Per una vera sicurezza più giustizia e umanità di Gian Carlo Caselli vocetempo.it, 11 gennaio 2019 Se paura e insicurezza diventano occasioni di investimento avremo non riforme vere, ma gesti simbolici, sorretti da un’indignazione di facciata. Paura e insicurezza sono oggi un dato obiettivo, alimentato da molteplici fattori: dalle televisioni globali, che ogni giorno rovesciano nelle nostre case scene terribili di guerra, terrorismo, disastri, fame, malattie; al lavoro che spesso manca del tutto oppure è mal retribuito (i nostri salari sono tra i più bassi in Europa), o è precario, nero, insicuro (deteniamo un triste record in tema di infortuni sul lavoro); e poi i prezzi e il costo della vita sempre più alti, con la povertà - sia assoluta sia relativa - che ha raggiunto livelli vertiginosi. Alla paura e all’insicurezza come dato obiettivo dobbiamo sommare la percezione soggettiva. Spesso chi dovrebbe risolvere i problemi li individua come un potente veicolo di consenso e perciò li alimenta. Spregiudicate campagne politiche e massmediatiche gonfiano e moltiplicano paura e insicurezza, dispensando insieme - sempre per raccattare consenso - speranze illusorie di rimedi fantastici. Ed ecco l’obiettivo ultimo: spingere verso soluzioni sostitutive rispetto ai “veri” problemi. La principale soluzione sostitutiva oggi è l’avversità per il diverso, diverso perché migrante, straniero o rom. Una paura sostitutiva che appanna e marginalizza quelle vere. Ed il consenso è salvo, anzi cresce. Ma attenzione. In questo modo la paura e l’insicurezza non sono più mali da curare: diventano opportunità di investimento. Prima si alimenta la paura per espanderla artificiosamente; poi, invece di governarla, si finisce per restarne governati: con il pericolo evidente di derive oscure. La sicurezza (“rubo” la formula a Luigi Ciotti) rischia di diventare una specie di killer. Nel senso che la sua strumentalizzazione può pregiudicare decenni di lavoro sulle radici della violenza. Se la paura e l’insicurezza diventano occasioni di investimento, facilmente avremo non riforme vere, ma gesti simbolici e rassicuranti, sorretti da un’indignazione di facciata. Impariamo a vivere nell’ostilità e nel pregiudizio, muro contro muro, con tracotanza crescente. Ma questa non è più vita, cambia in negativo la qualità stessa della nostra vita. Anche perché si comincia in un certo modo e poi non si sa dove si va a finire. Oggi i migranti, gli stranieri e i rom, domani chissà. La malintesa esigenza di sicurezza può facilmente tracimare in intolleranza, cattiveria, disumanità, eclissi di misericordia. E ancora, se intese come terreno da sfruttare anziché problema da risolvere, paura e insicurezza si autoalimentano. Perché le poche o tante risorse a disposizione saranno convogliate su controlli e sempre più controlli, su forme di repressione, nuovi reati, nuove prigioni etc. Sempre di meno invece saranno le risorse impiegate per scuole, ospedali, alloggi, più lampioni in periferia, trasporti pubblici meno degradati, politiche di inserimento e di accettazione. Col risultato che nel medio-lungo periodo l’insicurezza invece di diminuire rischia di aumentare. Ecco un pericoloso cortocircuito, che si innesca quando non si superano i luoghi comuni, le superficialità, le banalità di massa. Su queste premesse va proiettato il complesso universo dell’esecuzione penale. Da una parte troviamo l’esigenza della collettività che chiede convivenza pacifica, sicurezza e giustizia. Dall’altra il bisogno di correggere senza schiacciare, senza annullare la dignità e la speranza di chi ha sbagliato, senza restare prigionieri di logiche vendicative, che finiscono per disumanizzare la pena ostacolando ogni prospettiva di recupero e reinserimento. La psicologia di chi sta fuori si esprime con frasi del tipo: “Buttiamo via la chiave”, “Se lo sono voluto”. Ma con questa cultura chi ha sbagliato viene spinto verso nuovi errori. E così si innesca una spirale che crea sempre maggiore insicurezza, l’esatto opposto di quel che chiede la collettività. Una complessità nella complessità è rappresentata dalle diverse tipologie di detenuti: non tutti con gli stessi problemi, pericolosità e capacità di reinserimento sociale. Crescono, negli ultimi anni in misura esponenziale, i problemi di multiculturalità, con molteplicità a volte difficilmente conciliabili di valori di riferimento. La strada giusta sarebbe rendere le sanzioni alternative al carcere capaci di rispondere al bisogno di sicurezza, così da ricorrere alla pena detentiva davvero come extrema ratio. Ma per gli extracomunitari irregolari c’è l’ostacolo ontologico - che il decreto sicurezza voluto dal vicepremier Salvini finirà inesorabilmente per aggravare - della mancanza di alcuni requisiti fondamentali (casa e lavoro), ciò che perpetua - appesantendolo - lo scandalo che il carcere è tendenzialmente una discarica per i poveracci, mentre i “colletti bianchi” (in specie evasori fiscali e corrotti) ne sono di fatto esentati. Un’altra risposta consiste nella ricerca di una maggiore individualizzazione del trattamento penitenziario, insieme alla differenziazione degli istituti e negli istituti. Ciò per utilizzare al meglio le risorse di cui si dispone, per lo più insufficienti. Per altro, tutto si complica ulteriormente a causa del sovraffollamento (con la conseguente riduzione, ai limiti della scomparsa, financo degli spazi materiali occorrenti per le attività di trattamento e recupero). Un problema sempre incombente, nonostante vari interventi imposti di fatto dall’Europa per tamponare le emergenze. Un problema che di recente va riproponendosi in maniera massiccia ed insostenibile anche in Piemonte, come dimostrano i dati rilevati dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano sulla situazione dei 13 istituti piemontesi. Un autentico dramma, che non si può sperare di risolvere facendo affidamento soltanto sulla crescita professionale che (sia pure con luci ed ombre) caratterizza ormai da tempo il personale penitenziario. Carcere, “un sistema che funziona è la chiave contro la radicalizzazione” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 11 gennaio 2019 Conclusi a Roma i lavori del progetto Rasmorad che vede l’Italia capofila di un piano volto a contrastare il radicalismo violento attraverso la collaborazione tra Stati (coinvolti Romania, Portogallo, Bulgaria e Francia, Belgio e Cipro), il rispetto dei diritti, l’integrazione e la formazione specifica degli operatori. “Un sistema penitenziario ben funzionante è la chiave per contrastare la radicalizzazione in carcere”. È partito da questo presupposto e si è concluso con la firma di un memorandum d’intesa che impegna i Paesi partner a proseguire l’attività di ricerca, informazione e scambio delle buone pratiche, “Rasmorad Prison & Probation “Raising Awareness and Staff MObility on violent RADicalisation in Prison and Probation Services”, il progetto per la prevenzione e l’uscita dal radicalismo violento promosso dal Ministero di Grazia e Giustizia e attuato dal Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità. Italia capofila nei due anni di lavori che hanno visto la collaborazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’adesione, in qualità di partner europei, delle amministrazioni penitenziarie e di probation di Romania, Portogallo, Bulgaria e Francia, mentre hanno partecipato come partner associati anche le amministrazioni penitenziarie di Belgio e Cipro. “Abbiamo lavorato - spiega il direttore generale per l’Esecuzione penale esterna, Lucia Castellano, a capo del progetto europeo - allo sviluppo di una metodologia comune per individuare i fattori di rischio e al rafforzamento della cooperazione tra i paesi dell’Ue per favorire lo scambio di informazioni e garantire l’interoperabilità dei sistemi informativi. Il dialogo costruito in questo periodo ha dato importanti risultati perché ha permesso di avviare una collaborazione e uno scambio sui reciproci modelli operativi e una ricerca sulle metodologie di trattamento”. Il progetto, che ha visto anche la partecipazione dell’Istituto internazionale di Scienze Criminali di Siracusa (partner scientifico), dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, dell’Università di Timisoara della Romania, dell’Istituto psicoanalitico per la ricerca sociale e di Exit Italia Onlus, ha puntato anche al rafforzamento delle competenze professionali del personale penitenziario e di probation, alla messa a punto di programmi di de-radicalizzazione, disimpegno e riabilitazione rivolti a detenuti o condannati per atti di terrorismo, nella prospettiva del rilascio, e al rafforzamento della cooperazione con il sistema giudiziario e la magistratura di sorveglianza, le forze dell’ordine e gli stakeholder per promuovere l’eventuale applicazione di misure alternative al carcere. “Rasmorad - sottolinea Lucia Castellano - si è sviluppato in coerenza con gli indirizzi europei che hanno come obiettivo principale garantire la sicurezza sociale attuando le decisioni giudiziarie, sia eseguite in carcere che nella comunità, in modo sicuro per la collettività, nella consapevolezza che a lungo termine la società sia più sicura quando i detenuti sono reintegrati. E nel convincimento che le persone siano in grado di passare attraverso un cambiamento positivo e di disimpegnarsi dalla violenza se viene offerto un supporto trattamentale”. Ma questo processo, è stato ribadito in più occasioni nel corso dei lavori, può avvenire se nell’area penale sono pienamente riconosciuti e rispettati i diritti umani. “Un ambiente carcerario più sicuro e ordinato, anche in termini di relazioni dinamiche - spiega il direttore generale -, è condizione preliminare per limitare i processi di radicalizzazione e predisporre programmi di disimpegno”. Rispetto dei diritti e collaborazione con le reti territoriali in primo piano. “Per prevenire la radicalizzazione e sostenere i processi di disimpegno - aggiunge Lucia Castellano -è fondamentale un approccio fondato sulla multi professionalità e la collaborazione tra le diverse agenzie istituzionali e territoriali che cooperano nella gestione dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Questo metodo di lavoro è tradizionalmente utilizzato nel nostro Paese, fin dall’avvio della riforma penitenziaria, ed è stato sempre più implementato specie nel sistema delle misure e pene di comunità dove è centrale la connessione delle nostre strutture periferiche con la rete dei servizi del territorio e del volontariato. Un approccio risultato largamente adottato anche nei paesi partner, come evidenziato nella rilevazione delle metodologie di lavoro e delle buone prassi”. Gli esiti della ricerca scientifica sono stati presentati alla Conferenza di Roma, che ha concluso i lavori, insieme alle Linee guida nazionali sul tema della exit strategy, e rappresentano l’avvio di un’opera che proseguirà con i progetti di formazione professionale, già iniziati in alcune regioni del Paese, “con lo scopo - sottolinea il direttore generale - di supportare gli operatori impegnati in prima linea con maggiore formazione e consapevolezza delle sfide che ci attendono”. I risultati sono stati diffusi attraverso 5 moduli formativi on line (webinar), destinati al personale penitenziario e di probation e a tutti gli operatori degli Enti e della rete territoriale che collaborano con l’Amministrazione della giustizia. Mentre l’attività programmata nel corso del progetto è stata documentata nel sito internet www.rasmorad.org, dove sono pubblicate le newsletter mensili di informazioni, i verbali delle riunioni e dei workshop transnazionali e dove è possibile reperire ogni altra informazione utile. Ferri (Pd) presenta un’interrogazione per modalità e tempi braccialetti elettronici Agenpress.it, 11 gennaio 2019 “Ho presentato un’interrogazione in Commissione Affari Costituzionali per conoscere modalità e tempi precisi con cui saranno messi a disposizione della magistratura e delle forze dell’ordine i nuovi braccialetti elettronici previsti dalla riforma approvata durante il Governo Gentiloni. La situazione attuale è preoccupante perché l’assenza di nuovi dispositivi elettronici non consente di eseguire le misure di detenzione domiciliare con controllo a distanza già disposte per diversi detenuti in tutta Italia. Sono molte infatti le situazioni in cui i detenuti sono costretti a rimanere nelle strutture penitenziarie per l’indisponibilità di nuovi braccialetti, nonostante siano già stati concessi gli arresti domiciliari. Solo per citare alcuni casi noti alle cronache, quello dell’ex giocatore del calcio storico fiorentino, Rolando Scarpellini, per cui il gup di Firenze ha disposto gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, subordinando la misura alla effettiva disponibilità di un braccialetto che al momento manca; così come per Nicolò Mirandola, giovane di 23 anni al quale il giudice per le indagini preliminari di Torino ha concesso gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, misura che risulta ancora non eseguita. Il braccialetto elettronico - come previsto nella riforma approvata nel corso dell’ultima legislatura - rappresenta uno strumento indispensabile per ridurre il sovraffollamento carcerario, garantire un’esecuzione della detenzione domiciliare più razionale, più sicura e meno onerosa per le forze di polizia e un percorso rieducativo che tuteli al tempo stesso la persona offesa. La procedura di aggiudicazione per la fornitura, l’installazione e l’attivazione mensile di 1.000 braccialetti elettronici, con connessi servizi di assistenza e manutenzione si era conclusa nel 2017 durante il Governo Gentiloni e i nuovi dispositivi sarebbero dovuti arrivare nell’Agosto 2018. Il Ministero degli Interni ha provveduto, però, a nominare la Commissione di collaudo solo alla fine dello scorso anno; ad oggi non si conoscono gli esiti né i tempi di arrivo dei nuovi dispositivi”. Così Cosimo Maria Ferri Componente Commissione Giustizia Camera dei Deputati. Mattarella promulga la legge di riforma della prescrizione di Francesco Damato Il Dubbio, 11 gennaio 2019 La scelta del Quirinale di non alimentare le tensioni. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede deve avere tirato un sospiro di sollievo apprendendo che il presidente della Repubblica ha firmato, per la promulgazione, la legge “spazza corrotti” approvata definitivamente a Montecitorio il 18 dicembre scorso. È finita all’improvviso, pur senza un comunicato ufficiale sulla firma, la riflessione impostasi dal capo dello Stato di fronte anche ai dubbi espressi sul provvedimento dal Consiglio Superiore della Magistratura, di cui egli è costituzionalmente il presidente. Si tratta di dubbi particolarmente penetranti sulla norma che sospende la prescrizione all’emissione della sentenza di primo grado per tutti i reati, e non solo per quelli corruttivi. Il presidente della Repubblica ha probabilmente interrotto la sua riflessione pur avendo ancora una settimana di tempo per la firma della legge - di fronte all’insorgenza delle prime voci e interpretazioni sui tempi non rapidi della firma mentre si appesantiva improvvisamente la situazione politica. È sin troppo evidente, in particolare, la falla apertasi all’interno della maggioranza di governo sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, con riflessi più o meno ritorsivi anche sulle misure in cantiere per l’utilizzo dei fondi destinati nel bilancio al cosiddetto reddito di cittadinanza e all’accesso anticipato alla pensione. Voci per quanto non confermate attribuiscono al capo dello Stato il timore di concorrere, anche se involontariamente, alle tensioni politiche procrastinando ulteriormente la firma della legge contro la corruzione, o addirittura consentendone la promulgazione con una lettera di segnalazione o puntualizzazione non mancata in altre occasioni, come l’emanazione del decreto legge su sicurezza e immigrazione. Che peraltro, poi convertito in legge, è incorso nelle contestazioni di sindaci definiti per questo “traditori” dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma soprattutto di regioni che si stanno avvalendo dell’accesso diretto alla Corte Costituzionale per la verifica della legittimità di alcune disposizioni che interferiscono con le competenze delle amministrazioni locali. In ordine ai dubbi da più parti sollevate, anche – ripeto - dal Consiglio Superiore della Magistratura, sulla modifica radicale dell’istituto della prescrizione, il capo dello Stato ha evidentemente voluto scommettere pure lui - solo i fatti potranno dire se con troppo ottimismo o con pacata ragionevolezza - sulla capacità di questa maggioranza di governo non solo di durare, ma di varare la riforma del processo penale. Nell’ambito della quale si dovrà trovare il modo di contemperare il rischio di un allungamento a tempo indeterminato del percorso in tre tappe di un procedimento giudiziario - tra primo, secondo e terzo grado di giudizio- con la “ragionevole durata” del processo prescritta dall’articolo 111 della Costituzione, modificato proprio a questo fine nel 1999. È opportuno ricordare di nuovo che i leghisti hanno accettato, con dichiarazioni di Salvini e della ministra della funzione pubblica e avvocata di spicco Giulia Bongiorno, partecipi di un vertice di maggioranza dedicato a questo problema, l’introduzione della nuova norma sulla prescrizione subordinandone l’applicazione proprio alla riforma del processo penale. Dalla quale invece ripetutamente il ministro grillino della Giustizia ha dichiarato di volere prescindere, ritenendo quindi incondizionata la sospensione della prescrizione alla sentenza di primo grado, sia di condanna sia di assoluzione. La quale ultima, una volta impugnata dalla pubblica accusa, potrebbe paradossalmente condannare anche l’assolto ad essere un imputato a vita. Minisci (Anm): omicidi legalizzati col sì alla legittima difesa. Salvini: norme sacrosante di Errico Novi Il Dubbio, 11 gennaio 2019 Nell’audizione di ieri alla Camera, il leader delle toghe solleva l’allarme per l’ulteriore via libera alle reazioni di chi è aggredito in casa. E parla di “illegittimità costituzionale” per il “diverso trattamento rispetto ad altre cause di giustificazione”. Il capo del Carroccio: “sbaglia, difendersi è un diritto”. “Alcuni profili della legge sulla legittima difesa presentano gravi criticità: possono legittimare reati, addirittura l’omicidio”. Francesco Minisci, presidente dell’Anm, non attenua il suo giudizio preoccupato sulla modifica dell’articolo 52 del codice penale, a cui la Lega tiene molto. Lo fa in audizione alla Camera, davanti alla commissione Giustizia, e non a caso si trova subito in conflitto con Matteo Salvini, che gli risponde così: “Mi batto per la sicurezza dei cittadini anche con la legittima difesa, che per me è un diritto sacrosanto, mentre qualcuno dell’Anm dice che è pericolosa e rischia di legittimare l’omicidio”. E un’altra rappresentante della Lega al governo, Giulia Bongiorno, è se possibile ancora più dura: “Il presidente dell’Anm fa una valutazione disancorata dalla realtà, le modifiche alla legittima difesa sono rispettose della Carta e valorizzano lo stato d’animo di chi è costretto a difendersi in stato di turbamento”. Nell’audizione di ieri pomeriggio, Minisci è costretto a ingaggiare anche un botta e risposta con un magistrato che oggi siede tra i banchi dei deputati, l’ex gip Giusy Bartolozzi, di Forza Italia. Il vertice del “sindacato” dei giudici si sofferma su due cose: “Su questa proposta di legge nessuno dei proponenti ha mai spiegato con chiarezza se ritiene che il procedimento penale debba o non debba essere svolto, se al pm spetti comunque svolgere le indagini”. E fin qui siamo alle contestazioni sull’uso politico della “riforma” più che sul suo contenuto. Ma è a proposito della modifica chiave del testo caro alla Lega, che il presidente dell’Anm parla di “condotte illecite gravi”, fino appunto all’ “omicidio”, che rischierebbero di “essere legittimate”. Viene aggiunto, osserva, “un quarto comma alla già rafforzata tutela introdotta, all’articolo 52, con la modifica del 2006: con questa ulteriore previsione diventa sempre legittimo l’atto di chi respinge un’intrusione nel domicilio”. Il punto è che “si consente così di agire anche quando l’intrusione è in corso di svolgimento: e visto che i luoghi indicati dall’articolo 614 (quelli assimilati appunto al domicilio, ndr) includono anche un ampio giardino pertinente alla casa, per esempio, si potrebbe legittimare chi spara dal balcone a un ladro che forza il cancello con un mezzo di coazione fisica, e anche un cacciavite può esserlo”. Qui entra chiaramente in gioco il rispetto dei requisiti di “attualità del pericolo e necessità della reazione”, già richiamati in audizione due giorni fa dal presidente del Cnf Andrea Mascherin e puntualmente indicati come “imprescindibili” ieri da Minisci. Il quale però teme che tale vincolo venga meno proprio nel nuovo comma inserito dalla Lega, visto che la norma non tiene più conto della “proporzionalità”, osserva. La sola questione che può dirimere il caso sembra essere nel “cacciavite” ipotizzato dal presidente dell’Anm: il testo in attesa del via libera definitivo di Montecitorio indica come requisito o la “violenza”, che pare comunque giustificare l’attualità del pericolo, almeno putativa, o la “minaccia. Vero. Peraltro, riguardo alla costituzionalità della “nuova” legittima difesa, Minisci fa notare altre due cose. La prima in risposta a un quesito del dem Alfredo Bazoli, che evoca quella “interpretazione costituzionalmente orientata” di cui ha parlato Mascherin sempre mercoledì scorso. “Se abbiamo dubbi su come possa essere interpretata la legge, ma perché mai dobbiamo approvarla?”, si domanda retoricamente il leader delle toghe. L’altro rilievo di legittimità rilancia un rischio segnalato anche dall’avvocatura, ossia “considerare la legittima difesa come una scriminante di rango superiore ad altre, quali l’adempimento al dovere o lo stato di necessità, e questo sarebbe incostituzionale perché violerebbe il principio di uguaglianza”. Il riferimento è anche ai riflessi civilistici delle norme, come quelli relativi ai risarcimenti, e al ristoro delle spese legali per chi, dopo essere stato indagato o processato per eccesso colposo, venga prosciolto. Minisci attacca dunque sui rischi, anche psicologici, di usi impropri della nuova legge. Ma il suo contrasto con Salvini e la Lega si chiarisce forse nel botta e risposta in audizione con un deputato del Carroccio, Luca Paolini, al quale dice in modo energico “andateci, in televisione, e dirtelo, che i procedimenti penali andranno comunque aperti”. Il timore della magistratura - chiaro e più che legittimo - è che, una volta in vigore la “riforma”, basterà iscrivere un aggredito nel registro degli indagati, per vedere scatenarsi contro il pm l’accusa di voler seviziare chi ha già subito il trauma di una rapina. Legittima difesa. “Disarmare delinquenti e proteggere italiani per bene” di Mauro Grimoldi* Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2019 Così Salvini sbaglia due volte. “Vogliamo disarmare i delinquenti e proteggere gli italiani per bene”, così Salvini reagisce alla reprimenda dell’Associazione nazionale magistrati alla proposta di legge sulla legittima difesa: ci sarebbe la possibilità, secondo i giudici italiani, di legittimare atti di violenza eliminando l’esigenza di proporzionare la difesa all’offesa. Salvini sbaglia due volte. Anzitutto perché armare privati cittadini non implica affatto disarmare i delinquenti, ma anzi al limite corre il rischio di innescare un’escalation di uso delle armi che produrrà gli effetti che ben conosciamo nei Paesi in cui l’uso delle armi è libero come gli Stati Uniti, in cui il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti passa dallo 0,78 dell’Italia al 5,3%. Sei volte tanto. Ma Salvini sbaglia un’altra volta sugli “italiani per bene”. Italiani che come Fredy Pacini, rivenditore di gomme e biciclette usate, stanco di subire piccoli furti, decide di ricavare una stanzetta nella propria officina, carica una carabina e ricava un giaciglio nell’officina. Completamente solo, la civiltà umana fuori dalla porta, il giustiziere rimane appostato in mezzo alle sue cose, alla sua proprietà. Passano giorni, settimane. Passano mesi e Fredy, italiano per bene, è sempre lì, vigile, nel buio, con la sua fida carabina a fianco, la rabbia che monta insieme alla frustrazione. Tante volte aveva sentito dei rumori, ma questa volta dietro la finestra inquadra nel mirino della carabina un ragazzo di 29 anni, moldavo, che probabilmente vuole rubare una bicicletta o un paio di copertoni. Fredy è fortunato, la sua lunga attesa ha pagato. Spara e uccide. Ancora più fortunato, ottiene gli onori della cronaca, una fiaccolata in suo onore e lo slogan “Io sto con Fredy!”. Per una parte dell’opinione pubblica (e probabilmente per Salvini) per qualche giorno e lui l’eroe. È lui l’“italiano per bene”. In questo contesto culturale non è sorprendente che si consideri un principio di civiltà e di diritto il fatto di poter rinunciare alla legittimità della difesa, ovvero al necessario rapporto tra un’offesa è una reazione. Me lo spiegava mia madre da bambino e nulla è cambiato. Se un ladro entra in casa, tu hai paura, hai una pistola e spari nessuno ti considera responsabile. Ma c’è una proporzione perché il diritto alla difesa sia legittimo. Se uno ti insulta gli puoi rispondere a tono, gli portai forse dare uno schiaffo, ma già un pugno è troppo. Perché si dovrebbe sparare o uccidere senza che ce ne sia necessità alcuna, né giustificazione che un giudice trovi valida? Il nostro “italiano per bene” può decide di inseguire il ladro di biciclette e di sparargli alle spalle? E poi, perché no, può, una volta che il ladro sia a terra infliggere magari un secondo o un terzo colpo e finire il ladruncolo con calma? E se decidesse di rinchiuderlo in cantina, per completare una propria giustizia privata, il nostro “italiano per bene”? La preoccupazione dell’Anm è più che giustificata e chi lavora con i crimini lo sa bene. L’idea è di punire l’invasione dei propri spazi, è chiaro. Ma un furto magari bagatellare non può diventare un passaporto per qualsiasi atto di violenza, anche efferata, purché la vittima si trovi nel sacro territorio della propria proprietà. Quello che cambia il nuovo progetto di legge e l’assenza di proporzione richiesta tra offesa e difesa, ossia legittimare il Far West e il mito del giustiziere che, da “bravo italiano”, si farebbe giustizia da solo, legittimando l’assenza delle istituzioni della vita di ciascuno e dall’obbligo di proteggere i cittadini. Il mito così attuale, moderno eppure agghiacciante dell’italiano per bene che decide di ritirarsi dalla civiltà pensando di vestire i panni affascinanti di Charles Bronson nel Giustiziere della notte; senza accorgersi invece che da migliaia di giorni sta solo indossando il pigiama e andando a dormire in mezzo a vecchie biciclette e copertoni usati. *Criminologo, coordinatore scientifico Casa dei Diritti Comune di Milano La ricerca Eurispes: “Non siamo corrotti quanto pensiamo” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 11 gennaio 2019 Uno studio smonta le percezioni negative degli italiani. Quanta corruzione c’è in Italia? Parecchia, a sentire la maggioranza degli italiani. Ma se agli stessi cittadini chiedessimo di elencare casi concreti di corruzione a cui avrebbero assistito negli ultimi 12 mesi, ecco che il dato sul famigerato malcostume italico crollerebbe a picco. È questo il risultato centrale di “La corruzione tra realtà e rappresentazione. Ovvero: come si può alterare la reputazione di un Paese”, la ricerca curata da Giovanni Tartaglia Polcini per conto di Eurispes, presentata ieri a Roma alla presenza del presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, e del procuratone nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. “Dipingere un paese come più corrotto di quanto realmente non sia può avere effetti diretti e indiretti sull’economia”, è la premessa da cui parte lo studio. Negli indici internazionali, infatti, il nostro paese si colloca in posizioni molto più basse di quanto non meriterebbe. Il dato più sorprendente riguarda proprio la corruzione percepita. Nell’ultima graduatoria di Transparency International, basata proprio sulla percezione, “risultiamo al 69° posto con l’ 85 per cento degli italiani convinti che istituzioni e politici siano corrotti. Ma, alla domanda specifica, posta a un campione di cittadini, se negli ultimi 12 mesi avessero vissuto, direttamente o tramite un membro della propria famiglia, un caso di corruzione, la risposta è stata negativa nella stragrande maggioranza dei casi, in linea con le altre nazioni sviluppate”. La chiave di questa discrepanza tra sensazione e realtà potrebbe essere rintracciata in quella che alcuni studiosi definiscono “sindrome del Botswana”, intesa come la “tendenza ad accostare il nostro paese a Stati difficilmente assimilabili all’Italia per livello di benessere e di ricchezza”. Guai però a sottovalutare la percezione dei cittadini, mette in guardia Cantone. “È sbagliato dire in modo generico “si tratta di percezione”, è come quando nei confronti della sicurezza diciamo “i cittadini sbagliano a percepire l’insicurezza”. Ci dobbiamo invece interrogare sul perché la percepiscano e lavorare affinché non accada più”, dice il presidente di Anac. Una delle possibili risposte agli interrogativi di Cantone viene proprio dalla ricerca Eurispes, lì dove si analizza il “Paradosso di Trocadero”. “Più si perseguono i fenomeni corruttivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno”, recita lo studio. “L’effetto distorsivo collegato a questo assunto ha concorso a penalizzare soprattutto gli ordinamenti più attivi dal punto di vista della reazione alla corruzione in tutte le sue forme”. L’efficienza italiana nella repressione del fenomeno, in altre, parole finisce per penalizzarla nel confronto con le altre potenze. È dunque necessario ridefinire indicatori della corruzione accurati e condivisi sul piano internazionale, suggeriscono i ricercatori, “in grado di sostenere una comparazione dei dati fra paesi affidabile”, si legge. “Ovviamente, non intendiamo sostenere che l’Italia sia immune dalla corruzione o che la corruzione stessa non ne abbia caratterizzato la storia antica e recente”, specifica infine il presidente di Eurispes, Gian Maria Fara. “Ciò che vogliamo, invece, fortemente affermare è che il nostro Paese è anche meno corrotto degli altri, che reagisce alla corruzione più degli altri, che non la tollera e che combatte il malaffare ed oggi lo previene anche meglio degli altri”. Processi troppo lunghi, risarcimenti più veloci di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 11 gennaio 2019 Task force per accelerare i pagamenti degli indennizzi per processi lumaca; funzionari statali come difensori nei giudizi sui risarcimenti per irragionevole durata dei giudizi; e strade sbarrate a chi propone l’azione di ottemperanza per ottenere il pagamento dell’indennizzo senza avere mandato al ministero competente la documentazione necessaria o senza aspettare il termine iniziale di sei mesi, previsto dalla legge. Sono queste le principali modifiche alla legge Pinto (legge 89/2001) contenute in un emendamento al decreto legge “semplificazioni” (n. 135/2018) sul quale c’è il via libera del governo. L’emendamento trae spunto dall’ingolfamento delle pratiche di pagamento degli indennizzi da processi troppo lenti. I numeri descritti nella relazione all’emendamento sono impressionanti: 17 mila pratiche pendenti, 2 mila nuove pratiche ogni anno, una stima di 80 mila ricorrenti, due anni di tempi per liquidare l’indennizzo. Altrettanto impressionanti e paradossali le ricadute sull’attività amministrativa e giudiziaria di un processo lumaca: pesanti pratiche burocratiche per il pagamento, pignoramenti e cause di ottemperanza presso i tribunali amministrativi, condanna al pagamento di ulteriori penali per il ritardo a carico dello stato, che non ha pagato in tempo gli indennizzi, avvocatura dello stato che non riesce a stare dietro a una mole travolgente di processi. Da qui una serie di interventi proposti nell’emendamento in esame. Primo quello relativo allo smaltimento delle pratiche: si prevede una task force di trenta funzionari, laureati in giurisprudenza, con il compito di smaltire l’arretrato e gestire in corrente le pratiche sopravvenienti. Il secondo intervento riguarda la previsione della difesa diretta in giudizio: nel processo ci fa il dirigente o un funzionario del ministero e non più l’avvocatura. Sempre collegato al processo è l’obbligo di notificare il ricorso per ottenere l’indennizzo anche all’amministrazione debitrice dei ricorsi. Il ministero interessato avrà, poi, per effetto di altra modifica proposta, 60 giorni (e non più 30) per fare opposizione al decreto che accoglie il ricorso. Viene, infine, aggiunta una causa di inammissibilità dei giudizi di ottemperanza: sono procedimenti speciali di competenza dei Tar, nei quali il cittadino chiede che l’amministrazione sia condannata a eseguire (ottemperanza) una decisione che la condanna a pagare somme. L’emendamento in discussione prevede che il giudice amministrativo debba dichiarare il ricorso inammissibile qualora il ricorrente non abbia fornito prova dell’avvenuta consegna all’amministrazione della documentazione propedeutica al pagamento dell’indennizzo: si tratta di una dichiarazione sostitutiva riportante i dati del credito. Se ricorre questa inammissibilità, l’interessato dovrà essere condannato al pagamento in favore di una somma tra i mille e i 10 mila euro. Si scoraggia così chi vuole speculare sulla lentezza dello stato a pagare gli indennizzi dovuti per la lentezza nei processi. Sul web i dati personali delicati vanno deindicizzati in modo sistematico di Luigi Chiarello Italia Oggi, 11 gennaio 2019 “Chi gestisce motori di ricerca sul web dovrà accogliere in modo sistematico le domande di deindicizzazione relative a dati e informazioni di natura delicata”. Al contempo, non bisogna ammettere “una deindicizzazione mondiale”, ma occorre differenziare le richieste in base al luogo in cui una possibile ricerca viene svolta su Internet. Perché altrimenti diventa impossibile bilanciare il diritto a essere informati con i diritti alla vita privata e alla protezione dei dati personali.Ne consegue che “il gestore del motore di ricerca”, una volta accolta una richiesta di deindicizzazione, non è tenuto a effettuare la stessa “su tutti i nomi di dominio del suo motore” affinché i link controversi scompaiano dal web a prescindere dal luogo da cui parte la ricerca medesima. Questo perché “occorre un bilanciamento del diritto fondamentale all’oblio con il legittimo interesse pubblico ad avere accesso all’informazione richiesta”. I due principi sono stati proposti dall’avvocato generale Szpunar alla Corte di giustizia europea, nelle sue doppie conclusioni, relative alle causa C-136/17 e C-507/17; entrambe relative a vicende francesi. La prima conclusione riguarda un contenzioso tra privati cittadini e la Commissione nazionale transalpina per l’informatica e la libertà (Cnil); la seconda riguarda un’altra causa, che vede contrapposti Google e la medesima commissione. Ma andiamo con ordine. Deindicizzazione sistematica. Il caso riguarda la richiesta di alcuni cittadini, che hanno chiesto alla Cnil di diffidare Google, affinché procedesse a deindicizzare differenti link frutto di una ricerca effettuata col loro nome, verso pagine pubblicate da terzi. In queste pagine si potevano vedere: un fotomontaggio satirico relativo a un’esponente politica, un articolo in cui si definiva uno dei soggetti ricorrenti “responsabile delle pubbliche relazioni della Chiesa di Scientology”, l’apertura di un procedimento penale nei confronti di un politico, la condanna di un’altra persona interessata per aggressione sessuale a un minore. I ricorrenti si sono rivolti al Consiglio di stato francese, che ha girato la palla alla Corte di giustizia. L’avvocato generale Ue, dopo aver esaminato la vicenda, ora propone ai giudici comunitari di “dichiarare che il divieto di trattare i dati rientranti in determinate categorie specifiche, imposto agli altri responsabili del trattamento, si applica alle attività del gestore di un motore di ricerca”. Di più: l’avvocato sostiene che “la direttiva 95/46 (relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, ndr) “prevede il divieto di trattamento di dati di natura delicata”. Ne consegue che, “il divieto imposto al gestore” del motore di ricerca “di trattare dati di natura delicata” lo “obbliga ad accogliere sistematicamente le domande di deindicizzazione riguardanti link verso pagine Internet, nelle quali compaiono siffatti dati, fatte salve le eccezioni previste dalla direttiva 95/46”. In merito alla libertà di espressione, alle deroghe ad essa connesse (art. 9 della direttiva 95/46) e alla sua conciliazione col diritto alla vita privata, poi, l’avvocato Ue propone alla Corte di dichiarare che i gestori dei motori di ricerca, in presenza di una domanda di deindicizzazione dei dati delicati, siano tenuti “a procedere a un bilanciamento, da un lato, tra il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati e, d’altro lato, tra il diritto del pubblico ad avere informazioni e il diritto alla libertà di espressione” di chi ha diffuso l’informazione. Informazioni superate. Infine, l’avvocato generale ha esaminato la questione di una richiesta di deindicizzare dati personali ormai incompleti, inesatti o obsoleti, come gli articoli giornalistici sulle fasi di un procedimento giudiziario, poi giunto a conclusione. La conclusione del legale Ue è che “il gestore del motore di ricerca effettui, caso per caso, una ponderazione, tra i diritti al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati e il diritto del pubblico ad avere accesso alle informazioni”, senza perdere di vista il fatto che queste informazioni “rientrano nell’ambito del giornalismo. O possono costituire un’espressione artistica o letteraria”. I paletti alla deindicizzazione. Il secondo contenzioso, come detto, vede contrapposti Google e la Commissione nazionale francese per l’informatica e la libertà. Quest’ultima, a seguito della richiesta di un cittadino, ha diffidato il colosso del web a non fare tabula rasa di tutti link derivanti da una ricerca col nome della persona, applicando la cancellazione a tutte le estensioni di nome di dominio del suo motore di ricerca. Google si è rifiutata, limitandosi a eliminare tutti i link. La conclusione dell’avvocato generale è che “il gestore di un motore di ricerca”, nell’accogliere una richiesta di deindicizzazione, “non è tenuto ad effettuare questa deindicizzazione su tutti i nomi di dominio del suo motore affinché, indipendentemente dal luogo a partire dal quale è effettuata la ricerca in base al nome del richiedente, i link controversi non compaiano più”. Di contro, ha sottolineato che “una volta accertato il diritto alla deindicizzazione all’interno dell’Unione”, il gestore del motore di ricerca deve garantire che questa sia “efficace e completa, a livello Ue”, anche ricorrendo alla tecnica del “blocco geografico” a partire da un indirizzo IP, che si reputa ubicato all’interno di uno Stato Ue. E questo indipendentemente dal nome di dominio usato dall’utente web che effettua la ricerca. Campania: laurearsi nelle carceri, ora si può di Luciana Pennino napoliflash24.it, 11 gennaio 2019 Per la prima volta nel Sud Italia, le persone soggette a reclusione potranno ambire a conseguire la laurea. Il 15 Gennaio avrà inizio il primo anno accademico dell’Università Federico II in carcere e nelle prime settimane di Febbraio si attiveranno i corsi. Il Polo Universitario Penitenziario della Campania nasce dalla collaborazione tra l’Università di Napoli Federico II e il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania, iniziata già da alcuni anni con la firma del primo Protocollo di cooperazione e declinata attraverso una serie di attività nelle quali sono stati impegnati vari Dipartimenti dell’Ateneo. Nell’anno appena concluso è stata rinnovata questa sinergia con la firma da parte del Rettore, Prof. Gaetano Manfredi, e del Provveditore, Dott. Giuseppe Martone, di una nuova Convenzione che ha come oggetto principale proprio il Polo Universitario. Chi ha avuto a che fare con la realtà carceraria sa bene quanto l’istruzione e lo studio siano determinanti per ottenere una sana riabilitazione, l’aumento del livello di autostima e la garanzia di condizioni di vita dignitosa per coloro che sono temporaneamente reclusi. Su quest’argomento così rilevante sento la Prof. Marella Santangelo, Professore Associato in Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, nonché Delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario della Campania. Perché arriviamo dopo molti anni rispetto, per esempio, alle realtà del Nord Italia? Direi che le condizioni dei territori si riflettono naturalmente anche sulle carceri. Voglio citare un solo esempio: la Casa di reclusione di Bollate, a Milano, è considerata a livello nazionale e internazionale uno degli istituti di pena modello d’Europa, questo per la tenacia e la capacità della direzione che nel tempo si è assunta enormi responsabilità pur di sperimentare nuove forme di vita detentiva, ma anche perché la società civile ha risposto compatta alla richiesta di collaborazione, attraverso proposte di lavoro, offerta volontaria di professionalità, scelte di investire economicamente sulle persone recluse e sull’Istituto. Ecco, credo che a Napoli siamo ancora molto lontani da tutto questo, benché ci sia una nuova generazione di direttori molto capaci e motivati. Quindi la nascita, oggi, del Polo Universitario in Campania è un segno estremamente significativo che diamo come Ateneo e come Amministrazione Penitenziaria. Tale Polo è fisicamente ubicato nella casa di reclusione di Secondigliano, dove sono state predisposte due sezioni dedicate una all’alta sicurezza e una alla media sicurezza, per i soli detenuti uomini oltre che di Secondigliano stesso, anche di Poggioreale, di Santa Maria Capua Vetere e di Carinola. Le donne detenute, invece, che si sono iscritte, restano nella Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Gli iscritti totali sono circa 80, distribuiti su diversi Corsi di Laurea. Per loro, la Federico II ha deciso l’esonero dal pagamento delle tasse. Quali sono stati, Professoressa, i Corsi di Laurea più scelti? L’offerta formativa dell’Ateneo è di tutti i corsi di laurea, a meno di quelli a numero chiuso nazionale come Medicina e Architettura, per oggettive difficoltà sulle quali si sta lavorando. I corsi di laurea con il maggior numero di iscritti sono Giurisprudenza e i corsi triennali in Scienze Nutraceutiche e Scienze erboristiche; ci sono poi Sociologia, Urbanistica e Economia e altri ancora. Come si svolgeranno le lezioni? Una parte delle lezioni regolarmente svolte dai docenti nei vari Dipartimenti sarà registrata e inviata in Istituto; la presenza fisica di professori e/o tutors verrà garantita con una certa continuità. Stiamo inoltre lavorando con gli esperti di Federica Web-learning affinché, al più presto, sia possibile individuare una forma di connessione protetta per gli studenti detenuti, in modo che possano anche loro collegarsi e avere accesso a un patrimonio molto vasto di lezioni e materiali vari. L’obiettivo è quello di assicurare una didattica completa ed equivalente a quanto accade per gli studenti liberi. Chi saranno i docenti? È importante precisare che i colleghi presteranno la loro opera volontariamente, nel senso che le ore di lezione in carcere saranno in aggiunta al carico orario di ciascuno di noi, e avranno l’ausilio fondamentale dei tutors, ovvero di alcuni giovani laureandi o specializzandi che hanno partecipato a un bando di Ateneo per il supporto allo studio. Verona: Gherardo Colombo spiega il perdono a studenti e detenuti tgverona.it, 11 gennaio 2019 Una riflessione sul perdono e sul valore della giustizia riparativa. Sarà quella che Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite e fondatore dell’associazione Sulle Regole, proporrà, all’interno della casa circondariale di Montorio martedì 15 gennaio, alle ore 10. In platea saranno presenti 150 studenti veronesi. Non solo i diciottenni delle scuole Copernico, Messedaglia e Maffei, ma anche i detenuti della scuola in carcere. L’occasione sarà la presentazione dell’ultimo libro dell’ex magistrato “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla”. Durante la mattinata, Colombo interagirà con gli studenti, con l’obiettivo di stimolare un dialogo sull’importanza della legalità, della democrazia e dei principi costituzionali. L’iniziativa, promossa dal Comune, è organizzata da Prospettiva Famiglia nell’ambito dei progetti di educazione alla legalità e cittadinanza consapevole ed attiva, insieme alla rete “Scuola e territorio: educare insieme” e in collaborazione con il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti-Cpia e la Casa circondariale di Montorio. L’appuntamento è stato presentato questa mattina a Palazzo Barbieri dall’assessore alla Trasparenza Edi Maria Neri, insieme alla coordinatrice di Prospettiva Famiglia Daniela Galletta, alla dirigente scolastica del Cpia Nicoletta Morbioli e alla docente responsabile della Scuola in Carcere Paola Tacchella. “Prosegue il percorso sulla legalità all’interno del carcere, che ha preso il via qualche mese fa con Agnese Moro e il brigatista Coi - ha sottolineato Neri. Sono certa che questo secondo appuntamento, che nuovamente coinvolgerà gli studenti, permetterà a tutti i presenti di maturare una maggior consapevolezza riguardo il valore della legalità e della democrazia”. Gherardo Colombo sarà in città già da lunedì 14 gennaio, per parlare di diritto di asilo, alle ore 20.45 al liceo Maffei, con la testimonianza di Ebrima Makalow. Padova: botte nell’infermeria del carcere, detenuto ricoverato in fin di vita di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 11 gennaio 2019 È un venticinquenne serbo. Un altro carcerato l’ha colpito in testa con uno sgabello mentre dormiva. Nel reparto di infermeria del carcere ha subito una violenta aggressione mentre riposava su una barella. Un detenuto di 25 anni, di origini serbe, residente a San Donà di Piave (Venezia), si trova ora in coma nel reparto di Neurochirurgia dell’ospedale di Padova. Un altro detenuto gli ha spaccato uno sgabello di legno in testa, procurandogli una ferita che potrebbe costargli la vita. L’aggressione - È successo mercoledì mattina ma la dinamica non è ancora del tutto chiara. L’elemento certo è che nel reparto di Infermeria del Due Palazzi c’erano due detenuti e che, tra loro, c’era un conto in sospeso. È stata un’aggressione a tradimento, un colpo vibrato con il massimo della forza con la volontà di uccidere. L’aggressore del venticinquenne serbo ha preso uno sgabello e gli ha scagliato un violento colpo sulla testa. Quello è rimasto lì, immobile e tramortito. I responsabili dell’Infermeria hanno prestato i primi soccorsi ma subito si sono resi conto che sarebbe servito l’intervento del 118. soccorsi e ricovero - Medici e infermieri del Suem hanno constatato la gravità della situazione, optando per l’immediato trasporto in Neurologia. Il colpo ha causato una ferita profonda al cranio che potrebbe causare danni perenni se non addirittura la morte. Il venticinquenne è in coma, sedato nel reparto di terapia intensiva. È stato sottoposto ai primi interventi ma l’equipe medica ha rilevato fin da subito la complessità del caso. Le indagini - Ora si tratta di ricostruire il fatto nei dettagli, per avere una dinamica chiara dei fatti e, eventualmente, per individuare anche le responsabilità del caso. I primi atti sono stati fatti dagli agenti della Penitenziaria ma non è escluso che vista gravità della prognosi del ferito l’indagine non passi agli uomini della Squadra mobile. Se il quadro clinico sarà confermato è possibile che si proceda per il reato di tentato omicidio. Cosa è successo tra i due detenuti? Quali dissapori covavano? Come mai si trovavano entrambi in Infermeria? Tutte domande a cui qualcuno dovrà provare a rispondere. Vigilanza - Altro argomento sicuramente non meno importante è la vigilanza dei detenuti che per qualche motivo vengono accolti nell’Infermeria del Due Palazzi. In questo caso qualche automatismo è saltato, se un paziente è riuscito ad aggredire in quel modo un altro ricoverato. La vittima aveva precedenti penali per furto e altri “reati contro la persona”. Erano entrambi detenuti nella Casa di Reclusione, dove probabilmente l’odio si è alimentato fino al punto di non ritorno. Roma: reati in calo, ma si torna a sparare e aumenta la percezione di insicurezza di Cristiana Mangani Il Messaggero, 11 gennaio 2019 “Sparano, correte”. È successo ieri, alla Magliana, mentre i bimbi entravano all’asilo. Si è ripetuto al Casilino, mesi fa, tra la gente che urlava per una lite che è andata avanti a colpi di pistola per ben otto minuti. A Tor Bella Monaca, la stessa scena è avvenuta poco lontano da un centro commerciale, quando un italiano di 42 anni ha tentato di uccidere un ragazzo appena maggiorenne. Scene di ordinario Far West, in una città dove la percezione di insicurezza avvertita dagli abitanti è molto elevata, anche se si scontra con un numero di reati commessi in calo: 2,3 per cento in meno, secondo le stime del Viminale. Eppure, Roma, già afflitta da parecchi altri disagi, si trova sempre più spesso a dovere affrontare assalti e violenze, che riportano agli anni ‘80 e alle guerre tra bande. Le forze dell’ordine stanno saldando i conti con la criminalità organizzata, e hanno assestato diversi colpi contro i clan più famosi. Ma, paradossalmente, con i “boss” in carcere, spuntano i piccoli criminali o i malavitosi di turno, pronti a far valere la propria posizione di dominanza sul territorio. La Magliana, più di altre zone, sembra ormai terra di nessuno. Per qualche tempo, quello che rimaneva dei componenti della nota Banda, ha continuato a darsi da fare assestando “colpetti” qua e là, tra usura, droga ed estorsione. Mentre, in epoca recente, a Roma nord è caduto il potere di Massimo Carminati, e a Ostia il clan Fasciani, stroncato dalle inchieste giudiziarie e dai sequestri, ha lasciato per un po’ il posto agli Spada, a loro volta colpiti da esecuzioni e arresti. Più operazioni di polizia hanno decimato anche gli altri veri re di Roma, i Casamonica, i sinti che vantano nel sud-sud est della città, dalla Tuscolana fino ai Castelli - tra cugini, zii, parenti - oltre mille affiliati. A loro il clamore non è mai piaciuto, così come alle mafie organizzate. Tanto che dopo il funerale sfarzoso del capostipite con carrozze e petali di rosa lanciati da un elicottero, Salvatore Casamonica si è presentato dal titolare di un pub e gli ha detto: “Voi con ‘sta movida avete rotto. La gente fa rumore, così in piazza passano di continuo i carabinieri e i miei non possono più lavorare”. Sottinteso, con la droga. “Ora, siccome io non ci voglio rimettere. Me dovete dare ‘sti sordi. So’ 500 euro a settimana”. La città resta per loro una ricca, grande, indifesa riserva d’oro. Anche perché, alla fine, c’è spazio per tutti visto che, secondo l’ultimo monito raggio della Direzione nazionale antimafia, sarebbero 75 i clan grandi o piccoli insediati all’ombra del Cupolone. Senza contare che, al banchetto degli “affari sporchi”, quelli che arraffano di più sono sempre i siciliani, i calabresi, i napoletani, che convivono “serenamente” spartendosi la grande fetta dei locali, degli esercizi commerciali, della droga. “Nel corso degli anni - scrive la Commissione antimafia - le varie entità criminali avevano stipulato un patto di non belligeranza per evitare che, in caso di insorgenza di contrasti, i dissidi potessero degenerare in eclatanti guerre tra rivali, con il rischio di attirare l’attenzione degli inquirenti e di minare il clima di indisturbata serenità in cui da tempo operavano”. Le forze dell’ordine si sono date un gran da fare per bloccarne l’espansione. Ma sebbene la malavita romana appaia leggermente in affanno, se le istituzioni non riconquisteranno il territorio, il vuoto verrà occupato da altri. Proprio quello che i Casamonica e i loro emuli vogliono: aspettano che torni il silenzio per ricominciare a comandare. Bergamo: “Dolci sogni liberi”, un progetto che parte da lontano di Erica Balduzzi santalessandro.org, 11 gennaio 2019 Riscattarsi mettendo le mani in pasta. È quanto fanno i detenuti nel carcere di Bergamo, dal 2013 coinvolti nel progetto “Dolci Sogni Liberi” dalla Cooperativa Calimero. Per le feste natalizie appena trascorse, per la seconda volta, si sono cimentati con successo in un’impresa dolciaria non da poco: il panettone, dolce tradizionale natalizio e noto per la perizia che la sua preparazione richiede. Tra farina, zucchero e lievito madre, infatti, il progetto di pasticceria e panificazione all’interno della casa circondariale bergamasca punta a dare valore dal tempo della pena dei detenuti, e a farlo con l’insegnamento di un mestiere - quello della panificazione - tanto antico quanto nobile, capace di dare a queste persone una grande chance di riscatto e rinascita una volta usciti dal carcere. Il progetto “Dolci sogni liberi” all’interno del carcere bergamasco nel 2013, quando la cooperativa Calimero stipula un accordo con la direzione della Casa Circondariale di Bergamo per la presa in gestione degli spazi del forno, già presenti all’interno della struttura. Il forno era stato aperto grazie alla collaborazione con un’associazione di panificatori bergamaschi e con la cooperativa - attiva nell’ambito del reinserimento lavorativo dei detenuti con vari progetti - si è strutturato un vero e proprio progetto imprenditoriale autogestito, basato sui tre cardini di formazione, produzione e autosostentamento. Nasce così “Dolci sogni liberi”, laboratorio di pasticceria e panificazione che si basa su un concetto fondamentale: la dignità del lavoro come cardine per ricostruirsi una vita onesta, soddisfacente, di crescita e riscatto. Così “il detenuto dismette di vestire il ruolo della persona che espia una pena per rivestire il ruolo attivo di lavoratore per sé e per l’azienda”. Importante, per la riuscita del progetto, è la collaborazione biunivoca con realtà esterne al carcere come la cooperativa Equomercato di Cantù, che fornisce le materie prime provenienti da circuiti di commercio equo e solidale per la realizzazione dei prodotti e successivamente lo distribuisce sul territorio, in una filiera a tutto tondo che chiude il cerchio della solidarietà. Dopo le prime linee di biscotti secchi da pasticceria e di crackers e grissini, il laboratorio “Dolci sogni liberi” si butta sulla produzione conto terzi, sull’evoluzione del ramo della panificazione e sulla produzione di grandi lievitati, come colomba e panettone. Una sfida non da poco, che ha visto anche la consulenza di un mastro panettiere e un pasticcere come consulenti esterni, dal momento che per la preparazione del panettone è necessaria grande perizia e tempi precisi di lievitazione. Ma è anche stata una sfida vinta: l’anno scorso, i primi panettoni - distribuiti sul territorio bergamasco dalla Cooperativa Amandla - sono andati letteralmente a ruba. Prodotti con lavorazione manuale e con l’utilizzo di lievito madre, i panettoni sono stati un vero successo, apprezzati sia per la loro bontà che per il progetto da cui sono nati. La cooperativa ha botteghe a Bergamo, Seriate, Calusco d’Adda e Gazzaniga. Per imparare a preparare i panettoni sono stati ingaggiati un maestro panettiere e di un pasticciere che fungono da consulenti esterni. Tali figure servono a rafforzare il tema della continua formazione dei lavoratori e servono ogni qualvolta il laboratorio debba affrontare una nuova sfida. Il 2018 è stato l’anno in cui Dolci Sogni Liberi ha intrapreso anche la strada della distribuzione giornaliera collaborando con agenzie di catering e ristorazione collettiva, ristoranti, bar e piccole botteghe. Ad oggi all’interno del forno lavorano due detenuti ed un responsabile esterno assunti direttamente dalla cooperativa e tre detenuti ingaggiati con una “borsa lavoro” formativa. Gli orari su cui vertono le attività produttive sono prevalentemente al mattino visto il tipo di commesse. L’evoluzione naturale del progetto è: la creazione di una linea di prodotti salati (cracker e grissini) che sposano lo stesso concetto sopradescritto. Si rafforza inoltre il radicamento con il territorio bergamasco grazie alla commercializzazione dei propri prodotti dalla Cooperativa Amandla. Si dispone altresì dell’elasticità concessa dalla Direzione della Casa Circondariale per poter lavorare durante l’arco dell’intera giornata. Il progetto è a norma con tutte le regolamentazioni di carattere igienico-sanitario (Haccp), la Scia, corsi sulla sicurezza, primo intervento e confezionamento di generi alimentari. Il percorso battezza la propria attività con la creazione di una linea di biscotti secchi da pasticceria e un partenariato con la Cooperativa Equo-mercato di Cantù. La relazione è di carattere biunivoco poiché questa seconda realtà funge da fornitore di materie prime del circuito del “commercio equo e solidale” e allo stesso tempo da distributore sul territorio nazionale dei prodotti. Una filiera a tutto tondo che riesce a “chiudere il cerchio”. Roma: “Sarà presente l’autore”, esperienze di laboratori culturali nelle carceri wegil.it, 11 gennaio 2019 Mercoledì 16 e giovedì 17 gennaio il Garante per i detenuti della Regione Lazio e il Consiglio Regionale del Lazio organizzano al Wegil l’evento “Sarà presente l’autore”, due giorni di incontri per raccontare le esperienze maturate nell’utilizzo dei laboratori culturali nelle carceri del Lazio. Per chi è detenuto nelle carceri, i laboratori di teatro, di scrittura e di arte in genere sono un’occasione di elaborazione critica del proprio vissuto, di conoscenza personale, crescita culturale e potenziamento della propria espressività. Raccontarli “fuori” può essere strumento di mediazione e di una diversa comprensione delle realtà della detenzione, troppo spesso rappresentata con preconcetti e luoghi comuni. Il 16 gennaio alle ore 15 si terrà la conferenza di Apertura alla presenza di Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà, Francesco Basentini, Capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Albino Ruberti, Capo Gabinetto del Presidente della Regione Lazio, lo scrittore Edoardo Albinati e l’attore Valerio Mastandrea. Durante l’evento si alterneranno spettacoli teatrali, degustazioni enogastronomiche, letture itineranti e proiezioni di video realizzati per raccontare le storie dei detenuti e delle detenute che hanno partecipato ai laboratori culturali. All’evento partecipano associazioni, enti, scuole, compagnie teatrali e istituto penitenziari che hanno preso parte all’iniziativa. Foggia: un convegno su lotta alla mafia e storia su testimoni di giustizia immediato.net, 11 gennaio 2019 “Il cammino della legalità”. L’incontro in programma domani alle 17 a Palazzo Dogana è organizzato dall’associazione culturale Forza Foggia. “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Da questa frase di Giovanni Falcone l’associazione culturale Forza Foggia ha tratto spunto per organizzare un incontro volto a comprendere meglio il fenomeno mafioso. Purtroppo, quella della criminalità organizzata è una piaga costante, non solo perché trasmette insicurezza nella collettività, ma anche perché condiziona il tessuto economico e imprenditoriale del nostro territorio. Di mafia e legalità, quindi, si parlerà nel convegno che l’associazione culturale Forza Foggia ha organizzato per venerdì 11 gennaio 2019 alle 17 dal titolo “Il cammino della legalità - Storie di lotta alla mafia, ruolo dei testimoni di giustizia e confisca dei beni” che si terrà presso la sala del Tribunale della Dogana presso Palazzo Dogana. Protagonisti dell’incontro saranno due indiscussi personaggi di primo piano nella lotta alla criminalità negli scorsi decenni: Sergio Lari, che ha da poco concluso la sua carriera di Procuratore Generale della Repubblica di Caltanissetta, già componente del Csm. Nel corso della sua carriera, dedicata interamente alla lotta alla mafia, è stato anche al fianco di Falcone (di cui era amico personale). Inoltre, ha ricoperto il ruolo di Giudice a Palermo proprio ai tempi delle stragi del 1992, episodi su cui ha indagato personalmente una volta giunto a Caltanissetta. L’altro è Piernicola Silvis dal 2014 al 2017 Questore di Foggia, uno dei più attenti conoscitori delle varie conformazioni e manifestazioni della cd. “quarta mafia”. Con i loro racconti saranno analizzate e confrontate due forme di criminalità organizzata diverse tra loro ma accomunate dal carattere della pericolosità. Inoltre, sarà affrontato, anche da un punto di visto giuridico-normativo, il ruolo e la figura dei testimoni di giustizia, la cui disciplina è stata oggetto di una profonda revisione con la Legge 6/2018, emanata esattamente un anno fa (l’11 gennaio 2018). Inoltre, verrà analizzato anche l’importante istituto della confisca dei beni. Su questi aspetti interverranno con competenza e autorevolezza Paolo D’Ambrosio, Presidente dell’associazione “Avvocati Penalisti” di Foggia, e Giuliano Sereno, dell’Associazione “Libera. Nomi e numeri contro le mafie”. Moderatore dell’incontro sarà il giornalista Luca Maria Pernice. L’occasione sarà utilissima per la cittadinanza per meglio comprendere i tratti distintivi di un fenomeno che può essere combattuto solo se meglio analizzato. Lanciano (Ch): “Togliamoci la maschera”, il teatro arriva in carcere zonalocale.it, 11 gennaio 2019 Rassegna teatrale nella casa circondariale, primo appuntamento il 20 gennaio. Nell’ambito della stagione teatrale del Comune di Lanciano, è inserita anche la Rassegna “Togliamoci la Maschera” a cura dell’associazione culturale “Il Ponte” e del Teatro Studio Lanciano/Vasto che si terrà, a partire dal prossimo 20 gennaio 2019, nel “Piccolo Teatro Fenaroli” ubicato all’interno della Casa Circondariale di Lanciano a Villa Stanazzo. L’iniziativa, oltre che essere un dedicato alla cultura ed al teatro, tende soprattutto a valorizzare il programma di socializzazione tra detenuti e comunità esterna, e l’incremento delle attività culturali all’interno della Casa Circondariale. Agli spettacoli, infatti, come pubblico parteciperanno sia i detenuti della Casa Circondariale che il pubblico esterno composto da 50 spettatori. Per partecipare all’iniziativa occorre acquistare un abbonamento ai cinque spettacoli in programma (che si terranno sempre di domenica pomeriggio con inizio alle ore 16) al negozio Partymania in via Monte Grappa 11 al prezzo di 40 euro. Con l’abbonamento si è autorizzati all’ingresso in carcere già a partire dalle 15.30, muniti di carta di identità. La rassegna si concluderà il 26 maggio 2019 al teatro Fenaroli con la messa in scena della commedia L’Avaro di Moliere ad opera della Compagnia Teatrale “Il Ponte per la libertà” composta dai detenuti del penitenziario lancianese, grazie anche al contributo del Rotary Club di Lanciano. Le Compagnie che si esibiranno lo faranno a titolo gratuito in modo che tutto il ricavato dalla vendita degli abbonamenti sarà destinato alle attività trattamentali a carattere culturale che si svolgono all’interno della Casa Circondariale di Lanciano. Partecipare a questa iniziativa non vuol dire soltanto andare a vedere uno spettacolo in un luogo diverso da quello del teatro, ma offrire solidarietà e vicinanza a chi sta vivendo un particolare momento della propria vita. Taranto: sport in carcere, trenta detenuti per il progetto del Coni Corriere di Taranto, 11 gennaio 2019 Ben trenta detenuti e detenute si sono cimentati rispettivamente nelle attività di pallavolo e ginnastica, registrando grande l’entusiasmo fra i partecipanti. É il frutto del progetto denominato “Sport in carcere”, rivolto ai detenuti della casa circondariale “C. Magli” di Taranto, realizzato dal Coni nel 2018. Anche quest’anno il progetto - autorizzato dalla magistratura di sorveglianza di Taranto - ha avuto il pieno appoggio della direzione dell’istituto penitenziario, la dottoressa Stefania Baldassari, e naturalmente del suo staff. Il progetto si è svolto fra ottobre e dicembre ed ha coinvolti istruttori qualificati, rispettivamente, della Federazione Italiana Pallavolo e della Federazione Ginnastica d’Italia. “Il principale scopo dell’iniziativa giunta alla quarta edizione - ricorda il Coni - non è stato solo quello di prevenire patologie legate ad uno stile di vita sedentario, ma soprattutto concorrere a promuovere il recupero del detenuto, che attraverso lo sport ha modo di “toccare con mano” non solo una condizione di migliore benessere fisico, ma anche di percepire sul campo valori importanti come la lealtà, il rispetto delle regole e l’impegno teso al conseguimento di un risultato, fondamentali nel vivere civile”. “La paranza dei bambini”, dal libro di Saviano il film in concorso a Berlino La Repubblica, 11 gennaio 2019 Il film di Claudio Giovannesi (“Fiore”) se la vedrà, tra gli altri, con la decana Agnes Varda, Agnieszka Holland, Hans Petter Moland, Isabel Coixet e il debutto da regista dell’attore Chiwetel Ejiofor. Il film tratto dal romanzo di Roberto Saviano “La paranza dei bambino” di Claudio Giovannesi è in concorso a Berlino. Il film è stato girato a Napoli la scorsa estate e vede nel cast principale giovani ragazzi dei quartieri di Napoli che non hanno mai recitato prima. Sei quindicenni - Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò - vogliono fare soldi, comprare vestiti firmati e motorini nuovi. Giocano con le armi e corrono in scooter alla conquista del potere nel Rione Sanità. Con l’illusione di portare giustizia nel quartiere inseguono il bene attraverso il male. Sono come fratelli, non temono il carcere né la morte, e sanno che l’unica possibilità è giocarsi tutto, subito. Nell’incoscienza della loro età vivono in guerra e la vita criminale li porterà ad una scelta irreversibile: il sacrificio dell’amore e dell’amicizia. Non è la prima collaborazione tra Saviano e Giovannesi che ha diretto alcuni episodi della seconda serie di Gomorra, Saviano è cosceneggiatore del film. Prodotto da Palomar con Vision Distribution, il film uscirà nelle sale il 13 febbraio con Vision Distribution. Il film di Giovannesi si scontrerà per l’Orso d’oro con la decana Agnes Varda (che presenta il documentario autobiografico Varda par Agnès, Agnieszka Holland, Hans Petter Moland, Isabel Coixet (Elisa y Marcela). Ma c’è anche un altro po’ di Italia a Berlino. Nella sezione Panorama saranno presentati il film Dafne, opera seconda di Federico Bondi e il documentario Selfie di Agostino Ferrente. Ambientato nel rione Traiano di Napoli, questo lungometraggio affianca perfettamente “La paranza dei bambini”, tracciando in modo insolito ma modernissimo, uno spaccato dell’adolescenza al tempo di camorra. Il nuovo progetto di Irene Dionisio, dopo la felice affermazione critica di “Le ultime cose”, La voce di Arturo, prodotto da Vivo film, è stato selezionato sia da Berlinale Talents che da Script Station. Il debutto da regista dell’attore Chiwetel Ejiofor sarà presentato nel Berlinale Special. La faglia sociale che alimenta il razzismo di Davide Conti Il Manifesto, 11 gennaio 2019 Per la prossima Giornata della Memoria la presidente dell’Unione comunità ebraiche italiane, Noemi di Segni, ha presentato un ricco programma di eventi. Al suo fianco il sottosegretario leghista alla presidenza del Cdm Giorgetti. Che si è detto “preoccupato” dall’aumento del fenomeno razzista in Italia, “dimentico” del conflitto politico-istituzionale sullo sbarco dei migranti della Sea Watch Italia osteggiato dal ministro degli Interni e capo del suo partito. La memoria invece è una cosa importante, per questo occore riflettere sulla crisi politica, sociale, culturale e del diritto che attraversa da oltre un decennio il presente delle nostre società contemporanee. Che ha portato, nel quadro della più generale crisi della democrazia, alla riemersione di istanze denominate, a seconda dei contesti, “populiste” o “sovraniste” o “illiberali” che si compongono dell’armamentario storico dell’antisemitismo e delle forme di discriminazione etnico-razziali, sociali, di genere, omofobe, religiose o culturali. Questi fattori però non hanno mai cessato di essere presenti nel corpo delle democrazie mature. Il sistema istituzionale (nazionale e sovranazionale europeo) e la società politica (i partiti e le classi dirigenti post-89) operarono un processo di sostanziale inclusione ed assorbimento di questi fattori all’interno dello spazio pubblico con l’idea di “normalizzarne” la codificazione in un sistema ad egemonia liberale. La risultante definitiva è stata un largo conferimento di cittadinanza alle spinte più retrive nel “nuovo” contesto globale post-89, nel nome di una malintesa idea di democrazia interpretata non come processo di emancipazione delle masse dentro la società complessa ma come spazio individualistico declinato, per sua natura, su una singolarità sconnessa con l’insieme. La loro riemersione rappresenta un sintomo visibile della natura e della misura della crisi della democrazia liberale più ancora che di un ritorno del fascismo nei termini storici che ne hanno caratterizzato la composizione all’interno della modernità novecentesca. Quando ai termini della crisi sociale si sono aggiunti quelli delle crisi umanitarie la ridotta capacità di relazione, sintesi e indirizzo dei sistemi liberali e delle loro classi dirigenti ha prodotto una rottura profonda tra rappresentati e rappresentati minando una delle basi fondamentali della democrazia delegata e fornendo una radice d’origine alla ricomposizione di movimenti disintermediati e plebiscitario-leaderistici. Storicamente fu l’antifascismo ad incaricarsi della costruzione di un perimetro largo ed inclusivo impiantato su una discriminate fondativa nata nel fuoco della seconda guerra mondiale. Alla “ragione delle idee” si affiancò però anche “la forza delle cose”. Non ci si limitò agli appelli ai valori o all’agitazione di spettri di ritorno del fascismo. Si operò col lavoro, i diritti e l’istruzione per associare milioni di persone al nesso libertà-democrazia-collettività. Di fronte alla crisi delle tradizionali “famiglie politiche” e soprattutto delle classi dirigenti economiche, sulle cui spalle gravano le responsabilità principali della crisi di legittimazione patita oggi dalla democrazia, il rischio più grave è rappresentato dal rovesciamento semantico della relazione causa-effetto. Il riflesso condizionato dei comportamenti dei ceti popolari non deve essere scambiato come base di massa di forze e movimenti regressivi. Su queste classi subalterne sono stati rovesciati il peso, il dramma e l’umiliazione della crisi del modello unico delle democrazie liberali e dell’esaurimento del suo ciclo storico espansivo-liberista. Le periferie urbane, sociali, culturali e politiche delle nostre società non possono essere tacciate di qualunquismo, fascismo e razzismo solo perché hanno smesso di votare per la sinistra di mercato. Quelle periferie sono sole da anni e lo sono anche ora che i populisti governano. È da questa solitudine e dalle umiliazioni patite nella crisi che emergono dal loro corpo profondo quelle manifestazioni retrive che tanto spaventano e allarmano. È in quelle faglie sociali che vanno infilate le mani della politica e della cultura, per sottrarre alle destre il consenso della paura e per destrutturare alla base il suo modello di società categoriale che divide i titolari dei diritti sulla base di dualità orizzontali confliggenti (nativi/immigrati; uomini/donne; omo/eterosessuali). Difficilmente saranno gli esorcismi liberali a ripararci dal ritorno degli spettri pericolosi del passato. Necessario, invece, l’esercizio di una legittima prassi di disconoscimento della società diseguale come formazione reale di anticorpi democratici. Migranti. A Bruxelles gli eurodeputati di Salvini contraddicono Salvini di Alberto Magnani Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2019 “Otto o ottantotto, non autorizzerò nessuno a entrare in Italia”. Il vicepremier Matteo Salvini ha messo in chiaro, da subito, che l’Italia non rientrerà fra i paesi Ue chiamati a dividersi l’accoglienza dei49 migranti intrappolati per 22 giorni nel Mediterraneo. Un caso che ha scatenato frizioni interne con i Cinque stelle e aperto l’ennesimo fronte fra Roma e le istituzioni europee. “A Bruxelles - ha scritto Salvini su Twitter - fanno finta di non capire e agevolano il lavoro di scafisti e Ong”. Nulla di inedito. Se non fosse che proprio i rappresentanti della Lega a Bruxelles hanno remato contro quando si è trattato di riformare, in sede europea, i meccanismi di accoglienza sfavorevoli al nostro paese. L’Italia del governo gialloverde è fra i paesi che hanno affossato la revisione del regolamento di Dublino, il testo che scarica quasi tutte le responsabilità di asilo sul paese di primo sbarco. Sia direttamente, votando contro la sua approvazione, sia indirettamente. La Lega, ha denunciato più volte l’eurodeputata italiana Elly Schlein, non ha mai partecipato alle 22 riunioni negoziali per discutere una proposta di riforma che avrebbe previsto, fra le altre cose, l’eliminazione del principio di prima accoglienza (la regola che impone di inoltrare la domanda di asilo nel paese dove si approda, anche quando si è intenzionati a migrare altrove). L’ipotesi di un nuovo impianto legislativo è sempre risultata indigesta al blocco dei paesi dell’Est, contrari a qualsiasi apertura di accoglienza per migranti sbarcati sulle coste a sud del Continente. A quanto pare anche all’Italia e al governo di Salvini, volato ieri a Varsavia per saldare un’intesa in chiave elettorale fra le varie sigle nazionaliste europee. La Lega, iscritta al gruppo di destra populista Europa delle Nazioni e della Libertà (Efn, lo stesso di Alternative für Deutschland e il Raggruppamento nazionale di Marine Le Pen), è arrivata nel 2014 a Bruxelles con un totale di cinque eurodeputati: Matteo Salvini (sostituito nel 2018 da Danilo Oscar Lancini), Lorenzo Fontana (rimpiazzato sempre nel 2018 da Giancarlo Scottà), Gianluca Buonanno (scomparso nel 2016 e sostituito da Angelo Ciocca, diventato noto per aver calpestato la lettera di Bruxelles all’Italia), Mara Bizzotto e Mario Borghezio. Alle europee del 2019, secondo le stime della testata Politico, potrebbe esplodere fino a un picco di 27 seggi: sopra ai 23 proiettati per il Movimento cinque stelle e i 15 del Pd, una fra le tante sigle del centrosinistra trascinate al ribasso dalla crisi che sta sgretolando la coalizione europea dei socialdemocratici. Il suo consenso non ha fatto altro che lievitare nei primi mesi di governo, alimentandosi anche nei bracci di ferro ingaggiati con l’Europa sul tema dell’immigrazione. A parole, almeno, perché il bilancio dei fatti è un po’ più scarno. Da un lato la retorica della “chiusura dei porti” sembra esercitarsi solo con le organizzazioni non governative, visto che nell’arco di cinque mesi si sono registrati oltre 3.200 sbarchi (359 solo a dicembre). Dall’altro, come scritto sopra, il partito ha deciso di tenersi al di fuori dei tentativi di riforma del cosiddetto Dublino III, un impianto preso di mira anche dal contratto del cambiamento siglato fra Lega e Cinque stelle. In che senso la Lega ha “saltato a piè pari” i lavori per la riforma, come ribadisce Schlein al Sole 24 Ore? Facciamo un passo indietro. Nel 2016 la Commissione, il motore legislativo della Ue, ha proposto una riforma del sistema di protezione internazionale per superare la legislazione vigente. Nel 2017 il testo è passato al Parlamento, secondo l’iter che prevede l’esame da parte del parlamento stesso e del Consiglio europeo. L’assemblea, sempre secondo la prassi, ha nominato a sua volta una relatrice (la liberale Cecilia Wikström), responsabile per l’elaborazione di un progetto di relazione con emendamenti al testo dei commissari. Il lavoro del relatore è affiancato in questi casi da una serie di relatori ombra (shadow rapporteur), in genere indicati da ciascun gruppo parlamentare per difendere le proprie posizioni e avanzare emendamenti. Vista la posta in palio, le trattative hanno richiesto un totale di ben 22 round di negoziati. Al tavolo hanno presenziato anche deputate dei Cinque stelle (Laura Ferrara, in rappresentanza del gruppo europeo di appartenenza del suo partito: Europa della Libertà e della Democrazia Diretta) e di destra (Alessandra Mussolini, all’epoca tra le file di Forza Italia e del Partito popolare europeo). Ma fra le assenze più clamorose si è registrata proprio quella della Lega:?la sua famiglia politica europea, Efn, non ha espresso alcun relatore ombra, disertando così l’intero lavoro di riforma della questione migratoria. Come ha registrato anche Pagella Politica, un blog di fact-checking, gli unici emendamenti in quota leghista sono arrivati dall’attuale ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, eletto all’europarlamento prima della convocazione nel governo di Giuseppe Conte. Un suo portavoce ha dichiarato, sempre a Pagella Politica, che la scelta di non presenziare va attribuita al gruppo politico europeo e non alla Lega. “Ma è una posizione assurda - dice al Sole 24 Ore l’eurodeputata Elly Schlein - si parla di una riforma su un tema core e non ti presenti? Posso capire la Francia della Le Pen, a cui va benissimo che non ci siano solidarietà sul primo sbarco. Ma l’Italia?”. L’assenza della Lega si è confermata anche il giorno del voto, il 16 novembre 2017, quando il Parlamento ha dato il via libera alla proposta del Parlamento con 390 sì, 175 no e 44 astenuti. Fra le “schede bianche” c’erano quella di Fontana e di tutti gli eurodeputati leghisti, mentre fra i voti contrari spiccano quello di un futuro alleato di governo: i Cinque stelle. Nonostante la presenza di Ferrara fra i relatori-ombra, il movimento ha bocciato la proposta di riforma del parlamento. Raggiunto dal Sole 24 Ore, un portavoce del Movimento cinque stelle ricorda che il gruppo si è espresso contro la riforma perché penalizzata da “troppi filtri che appesantiscono la procedura e mettono un peso eccessivo sugli Stati membri di primo arrivo”. La posizione è ribadita anche dall’europarlamentare Ignazio Corrao, con un post su Facebook che difende la linea del Cinque stelle. Assestando, però, anche un ceffone agli alleati di governo: “L’accusa di Elly Schlein sul fatto che la Lega è stata assente a tutti i 22 incontri per riformare i regolamento di Dublino si basa su fatti assolutamente veri - ha scritto - Così come è assolutamente vero e dimostrabile che in generale la Lega (tra cui Salvini che è stato eurodeputato per tanti anni e fino a qualche mese fa), non partecipa ai lavori legislativi qui al Parlamento Europeo”. Del resto, “l’astensione attiva” della Lega sulla riforma del sistema di asilo si sposa con le scelte di alleanze dispiegate in vista delle europee. Il 9 gennaio Matteo Salvini ha annunciato da Varsavia “l’inizio di un dialogo” con il partito di destra polacco Diritto e Giustizia, primo tassello di un progetto di intese internazionali con le forze sovraniste del Vecchio continente. Salvini coltiva da tempo un certo feeling con il primo ministro ungherese Viktor Orban, leader ideale del blocco di Visegrad e dei partiti nazionalisti che predicano la chiusura delle frontiere. Il paradosso è che uno dei principali collanti fra i due, l’ostilità all’immigrazione, si declina su esigenze del tutto incompatibili: Salvini chiede una maggiore solidarietà dell’Europa, Orban non ha nessuna intenzione di aprire le sue frontiere ai migranti sbarcati nei paesi di primo approdo (e ha occasionalmente bacchettato l’Italia sul rispetto dei parametri di bilancio Ue). Eppure l’Italia resta allineata a Budapest, anteponendo alle sue stesse esigenze l’ostilità in comune ai “burocrati di Bruxelles”. In una eventuale alleanza sovranista, uno dei punti più fragili finirebbe così per essere quello sui migranti. L’Italia, dove gli sbarchi sono comunque in caduta libera, lamenta la scarsa cooperazione dell’Europa nella gestione degli ingressi. I paesi candidati all’alleanza sovranista, dall’Est al Nord Europa, non hanno concesso spiragli neppure sulla ridistribuzione di quote di migranti in eccesso dai paesi più esposti. Prostituzione. La tratta di sesso e organi di Francesca Coleti* Il Manifesto, 11 gennaio 2019 L’indagine dell’Fbi sui flussi di denaro tra Stati Uniti e Castelvolturno (Caserta) apre un nuovo capitolo sul racket della prostituzione. Che la nuova legge sulla sicurezza rischia di favorire. L’indagine dell’Fbi sui flussi di denaro tra Castelvolturno (Caserta) e gli Stati Uniti per il traffico di organi di ragazze che, dopo lo sfruttamento sessuale da parte della mafia nigeriana diventano vittime di espianto, lascia sbigottiti. Si apre così in Campania un capitolo che fino ad oggi nessuna donna fuggita dal racket aveva mai denunciato. La recrudescenza del traffico di ragazze dall’Africa e dall’est Europa verso l’Italia ha anche portato a Napoli giorni fa la Commissione del Parlamento Europeo sui Diritti delle Donne, che ha incontrato tra gli altri la rete del progetto “Fuoritratta”: Dedalus, Arci, cooperativa Eva e suore di Casa Ruth. L’Italia, che ha il primato storico di aver strutturato un sistema antitratta nazionale basato su percorsi di riconoscimento delle vittime di tratta e schiavitù, oggi scivola sulla criminalizzazione delle donne a vantaggio delle mafie internazionali e locali che hanno trovato nuovi metodi di vessazione e sfruttamento, più sofisticati e remunerativi. La nuova legge sulla sicurezza ed i sempre più invasivi daspo urbani spingono le ragazze dalle strade alle case chiuse. Appartamenti, a volte alberghi, talora gestiti dai medesimi personaggi legati ai Cas - Centri di accoglienza straordinaria che le norme di Salvini hanno lasciato indenni a scapito dell’accoglienza di qualità di Comuni e terzo settore - dove si consumano spesso prestazioni violente. L’assoggettamento delle vittime è maggiore ed il guadagno cresce. Qui le unità mobili degli operatori di strada non possono arrivare. E allora cambia il modo di lavorare, con appostamenti da spy stories fuori dai Cas e dagli hotel. Lo scorso anno, nel sistema italiano anti-tratta sono state accolte più di 1800 donne. Nigeriane, rumene, marocchine. Oggi sulle strade interne tra i tempi di Paestum e la reggia di Caserta è possibile incontrare donne albanesi e coreane, trafficate in Italia attraverso la Russia. Un nuovo segmento di business appetibile per quelli che non vogliono la pelle nera e sono disponibili a pagare di più. Cambiano i gusti e cambia l’offerta del mercato. Ciò non ha bloccato però la tratta africana. Semplicemente per pagare il debito, le ragazze nigeriane devono lavorare molto di più. Con il costo delle prestazioni sceso anche sotto i dieci euro, un riscatto che oscilla tra i 35mila ed i 60mila euro significa anni di schiavitù. Una madre con bambino in casa protetta, con assistenza sanitaria, legale, formazione linguistica, scolastica ed inserimento lavorativo costa allo Stato circa 15 mila euro. Poi ci vuole il tempo. Un percorso reale fino all’autonomia ha bisogno di almeno due anni. I permessi di soggiorno per vittime di tratta però sono molto più brevi, ed offrono quindi poche garanzie alle donne che intraprendono queste scelte, e che rischiano la vita propria e dei parenti a casa. Assistiamo alle telefonate di ricatto, agli avvertimenti mafiosi sull’incolumità di madri e figli. Una garanzia maggiore da parte dello Stato con permessi speciali più lunghi permetterebbe di lavorare meglio. Far perdere le tracce dei bambini lasciati in Nigeria, trasferendoli presso ong di circuiti sicuri, creare le condizioni per l’autosostentamento delle donne, accompagnare i ricongiungimenti familiari, non si fa in un anno. Lo Stato ci guadagna in legalità e sicurezza: 50 mila euro in media sottratti alle mafie internazionali, altrimenti reinvestiti in droga ed armi, per ogni vittima fuggita; tutela della salute pubblica rispetto alle malattie sessualmente trasmissibili che i clienti diffondono nelle loro ignare famiglie; una spallata alla camorra che affitta camere e prende il pizzo sulle piazzole ai bordi delle strade, che secondo l’Arci fruttano almeno 300 mila euro al mese. È un’intera terra di mezzo quella che gira attorno all’economia degradata dello sfruttamento. Aguzzini e vittime talvolta possono confondersi, trasformarsi indossando gli uni i panni degli altri, perdersi o addirittura liberarsi a vicenda. È “Il vizio della speranza”, evocato da Edoardo De Angelis, che nel suo portato allegorico e fantastico non tradisce il racconto verosimile di un mondo sommerso che può emergere solo attraverso una cultura che emancipi dallo sfruttamento, prostituzione e lavoro, dando dignità al territorio abusato, non solo dai rifiuti delle discariche e dell’umanità violentata, ma dalla retorica del decoro e della sicurezza, che spinge ancora di più ai margini. Una conseguenza è che trovare oggi chi è disponibile ad affittare casa a donne e richiedenti asilo, nonostante un mercato immobiliare sempre più depresso, è difficilissimo. Ogni donna trafficata porta un progetto migratorio, un’ambizione di emancipazione che vessazioni e violenze non riescono a spegnere mai completamente. Vanno allora rilanciate le politiche di riduzione del danno, i servizi a bassa soglia e le misure di sostegno al reddito contro le povertà, per tutti. La lotta alle mafie si fa scommettendo sulle persone e sui diritti. Discriminare, è il miglior modo di favorirle. *Presidenza nazionale Arci Stati Uniti. Il muro con il Messico, per Trump un simbolo a ogni costo di Paolo M. Alfieri Avvenire, 11 gennaio 2019 Con un’economia che mostra segni di rallentamento e con una Camera in mano ai democratici, il presidente vuole portare a casa una vittoria-chiave da vendere all’elettorato. Sempre più un uomo solo al comando. Sempre più un uomo con le spalle al muro. Abituato al costante pubblico elogio da parte del suo entourage, Donald Trump fa i conti con una squadra che nel momento della verità, sulla cruciale questione immigrazione, va scansandosi, lasciando il capo a un solitario battage mediatico. Con un’economia che mostra segni evidenti di rallentamento e con un Congresso che vede ora i democratici in maggioranza alla Camere, Trump sa di dover portare a casa il risultato-simbolo almeno sul dossier del muro al confine, in un anno che farà da trampolino di lancio per la campagna per la rielezione alla presidenza del 2020. È alla Casa Bianca che l’opinione pubblica americana sta imputando lo stallo sullo “shutdown”, la serrata delle attività governative che costa ogni giorno da tre settimane lo stipendio a 800mila persone e che Trump vede come moneta di scambio per ottenere i 5,6 miliardi di dollari necessari a costruire il muro al confine. I democratici non hanno nessuna urgenza di cambiare tattica e accusano il presidente di usare i dipendenti pubblici come leva per i suoi obiettivi politici. La risposta di Trump è nell’alzare i toni: sa che fa presa parlare di “crisi di sicurezza”, di un’equazione tra immigrazione e crimine. E quasi metà degli elettori americani, ha sottolineato ancora ieri un’indagine di Politico-Morning Consult, è davvero convinta che alle frontiere degli Stati Uniti ci sia un’emergenza, una vera e propria crisi. Una vittoria sul fronte muro tornerebbe a far brillare il marchio Trump. Il presidente sta ancora faticando a trovare il nuovo capo del Pentagono dopo l’addio di Jim Mattis, che ha lasciato per disaccordi su questioni chiave come il ritiro dalla Siria. Per quella che è una delle poltrone più influenti dell’Amministrazione, Trump ha già ricevuto due no. E presto potrebbe perdere di nuovo il suo capo dello staff: Mick Mulvaney, nominato di recente, sembra già orientato a lasciare. Una boccata d’ossigeno è arrivata per Trump dalla crescita dei posti di lavoro negli Usa: ne sono stati creati 312mila a dicembre e sono saliti anche i salari. Ma il rallentamento evidente della produzione industriale, la crisi dei mercati finanziari e la guerra dei dazi con la Cina aprono scenari economici preoccupanti per il nuovo anno. Viste le prospettive, la Fed, che era pronta ad alzare tre volte i tassi nel 2019, potrebbe lasciarli invariati, facendo felice Trump. Che però vuole qualcosa di ancora più tangibile, più visibile, più filmabile da vendere al grande pubblico. E un muro di cinque metri, quello sì che è perfetto. Stati Uniti. Guantánamo, dopo 17 anni prosegue lo scempio dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 gennaio 2019 L’11 gennaio 2002 il primo di 779 sospetti terroristi entrò a Guantánamo Bay. Da allora, il centro di detenzione militare statunitense in territorio cubano è diventato il simbolo di un sistematico attacco ai principi fondamentali del diritto internazionale dei diritti umani. Aperto sotto la presidenza di George W. Bush, non chiuso nonostante le promesse da Barack Obama, rivendicato orgogliosamente da Donald Trump, colui che sostiene che la tortura sia accettabile, il centro di Guantánamo è destinato a rimanere aperto, almeno finché ospiterà detenuti. Nonostante sotto le ultime tre amministrazioni siano stati rilasciati quasi 750 prigionieri (circa 500 sotto Bush, 242 sotto Obama e uno sotto Trump), a Guantánamo ne restano ancora 40, tutti detenuti da oltre 10 anni. Per cinque di loro è stato approvato il rilascio (nel caso di Toffiq al-Bihani da ben nove anni!) ma l’amministrazione Trump non si fida a rimandarli nel paese di origine o non trova un paese disposto ad accoglierli. Altri 26, invece, considerati troppo pericolosi, sono destinati a rimanere reclusi a tempo indeterminato senza accusa né processo. Guantánamo è l’esempio più evidente del fallimento delle politiche anti-terrorismo basate sulle leggi eccezionali e sulla violazione dei diritti umani. Dall’11 settembre 2001 i tribunali ordinari federali statunitensi hanno condannato per terrorismo oltre 660 persone, le commissioni militari che operano a Guantánamo solo otto. Non si può proprio dire, dunque, che Guantánamo sia stato lo strumento migliore per assicurare giustizia ai sopravvissuti agli attacchi alle Torri gemelle e ai parenti delle vittime. In compenso, al “contribuente americano”, Guantánamo sta costando 445 milioni di dollari all’anno, oltre 10 milioni di dollari a detenuto. Tenere un detenuto in una prigione federale di massima sicurezza costa 78.000 dollari all’anno. Soldi buttati, che avrebbero potuto essere investiti in serie politiche di sicurezza senza sacrificare i diritti umani. Iran. Otto donne condannate alla lapidazione nessunotocchicaino.it, 11 gennaio 2019 Otto donne sono state condannate alla lapidazione in Iran, riporta il quotidiano Etemad-Meli, aggiungendo che le donne stanno già scontando delle pene detentive. “Due di loro sono attualmente recluse nel carcere Evin di Teheran, due nel carcere di Sipedar nella città sud-occidentale di Ahwaz, una nella città settentrionale di Tabriz, una a Varamin, una nel carcere di Chobin nella città occidentale di Qazvin e una nel carcere di Orumieh nell’Iran nord-occidentale”. Per la Presidente del Comitato femminile della Resistenza Iraniana, Sarvnaz Chitsaz, il regime dei mullah ha tutte le intenzioni di continuare ad attuare questa pena particolarmente crudele, per creare il terrore tra la gente. La Chitsaz chiede quindi alle Nazioni Unite e alle organizzazioni per i diritti umani, così come agli attivisti per i diritti delle donne, di condannare i crimini del regime e di adottare misure per mettere fine a queste pratiche così disumane. Birmania. Confermata la condanna a 7 anni per due giornalisti della Reuters La Stampa, 11 gennaio 2019 Stavano facendo un reportage sul massacro dei musulmani Rohingya, sono accusati di aver violato il segreto di Stato. Due giornalisti di Reuters condannati a sette anni per aver violato il segreto di Stato in Birmania mentre facevano un reportage sul massacro dei musulmani Rohingya hanno perso il ricorso in appello. “Il verdetto di primo grado non era sbagliato ed era conforme alle leggi in vigore, il tribunale decide di respingere l’appello”, ha detto Aung Naing, giudice dell’Alta corte regionale di Yangon. I reporter Wa Lone, 32 anni, e Kyaw Soe Oo, 28 anni, sono stati arrestati a Yangon nel dicembre 2017 e in seguito incarcerati per aver violato segreti di stato, un’accusa pretestuosa, secondo Reuters. I pubblici ministeri hanno sostenuto che i due avevano informazioni riservate sulle operazioni di sicurezza nello Stato di Rakhine, da dove centinaia di migliaia di musulmani Rohingya sono fuggiti durante una repressione condotta dall’esercito che le Nazioni Unite hanno definito “pulizia etnica”. Gli avvocati dei giornalisti possono ora fare appello alla Corte suprema birmana, un processo che potrebbe richiedere circa sei mesi. Bahrein. Il Governo respinge appello dell’Onu per liberazione oppositore politico Askanews.it, 11 gennaio 2019 Il Bahrein ha respinto un appello delle Nazioni Unite a liberare l’oppositore e difensore dei diritti umani Nabeel Rajab, condannato a cinque anni di reclusione per tweet di denuncia sulla guerra in Yemen e presunti casi di tortura nelle carceri del Paese. La dichiarazione delle autorità di Manama è stata diffusa qualche ora prima dell’arrivo del segretario di Stato americano Mike Pompeo. Non si sa se quest’ultimo affronterà la questione dei diritti umani durante la sua visita in Bahrein, alleato stretto di Washington e sede della quinta flotta degli Stati Uniti. In una dichiarazione, la “direzione generale dei reati informatici” in Bahrein ha affermato che Rajab ha pubblicato dei tweet “falsi e dannosi”. A suo giudizio non hanno nulla a che fare con “la libertà di espressione”, come il 4 gennaio ha affermato l’ufficio dei diritti umani a Ginevra, che ha chiesto la liberazione “immediata e senza condizioni” di Nabil Rajab. Tanzania. Caccia ai diritti umani nella terra dei safari di Antonella Napoli Left, 11 gennaio 2019 Una task-force governativa è stata sguinzagliata su tutto il territorio per arrestare le persone che hanno un orientamento sessuale sgradito al regime. E nel mirino del presidente Magufuli ci sono anche giornalisti e partiti d’opposizione. Il volto della Tanzania nell’immaginario collettivo è quello di un Paese bellissimo, benedetto da una miriade di meraviglie naturali, dalle famose pianure del Serengeti, alle montagne vulcaniche esposte alle intemperie, tra cui il Kilimangiaro, la più alta dell’Africa, e Ngorongoro, cratere dallo straordinario impatto scenico, fino alla paradisiaca isola di Zanzibar. Ciò che non conosciamo è l’inferno che vive una parte della popolazione a cui sono negati i più basilari diritti umani e civili. “Non abbiamo cifre e notizie certe sulla situazione delle persone omosessuali perseguitate ma è in atto una serie di arresti. Di alcuni attivisti non sappiamo più nulla da settimane”. I a voce di Fatuma Namoko è quasi un sussurro. Chiacchieriamo sedute a un tavolino del Kibo Palace di Arusha, frequentato solo da occidentali. Eppure non si sente sicura. “Tutti noi impegnati nella campagna in difesa della comunità Lgbti siamo in pericolo. La repressione si estende anche oltre il mare. A Zanzibar la polizia ha fatto irruzione in una casa privata dove si festeggiava un matrimonio gay e una decina di invitati sono stati fermati e sottoposti a schedatura. Da novembre è iniziata una caccia alle streghe”. Esile, viso da modella di un ebano intenso, senza imperfezioni, Fatuma scopre i suoi bianchissimi denti con un sorriso che illumina il suo volto solo quando parla della compagna. “Ho conosciuto Henriette quattro anni fa. Lei era in vacanza. È grazie a lei che sono rinata. Mio padre mi aveva data in moglie a un uomo più vecchio di me di 40 anni. Avevo 13 anni. Mi ha lasciata vedova a 20. Non potevo avere figli, lui mi picchiava per questo. Mi ha rotto una gamba, da allora zoppico. Dopo di lui non ho voluto più sposarmi. Non volevo più essere toccata da un uomo. Ma ho paura... non per me, per lei. Le ho chiesto di tornare in Francia ma senza di me non vuole partire. E io non posso lasciare il mio Paese, non ora che c’è più bisogno di difendere i diritti della comunità Lgbti di cui sono portavoce”. Nel rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo Amnesty International denuncia la deriva censoria del governo tanzaniano, accusato di alimentare la discriminazione legata al genere e all’orientamento sessuale. Negli ultimi anni si è innescato un vero e proprio giro di vite nei confronti dei gay con perquisizioni nelle sedi delle organizzazioni che si occupano di informare su questioni relative alla salute, la sospensione della fornitura di servizi a chi è affetto da Hiv-Aids, la chiusura di strutture di supporto psicologico e sanitarie e la minaccia di togliere le autorizzazioni alle ong che danno loro assistenza. Nell’ottobre 2017, 13 attivisti per i diritti umani e il diritto alle cure mediche sono stati arrestati per “promozione dell’omosessualità”. È stato solo l’inizio di una escalation di repressioni. “Dal 5 novembre sono partite ufficialmente le attività della task-force del governo della Tanzania per identificare e arrestare persone che sono gay o semplicemente vengono percepite tali”, racconta Seif Magango, direttore per l’Africa Orientale, la Regione dei Grandi laghi e il Corno d’Africa di Amnesty. “Di questo organo governativo fanno parte funzionari dell’authority per le Comunicazioni, agenti di polizia e anche giornalisti. I cittadini sono stati invitati a fare segnalazioni”. L’organizzazione internazionale ha da subito condannato la decisione del governo guidato dal presidente John Magufuli, che tra i provvedimenti da lui emanati annovera anche leggi che hanno determinato la restrizione dei diritti della società civile, tra cui l’esclusione dalla frequenza scolare delle ragazze incinte. Nonostante i richiami delle ong e le posizioni espresse da istituzioni e Paesi occidentali, Magufuli continua con parole e azioni a incitare all’odio nei confronti della comunità Lgbti che già vive ai margini della società ed è costantemente vittima di attacchi e intimidazioni. La Costituzione tanzaniana, che risale al periodo coloniale, e le leggi del Paese vietano le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso. E nulla è destinato a cambiare, se non in peggio. Non solo per i diritti dei gay. Il Parlamento sta per approvare una le e che renderà l’attivismo politico un crimine. Il forte contrasto delle opposizioni, che hanno lanciato un appello alla comunità internazionale affinché interceda per impedire che si arrivi all’ok definitivo di questo provvedimento liberticida, non sembra in grado di fermare l’iter del provvedimento. Capofila della protesta è il leader di uno dei dieci partiti di minoranza, Hashim Rungwe, presidente di Chama cha Ukombozi wa Umma (Chauma), formazione liberale, il quale non esita a definire autoritaria la svolta di Magufuli. “Stiamo attraversando i momenti più diflìcil i, politicamente, dal ripristino della democrazia multipartitica nel Paese - afferma con voce profonda e ferma L’attuale amministrazione non è riuscita a seguire le orme di quelle precedenti per quanto riguarda l’apertura dello spazio politico. Gli ex presidenti, Benjamin Mkapa e Jakaya Kikwete hanno rispettato la Costituzione multipartitica del Paese ed erano orgogliosi di vedere la democrazia prosperare nel Paese. Questo presidente sta facendo di tutto per ridurla. Vuole eliminare i diritti previsti dalle leggi in vigore”. Tutti i partiti di opposizione in Tanzania si sono schierati contro le proposte di emendamento che “disciplinerebbero” le formazioni politiche limitandone le loro attività. Norme che ridurranno le libertà costituzionali, che prevedono multe salate e il carcere per chi le contravviene. La nuova legge vieta sostanzialmente ai partiti di funzionare come gruppi “attivisti” e introduce la figura di un “vigilante” governativo, dotato di ampi poteri che gli consentiranno di sospendere o licenziare un membro della formazione politica e esercitare una certa influenza sulle elezioni interne allo stesso partito. Salito al potere nel 2015, Magufuli oltre a perseguire la comunità Lgbti è determinato a portare avanti una dura repressione del dissenso, con restrizioni sull’opposizione politica, i media, i blogger e le organizzazioni non governative. E nessuno sembra in grado di fermarlo. Le restrizioni alla libertà di informazione riguardano anche la stampa internazionale. Come dimostrano gli arresti lo scorso novembre di una giornalista sudafricana e un collega keniota, membri dello staff del Committee to Protect Journalists. Angela Quintal, coordinatrice del programma Africa del Cpj e Muthoki Mumo, rappresentante della stessa organizzazione per l’Africa sub-sahariana, erano in missione in Tanzania per raccogliere dati sullo stato della libertà di informazione. Sono stati prelevati dal loro hotel e portati in una località sconosciuta di Dar es Salaam, dopo aver assistito alla perquisizione delle loro cose, il sequestro di documenti e dei loro passaporti. Dopo 24 ore di interrogatori sono stati rilasciati e costretti a lasciare la Tanzania con un decreto di espulsione che ne vieta il rientro nel Paese. Per sempre. La Tanzania non è un Paese neanche per giornalisti.