenere una linea intransigente e impedire qualsiasi sbarco nel nostro territorio, mentre il 19% è del parere opposto ed è favorevole a consentire sempre gli sbarchi. In posizione intermedia il 13% che, pur favorevole alla chiusura dei porti, riteneva opportuno fare un’eccezione per il caso delle due imbarcazioni con i 49 migranti a bordo. A settembre, in occasione del caso della nave Diciotti, i sondaggi avevano fatto registrare un consenso elevato (61%) per la linea della fermezza. Dunque, a distanza di pochi mesi le opinioni non sono cambiate significativamente. La chiusura dei porti risulta l’opzione prevalente tra tutti i segmenti sociali senza distinzione per genere, età, titolo di studio, condizione occupazionale, area geografica e ampiezza dei comuni. Prevale anche tra i cattolici che partecipano regolarmente alla messa (46%) e tra i credenti più impegnati che partecipano alle attività parrocchiali (34%). Costoro sembrano far coesistere atteggiamenti benevoli e inclusivi verso gli stranieri che si conoscono e si frequentano, con quelli di chiusura nei confronti di possibili nuovi arrivi. Le posizioni delle due forze di maggioranza nei confronti della gestione dell’immigrazione sono vissute come differenti dal 55% degli italiani, mentre il 25% le considera sostanzialmente simili. D’altra parte, la composizione dei due elettorati è piuttosto diversa e, come sottolineato più volte, la Lega a differenza del M5S ha un elettorato più omogeneo. Da ultimo, la questione dei sindaci e presidenti di Regione che hanno annunciato di non essere in grado di attuare le misure previste dal decreto sicurezza, chiedendo modifiche o presentando ricorsi alla Consulta perché a loro parere creano un caos applicativo e rischiano di aumentare la clandestinità e di spingere molti più stranieri presenti sui loro territori verso percorsi illegali e criminali. La maggioranza relativa degli italiani (41%), temendo il peggio, ritiene che i sindaci sollevino un problema reale e debbano essere ascoltati, mentre il 33% considera la posizione pretestuosa, proveniente per lo più da sinistra e finalizzata solo a mettere in difficoltà il governo. In conclusione, il tema dei migranti continua a essere caratterizzato da forti ambivalenze individuali (è un tema che preoccupa a livello generale ma meno a livello locale), da percezioni distorte dalla realtà (la portata del fenomeno è amplificata a dismisura, contribuendo ad acuire il clima di allarme sociale), e dalla consapevolezza che le responsabilità devono essere assunte dell’Ue e le soluzioni devono essere individuate ed adottate in sede comunitaria. Insomma, più che l’intolleranza per gli stranieri residenti in Italia, nell’opinione pubblica si affermano due atteggiamenti di fondo: la preoccupazione che il fenomeno migratorio diventi incontrollato e il senso di abbandono da parte dell’Europa nei nostri confronti. E la pressione sull’Europa affinché assuma un ruolo da protagonista non è un aspetto che riguarda solo l’Italia, tenuto conto che i recenti dati di Eurobarometro hanno fatto registrare l’immigrazione in testa alla graduatoria delle priorità dei cittadini dei 28 Paesi Ue, indicata dal 50% degli intervistati e in crescita di 5 punti rispetto ad aprile. E non bisogna essere indovini per prevedere che questo sarà il tema prevalente nella prossima campagna elettorale in vista delle elezioni europee del 26 maggio. Migranti. Se i giornalisti si accontentano della propaganda di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 12 gennaio 2019 Vergogna! Vergogna a Salvini che fa della sua mancanza di umanità e della violazione del diritto internazionale un vanto. Vergogna a Di Maio che dopo un ritardato gesto di qualche responsabilità si vanta nello scaricare il peso dell’accoglienza di una decina di profughi sulla Chiesa Valdese che si è offerta di dare quella ospitalità che un governo non si sente in dovere di dare. Ma soprattutto vergogna a quei giornalisti (la maggior parte, purtroppo) che non osano contestare le affermazioni di un governo e soprattutto del ministro dell’interno che fa della speculazione su dati mistificati relativi all’immigrazione il terreno di scontro politico elettorale. I cittadini extra-Ue presenti legalmente in Italia rappresentano il 7 per cento della popolazione contro l’8,8 della Germania, l’8,9 della Francia, l’8,8 della Spagna e l’8,4 della Grecia (dati Eurostat). Anche limitandoci all’ultimo anno (2018) i dati dimostrano che l’Italia non è il paese che “accoglie” la maggior parte dei profughi arrivati via mare. Nel 2018 gli arrivi attraverso il Mediterraneo sono stati 116.294 ai quali vanno aggiunti 22.235 giunti in Spagna via terra per un totale di 138.259 persone. Il totale è stato così suddiviso: 65.383 accolti in Spagna, 47.918 in Grecia, 23.370 in Italia, 1.182 a Malta e 676 a Cipro. I dispersi, i morti affogati in mare sono stimati dall’Unhcr in 2.269, in aumento percentuale rispetto agli anni scorsi e non c’è da meravigliarsi visto la politica di totale boicottaggio delle navi delle Ong, e persino di quelle italiane (la Diciotti), nel salvataggio dei profughi nel Mediterraneo. Ma attenzione, i numeri totali sono di 3.139 vittime, così Salvini ha la faccia tosta di vantarsi di essere stato un “salvatore”. La verità è che proprio sulla rotta italiana ci sono la maggior parte delle vittime, mentre Salvini tace sui crimini contro i profughi commessi in Libia per lui sempre “posto sicuro” - quei morti in Libia non contano, e che l’Onu-Unhcr come Amnesty International e Human Right Watch denunciano sempre come le vittime nei deserti (tra inedia, fame, malattie, sequestri e soprattutto mine) siano probabilmente il doppio di quelle a mare. Come si vede da nessun punto di vista l’Italia ha ragione nel sostenere che è il paese più “accogliente” rispetto ai profughi tra quelli del Mediterraneo (rispetto agli sbarchi) e nemmeno rispetto alla Ue (in generale). Neanche rispetto a Malta che nel 2018 ha accolto 2,5 profughi ogni 1000 abitanti, contro gli 0,3 dell’Italia. L’unico vanto fondato dell’Italia è quello della chiusura dei porti in violazione del diritto internazionale e della dichiarazione dei diritti umani. Se i politici fanno propaganda sul corpo dei profughi più sorprendente è l’atteggiamento dei giornalisti italiani che invece non fanno il loro mestiere e non contestano nessun dato diffuso dai politicanti (cosa che invece hanno fatto alla stampa estera il 22 ottobre scorso durante una conferenza stampa del primo ministro Conte) diventando complici di un atteggiamento aberrante. Non è difficile trovare dati e documentazione, magari attenendosi all’Associazione Carta di Roma nata proprio per dare attuazione al protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione. “La ricerca della verità sostanziale dei fatti, con l’uso corretto delle parole e l’obiettività dei numeri sono il solo argine alla costruzione distorta della realtà che gli ‘spaventatori’ (i giornalisti che violano le regole base del loro mestiere) ripetono ogni giorno. È una questione di dignità, di credibilità, di sopravvivenza del mestiere di giornalista”, si legge nell’ultimo rapporto dell’Associazione. Un grande esempio concreto per tutti l’hanno dato gli abitanti di Torre di Melissa, con il sindaco in testa, che hanno accolto con tanto calore e solidarietà 54 profughi curdi la cui imbarcazione si è arenata sulla spiaggia del paese crotonese. La migrazione e gli apprendisti stregoni di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 12 gennaio 2019 Salvini mente, sa che i disperati intrappolati nel mare, o nei lager libici, sono piccola cosa rispetto ai migranti che entrano per strade più tranquille nel nostro paese. Che l’economia del paese ha forte bisogno della migrazione. Che espellere i clandestini è tecnicamente impossibile, che il numero degli italiani che lasciano ogni anno l’Italia supera largamente il numero degli stranieri che vi entrano. Delle politiche sulla migrazione nel nostro Paese si può dire solo questo: sono stupide e irresponsabili. La migrazione è un fenomeno fisiologico della vita nel mondo. Il paese più potente, gli Stati Uniti, è stato costruito, in tempi piuttosto recenti, da migranti (a spese degli indigeni). La storia dell’Europa, molto più antica, è ugualmente fondata sulle migrazioni. L’umanità avrà un futuro di mescolanze di caratteri somatici, di religioni e di culture o non l’avrà. Pretendere di fermare i flussi migratori, è come voler fermare la circolazione del sangue in un organismo umano. Immaginare che le parti che lo compongono possano avere vita a sé stante, separata. Della migrazione ci interessano gli aspetti patologici, prevalentemente per creare un “cordone sanitario” nei loro confronti. Assente un discorso preventivo per eliminare le cause, ne fa le veci la proposta strumentale di far stare bene i migranti a casa loro. Il trionfo della cecità, alleata dell’ipocrisia. I flussi migratori turbolenti, largamente catastrofici, a cui assistiamo, sono il risultato della persistente politica di colonizzazione del mondo da parte dell’Occidente, in mille forme più penetranti delle occupazioni territoriali. Ultimo atto le guerre di “democratizzazione” nel mondo arabo prodotte dall’agire compulsivo degli occidentali, dettato da una sola necessità: il controllo dell’angoscia di perdere la loro condizione privilegiata di dominatori. Prendere cura dei migranti in casa loro, che non esiste più, e la terra si è aperta sotto i loro piedi, è come affrontare una polmonite, prescrivendo una prevenzione delle infezioni. Nessun medico sano di mente lo farebbe, ma i nostri brillanti politici erano solo apprendisti stregoni che hanno aperto la strada a Salvini. Quest’ultimo mente agli italiani. Sa che i disperati intrappolati nel mare, o nei lager libici, sono piccola cosa rispetto ai migranti che entrano per strade più tranquille nel nostro paese. Che l’economia del paese ha forte bisogno della migrazione. Che espellere i clandestini è tecnicamente impossibile, che il numero degli italiani che lasciano ogni anno l’Italia supera largamente il numero degli stranieri che vi entrano. Che chi lascia il paese e più “formato” di chi arriva. Una politica saggia consiglierebbe un’accoglienza che valorizzi i nuovi arrivati che si preoccupi della loro formazione e del loro utile inserimento nella nostra vita. Salvini non è saggio, è solo un mentitore. Siccome la menzogna che compiace le nostre ansie e il narcisismo mortifero che fa loro da traino, è più remunerativa per chi la dispensa della difficile verità, che ci obbliga a svegliarsi dall’illusione della “dolce vita”, bisognerebbe, si dice, fermarla. Fanno la voce più grossa in questo appello alla battaglia contro il barbaro che offende la nostra civile città, gli opinionisti mediatici che gli hanno aperto la porta. Ripetendo ossessivamente che l’unico governo possibile dopo le ultime elezioni dovesse essere quello tra la Lega e il M5S, hanno spinto Salvini al potere e al, del tutto prevedibile, raddoppio del suoi consensi. Hanno favorito la confusione tra due elettorati uniti in una protesta non costruttiva, ma eterogenei e con atteggiamento diverso nei confronti dei migranti. Se la stregoneria politica non andasse di moda, anche tra gli “anti-populisti” ferventi, non avremmo smarrito la lezione storica che la democrazia si regge sull’alleanza tra i ceti medi colti e libertari e i lavoratori. Quanto più i primi si indeboliscono e i secondi diventano diseredati, tanto più questa alleanza va difesa. I migranti sono suoi amici, è bene ricordarlo. Droghe. Salvini stronca la proposta 5S: “Legalizzare le canne? Mai” di Adriana Pollice Il Manifesto, 12 gennaio 2019 “Non passerà mai e non è nel contratto di governo”: il vicepremier Matteo Salvini ieri ha confermato il no netto della Lega alla proposta di legge dell’M5S sulla cannabis. “C’è qualche parlamentare che si preoccupa di legalizzare le canne - ha ribadito via social Salvini - ma non è una priorità del paese”. E ancora: “Se dobbiamo sconfiggere davvero la criminalità togliamo dalle strade la prostituzione a cielo aperto. Pensiamo a questo piuttosto che a legalizzare le canne”. È una levata di scudi di tutto il Carroccio, cominciata con il ministro per la Famiglia, Lorenzo Fontana, e proseguita prima con Salvini e poi con il ministro delle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio, che ieri ha commentato: “Tutte le volte che esco dal contratto di governo si alza il collega dei 5S e dice “non è nel contratto”. E quindi io quello che dirò ai colleghi è “non è nel contratto”, facciano un governo con qualcun altro”. Il pentastellato Matteo Mantero, partendo dal lavoro fatto nella scorsa legislatura dall’intergruppo parlamentare, ha depositato in Senato un disegno di legge per legalizzare la coltivazione, la lavorazione e la vendita della cannabis e dei suoi derivati. Ieri Mantero ha ribadito: “Esiste il contratto di governo ma anche la Costituzione, che dà al Parlamento la centralità del potere legislativo. Su questi temi il governo dovrebbe farsi da parte, senza mettere in forse la maggioranza, e lasciare che il Parlamento faccia il suo percorso con maggioranze anche trasversali. Magari con possibili contributi anche da parte della Lega, dove non credo che tutti si oppongano in modo pregiudiziale. La Direzione distrettuale antimafia - conclude Mantero - dice che il contrasto alle droghe leggere è inefficace e che la legalizzazione infliggerebbe un colpo alla criminalità”. Grecia. Profughi senza diritti nelle isole dell’Egeo: ammassati al freddo e senza cure La Repubblica, 12 gennaio 2019 La denuncia di Oxfam e Appello all’Europa e agli stati membri per una riforma del Trattato di Dublino, la riapertura delle frontiere e una suddivisione dei richiedenti asilo. Un nuovo rapporto di Oxfam denuncia come in pieno inverno, donne incinte, bambini soli sopravvissuti alle torture e alla guerra sono costretti in condizioni “disumane” e di sovraffollamento nei campi profughi, dove vengono regolarmente calpestati i loro diritti. L’appello è rivolto all’Europa e agli stati membri per una riforma del Trattato di Dublino, la riapertura delle frontiere e una suddivisione dei richiedenti asilo. Si può sostenere la campagna Welcoming Europe - Per un’Europa che accoglie. Testimonianze drammatiche. Sono dunque centinaia di donne incinte, minori non accompagnati, sopravvissuti alle torture e agli abusi sono costretti nel pieno dell’inverno a vivere in condizioni “disumane” nei campi profughi delle isole greche. È la denuncia contenuta nel report “Vulnerabili e abbandonati” diffuso da Oxfam, attraverso tante drammatiche testimonianze di migranti a cui viene negato il diritto a un’accoglienza dignitosa, come conseguenza del collasso del sistema di identificazione e di protezione, dovuto alla mancanza di personale qualificato e a processi burocratici kafkiani. Ammassati, esposti a violenza e senza cure mediche. Nel dossier, le voci di madri che sono state mandate via dagli ospedali a soli quattro giorni da un parto cesareo e che si sono ritrovate a vivere in una tenda assieme ai figli appena nati. Le testimonianze di minori e donne sopravvissuti a violenze sessuali e ad altri traumi, che sopravvivono in campi profughi dove regolarmente avvengono risse e dove di conseguenza i 2/3 di chi è costretto a viverci afferma di non sentirsi mai al sicuro. Nel campo di Moria, nell’isola di Lesbo, di fronte alle coste dell’Anatolia - che contiene il doppio di persone che potrebbe accogliere - vivono ammassate centinaia di persone, con un solo medico per quasi tutto il 2018, incaricato dalle autorità di Lesbo di provvedere all’identificazione e al primo soccorso delle circa 2.000 persone, che arrivavano ogni mese sull’isola. Fino ad arrivare al punto che lo scorso novembre non c’è stato neanche quell’unico medico ad assistere le persone più fragili e garantirne il diritto alla salute. Il tutto in un quadro dove le procedure di identificazione sono cambiate tre volte solo nell’ultimo anno, aumentando il caos di cui sono vittime persone che hanno già sofferto traumi indicibili. Una situazione inaccettabile. “È inaccettabile trovarsi nella condizione di non poter identificare le persone che hanno immediato bisogno di aiuto. - ha detto il responsabile emergenze umanitarie di Oxfam Italia, Riccardo Sansone - I nostri partner sul campo hanno riportato casi di madri con neonati costrette a dormire sotto una tenda e di adolescenti registrati erroneamente come adulti e rimasti bloccati nei campi. Identificare e assistere queste persone è un dovere fondamentale sia per la Grecia che per l’Europa. In base alle norme europee e greche, minori non accompagnati, donne incinte o con bambini piccoli, persone con disabilità e sopravvissuti a torture devono essere identificati come vulnerabili e quindi rientrare nel normale sistema di accoglienza per richiedenti asilo, anziché essere sottoposti a processi lampo con il solo obiettivo di rimandarli in Turchia. - aggiunge Sansone- Dovrebbero avere accesso ad una casa o una sistemazione adeguata e cure mediche appropriate sulla terraferma, ma tutto questo non sta avvenendo”. Detenuti nonostante siano vulnerabili. Sono moltissimi i casi di persone detenute ingiustamente nonostante siano giovanissime, soffrano di malattie psichiche e o disagi fisici dovuti ai traumi subiti. Una condizione in cui è difficilissimo avere accesso a cure mediche e all’assistenza psicologica. “Avevamo solo due ore al giorno in cui ci era permesso uscire dal container. Il resto del tempo stavo seduto in un piccolo spazio con altri 15 uomini, tutti con problemi”. Così, un richiedente asilo di 28 anni proveniente dal Camerun racconta la sua detenzione durata 5 mesi. Rinchiuso solo a causa della sua nazionalità, nonostante avesse seri problemi di salute mentale. Una situazione in cui nessuno ha verificato il suo stato mentale o fisico prima che venisse detenuto ed è passato più di un mese prima della visita di uno psicologo. L’emergenza a Lesbo nel pieno dell’inverno. L’inverno ha portato una pioggia incessante a Lesbo e la tendopoli è diventata una vera e propria palude di fango, con le temperature che nelle prossime settimane si abbasseranno ancora sotto lo zero portando la neve. In cerca di qualsiasi fonte di calore le persone stanno iniziando a bruciare tutto quello che trovano, inclusa la plastica. Portano stufe improvvisate e pericolose dentro alle tende, rischiando la vita solo per riscaldarsi. “Le autorità locali e le organizzazioni umanitarie stanno facendo il possibile per migliorare le condizioni di vita delle persone bloccate nei campi, ma tutti gli sforzi sono resi vani dalle politiche che continuano a bloccare le persone sull’isola per periodi di tempo indefiniti”, continua Sansone. L’appello alla “Fortezza Europa”. “Di fronte a questa situazione facciamo appello all’Unione europea, agli stati membri perché si trovi al più presto una soluzione all’emergenza che si sta consumando nelle isole greche: servono uno staff sanitario adeguato, un diverso sistema di identificazione dei più vulnerabili e trasferimenti regolari dei migranti sulla terraferma - conclude Sansone - Stiamo assistendo ad una chiusura di fatto delle frontiere europee, che tradisce i valori fondanti dell’Unione e il comune senso di umanità che dovrebbe guidarne l’azione. Alle frontiere di Croazia e Ungheria migliaia di uomini, donne e bambini che non hanno più nulla, vengono respinti in Serbia dove sono costretti a vivere intrappolati, come in un limbo. Qui, noi di Oxfam - prosegue Sansone - lavoriamo per assicurare pasti e ricovero nei centri predisposti dal Governo. Alla frontiera italiana, lungo la rotta del Mediterraneo centrale, dopo la chiusura dei porti decisa dal Governo la scorsa estate, da giorni interminabili assistiamo al dramma di 49 profughi bloccati in mare a rischio della vita”. Il nuovo dossier degli orrori in Libia di Nello Scavo Avvenire, 12 gennaio 2019 È già stato acquisito dagli investigatori della Corte penale internazionale dell’Aja l’ultimo rapporto con cui l’Onu aggiorna il campionario degli orrori sui i migranti in Libia: “Privazione della libertà e detenzione arbitrarie in centri ufficiali e non ufficiali; tortura, compresa la violenza sessuale; rapimento per riscatto; estorsione; lavoro forzato; uccisioni illegali”. Mentre fiumi di euro si riversano su governo e milizie perché fermino le partenze verso l’Italia, il segretario generale delle Nazioni Unite ricorda nel dossier inviato al Consiglio di sicurezza, che “i colpevoli sono funzionari statali, gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande criminali”. Alcuni di questi sono proprio i beneficiari degli “aiuti” materiali ed economici (motovedette, equipaggiamento militare, finanziamenti) che regolarmente da quasi due anni ricevono dall’Italia e da Bruxelles. Nelle quindici pagine in cui Guterres circoscrive gli episodi più gravi dell’ultimo trimestre, il segretario generale offre un dato che, da solo, spiega la sproporzione tra le risorse investite per bloccare i flussi e il numero effettivo di stranieri in Libia e sui quali le autorità non hanno alcun controllo. “Durante il periodo in esame c’erano oltre 669.000 migranti in Libia, tra cui donne (12% dei migranti identificati) e bambini (9%)”, precisa Guterres. Ma sotto il tacco delle autorità - che tuttavia l’Onu non risparmia dalle accuse di gravi e ripetute violazioni dei diritti umani - se ne contano solo 5.300. Tra essi “3.700 hanno bisogno di protezione internazionale” e dunque meriterebbero di venire trasferiti in Europa. Di tutti gli altri non si sa quasi nulla. La descrizione degli abusi, infatti, “non include i centri di detenzione gestiti da gruppi armati”, che per definizione sono inaccessibili. Il governo di concordia di Tripoli “deve raggiungere il controllo di tutti i centri di detenzione presenti in Libia, scongiurando - si legge ancora - l’influenza o l’interferenza di milizie e gruppi armati”. Molti migranti si trovano nelle 26 prigioni comuni del Paese, dove si stima vi siano circa 6.400 detenuti, ma “migliaia di altri” si trovano in centri di detenzione sottratti al controllo del governo libico e non di rado “gestite direttamente dai gruppi armati”. Ne ha abbastanza Guterres per scrivere di essere “profondamente preoccupato per il dilagare di violazioni dei diritti umani e degli abusi commessi nell’ambito della detenzione e per la detenzione arbitraria prolungata di migliaia di uomini, donne e bambini,. Un paragrafo piuttosto sbrigativo viene dedicato al vertice di Palermo dello scorso novembre. Al contrario di chi lo ha descritto come un momento di svolta, il segretario generale non usa toni trionfali. E lo riassume con il realismo del politico navigato: “I partecipanti hanno espresso il loro sostegno per l’attuazione degli ultimi elementi del piano d’azione delle Nazioni Unite presentati dal mio rappresentante speciale, e si sono impegnati a fornire assistenza per la formazione delle forze di sicurezza professionali libiche e il loro sostegno all’agenda delle riforme economiche”. I combattenti eroi abbandonati con un tweet, nessuno salverà i curdi dal massacro di Bernard-Henri Lévy* La Stampa, 12 gennaio 2019 È iniziato con i curdi dell’Iraq che a ottobre del 2017, all’epoca del loro referendum sull’autodeterminazione, sono stati piantati in asso dal mondo, nel pieno della campagna contro le milizie al soldo di Teheran. Quindici mesi dopo i loro fratelli curdi in Siria apprendono da un tweet di Donald Trump che l’esercito americano si sta ritirando, consegnandoli ai cani da guardia di Ankara. È iniziato con i curdi dell’Iraq che a ottobre del 2017, all’epoca del loro referendum sull’autodeterminazione, sono stati piantati in asso dal mondo, nel pieno della campagna contro le milizie al soldo di Teheran. Quindici mesi dopo i loro fratelli curdi in Siria apprendono da un tweet di Donald Trump che l’esercito americano si sta ritirando, consegnandoli ai cani da guardia di Ankara. Quindi, naturalmente, di fronte ai commenti indignati, il Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ha sfoderato il linguaggio severo di prammatica e ha esortato i turchi “a non intraprendere alcuna azione militare che non sia pienamente coordinata con gli Stati Uniti”. Ma questa imbarazzata marcia indietro, questo gioco delle parti tra il diplomatico e il presidente, il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, purtroppo non cambiano la terribile realtà. I curdi, domani o dopodomani, saranno davvero e completamente abbandonati. Da Kirkuk a Manbij, si ritroveranno circondati, stretti in una morsa, in attesa che dai palazzi di Mosca, Ankara e Damasco venga dato pollice verso, come nei giochi del circo nell’Antica Roma. E questo eroico Kurdistan, questa zona libera strappata all’Isis dai peshmerga e dagli uomini del Ypg (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di Protezione Popolare) questo serbatoio di resistenza e di valore che ci ha protetto dal terrorismo, non è stato nemmeno venduto, bensì offerto ai nostri avversari. “Buon appetito signori” - C’è un americano di Monaco, tanto più terrificante perché non si preoccupa più di patti ipocriti, pantomime ufficiali e decoro plenipotenziario. C’è un invito, un “buon appetito, signori” per i visir turchi, i fedelissimi putiniani e gli ayatollah iraniani che non credono alle loro orecchie e ai loro occhi - e che, con l’acquolina in bocca non aspettano che l’ultima firma per balzare sulla preda. E questa vigliaccheria in buona e debita forma, questo tradimento politico e morale, questo cinismo, gelano il sangue di tutti coloro che, in tutto il mondo, sono grati a questo popolo curdo, piccolo di numero ma grande nel suo eroismo, che, per difenderci, è andato a cercare quegli invasati anche in bastioni ritenuti inespugnabili. Questa decisione, bisogna dirlo e ribadirlo, è allo stesso tempo assurda, inaudita e vergognosa. Assurda perché Trump, che aveva indicato nell’Iran il nemico numero uno, gli dà con la mano sinistra ciò che gli ha tolto con la destra; perché la patria di Jefferson e Roosevelt rimette di nuovo in sella, su un mucchio di cadaveri, questo allampanato portatore di morte, questo vigile del fuoco piromane del terrorismo, tale è Assad; e perché ancora una volta, vittima di non si sa quale ricatto, la potente America si inchina all’esangue Russia. Inaudita perché questo assegno in bianco regalato allo smembramento ieri della Regione autonoma curda dell’Iraq (Krg), oggi a quella della Siria (Rojava), è un caso unico di stupidità geopolitica e strategica in cui vediamo un grande potere pretendere lacrime e sangue dai suoi migliori alleati prima di gettarli ai cani; perché non c’è, nella storia degli imperi, nulla di simile a questo “let’s make America little again” (n.d.t. gioco di parole con lo slogan di Trump, let’s make America great again, come a dire rimpiccioliamo l’America, mortifichiamo l’America) in cui un vincitore, a capo chino, fa da portiere all’ingresso della festa a cui ha invitato i suoi nemici; o meglio, se ce n’è uno, è quello di Cartagine che, dopo la Prima guerra punica, massacrò i mercenari che l’avevano salvata dalla sconfitta contro i romani - salvo che: 1) La tortura dei mercenari libici di Matho non accade nella vita reale, bensì nel “Salammbô” di Flaubert e 2) I curdi non sono mercenari, ma valorosi guerrieri che erano i nostri fratelli d’armi. Vergognosa, infine, perché questo ritiro americano, questo atto finale di una rivoluzione siriana a cui non è stata risparmiata alcuna ignominia, questa battuta d’arresto sul cammino dei curdi verso una libertà che è stata loro offerta come una carota, ma che, ora che non ne abbiamo più bisogno, si dissolve come un miraggio, lo spargimento di sangue, infine, che prima o poi ne seguirà - tutto questo sarà la macchia scarlatta che Trump, proprio come un altro re pazzo, quello di Shakespeare, vedrà sulla sua mano, ogni sera e ogni mattina della sua vita, “senza che l’intero oceano riesca a lavarla”. Quindi, se c’è ancora una piccola possibilità per coloro che non si rassegnano a questo schifoso retrogusto di amarezza e sconfitta - ebbene questa possibilità si chiama Europa. L’esempio francese Il presidente Macron ha trovato parole giuste e belle per esprimere il suo disaccordo con la decisione solitaria e nevrotica, tweetesca e capricciosa del suo “alleato” americano. Ed è stato in grado di resistere, sin dalla sua elezione, ai poteri revisionisti che intendono trarre profitto dal neo-isolazionismo degli Stati Uniti per ritrovare il loro passato imperiale. Ed è bene che tenti di condividere questa indignazione con i suoi partner europei. Che, grazie alla sua reputazione in ambito internazionale, cerchi di convincerli che l’interesse dell’Europa sarebbe quello di ricordare che il confine su cui i jihadisti sono venuti così tante volte a colpirci è custodito da un popolo che crede nei valori di libertà, laicità e fraternità. E che se solo i 27 Paesi europei inviassero, ciascuno, un centinaio di soldati in missione di pace per assicurare, armi alla mano, che siano rispettati la giustizia, il diritto e l’onore, i 2000 americani rimpatriati sarebbero facilmente rimpiazzati. L’Europa, per una volta, si mostrerebbe all’altezza della situazione. Non accontentandosi più, bovina e apatica, di stare a guardare, dai suoi “balconi antichi”, passare i treni della vergogna e della rassegnazione, ma prendendo invece l’iniziativa. E questa brigata multinazionale potrebbe essere - chi lo sa? - l’embrione della difesa europea che tutti auspicano senza essere mai stati in grado di darle un contenuto. È un sogno. Ma lo coltivo, perché non sarebbe la prima volta, dopo tutto, che la Francia riesce a conquistare la sua porzione di grandezza e visione. *Traduzione di Carla Reschia Guinea Equatoriale. Detenuto da 3 mesi un ingegnere italiano di origini guineane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2019 Si tratta di un ingegnere italiano, di origini guineane, oppositore del dittatore Teodoro Obiang. Si trova da qualche mese in un carcere duro della Guinea Equatoriale, reo di essere un oppositore politico al regime di Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. Parliamo dell’ingegnere italiano, ma di origini guineane, Fulgencio Obiang Esono, che, giunto in Togo per motivi di lavoro, dal 18 settembre scorso non ha più dato notizie di sé. Proprio l’altro ieri, la giunta regionale toscana ha approvato la mozione che chiede di intervenire sul ministero degli Esteri, affinché siano acquisite quanto prima informazioni sulla vicenda e siano avviate tutte le possibili iniziative di sostegno e assistenza al nostro connazionale. L’impegno è contenuto in una mozione, assegnata dal Consiglio alla commissione Affari istituzionali, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), che all’unanimità ha approvato il testo. È stato il consigliere Andrea Pieroni (Pd), firmatario della mozione insieme ai colleghi Antonio Mazzeo e Alessandra Nardini, a illustrarlo in commissione. La Farnesina sta lavorando sulla complessa vicenda che coinvolge la diplomazia internazionale. Il 48enne Fulgiencio Obiang Esono è un ingegnere civile arrivato in Italia per studio nel 1988, quando si trasferì a Pisa, dove si è presentato anche alle ultime elezioni comunali con la lista “Con Danti per Pisa”, a favore dell’ex assessore della città. Al momento del suo arresto, l’uomo si trovava a Lomè, capitale togolese, “per un incontro professionale”, secondo l’avvocato della famiglia Corrada Giammarinaro. Però Fulgencio è un oppositore del dittatore guineano Teodoro Obiang, per questo è stato arrestato in Togo ed estradato in Guinea Equatoriale insieme a un altro attivista dell’opposizione del paese, Francisco Micha, titolare di un permesso di residenza in Spagna. Una estradizione senza alcuna procedura legale, quindi un vero e proprio rapimento. Secondo le informazioni raccolte dal settimanale parigino Jeune Afrique che si occupa dell’Africa, il governo della Guinea Equatoriale ha fatto sapere al regime del Togo che a settembre si sarebbe tenuta a Lomé una riunione dell’organizzazione politica che si oppone alla dittatura, a cui avrebbero partecipato anche i due arrestati. Fonti della Guinea Equatoriale, confermate da anonimi funzionari togolesi, hanno confermato alla rivista parigina che le autorità governative si aspettavano anche la presenza di Solomon Abeso Ndong, segretario generale dell’organizzazione, esiliato a Londra, il cui nome è citato nelle indagini sul tentativo di colpo di stato avvenuto a Natale dello scorso anno. L’uomo però non ha lasciato la capitale britannica dove si trova tuttora. Il governo della Guinea Equatoriale ha chiesto quindi alle autorità togolesi di arrestare gli attivisti presenti sul proprio territorio, una richiesta prontamente soddisfatta dai funzionari di Lomé. Per due giorni sarebbero stati detenuti dalle autorità togolesi per poi essere estradati in Guinea Equatoriale e rinchiusi nel carcere “Black Beach”, la prigione più disumana al mondo e off limts agli organismi internazionali che si occupano dei diritti umani. Il dittatore della Guinea Equatoriale è stato direttore del carcere, dove suo zio e predecessore, Francisco Macías Nguema, è stato giustiziato dopo un golpe compiuto contro la sua amministrazione nel 1979. La prigione detiene diversi cittadini stranieri condannati per aver partecipato a un altro tentativo di colpo di stato nel 2004 contro l’attuale presidente ed è nota per le torture e gli abusi subiti dai prigionieri. Lo scorso 24 ottobre, Il vice ministro agli Affari esteri e alla cooperazione internazionale, Emanuela Del Re, a margine della seconda Conferenza Italia- Africa, ha chiesto al ministro equato-guineano Simeon Oyono Esono Angue la collaborazione delle autorità. Ma sono passai tre mesi e tutto ancora tace. Arabia Saudita. Quanta buona coscienza a buon mercato di Sergio D’Elia* Il Dubbio, 12 gennaio 2019 Grazie a una Supercoppa di calcio in programma a Gedda, Arabia Saudita, molti si sono finalmente accorti che lì vige un regime illiberale, dove le donne sono discriminate, gli oppositori politici vengono torturati e uccisi e i condannati a morte anche per reati non violenti decapitati sulla pubblica piazza. Negli ultimi tre anni, l’Arabia Saudita è sempre salita, insieme a Cina e Iran, sul terribile podio dei primi tre Paesi-boia del mondo: almeno 154 esecuzioni nel 2016, 140 nel 2017 e 142 nell’anno che si è appena concluso. Il record era stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni, ma negli ultimi anni si era registrato un sensibile calo, dovuto anche a qualche piccola riforma nel sistema penale. La nuova ondata di esecuzioni è iniziata verso la fine del regno di Re Abdullah, morto nel gennaio 2015, accelerando sotto il suo successore Re Salman, che ha adottato una politica interna improntata a “legge e ordine” e una politica estera più aggressiva nei confronti dei paesi vicini. Il Regno saudita è il Paese islamico che applica la legge islamica nella maniera più rigida, non solo per reati violenti come omicidio, stupro e rapina a mano armata, ma anche per reati non violenti come spaccio di droga, adulterio, sodomia, omosessualità, stregoneria e apostasia. Il modo esclusivo per eseguire sentenze in base alla Sharia è la decapitazione, praticata “legalmente” ogni anno in Arabia Saudita più di quanto negli ultimi tre anni siano riusciti - illegalmente - a fare, messi tutti assieme, gli estremisti islamici di Al-Shabaab in Somalia, il gruppo jihadista del Sinai Ansar Beit al-Maqdis in Egitto e lo Stato Islamico in Siria e Iraq. All’Occidente non paiono preoccupare certe similitudini tra lo Stato arabo suo amico più fidato e lo Stato islamico suo più acerrimo nemico. A ben vedere, il problema non è la pratica della pena di morte, ma l’assenza totale di democrazia, dello Stato di Diritto, del rispetto dei diritti politici e delle libertà civili. Il problema non è neanche il Corano, ma la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi o gruppi fondamentalisti al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico. “Lo sport è un veicolo di valori universali”, dicono i critici dell’evento sportivo, e non può accettare discriminazioni di genere e di ogni genere. Anche se i governi occidentali, compreso il nostro, in questi anni, sono sempre stati accondiscendenti nei confronti di un governo considerato amico dell’Occidente anche se responsabile delle più gravi violazioni di diritti umani universali. Anche se le imprese di tutto il mondo cosiddetto libero, a partire da quelle nostrane, non hanno mai smesso di fare affari con un Paese dove gli immigrati dai Paesi più poveri del mondo sono sfruttati sul lavoro e privati di ogni diritto sindacale. Anche se autorevoli donne di potere dell’Europa libera e civile, italiane incluse, che ora si stracciano le vesti per le limitazioni all’accesso allo stadio delle donne saudite, si sono sempre presentate con il capo coperto dal velo al cospetto delle autorità mediorientali più illiberali e retrograde. È l’ipocrisia che si manifesta in questi giorni senza vergogna, ammantata come è da obiezione di coscienza, tornata in voga in Italia negli ultimi tempi, ma in forma politicamente corretta, cioè trasfigurata e farsesca rispetto a quella originaria praticata dai militanti del Partito Radicale per i quali ad essa corrispondeva sempre l’accettazione di una responsabilità primaria che era quella personale dell’obiettore ed era sempre messa nel conto l’estrema conseguenza di quella penale. Ma nel caso della Supercoppa si tratta di buona coscienza a buon mercato. L’Arabia Saudita è da sempre il maggior partner commerciale italiano nell’area mediorientale e nessuno ha mai avuto nulla da ridire sulle esportazioni italiane che servono anche a tenere in vita un regime come quello saudita. I valori universali da affermare non giocando quella partita possono ben valere la perdita una tantum di sette milioni di profitto per la Lega Italiana Calcio. Una tale buona coscienza rende molto in termini di immagine e costa davvero poco in termini economici, se si considerano gli oltre sei miliardi annui di interscambio commerciale che nessuno si sogna di mettere in discussione. E non si tratta solo di macchinari, derivati del petrolio, materiale e apparati elettrici, lavorati in ghisa, ferro e acciaio e mobili. L’Italia esporta anche armi che il Regno Saudita usa nelle sue operazioni militari in atto nello Yemen, che poi è un’altra pietra dello scandalo scagliata contro la partita che si svolgerà a Gedda. Questo genere di proibizionismo di un evento sportivo non è la via per favorire un cambio di regime in Arabia Saudita come in altri paesi autoritari. Meglio andare lì per denunciare piuttosto che denunciare restando a casa. Ad esempio, le giornaliste accreditate a coprire l’evento potrebbero andare lì con il capo scoperto per manifestare la libertà che ci sta tanto a cuore e per essere vicine alle donne saudite che non vogliamo abbandonare al loro destino. Se vogliamo vedere realizzato un cambiamento in quella parte del mondo, dobbiamo iniziare dal nostro cambiamento; cominciamo a cambiare modo di pensare, di sentire e di agire; abbandoniamo il solito riflesso condizionato e reattivo, proibizionistico e punitivo; usiamo metodi coerenti con il fine che ci prefiggiamo, viviamo e operiamo nel modo e nel senso in cui vogliamo vadano le cose. Non possiamo proibire di andare in Arabia Saudita se vogliamo legalizzare l’Arabia Saudita, non possiamo disertare un piccolo evento calcistico se vogliamo che quell’evento sia più libero e partecipato, non possiamo discriminare tra genere di relazioni - quelle sportive da boicottare, quelle politiche e commerciali da rafforzare - se vogliamo superare la discriminazione di genere, che in Arabia Saudita vige soprattutto nella vita politica e sul posto di lavoro, prima che nello sport. *Segretario di Nessuno tocchi Caino